N. 237 SENTENZA 3 - 13 maggio 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale - Divieto tassativo di acquisizione  al  dibattimento
 di  deposizioni  testimoniali  circa dichiarazioni rese dall'indagato
 anche  prima  dell'inizio  dell'indagine  -  Divieto  niente  affatto
 assoluto  ed  illimitato  -  Esigenza  di  documentazione  formale  -
 Ragionevolezza - Insussistenza di eccesso di delega - Non fondatezza.
 
 (C.P.P., art. 62).
 
 (Cost., artt. 3, 76 e 111).
(GU n.21 del 19-5-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici:  dott.  Francesco  GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
 SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,  avv.
 Mauro  FERRI,  prof.  Luigi  MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.  Renato
 GRANATA, prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 62 del codice di
 procedura penale promossi con le seguenti ordinanze:
      1)  ordinanza  emessa  il 27 marzo 1992 dal Pretore di Bergamo -
 Sezione distaccata di Clusone - nel procedimento penale a  carico  di
 Bonadei  Giuseppe,  iscritta  al n. 777 del registro ordinanze 1992 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  53,  prima
 serie speciale, dell'anno 1992;
      2)  ordinanza  emessa  il 30 marzo 1992 dal Pretore di Bergamo -
 Sezione distaccata di Clusone - nel procedimento penale a  carico  di
 Agostini Gabriele ed altro, iscritta al n. 778 del registro ordinanze
 1992  e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53,
 prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto l'atto di costituzione di Pagani Enrico  nonche'  l'atto  di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 23 marzo 1993 il Giudice relatore
 Mauro Ferri;
    Udito l'Avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di  Belmonte  per  il
 Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Con ordinanza del 27 marzo 1992 (r.o. n. 777/92), il Pretore
 di Bergamo, sezione distaccata di Clusone, ha sollevato questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  62  del  codice di procedura
 penale "nella parte in  cui  vieta  tassativamente  di  acquisire  al
 dibattimento le deposizioni testimoniali concernenti le dichiarazioni
 rese  dalla  persona  sottoposta  ad indagine anche prima del formale
 inizio dell'indagine".
    Premesso che, durante l'esame testimoniale  della  persona  offesa
 dal  reato,  la  difesa  dell'imputato  si era opposta a che la teste
 riferisse  di  dichiarazioni  fattele   dall'imputato   prima   della
 denuncia,  il  giudice a quo rileva che la Suprema Corte, con l'unica
 pronuncia nota in materia - sentenza n. 3084 del 12 novembre 1990  -,
 ha  gia'  avuto  modo  di  statuire  che le dichiarazioni, alle quali
 unicamente puo' riferirsi il divieto di cui all'art. 62 del codice di
 procedura penale, sono quelle rese  nel  corso  del  procedimento,  e
 dunque non in pendenza di esso.
    Cio'  posto,  prosegue  il  remittente,  non  appare  chiaro quale
 sostanziale differenza vi sia fra le dichiarazioni rese dall'indagato
 (non solo  alla  polizia  giudiziaria  ex  art.  357  del  codice  di
 procedura  penale,  ma  anche  semplicemente  ad un quivis de populo,
 stante l'assoluta generalita' del divieto  di  cui  all'art.  62  del
 codice  stesso)  durante  le  indagini  preliminari  successive  alla
 formazione del fascicolo  del  pubblico  ministero  da  un  lato,  e,
 dall'altro,  le  dichiarazioni  rese  a  chicchessia  ancor prima che
 pubblico ministero e polizia giudiziaria abbiano avuto sentore  della
 pur remota configurabilita' di un reato.
    Ed   infatti,   quel   divieto   di   riferire  al  giudice  sulle
 dichiarazioni comunque rese  dall'imputato,  se  si  interpreta  come
 esclusivamente riferito alle dichiarazioni rese dall'imputato durante
 il  procedimento,  appare  affatto  irragionevole, posto che potrebbe
 essere  agevolmente  aggirato  con  il  riportare  le   dichiarazioni
 indizianti ad epoca anteriore all'iscrizione della notizia di reato.
    Se invece si ipotizzasse l'assoluta inutilizzabilita' di qualunque
 dichiarazione     comunque     resa     dall'indagato,     e    anzi,
 l'inutilizzabilita' di ogni dichiarazione, resa anche solo dal futuro
 indagato a persona che non appartenga alla  polizia  giudiziaria,  si
 perverrebbe  ad  un  risultato  del  tutto irragionevole, giacche' si
 finirebbe per  attribuire  alla  letterale  locuzione  impiegata  dal
 legislatore  delegato  nell'art. 62 del codice di procedura penale la
 efficacia di impedire l'ingresso nel dibattimento di qualunque  teste
 indiretto sul punto, senza che ve ne sia alcuna seria necessita'.
    Si pone quindi, in forza del generalissimo divieto di cui all'art.
 62  del  codice  di procedura penale, il problema delle dichiarazioni
 rese a chi non sia - come nella specie non  e'  ne'  era  la  persona
 offesa - ne' ufficiale ne' agente di polizia giudiziaria.
    L'ammissibilita' solo parziale delle testimonianze de relato sulle
 dichiarazioni  rese dal futuro indagato, consentita appunto dall'art.
 62   del   codice   di   procedura   penale    (anche    alla    luce
 dell'interpretazione  che  di  tale  norma  ha  fatto  il  giudice di
 legittimita'), appare quindi - prosegue il  remittente  -  del  tutto
 irragionevole  e quindi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione,
 perche' tale norma, nel tentativo di escludere l'ammissibilita' delle
 dichiarazioni rese durante il processo, col riferimento alla  persona
 sottoposta  alle  indagini  preclude,  in  effetti,  l'ammissione  di
 qualunque testimonianza de relato comunque resa  dall'indagato  anche
 prima che egli divenisse tale.
    Inoltre,  la  norma  medesima,  ponendo  un argine invalicabile al
 giudice anche alla semplice assunzione della deposizione de relato  ,
 senza  consentirgli  di  utilizzare  criticamente  tale dichiarazione
 indiretta, viola l'art. 111, primo comma, della Costituzione, poiche'
 sostanzialmente impedisce al giudice di motivare adeguatamente la sua
 valutazione delle complessive emergenze processuali.
    Ancora, poiche' nella  legge  di  delegazione  non  vi  e'  alcuna
 direttiva idonea a giustificare il radicale divieto posto dalla norma
 denunciata,   vi   e'   un   ulteriore   profilo   di  illegittimita'
 costituzionale, e  precisamente  la  violazione  dell'art.  76  della
 Costituzione per eccesso di delega.
    Infine,   poiche'   per  l'accertamento  della  verita'  non  pare
 ragionevole  prescindere  apoditticamente  ed  aprioristicamente   da
 quanto  testimoni  possono  riferire  di  aver  udito dall'imputato o
 indagato o futuro indagato, si prospetta nuovamente la violazione del
 principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione.
    2.1. - Con altra ordinanza del 30 marzo 1992 (r.o. n. 778/92),  il
 medesimo  giudice  ha  sollevato analoga questione, in riferimento ai
 soli artt. 3 e 76 della Costituzione.
    Premesso  che  durante  l'esame  di  un  teste,  agente di polizia
 municipale, la difesa dell'imputato si era opposta  a  che  il  teste
 riferisse   di   dichiarazioni   rese  dall'imputato  medesimo  prima
 dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato del fatto per cui
 si procede, il giudice a quo  svolge  argomentazioni  sostanzialmente
 identiche  a  quelle  di  cui  alla precedente ordinanza del 27 marzo
 1992.
    2.2. - Si e' costituito nel giudizio introdotto con l'ordinanza n.
 778 del 1992 Pagani Enrico, imputato nel giudizio  a  quo,  il  quale
 conclude per l'infondatezza della questione.
    La  difesa  della  parte privata costituitasi osserva innanzitutto
 che alla stregua dei lavori preparatori del codice,  delle  Relazioni
 ministeriali  al  progetto preliminare e a quello definitivo, nonche'
 delle interpretazioni offerte dalla dottrina e dalla  giurisprudenza,
 puo' dirsi consolidata l'opinione che il divieto espresso dalla norma
 impugnata  concerne,  sotto  il  profilo  oggettivo,  il contenuto di
 qualunque dichiarazione resa dall'imputato o dalla persona sottoposta
 ad  indagine  nel  corso  del  procedimento,  senza  possibilita'  di
 distinguere  ne'  in  relazione alla "autorita'" cui e' resa (polizia
 giudiziaria, pubblico ministero, giudice), ne' in relazione alla sede
 e  al  tempo  (luogo  e  immediatezza  del  fatto  ovvero  altrove  e
 successivamente;  prima  ovvero  dopo  la  comunicazione  al pubblico
 ministero della notizia  di  reato;  prima  ovvero  dopo  la  formale
 iscrizione  della  stessa  e  del  nome  della  persona  cui  esso e'
 attribuito nell'apposito registro, ecc.), ne', infine,  in  relazione
 alla   natura   della   dichiarazione   stessa   ("spontanea"  ovvero
 provocata). Per converso, sotto il  profilo  soggettivo,  il  divieto
 medesimo riguarda chiunque.
    Cio'  premesso,  quanto  alla prima censura di incostituzionalita'
 (preteso eccesso di delega) si rileva che la mancanza nella legge  di
 delegazione    di    una   direttiva   formalmente   e   testualmente
 "anticipatrice" della norma impugnata  non  e'  di  per  se'  ragione
 sufficiente  per  asserire che questa avrebbe ecceduto i limiti della
 delega, nella quale, anzi, sono  rintracciabili  direttive  che,  pur
 riguardando  situazioni  di  specie,  si  iscrivono necessariamente e
 coerentemente proprio nella "logica" del divieto in parola  e  in  un
 certo  senso  lo implicano, quali la direttiva n. 31, secondo e sesto
 periodo.
    D'altra parte, il riguardo all'intera disciplina dei rapporti  tra
 atti  delle  indagini  e  atti  del  dibattimento,  quale  emerge  da
 molteplici direttive della legge delega,  consente  di  ritenere  del
 tutto  coerente  (e  non  gia' in contrasto) con il sistema delineato
 dalla legge stessa il divieto espresso dall'art. 62.
    Quanto, poi,  alla  censura  di  incostituzionalita'  per  pretesa
 irragionevolezza,   osserva   la  difesa  della  parte  privata  che,
 innanzitutto, il divieto in parola non comporta alcuna differenza  di
 trattamento,   quanto  ai  destinatari,  neppure  con  riguardo  alle
 dichiarazioni  rese   dall'indagato   "prima   del   formale   inizio
 dell'indagine".   La   norma  impugnata  non  distingue  affatto  tra
 ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, da una parte, e quivis  de
 populo, dall'altra. Il divieto vale per tutti, anche per il quivis de
 populo,  che  non  potrebbe  giammai  essere  escusso  come teste sul
 contenuto di quelle dichiarazioni. D'altra  parte,  non  si  potrebbe
 invocare come disparita' irragionevole quella emergente dal raffronto
 tra questa disciplina (che, con riguardo alle "dichiarazioni comunque
 rese   nel  corso  del  procedimento"  accomuna  nel  divieto  tutti,
 ufficiali o agenti di polizia giudiziaria e quivis de  populo)  e  la
 disciplina   concernente   eventuali  dichiarazioni  rese  fuori  del
 procedimento  e,  quindi,  ne'  oggettivamente  ne'   soggettivamente
 funzionali   al   procedimento   stesso.  Il  quivis  de  populo  che
 occasionalmente coglie la dichiarazione  di  un  indagato  (o  ne  e'
 destinatario),  resa  -  ben  inteso  -  fuori  del  procedimento, la
 percepisce in guisa di un fatto.  Invece,  l'ufficiale  o  agente  di
 polizia giudiziaria - che operi, s'intende, in quanto tale - non puo'
 che  riceverla come un atto del procedimento, onde e' logico che alla
 relativa disciplina essa debba soggiacere.
    Infine, neppure puo' dirsi intaccato il criterio di ragionevolezza
 in se'. Il divieto in parola corrisponde ad una ragionevole  esigenza
 che,  come  s'e'  detto,  attiene,  tra l'altro, ai rapporti tra atti
 delle  indagini  e   atti   del   dibattimento   ne'   il   principio
 dell'accertamento della verita' puo' essere insofferente a regole, le
 quali,  anzi,  avendo  il  proprio  substrato  nell'esperienza,  sono
 preordinate a promuoverlo,  escludendo  o  allontanando  i  possibili
 errori di un accertamento "sregolato".
    D'altra  parte,  si tratta di un divieto chiaramente posto anche e
 soprattutto a tutela delle garanzie di difesa dell'imputato  e  della
 persona sottoposta alle indagini, nel momento in cui rendono comunque
 dichiarazioni  nel procedimento. Il sistema processuale configura, su
 questo piano,  sia  il  diritto  al  silenzio  che  il  diritto  alla
 assistenza  del difensore tecnico e, la' dove detta assistenza non e'
 prevista,  configura  vere   e   proprie   preclusioni   (o   limiti)
 all'utilizzazione   e/o   (addirittura)   alla  documentazione  delle
 dichiarazioni stesse.
    2.3. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
 ministri, concludendo anch'egli per l'infondatezza della questione.
    Osserva  l'Avvocatura dello Stato che la pretesa difformita' dalla
 legge delega e' in  realta'  insussistente  alla  luce  delle  chiare
 indicazioni  contenute  nell'art. 2, direttiva 31, punti 2 e 6, della
 detta legge, punti nei quali e' espressamente sancito il  divieto  di
 utilizzare  ai  fini  del  giudizio,  anche indirettamente attraverso
 testimonianza, le  dichiarazioni  eventualmente  rese  dalla  persona
 sottoposta ad indagini.
    In ordine, poi, alla censura secondo cui la norma sarebbe priva di
 razionalita',  l'Avvocatura  rileva  che  la disciplina contestata e'
 stata sollecitata da una  motivazione  precisa,  vale  a  dire  dalla
 necessita'  di  evitare che, attraverso l'utilizzazione di meccanismi
 trasversali,  si  finisse  per  eludere  il   diritto   al   silenzio
 dell'inquisito, diritto che si intendeva invece tutelare.
                        Considerato in diritto
    1.  - Con due ordinanze di contenuto sostanzialmente identico (per
 cui va disposta la riunione dei  relativi  giudizi),  il  Pretore  di
 Bergamo   -   sezione  distaccata  di  Clusone  -  ha  sollevato,  in
 riferimento agli artt. 3, 76 e 111 della Costituzione,  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  62  del  codice di procedura
 penale "nella parte in  cui  vieta  tassativamente  di  acquisire  al
 dibattimento le deposizioni testimoniali concernenti le dichiarazioni
 rese  dalla  persona  sottoposta ad indagine, anche prima del formale
 inizio dell'indagine".
    Il  giudice  remittente,  come si evince con sufficiente certezza,
 pur con un  certo  sforzo  interpretativo,  dalla  motivazione  delle
 ordinanze  di  rimessione  (invero  non  sempre  chiara  ne' priva di
 qualche aspetto di contraddittorieta'), lamenta, in sostanza, che  la
 norma  impugnata,  nel  porre  un assoluto divieto di acquisizione al
 dibattimento, attraverso  testimonianza  de  relato  ,  di  qualunque
 dichiarazione  resa  dall'imputato in qualsiasi tempo, in particolare
 ancor prima della iscrizione della  notizia  di  reato  nell'apposito
 registro,  viola:  a)  l'art.  3  della  Costituzione,  perche' detta
 preclusione all'accertamento della verita' e'  priva  di  ragionevole
 giustificazione;  b)  l'art.  76  della  Costituzione, in quanto tale
 radicale divieto non trova fondamento in alcuna direttiva della legge
 di delega; c) l'art. 111, primo comma, della Costituzione, poiche' la
 norma in esame,  impedendo  al  giudice  di  assumere  le  menzionate
 deposizioni de relato , non gli consente di motivare adeguatamente le
 proprie valutazioni delle complessive risultanze processuali.
    2. - La questione non e' fondata.
    La   norma   censurata  testualmente  dispone:  "Le  dichiarazioni
 comunque rese  nel  corso  del  procedimento  dall'imputato  o  dalla
 persona  sottoposta  alle  indagini  non  possono  formare oggetto di
 testimonianza".
    Nella relazione al progetto preliminare gia' si  osservava  -  con
 riferimento al testo dell'art. 71, quarto comma, del progetto, da cui
 e' poi derivata, con qualche modifica, la disposizione in esame - che
 la  norma  contiene "un divieto di testimonianza de auditu , relativo
 ad ogni dichiarazione che  l'imputato  abbia  potuto  rendere,  anche
 prima di assumere tale qualita', nel corso delle indagini preliminari
 o  del  processo.  Si  vuole infatti che di tale dichiarazione faccia
 fede la sola documentazione scritta, da redigersi  e  da  utilizzarsi
 con  le  forme  ed  entro  i  limiti  previsti  per le varie fasi del
 procedimento"; e si aggiungeva che  non  si  tratta  di  "un  divieto
 soggettivamente    qualificato,    come   testimonianza   de   auditu
 dell'ufficiale di polizia, ma si configura, in termini oggettivi, con
 riferimento al contenuto delle dichiarazioni, e quindi esclude  anche
 la  testimonianza  de auditu di soggetti diversi dall'ufficiale o dal
 magistrato".
    La giurisprudenza della Corte di cassazione ha, poi, a sua  volta,
 chiarito,  per  quanto  qui  piu'  specificamente  interessa,  che il
 divieto in esame opera solo con riferimento a dichiarazioni rese "nel
 corso  del  procedimento"  e  non  genericamente  "in  pendenza   del
 procedimento",  vale  a dire esclusivamente in ordine a dichiarazioni
 effettuate nella sede processuale, cioe' in occasione di un atto  del
 procedimento. E' solo in relazione a tale categoria di dichiarazioni,
 infatti, che si pone l'esigenza di garanzia, gia' messa in luce dalla
 relazione  al  progetto  preliminare,  consistente nel far si' che di
 esse  faccia  fede  la  sola  documentazione  scritta,  con   divieto
 conseguente di fonti testimoniali surrogatorie.
   E',  pertanto,  esatto  - come osserva il remittente - che, ai fini
 dell'applicabilita' della norma impugnata,  non  assume  di  per  se'
 alcun  rilievo il discrimine temporale della iscrizione della notizia
 di reato - o del nome della persona cui  esso  e'  attribuito  -  nel
 registro  di  cui  all'art.  335  del  codice di procedura penale. Ma
 occorre pur sempre accertare (ed e' questo che essenzialmente rileva)
 che le dichiarazioni su cui  dovrebbe  vertere  la  testimonianza  de
 auditu  siano  state  rese  (anche  spontaneamente)  in occasione del
 compimento  di  cio'  che  debba  comunque   qualificarsi   come   un
 (qualsiasi) atto del procedimento.
    3.  -  Una  volta che alla norma censurata si attribuisce l'ambito
 applicativo indicato,  le  censure  del  giudice  remittente  vengono
 evidentemente a cadere.
    Va,  in  primo luogo, escluso che la norma medesima sia viziata da
 irragionevolezza. Il divieto in essa contenuto, infatti, come  si  e'
 visto,  non  e'  affatto  assoluto  ed illimitato, e nei circoscritti
 limiti  di  operativita'  sopra   individuati   non   e'   certamente
 irrazionale,   essendo   posto   a   tutela  della  esigenza  che  le
 dichiarazioni  dell'imputato  giungano  a  conoscenza   del   giudice
 attraverso  l'esclusivo  veicolo della documentazione formale, con le
 garanzie a questa connesse.
    Non sussiste, in secondo luogo, un eccesso di delega.  Invero,  la
 direttiva  n. 31 della legge-delega prevedeva, al secondo periodo, il
 "divieto di ogni  utilizzazione  agli  effetti  del  giudizio,  anche
 attraverso  testimonianza  della  stessa  polizia  giudiziaria, delle
 dichiarazioni ad esse rese .. dalla persona nei cui confronti vengono
 svolte le indagini, senza l'assistenza  della  difesa",  nonche',  al
 sesto  periodo,  il  "divieto  di ogni documentazione e utilizzazione
 processuale, anche  attraverso  testimonianza  della  stessa  polizia
 giudiziaria",   delle   notizie   ed   indicazioni   utili   ai  fini
 dell'immediata  prosecuzione  delle  indagini  assunte  sul  luogo  o
 nell'immediatezza  del  fatto anche senza l'assistenza del difensore.
 Non vi e' dubbio che la norma de qua trae  origine  da  tali  criteri
 direttivi,  nonche'  da altri (cfr. direttiva n. 31, primo periodo, e
 direttiva n. 33) che impongono alla polizia giudiziaria l'obbligo  di
 compilare verbali, o, comunque, documentare l'attivita' compiuta.
    Ne  deriva  che la verifica in ordine alla rispondenza della norma
 delegata alla ratio e alle finalita' che,  tenendo  conto  anche  del
 complesso   dei   criteri  direttivi  impartiti,  hanno  ispirato  il
 legislatore   delegante   (verifica   che,   secondo   la    costante
 giurisprudenza  di  questa  Corte,  va effettuata al fine di valutare
 l'esistenza o meno di un eccesso di delega: v., da ultimo,  sent.  n.
 141  del  1993  e precedenti ivi richiamati) non puo' che avere nella
 fattispecie in esame esito positivo, in  quanto  la  norma  censurata
 indubbiamente costituisce coerente applicazione e completamento della
 scelta  espressa  dal  legislatore  delegante e delle ragioni ad essa
 sottese.
    Deve, infine, certamente escludersi la violazione  dell'art.  111,
 primo comma, della Costituzione: basta osservare che la norma de qua,
 vietando l'ingresso in dibattimento di un determinato mezzo di prova,
 delimita  a  monte  l'ambito  riservato alle valutazioni del giudice,
 ambito entro il  quale  sussiste  l'obbligo  di  motivazione  di  cui
 all'invocato parametro costituzionale.
    4.  - E' appena il caso di rilevare, in conclusione, che spetta al
 giudice a quo  verificare  se  la  norma  censurata,  nella  corretta
 interpretazione  sopra  indicata,  sia  applicabile  alle fattispecie
 sottoposte al suo giudizio.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti   i   giudizi,   dichiara   non  fondata  la  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art.  62  del  codice  di  procedura
 penale,  sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3,  76 e 111 della
 Costituzione, dal Pretore di Bergamo, sezione distaccata di  Clusone,
 con le ordinanze in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 3 maggio 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 13 maggio 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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