N. 238 SENTENZA 3 - 13 maggio 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Imposte  in genere - Sistema impositivo correlato ai servizi generali
 resi dal comune - Istituzione in via transitoria -  Imposta  comunale
 riferita  all'esercizio  di  imprese,  di  arti  e  di  professioni -
 Scaglioni - Incidenza percentuale  dell'imposta  dovuta  -  Capacita'
 contributiva   -  Difetto  di  proporzionalita'  e  progressivita'  -
 Richiamo  alla  giurisprudenza  della  Corte  (cfr.    sentenze   nn.
 159/1985,  23/1968,  128/1966,  30/1964  e 12/1960) - Introduzione di
 correttivi del reddito prodotto -  Dimensione  dell'insediamento  per
 l'esercizio dell'attivita' - Richiamo alla
 sentenza n. 103/1991 della Corte - Non fondatezza.
 
 (D.-L.  2 marzo 1989, n. 66, art. 1, convertito nella legge 24 aprile
 1989, n. 144, come modificato dal d.-l. 30 settembre  1989,  n.  332,
 convertito in legge 27 novembre 1989, n. 384).
 
 (Cost., art. 53).
(GU n.21 del 19-5-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo  CHELI,
 dott.  Renato  GRANATA,  prof.  Giuliano  VASSALLI, prof.   Francesco
 GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del  decreto-
 legge  2  marzo  1989,  n.  66  (Disposizioni  urgenti  in materia di
 autonomia  impositiva  degli  enti  locali  e  di  finanza   locale),
 convertito  nella  legge  24 aprile 1989, n. 144, come modificato dal
 decreto-legge 30 settembre 1989, n.  332  (Misure  fiscali  urgenti),
 convertito  nella  legge  27  novembre  1989,  n.  384,  promosso con
 ordinanza emessa il 29 novembre 1991  dal  Tribunale  di  Napoli  nel
 procedimento  civile  vertente  tra  Amato  Salvatore  ed altri ed il
 Comune di Napoli, iscritta al n. 426 del registro  ordinanze  1992  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 37, prima
 serie speciale, dell'anno 1992;
    Visti l'atto di costituzione di Amato Salvatore ed  altri  nonche'
 l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 30 marzo 1993 il Giudice relatore
 Vincenzo Caianiello;
    Uditi l'avv. Salvatore  Amato  per  Amato  Salvatore  ed  altri  e
 l'Avvocato  dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio
 dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  corso  di  un  giudizio  civile  avente   ad   oggetto
 l'accertamento  negativo  di  un  obbligo tributario, il Tribunale di
 Napoli, con ordinanza emessa il 29 novembre 1991 (pervenuta a  questa
 Corte  il  16  luglio 1992), ha sollevato, in riferimento all'art. 53
 della  Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale
 dell'art.  1  del  decreto-legge  2  marzo  1989,  n.  66 (istitutivo
 dell'imposta comunale per  l'esercizio  di  imprese,  di  arti  e  di
 professioni),  convertito  nella  legge  24 aprile 1989, n. 144, come
 modificato dal decreto-legge 30 settembre 1989,  n.  332,  convertito
 nella  legge  27  novembre  1989,  n.  384,  sotto  il  profilo  che,
 all'interno  degli  scaglioni  di  reddito  ivi   indicati   per   la
 determinazione  del  tributo,  l'incidenza  percentuale  dell'imposta
 dovuta  risulterebbe  inversamente   proporzionale   alla   capacita'
 contributiva quale espressa dagli indici assunti dalla legge, e cioe'
 il  reddito  e  la  superficie  dell'insediamento  produttivo,  e non
 sarebbe  quindi  rispettosa   del   criterio   della   progressivita'
 espressamente previsto nel parametro costituzionale invocato.
    2.  -  Si  sono  costituite in giudizio le parti private, le quali
 hanno addotto argomenti a sostegno della fondatezza della  questione,
 all'uopo   richiamando   precedenti  decisioni  di  questa  Corte.  e
 deducendo  ulteriori  profili  di  incostituzionalita'  della   norma
 istitutiva della nuova imposta anche con riferimento all'art. 3 della
 Costituzione  (il  tributo sarebbe previsto solo nei confronti di chi
 e' "in possesso di partita IVA") e all'art. 35 della Costituzione (in
 quanto esso penalizzerebbe il lavoratore autonomo).
    3. - Ha spiegato intervento, per il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  che ha concluso per
 l'inammissibilita' e l'infondatezza della questione.
    Sotto il primo profilo l'Avvocatura  rileva  come  l'ordinanza  di
 rimessione  sia  stata  emessa  nel  corso di un "anomalo giudizio di
 accertamento negativo di obbligo tributario"  e  non  abbia  indicato
 l'anno  cui il tributo si riferisce, se esso sia stato pagato o meno,
 se il relativo onere sia stato dedotto dagli imponibili Irpef e  Ilor
 e  se  gli  attori  siano imprenditori o invece professionisti ovvero
 piccoli commercianti o lavoratori autonomi.
    Nel  merito  osserva,  in  primo  luogo,  che  questa  Corte,  nel
 dichiarare con la sentenza n. 103 del 1991 la parziale illegittimita'
 della norma in esame, nella parte in cui non consente ai contribuenti
 di  fornire  alcuna  prova contraria in ordine alla propria effettiva
 redditivita', avrebbe implicitamente riconosciuto che  il  meccanismo
 di  riferimento alla capacita' reddituale dei soggetti, introdotto, a
 decorrere dall'anno 1990, dall'art. 1,  ottavo  comma,  del  decreto-
 legge 30 settembre 1989, n. 332, convertito, con modificazioni, nella
 legge  27  novembre  1989,  n.  384,  e'  idoneo  a rendere l'imposta
 aderente  al  parametro  invocato.  E,   in   ottemperanza   a   tale
 indicazione,  l'art.  12  del  decreto-legge 13 maggio 1991, n.  191,
 convertito  nella   legge   12   luglio   1991,   n.   202,   avrebbe
 sostanzialmente  allineato  la  normativa  relativa alla ICIAP per il
 1989 a quella introdotta per gli anni 1990 e seguenti.
    In  secondo luogo, il criterio della progressivita' - che, secondo
 la giurisprudenza  costituzionale,  deve  informare  non  la  singola
 imposta,  ma il sistema tributario nel suo complesso - non sarebbe in
 ogni caso invocabile nella specie, trattandosi di una imposta  avente
 per   oggetto  non  il  reddito,  ma  l'esercizio  di  una  attivita'
 produttiva e, per l'effetto di  questa,  il  beneficio  differenziato
 ritraibile  dai  pubblici  servizi  resi  dal  Comune  in ragione del
 maggior consumo degli stessi.
                        Considerato in diritto
    1. - Oggetto del giudizio di costituzionalita'  e'  l'art.  1  del
 decreto-legge  2  marzo  1989, n. 66 convertito nella legge 24 aprile
 1989, n. 144, come modificato dal decreto legge 30 settembre 1989, n.
 332, convertito nella legge  27  novembre  1989,  n.  384,  il  quale
 istituisce in via transitoria, nelle more della revisione del sistema
 impositivo  correlato ai servizi generali resi dal comune, un'imposta
 comunale riferita all'esercizio di imprese, di arti e di professioni,
 come inteso agli effetti dell'imposta sul valore aggiunto.
    Si sostiene nell'ordinanza di rimessione che la  norma  denunciata
 sarebbe  in  contrasto  con  l'art.  53  della Costituzione, perche',
 all'interno degli scaglioni previsti ai fini del tributo, l'incidenza
 percentuale    dell'imposta    dovuta    risulterebbe    inversamente
 proporzionale alla capacita' contributiva quale espressa dagli indici
 assunti  dalla  legge e cioe' il reddito del soggetto e la superficie
 dell'insediamento produttivo.
    2. - Va preliminarmente disattesa l'eccezione di  inammissibilita'
 proposta  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, assumendosi che la
 questione e' stata sollevata "nel corso di  un  anomalo  giudizio  di
 'accertamento negativo di obbligo tributario' e non indica l'anno cui
 il  tributo  si  riferisce,  se  esso  e'  stato pagato o meno, se il
 relativo onere e' stato dedotto dagli imponibili Irpef e  Ilor  e  se
 gli  attori  siano imprenditori o professionisti". Eccezione, questa,
 ulteriormente precisata dalla  Avvocatura  nella  successiva  memoria
 difensiva,  nella  quale  si  sostiene  la  non autosufficienza della
 motivazione dell'ordinanza sia ai  fini  della  qualificazione  delle
 parti  private che hanno promosso il giudizio a quo, sia in ordine al
 problema  del  temporaneo  difetto  di  giurisdizione  del  Tribunale
 ordinario   che  renderebbe  la  questione  allo  stato  irrilevante,
 apparendo in proposito inidoneo il richiamo operato nell'ordinanza di
 rinvio alla coeva sentenza in data 29 novembre  1991  n.  1863  dello
 stesso   organo   giudicante   in   punto   di   giurisdizione  e  di
 ammissibilita' della questione.
    Osserva in proposito la Corte, analogamente a quanto gia' ritenuto
 nella sentenza n. 103 del 1991 - resa relativamente ad una  questione
 sollevata  dal  medesimo  tribunale  con  riferimento  ad  una azione
 promossa dalle stesse parti relativamente all'imposta  sull'esercizio
 di  imprese, arti e professioni (come disciplinata anteriormente alle
 modifiche introdotte dal decreto-legge  30  settembre  1989  n.  332,
 convertito  nella  legge  27  novembre 1989 n. 384) - che il Collegio
 rimettente, pronunciando contemporaneamente una sentenza parziale, ha
 espressamente affermato in causa la propria giurisdizione e quindi ha
 gia' esposto il proprio punto di vista in tema di giurisdizione e  di
 ammissibilita'  della  domanda  sotto  i  profili  cui fa riferimento
 l'Avvocatura   dello   Stato    nel    formulare    l'eccezione    di
 inammissibilita'.
    Tale  circostanza  e'  sufficiente  a  contrastare  l'eccezione in
 conformita' all'indirizzo di questa Corte (v., ex plurimis,  sentenze
 nn.  103 del 1993, 436 del 1992 e 67 del 1985) secondo cui "una volta
 che il giudice a quo abbia ritenuto di dover fare applicazione  della
 norma,  il controllo sull'ammissibilita' della questione potrebbe far
 disattendere la premessa interpretativa (del medesimo  giudice)  solo
 quando  questa  dovesse  risultare palesemente arbitraria, e cioe' in
 caso di assoluta reciproca estraneita' fra oggetto della questione  e
 oggetto  del  giudizio  di  provenienza  o  quando  l'interpretazione
 offerta  dovesse  risultare  del  tutto   non   plausibile".   Questi
 presupposti  non  si verificano nel caso di specie, il primo, data la
 pertinenza delle norme impugnate rispetto al giudizio principale,  il
 secondo,  perche',  come  risulta  dalla sentenza parziale emessa nel
 corso dello stesso giudizio a quo e richiamata dalla Avvocatura dello
 Stato, l'organo rimettente ha affermato la  propria  giurisdizione  e
 l'ammissibilita'   dell'azione   di  accertamento  negativo,  in  una
 controversia relativa ad imposta diversa da quelle previste nell'art.
 1 del  d.P.R.  n.  636  del  1972  di  competenza  delle  Commissioni
 tributarie  (v.  art.  4, comma 8, del decreto-legge n. 66 del 1989).
 Cio' esclude la possibilita' di mettere ulteriormente in  discussione
 l'ammissibilita'  della  stessa questione incidentale di legittimita'
 costituzionale sollevata nei termini anzidetti.
    3.1. - La questione non e' fondata.
    In proposito va precisato che essa  deve  essere  circoscritta  al
 profilo  dedotto  nell'ordinanza  di  rimessione, per cui non possono
 essere presi in considerazione gli  ulteriori  profili  svolti  nelle
 memorie  delle  parti  private  costituite  in giudizio (v. da ultimo
 sentenza n. 149 del 1992 e ordinanza n. 469 del 1992).
    3.2.  -  Quanto  al  merito   va   osservato   che,   secondo   la
 prospettazione  del  giudice  a  quo, che - muovendo dalla asserzione
 secondo cui il meccanismo impositivo  denunciato  non  darebbe  alcun
 rilievo  al criterio della progressivita', pur espressamente previsto
 dall'art. 53 della Costituzione - dichiara di aderire  sul  punto  al
 dubbio  sollevato dalle parti private che hanno promosso il giudizio,
 la censura "trae origine dal carattere regressivo della imposta", per
 cui, alla stregua di alcuni esempi  formulati,  apparirebbe  evidente
 che  "all'interno  degli scaglioni come sopra determinati l'incidenza
 percentuale dell'imposta dovuta  risulta  inversamente  proporzionale
 alla capacita' contributiva quale espressa dagli indici assunti dalla
 legge e cioe' reddito e superficie dell'insediamento produttivo".
    3.3.  -  In  ordine  al primo profilo la Corte richiama la propria
 costante giurisprudenza (sentenze nn. 159 del 1985, 23 del 1968,  128
 del  1966,  30  del  1964,  12 del 1960), secondo cui il principio di
 progressivita'  previsto  nell'art.  53  della  Costituzione  non  si
 riferisce  alle  singole  imposte,  bensi' all'ordinamento tributario
 considerato nel suo complesso.
    3.4. - Quanto al secondo profilo, nella stessa ordinanza  si  pone
 in  risalto  che in questa speciale imposta riferita all'esercizio di
 imprese,  arti  e  professioni,  in  correlazione  alla   particolare
 utilizzazione  dei servizi comunali da parte dei soggetti titolari di
 esse,  l'indice  rivelatore  di  redditivita',  cui  e'   commisurata
 l'imposta,  ha  come  base  di  riferimento  principale la dimensione
 dell'immobile adibito a tale esercizio,  in  modo  diversificato  per
 ciascun   settore   di   attivita',  ed  un  correttivo  nel  reddito
 concretamente  prodotto.  Un  correttivo, questo, la cui mancanza era
 valsa  a  far  dichiarare   l'illegittimita'   costituzionale   della
 corrispondente  normativa  riferita  all'anno  1989,  che  si fondava
 unicamente  sulla  superficie  dei   locali   adibiti   all'esercizio
 dell'attivita'.
    Il correttivo in parola consiste nella riduzione della misura base
 dell'imposta  -  determinata  come  si  e'  detto  in  relazione alla
 superficie  dell'insediamento  utilizzato   per   l'esercizio   delle
 descritte  attivita'  -  del  cinquanta  per  cento, se il reddito di
 impresa, di arti e di professioni non e' superiore a  dodici  milioni
 di  lire  e,  nell'aumento  del  cento per cento, se detto reddito e'
 superiore a cinquanta milioni di lire. E' poi  prevista  la  facolta'
 per i comuni di aumentare e di diminuire entro certi limiti la misura
 dei suddetti redditi fissati come correttivo.
    Da  quanto  precede  risulta dunque che, da un lato, si collega il
 tributo  all'esercizio  dell'attivita'  e  quindi  alla   particolare
 utilizzazione  dei  servizi  comunali  e,  dall'altro, si fa assumere
 rilevanza, sia pure come correttivo, al reddito in concreto prodotto,
 per cui i due elementi, della superficie  e  del  reddito,  ancorche'
 concorrenti   a  determinare  la  redditivita',  che  costituisce  il
 presupposto del tributo, sono tra loro non omogenei.  Di  conseguenza
 la  semplificazione  operata  per asserire l'irrazionalita' di questo
 tipo di disciplina impositiva - che, in  relazione  a  taluni  esempi
 limite all'uopo prospettati, darebbe luogo ad una aliquota regressiva
 o  comunque  inversamente proporzionale alla capacita' contributiva -
 finisce  con  il  considerare  il  solo  reddito   come   presupposto
 impositivo,  perche'  commisura  soltanto  ad  esso il tributo che e'
 invece  determinato  sulla  risultante  di  due  elementi,  quali  la
 superficie  dell'insediamento  -  diversificata a seconda del settore
 produttivo - e la correzione  costituita  dalla  misura  del  reddito
 concretamente  prodotto.  Insomma  la  natura  stessa  del tributo fa
 apparire non  irragionevole  il  metodo  impositivo  prescelto  e  fa
 perdere  valore  alle  ipotesi  limite  formulate  in via ipotetica e
 prendendo a riferimento uno solo  degli  elementi  considerati  dalla
 norma denunciata.
    D'altronde,  la  inidoneita' degli esempi suddetti a sorreggere le
 censure deriva da una valutazione piu' aderente al  sistema  nel  suo
 complesso,  che  nasce  anche da un dato di comune esperienza secondo
 cui, salve le ipotesi di cui la legge si e' certamente  fatta  carico
 con  l'introdurre  il correttivo del reddito in concreto prodotto, e'
 da ritenersi attendibile che, a  seconda  dei  settori  di  attivita'
 considerati,  la  dimensione  dell'insediamento  possa costituire uno
 degli  indici  di  minore  o  maggiore  redditivita'   dell'attivita'
 produttiva.  Una  considerazione,  questa,  implicita del resto nella
 sentenza n. 103 del 1991 cit., che ebbe a dichiarare, come si e' gia'
 ricordato,   l'illegittimita'   costituzionale    della    precedente
 disciplina  del  tributo, non perche' avesse assunto a riferimento la
 superficie dei locali, ma perche' l'aveva  assunta  come  unica  base
 imponibile,   senza   alcun   riferimento   a  concreti  elementi  di
 redditivita'.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 1 del decreto-legge  2  marzo  1989,  n.  66  (Disposizioni
 urgenti  in  materia  di  autonomia impositiva degli enti locali e di
 finanza locale), convertito nella legge 24 aprile 1989, n. 144,  come
 modificato  dal  decreto-legge  30 settembre 1989, n. 332, convertito
 nella legge 27 novembre  1989,  n.  384,  sollevata,  in  riferimento
 all'art.   53   della  Costituzione,  dal  Tribunale  di  Napoli  con
 l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 3 maggio 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                       Il redattore: CAIANIELLO
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 13 maggio 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0521