N. 283 SENTENZA 10 - 16 giugno 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Espropriazione  per  pubblica  utilita'  -  Aree  edificabili   o   a
 destinazione  edificatoria  - Indennita' di espropriazione non ancora
 divenuta incontestabile -  Diritto  di  accettazione  con  esclusione
 della  riduzione  del 40% - Mancata previsione in favore dei soggetti
 gia' espropriati al momento dell'entrata in  vigore  della  legge  n.
 359/1992  -  Richiamo  alla giurisprudenza della Corte (cfr. sentenze
 nn. 91/1963, 22/1965, 115/1969, 63/1970, 58/1974, 15/1976,  138/1977,
 160/1981,  1165/1988,  216/1990, 173/1991 e 138/1993) - Rilevanza dei
 criteri "mediati" riconducibili al valore del bene in relazione  alle
 sue   caratteristiche   essenziali   (sentenza  n.  5/1980)  e  della
 discrezionalita'  del  legislatore   nel   fissare   i   criteri   di
 determinazione   dell'indennita'   espropriativa   secondo   generali
 valutazioni di politica economico-finanziaria -  Riduzione  di  oltre
 due   terzi   della   somma   dell'indennita'   -  Preclusione  della
 possibilita' di fruire dell'incremento  collegato  dalla  legge  alla
 definizione   negoziale   delle  situazioni  pendenti  -  Trattamento
 deteriore e fortemente differenziato rispetto ai rapporti esauriti  -
 Irragionevolezza - Illegittimita' costituzionale.
 
 (D.-L.   11  luglio  1992,  n.  333,  art.  5-  bis,  secondo  comma,
 convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n.  359).
 
 Espropriazione  per  pubblica  utilita'  -  Aree  edificabili   o   a
 destinazione  edificatoria  - Indennita' di espropriazione non ancora
 divenuta incontestabile -  Diritto  di  accettazione  con  esclusione
 della  riduzione  del 40% - Mancata previsione in favore dei soggetti
 gia' espropriati al momento dell'entrata in  vigore  della  legge  n.
 359/1992  -  Violazione  del procedimento di formazione della legge -
 Questione  non  applicabile  nel  giudizio  a  quo   -   Applicazione
 retroattiva  della  nuova  normativa  nei  procedimenti  in  corso  -
 Discrezionalita' legislativa -  Richiamo  alla  giurisprudenza  della
 Corte  (sentenze nn. 36/1985, 91, 123, 754 e 822 del 1988, 155/1990 e
 39/1993) - Inammissibilita' - Non fondatezza.
 
 (D.-L.  11  luglio  1992,  n.  333,  art.  5-  bis,  secondo   comma,
 convertito,  con  modificazioni,  nella legge 8 agosto 1992, n.  359;
 art. 1 della legge di conversione n. 359/1992; art. 15, n.  5,  della
 legge  n. 400/1988; art. 5- bis, quinto comma, e primo e sesto comma,
 del d.-l. 11 luglio 1992,  n.  333,  convertito,  con  modificazioni,
 nella legge 8 agosto 1992, n. 359).
 
 (Cost.,  artt. 3, 24, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 53, 71,
 72 e 113).
 
(GU n.26 del 23-6-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele  PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE,
    prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi  MENGONI,
    prof.  Enzo  CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI,
    prof. Francesco GUIZZI, prof.  Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando
    SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  5- bis del
 decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito,  con  modificazioni,
 nella  legge  8 agosto 1992 n. 359 (Misure urgenti per il risanamento
 della finanza pubblica), dell'art. 1 della legge 8 agosto 1992 n. 359
 e dell'art. 15, n. 5, della legge 23 agosto 1988 n.  400  (Disciplina
 dell'attivita'   di  governo  ed  ordinamento  della  Presidenza  del
 Consiglio  dei  Ministri),  ordinanze  emesse  il  2  ottobre  (n.  2
 ordinanze) dalla Corte di appello di Torino, il 16 ottobre 1992 dalla
 Corte  di  appello  di  Bologna, il 20 novembre 1992 (n. 3 ordinanze)
 dalla Corte di appello di Palermo, il 4 dicembre 1992 dalla Corte  di
 Appello  di  Reggio  Calabria  ed  il  16 ottobre 1992 dalla Corte di
 appello di Cagliari, rispettivamente iscritte ai nn. 792, 798  e  799
 del  registro  ordinanze  1992  ed  ai  nn.  41,  42, 45, 86 e 94 del
 registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica  nn.  1,  2,  7,  10 e 11, prima serie speciale, dell'anno
 1993;
    Visti gli atti di costituzione di Uguccioni  Igino,  della  s.p.a.
 Immobiltorre,  degli  eredi  di  Macri'  Giuseppe  Raffaele, di Sanna
 Salvatore e di Sanna M.  Maddalena  ed  altri  nonche'  gli  atti  di
 intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 4 maggio 1993 il Giudice relatore
 Renato Granata;
    Uditi  l'avv.  Alessandro  Mantero  per  Uguccioni  Igino,  l'avv.
 Gaetano  Marano  per  la  S.p.a. Immobiltorre, gli avvocati Francesco
 Scaglione e Carolina Valensise  per  gli  eredi  di  Macri'  Giuseppe
 Raffaele,  l'avv.  Giorgio  Piras  per Sanna Salvatore e per Sanna M.
 Maddalena ed altri e l'Avvocato dello Stato  Sergio  Laporta  per  il
 Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Le  Corti di appello di Torino (con due ordinanze in data 2
 ottobre 1992), di Cagliari (con provvedimento del 16  ottobre  1992),
 di  Bologna (con ordinanza del 16 ottobre 1992) di Palermo (con altre
 tre ordinanze in pari data del 20 novembre 1992) e di Reggio Calabria
 (con provvedimento del 4 dicembre dello stesso anno), in  altrettanti
 giudizi  ( ex art. 19 legge 1971 n. 865) di opposizione alla stima di
 aree edificabili espropriate alcuni anni prima in favore di Comuni  -
 ritenuto  (tutte  le  Corti  per  implicito,  e solo quella di Reggio
 Calabria con argomentata reiezione di contraria  tesi  interpretativa
 dell'opponente)  che  anche  nei rispettivi "procedimenti" (in quanto
 ancora) "in corso" debba trovare applicazione il  nuovo  criterio  di
 liquidazione  dell'indennita'  di  espropriazione di aree edificabili
 introdotto (con effetto dichiaratamente retroattivo) dall'art. 5- bis
 del d.-l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992
 n. 359 - hanno, sotto plurimi profili e  con  motivazioni  variamente
 modulate  (di  cui  piu' dettagliatamente si dira' direttamente nella
 parte in diritto), prospettato l'illegittimita' della norma suddetta,
 nella sua interezza (anche in correlazione all'art.  1  della  stessa
 legge  359/92  ed  all'art. 15 della 1988 n. 400) e/o con particolare
 riguardo  ai  commi  primo,  secondo,  quinto,  sesto  e  settimo  in
 riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113
 e 117 della Costituzione.
    In particolare:
      la  Corte  torinese  ha denunciato il comma primo del menzionato
 art. 5-bis, (il  quale  dispone  che  l'indennita'  in  questione  e'
 determinata  a  norma  dell'art. 13, comma 3, della legge n. 2892 del
 1885 sostituendo ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il  reddito
 dominicale rivalutato di cui agli artt. 24 ss. t.u. n. 917 del 1986 e
 riducendo  l'importo,  cosi' ottenuto, del 40%) - ed, implicitamente,
 anche il comma  secondo  (a  tenore  del  quale  "in  ogni  fase  del
 procedimento  espropriativo il soggetto espropriato puo' convenire la
 cessione volontaria del bene", ed "in tal  caso  non  si  applica  la
 riduzione  cui al comma primo") per assunto contrasto con gli artt. 3
 e 42, comma  3,  della  Costituzione,  sotto  il  profilo  della  non
 adeguatezza   e   congruita',   oltre  che  del  carattere  astratto,
 dell'indennizzo   cosi'   determinato,   e   con   l'art.   24  della
 Costituzione, in ragione di una paventata "remora  all'esercizio  del
 diritto  di  difesa"  (id est di opposizione alla stima), indotta dal
 descritto meccanismo di  sostanziale  conseguenzialita'  tra  mancata
 cessione volontaria del bene e riduzione ulteriore del 40%;
      la  Corte  di  Cagliari ha impugnato il citato art. 5- bis nella
 sua interezza (anche in relazione all'art. 1 della  stessa  legge  n.
 359/92),  per suo vizio di formazione, stante l'avvenuta approvazione
 direttamente del solo articolo unico del disegno della suddetta legge
 di conversione (secondo le indicazioni, dell'art. 15 n. 5 della legge
 n. 400 del  1988,  pure  esso  per  cio'  denunciato),  per  asserito
 contrasto  con  gli  artt.  71  e  72  della  Costituzione (in quanto
 prescriventi una previa votazione "articolo  per  articolo").  Ed  ha
 poi,  in  linea gradata, prospettato l'illegittimita' del comma primo
 del medesimo art. 5- bis in riferimento  agli  artt.  3  e  53  della
 Costituzione  (sotto  il  profilo del maggior contributo richiesto al
 proprietario  del  bene  espropriato  rispetto  a  tutti  gli   altri
 contribuenti);  il  comma  secondo in riferimento sia all'art. 3 (per
 disparita' di trattamento tra espropriati secondo  che  convengano  o
 non  la  cessione  del bene), sia all'art. 113 (per motivi analoghi a
 quelli che fondano l'ipotesi di violazione  dell'art.  24)  oltreche'
 del  comma  quinto  (che  demanda  al Ministro dei lavori pubblici di
 definire, con proprio decreto, "i  criteri  ed  i  requisiti  per  la
 edificabilita'  di  fatto"),  per  contrasto  con  l'art.  117  della
 Costituzione (quanto ad una possibile menomazione delle  attribuzioni
 regionali in materia di urbanistica);
      la  Corte  di  Bologna  ha  impugnato  anch'essa  il comma primo
 dell'art. 5-bis, per contrasto con  l'art.  42,  comma  terzo,  della
 Costituzione.  Ed  inoltre, il comma secondo del medesimo articolo 5-
 bis in riferimento, oltreche' all'art. 24, comma 1, anche all'art.  3
 della  Costituzione (per assunta discriminazione dei proprietari gia'
 espropriati alla data di entrata in vigore  della  legge  e  che  non
 possono per cio' avvalersi della cessione volontaria del bene); ed il
 comma  quinto  in relazione sia all'art. 42, comma 2, (per violazione
 della riserva di legge in tema di disciplina della  proprieta'),  sia
 agli  artt.  42,  comma  3,  e  24,  comma 1, della Costituzione (per
 mancata previsione di un termine  per  l'emanazione  del  regolamento
 individuativo della edificabilita' di fatto);
      a  sua  volta,  la  Corte  palermitana ha chiesto di scrutinare:
 ancora il primo comma dell'art. 5- bis d.-l. n. 333/92  cit.,  sempre
 per contrasto con l' art. 42, comma 3, della Costituzione ma anche in
 riferimento  all'art.  3 della Costituzione (quanto al profilo di una
 ulteriore  disparita'  di  trattamento  tra   proprietari   di   aree
 edificabili  oggetto  di espropriazione e proprietari di aree, aventi
 identiche  caratteristiche  ed  ubicazione,  che  possono   viceversa
 disporne  in  regime  di  libera  contrattazione) e all'art. 24 della
 Costituzione  (con  implicito  riferimento  alla   disciplina   della
 cessione  volontaria); il comma secondo in relazione all'art. 3 della
 Costituzione; il  comma  sesto  (disciplinante,  in  collegamento  al
 successivo  comma  settimo l'applicabilita' dello ius superveniens ai
 procedimenti nei quali la determinazione dell'indennita'  sia  ancora
 sub  iudice),  per  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione, in
 ragione della disparita' di trattamento che si verrebbe, per tal via,
 a determinare tra proprietari espropriati, soggetti o non alla  nuova
 disciplina  per  fattori  assolutamente casuali, connessi alla durata
 delle controversie giudiziarie;
      infine la Corte di Reggio Calabria ha formulato anch'essa  dubbi
 di   illegittimita'  dei  commi  primo  ed  (implicitamente)  secondo
 dell'articolo in esame, per contrasto con i  precetti  costituzionali
 sub artt. 3, 24 e 42, comma terzo.
    2. - In tutti i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei Ministri, che preliminarmente ha eccepito l'inammissibilita', per
 irrilevanza:
       a)  della  impugnativa  dell'art. 15 n. 5 legge n. 400 del 1988
 perche' non applicabile nel giudizio a quo;
      b)  delle  questioni  di  costituzionalita'  del  comma   quinto
 dell'art.  5-  bis  del d.-l. n. 333/92 come prospettate dalla (sola)
 Corte di Bologna, atteso che nel correlativo giudizio  -  concernente
 un  terreno legalmente edificabile alla stregua dei vigenti strumenti
 urbanistici - non dovrebbe per cio' ricevere applicazione  l'emanando
 regolamento  sui  criteri di individuazione della c.d. edificabilita'
 di fatto;
       c) delle questioni di illegittimita' del  comma  secondo  della
 medesima  norma  per la duplice ragione che la "cessione volontaria",
 ivi disciplinata, non verrebbe comunque in applicazione  nei  giudizi
 (come  quelli  a  quibus)  in  cui  risulti  gia'  emesso  il decreto
 espropriativo; e perche' la violazione, in particolare, dell'art.  24
 della  Costituzione,  sotto  il  profilo  della "remora all'esercizio
 della  difesa",  non  sarebbe,  per  definizione,  ipotizzabile   con
 riguardo a giudizi di fatto gia' instaurati.
    E, nel merito, ha contestato la fondatezza di ogni altra sollevata
 questione  attesa,  tra  l'altro,  la  ritualita' del procedimento di
 formazione della legge n.  359/92;  la  congruita'  della  indennita'
 computata  ai sensi del comma primo dell'art. 5- bis d.-l. n. 333/92,
 in sostanziale aderenza ai principi in tema di serio indennizzo  piu'
 volte  enunciati  da  questa  Corte; la non conferenza in materia del
 richiamo all'art. 53  della  Costituzione;  la  ragionevolezza  -  in
 relazione alle perseguite finalita' acceleratorie (delle procedure di
 acquisizione delle aree edificabili) e deflattive (delle controversie
 giudiziarie)  -  del  meccanismo "premiale" di cessione volontaria di
 cui al comma secondo; l'esclusione di ogni profilo di  contrasto  tra
 la  disciplina dei criteri della edificabilita' di fatto, ai fini del
 computo della indennita' di esproprio",  quale  demandata  dal  comma
 quinto alla decretazione ministeriale, e le attribuzioni regionali in
 materia  di  urbanistica;  la  conformita'  infine delle disposizioni
 transitorie  sub  comma  sesto  (e   settimo)   ai   principi   della
 successione, nel tempo, delle leggi.
    3. - La fondatezza di tutte le questioni sollevate (nei rispettivi
 giudizi  a quibus) e' stata viceversa sostenuta dalle parti private -
 Uguccioni, societa' Immobiltorre, eredi Macri',  Sanna  (quest'ultima
 anche  con memoria) - opponenti rispettivamente innanzi alle Corti di
 Bologna, Palermo (ordinanza n. 45/1993), Reggio Calabria e Cagliari.
    La difesa  degli  eredi  Macri'  ha  preliminarmente,  per  altro,
 riproposto  l'eccezione  di  irrilevanza (gia' disattesa dal Collegio
 reggino) per inapplicabilita' dello ius superveniens in fattispecie -
 come quella in oggetto - in cui risulti gia' emanato  il  decreto  di
 esproprio,  atteso che il "procedimento" (da intendere nella corretta
 accezione  di  "procedimento  amministrativo  di  espropriazione")non
 sarebbe, in questo caso, piu' "in corso".
                        Considerato in diritto
    1.  -  Attesa  l'identita' o connessione delle questioni sollevate
 puo' disporsi la riunione dei correlativi giudizi.
    2. - Viene  sotto  piu'  profili  -  come  in  narrativa  detto  -
 denunciato l'art. 5-bis, introdotto dalla legge 8 agosto 1992 n. 359,
 in  sede  di  conversione  del  d.-l. 11 luglio 1992 n. 333, (recante
 "misure urgenti per risanamento della finanza pubblica").
   La riferita norma stabilisce nuovi criteri - da valere  "fino  alla
 emanazione  di  una  organica  disciplina  delle  espropriazioni" per
 pubblica utilita' - per la stima della indennita'  di  espropriazione
 "per  le  aree  edificabili"  (per  quelle  agricole,  o comunque non
 classificabili come edificabili, continuando viceversa ad  applicarsi
 i  criteri  di cui al titolo II della l. n. 865 del 1971 ai sensi del
 comma quarto dello stesso art. 5- bis).  Prevede, all'uopo, il  comma
 primo  della  citata  disposizione  che  la  suddetta  indennita' "e'
 determinata  a  norma  dell'art.  13,  comma  3,  della  legge   (sul
 risanamento  della  citta' di Napoli) n. 2892 del 1885 (e cioe' sulla
 base della media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo
 decennio), sostituendo ai  fitti  coacervati  il  reddito  dominicale
 rivalutato  di  cui  agli artt. 24 ss. d.P.R. n. 917 del 1986". E che
 "l'importo cosi' determinato e' ridotto  del  40%".    Aggiunge  poi,
 peraltro,   il  comma  secondo  che  "il  soggetto  espropriato  puo'
 convenire la cessione volontaria del bene" ed "in  tal  caso  non  si
 applica  la  riduzione di cui al comma 1".  Precisa, quindi, il comma
 terzo (non oggetto  di  autonoma  impugnazione,  ma  richiamato  come
 disposizione  interagente  sulla  legittimita'  del  precedente comma
 primo) che "per la valutazione della edificabilita' delle aree", agli
 effetti appunto  dell'applicazione  dei  suddetti  nuovi  criteri  di
 stima,  "si devono considerare le possibilita' legali ed effettive di
 edificazione  esistenti  al  momento  dell'apposizione  dei   vincolo
 preordinato  all'esproprio". Ed a tal fine - prosegue il comma quinto
 - "con regolamento del Ministro dei Lavori Pubblici, da  emanarsi  ai
 sensi  dell'art.  17 legge 1988, n. 400", saranno "definiti i criteri
 ed i requisiti per la individuazione della edificabilita' di  fatto".
 Tale   nuova  disciplina  e'  dichiaratamente  applicabile  anche  ai
 "procedimenti in corso" (comma settimo), salvo che  l'indennita'  non
 sia  gia'  stata  accettata dalle parti ovvero definita con giudicato
 (comma sesto legge cit.).
 3. - Per il combinato effetto delle  censure  formulate  nelle  varie
 ordinanze  di  rinvio  il  richiamato  art.  5-  bis  viene quindi in
 sostanza   sospettato   di   incostituzionalita',    oltreche'    (A)
 pregiudizialmente  nella sua interezza per vizio genetico (che si as-
 sume, dalla Corte di Cagliari, correlato  alla  previsione  dell'art.
 15  n.  5  della  legge  n.  400  del 1988, per questo parallelamente
 denunciato), sotto i profili in particolare:
      (B*) del nuovo adottato criterio di computo  dell'indennita'  in
 questione (comma 1);
      (C)  del  meccanismo  di interrelazione tra "cessione volontaria
 del bene" ed esonero dalla applicazione dell'ulteriore riduzione  del
 40% (comma 2);
      (D)   della   definizione   dei   criteri   individuativi  della
 edificabilita' di fatto, rimessa al potere esecutivo (comma 5);
      (E) della disciplina intertemporale (commi 6 e 7).
    I parametri evocati sono rispettivamente:
      per il profilo sub A: gli artt. 71 e 72 della Costituzione;
      per  il  profilo  sub  B:  gli  artt.  3, 42 comma 3, e 53 della
 Costituzione;
      per il profilo sub C: gli artt. 3, 24, 42, comma 3, e 113  della
 Costituzione;
      per  il profilo sub D: gli artt. 42, commi 2 e 3; 24, comma 1, e
 117 della Costituzione;
      per il profilo sub E: l'art. 3 della Costituzione.
    4. - Preliminarmente al merito delle riferite questioni -  che  si
 affrontera'   seguendo   l'ordine  numerico  dei  commi  della  norma
 segnatamente impugnati - va esaminata l'eccezione di inammissibilita'
 per inapplicabilita' dello  ius  superveniens  nel  processo  a  quo.
 Questa  eccezione  -  espressamente  prospettata  solo  nel  giudizio
 innanzi alla Corte di Reggio Calabria, ma virtualmente  riferibile  a
 tutti  gli  altri giudizi a quibus nei quali parimenti risulta (dalla
 narrativa delle stesse ordinanze di rinvio) la gia' avvenuta adozione
 del   decreto   espropriativo   -   e'   formulata   sulla   premessa
 interpretativa  che  i  "procedimenti  in  corso",  ai quali il comma
 settimo del citato art. 5- bis espressamente dichiara applicabile  la
 nuova  disciplina, siano i procedimenti amministrativi ancora aperti;
 con la conseguente esclusione, quindi, dei procedimenti - come quelli
 cui si riferiscono le controversie indennitarie pendenti  innanzi  ai
 giudici  a quibus - viceversa gia' conclusi sul piano della procedura
 ablatoria con il disposto trasferimento coattivo della proprieta' del
 bene occupato.   La interpretazione cosi'  proposta  non  puo'  pero'
 essere  ricevuta dalla Corte perche' disattesa per implicito da tutte
 le autorita' rimettenti e, esplicitamente, dalla Corte di appello  di
 Reggio Calabria con motivazione affatto plausibile e confortata dalla
 recente  giurisprudenza  della Cassazione (cfr. sent. n. 12393/1992).
 Delle altre preliminari eccezioni  di  inammissibilita'  afferenti  a
 singole disposizioni dell'art. 5- bis si dira' (pregiudizialmente) in
 occasione  dell'esame delle correlative questioni, nell'ordine che si
 e' detto.
    5. - Passando all'esame del merito, vanno innanzi tutto  prese  in
 considerazione  le  censure  che hanno ad oggetto il cit. art. 5-bis,
 nella sua interezza, e l'art. 15 n. 5 della legge 23 agosto  1988  n.
 400,  norme  che  la Corte d'appello di Cagliari sospetta confliggere
 con gli artt. 71 e 72, comma 1, della Costituzione sotto  il  profilo
 della  violazione  del  procedimento  di  formazione  della legge non
 essendo stato rispettato il canone che prescrive che il disegno o  il
 progetto   di  legge  debba  essere  approvato  prima  "articolo  per
 articolo" e dopo con (complessiva) votazione finale.   La  questione,
 cosi'   come   posta  dalla  Corte  remittente,  e'  per  piu'  versi
 inammissibile.  Lo e' relativamente all'art. 15 n. 5 legge n. 400/88,
 perche' di tale norma - che, prescrivendo che "le modifiche apportate
 al decreto legge, sono elencate in allegato alla legge", riguarda  il
 modo  di formulazione del testo da pubblicare in Gazzetta ufficiale -
 il giudice non deve fare applicazione.  E lo e' anche in  riferimento
 al cit. art. 5-bis.  Infatti il giudice a quo, ricordato che "secondo
 ..   l'art.   72   l'approvazione  delle  camere  deve  essere  fatta
 separatamente articolo per  articolo  e  poi,  complessivamente,  con
 votazione  finale",  constata che "la legge di conversione in oggetto
 e' stata approvata mediante votazione soltanto del suo articolo unico
 e  non  anche  mediante votazione dei singoli articoli del decreto da
 convertire e delle relative modifiche" e ne deduce  "l'illegittimita'
 costituzionale ..del citato art. 5-bis, per il quale l'illegittimita'
 risulta   particolarmente  evidente:  esso  infatti  non  ha  nemmeno
 carattere di modifica del decreto legge, giacche' contiene una  norma
 completamente  nuova  rispetto  alla  materia  del  decreto  legge n.
 333/92".  Orbene - non senza considerare che il riferimento  all'art.
 71  della  Costituzione  si  rivela non pertinente giacche' il canone
 della redazione del progetto di legge "in articoli",  da  tale  norma
 prescritto, riguarda l'iniziativa popolare delle leggi - dalla scarna
 motivazione  dell'ordinanza  non  risulta con chiarezza se il giudice
 rimettente intenda far riferimento in generale a qualsiasi disegno di
 legge formulato in un articolo unico  (come  parrebbe  desumersi  dal
 richiamo dell'art. 72 della Costituzione che riguarda il procedimento
 di formazione della legge in generale, mentre la sedes materiae della
 legge  di  conversione e' l'art. 77 della Costituzione); ovvero se si
 riferisca piu' in particolare all'ipotesi del  disegno  di  legge  di
 conversione  del decreto legge (come sembrerebbe potersi inferire dal
 fatto che nella specie la norma censurata e' contenuta in un  decreto
 legge  convertito);  ovvero,  infine,  se - tenuto conto del concreto
 svolgimento dell'iter parlamentare - non  abbia  inteso  dolersi  del
 fatto  che  sia  stata inserita una disposizione (in tesi) "estranea"
 alla materia del decreto legge,  ovvero  del  fatto  che,  avendo  il
 Governo  posto  la  fiducia  sul  testo  come  emendato  in  sede  di
 Commissione referente con l'inserimento in  particolare  della  norma
 censurata,  l'Assemblea  - limitandosi all'approvazione dell'articolo
 unico del disegno di legge di conversione del  decreto  legge  -  non
 abbia  in  concreto  dibattuto  (e  quindi consapevolmente approvato)
 l'inserimento nel decreto legge  dell'art.  5-  bis  in  esame.    La
 questione quindi si presenta priva dell'indefettibile requisito della
 chiarezza con conseguente sua inammissibilita'.
 6.  -  Possono  ora  in  sequenza  esaminarsi  le  censure  che - con
 riferimento soprattutto all'art. 42, comma 3 della  Costituzione,  ma
 anche  agli  artt.  3  e  53  della  Costituzione  - afferiscono alle
 distinte disposizioni contenute nell'art.  5-  bis,  cominciando  dal
 primo  comma  che  prevede  che l'indennita' di espropriazione per le
 aree edificabili e' determinata a norma dell'art. 13, comma 3,  della
 legge  n. 2892 del 1885, sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati
 dell'ultimo decennio il reddito dominicale  rivalutato  di  cui  agli
 artt.  24  ss. d.P.R. n. 917 del 1986; l'importo cosi' determinato e'
 ridotto del 40%.
 6.1. - Con riferimento al parametro costituito dall'art. 42, comma 3,
 della Costituzione la questione e' posta innanzi tutto  (dalle  Corti
 d'appello  di  Bologna  e  Torino)  sotto il profilo, piu' generale e
 radicale, della non adeguatezza e congruita' del ristoro in tal  modo
 assicurato  al  proprietario espropriato. Inoltre, pure a prescindere
 dalla riduzione  del  40%,  il  criterio  adottato  dal  primo  comma
 dell'art.  5-  bis  sarebbe, secondo la Corte di Palermo, illegittimo
 gia' soltanto  per  avere  il  legislatore  sostituito  al  parametro
 rapportato  ai  fitti coacervati quello - affatto disomogeneo perche'
 concernente i terreni agricoli - del reddito dominicale;  e  comunque
 si censura il carattere astratto dell'indennizzo cosi' computato, non
 rispondente  alle  obiettive  ed  effettive  caratteristiche del bene
 ablato.  La Corte d'appello di Reggio Calabria sostiene  poi  che  la
 ritenuta di imposta del 20%, prevista dall'art. 11 della legge n. 413
 del  1991,  rappresenterebbe  un  ulteriore elemento di riduzione che
 porterebbe l'indennizzo  al  di  sotto  del  livello  di  congruita'.
 Inoltre   il   riferimento   temporale  della  valutazione  circa  la
 edificabilita' di fatto al  momento  della  apposizione  del  vincolo
 preordinato  all'esproprio  rappresenterebbe  un  altro  elemento  di
 inadeguatezza del criterio di calcolo dell'indennita'  espropriativa.
 La   questione  quindi  si  focalizza  essenzialmente,  come  profilo
 principale, nell'affermazione di fondo della non adeguatezza  in  se'
 della  liquidazione  della  indennita'  nella  misura  del  60% della
 semisomma del valore venale e  del  reddito  dominicale;  mentre  gli
 altri profili secondari, ed in un certo senso serventi al primo, sono
 diretti  a  rafforzare tale censura di inadeguatezza dell'indennizzo.
 Tutti pero' si riconducono e si saldano nella prospettazione  secondo
 cui risulterebbe violata la prescrizione del terzo comma dell'art. 42
 della   Costituzione   che  consente  l'espropriazione  per  pubblica
 utilita' solo "salvo indennizzo".
    6.2. - Va premesso che - prima della norma censurata e dopo che la
 Corte aveva dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art.  16,
 commi 5, 6 e 7 della legge n. 865 del 1971, come modificati dall'art.
 14  della legge n. 10 del 1977 (sent. n. 5/1980), nonche' della legge
 n. 385 del 1980 (sent. n. 223/1983) - trovava  applicazione,  per  la
 quantificazione   dell'indennita'   di   espropriazione   delle  aree
 fabbricabili, il criterio del valore venale quale previsto  dall'art.
 39  legge  25  giugno  1865  n.  2359, che non era stato abrogato, ma
 soltanto derogato dalle disposizioni dichiarate  illegittime  (sentt.
 n.  1022  del  1988  e  n.  216  del  1990);  invece  per  le  aree a
 destinazione agricola era, ed e', ancora  operante  il  criterio  del
 valore agrario medio previsto dalla cit. legge n. 865 del 1971 (cosi'
 anche sent. n. 355/1985).  Con l'introduzione della norma censurata -
 che   riguarda   soltanto   le  aree  edificabili  o  a  destinazione
 edificatoria  -  al  criterio  del  valore  venale  l'art.   5-   bis
 sostituisce  quello  della  semisomma del valore venale e del reddito
 dominicale, ridotta  del  40%;  criterio  questo  sensibilmente  meno
 favorevole  (per  i  titolari  delle  aree  espropriate) perche' - in
 ragione della notoria esiguita' del reddito dominicale - pari a circa
 un terzo del valore venale.  La radicale censura di inadeguatezza  di
 tale criterio - che rappresenta il profilo principale delle questioni
 di  costituzionalita'  in  esame  - non puo' che essere valutata alla
 luce della precedente giurisprudenza di questa Corte. La quale si  e'
 subito  attestata  su un principio di fondo, ripetutamente affermato,
 secondo  cui,  da  una  parte,  l'indennita'  di  espropriazione  non
 garantisce  all'espropriato  il  diritto ad un'indennita' esattamente
 commisurata al valore venale del  bene  e,  dall'altra,  l'indennita'
 stessa   non   puo'  essere  (in  negativo)  meramente  simbolica  od
 irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata. Per
 un verso, infatti, l'integrale ristoro del sacrificio negherebbe ogni
 incidenza sotto tale profilo agli  scopi  di  pubblica  utilita'  che
 persegue  il  procedimento  espropriativo; scopi la cui realizzazione
 non puo' risultare impedita dall'esigenza di una piena  ed  integrale
 riparazione dell'interesse privato del proprietario. Per altro verso,
 pero',  quest'ultimo  non  puo'  essere chiamato ad un sacrificio che
 azzeri  il  suo  diritto,  atteso  il  rilievo  costituzionale  della
 proprieta'   privata   che   il  secondo  comma  dell'art.  42  della
 Costituzione  predica essere "riconosciuta e garantita" ancorche' con
 il limite (tra l'altro) della  "funzione  sociale".  Ed  infatti  fin
 dalla  sentenza  n.  61/1957  e'  stata  respinta  quella  che veniva
 qualificata  come  "interpretazione  letterale"   del   concetto   di
 indennizzo,  in  quanto  identificato  con il pieno ristoro del danno
 subito per effetto dell'ablazione; "indennizzo non  puo'  significare
 ..  integrale  risarcimento .. ma soltanto il massimo di contributo e
 di riparazione che, nell'ambito degli scopi di generale interesse, la
 Pubblica Amministrazione puo' garantire  all'interessato";  solo  "un
 indennizzo  stabilito  in  misura  simbolica  sarebbe  un  indennizzo
 inesistente" con conseguente  vulnerazione  dell'art.  42,  comma  3,
 della Costituzione.  Questo principio - costantemente riaffermato (da
 ultimo v. sentt.  nn. 138 del 1993, 173 del 1991 e 216 del 1990) - si
 e'  poi ulteriormente evoluto, da una parte, affermandosi in positivo
 che l'indennizzo deve essere - come gia' indicato -  congruo,  serio,
 ed  adeguato  (sentt.  nn. 91 del 1963, 22 del 1965, 115 del 1969, 63
 del 1970, 58 del 1974, 138 del 1977) e, d'altra  parte,  precisandosi
 che  e'  legittima la combinazione di piu' criteri purche' almeno uno
 sia agganciato al valore venale e che  pertanto  risulta  compatibile
 con  la  garanzia  dell'art.  42,  comma  3,  della  Costituzione  la
 previsione di un criterio "mediato" (sentt. nn. 216  del  1990,  1165
 del  1988  e 160 del 1981).  In particolare la sentenza n. 15/1976 ha
 ritenuto legittimo il  criterio  di  valutazione  dell'indennita'  di
 esproprio   previsto  dalla  legge  15  gennaio  1885  n.  2892  (sul
 risanamento della citta' di Napoli)  che  stabilisce  il  riferimento
 alla  media  del  valore  venale  e  dei fitti coacervati dell'ultimo
 decennio dei terreni espropriati, ovvero,  in  difetto  di  locazioni
 accertate,  alla  media  del valore venale e dell'imponibile netto ai
 fini dell'imposta sui fabbricati, precisando che, anche  nell'ipotesi
 in  cui  non  risultino canoni di locazione, entra sempre a far parte
 del calcolo relativo, come dato componente  della  media,  il  valore
 venale  dell'immobile;  cio'  "contribuisce  in  modo determinante ad
 adeguare, sia pure entro certi  limiti,  l'ammontare  dell'indennizzo
 alla  realta' dei valori economici" (cfr. anche ord. 607/1987 e sent.
 n. 216/1990).  Parimenti la sentenza n. 160/1981 ha ritenuto  congruo
 un  analogo criterio "mediato", quello previsto dall'art. 4 r.d.l. n.
 981 del 1931, che quantificava l'indennita'  di  espropriazione  come
 pari   alla   media   del  valore  venale  e  dell'imponibile  netto,
 capitalizzato ad un tasso dal  3,50%  al  7%  secondo  le  condizioni
 dell'edificio e della localita'; in particolare la Corte ha precisato
 che  "il  riferimento  al  valore  venale  del  fondo  fuor di dubbio
 consente, sulla base  di  dati  oggettivamente  accertabili,  che  la
 liquidazione si avvicini adeguatamente alla realta' ed attualita' dei
 valori  economici"  e  che  tale riferimento consente di escludere il
 "rischio  di  irrisorieta'  dell'indennizzo".    In  questi   criteri
 "mediati"  c'e'  pero'  una costante che e' quella dell'indefettibile
 "riferimento  ..  al  valore  del  bene   in   relazione   alle   sue
 caratteristiche   essenziali"   (sent.  n.  5/1980)  sicche'  risulta
 viceversa  violato  il  canone  di  congruita'  ex  art.   42   della
 Costituzione  ove  si  adotti un diverso criterio che "prescinda" del
 tutto da tale valore venale; la mancanza di questo riferimento  (come
 nel  caso  delle  leggi  n. 865 del 1971, n. 247 del 1974 e n. 10 del
 1977 che determinavano l'indennizzo delle aree fabbricabili  in  base
 al   solo   loro   valore   agricolo,   donde   la  dichiarazione  di
 incostituzionalita'  resa con la citata sent. n. 5/1980) comporta una
 valutazione  del   tutto   astratta   in   quanto   sganciata   dalle
 caratteristiche   essenziali   del  bene  ablato.  Analogo  vizio  di
 astrattezza e' stato ravvisato dalla Corte nella successiva  sentenza
 n.   223/1983   relativamente   alla   legge  n.  385  del  1980  che
 surrettiziamente faceva rivivere, quale mero "acconto",  il  criterio
 gia'  colpito  dalla precedente dichiarazione di incostituzionalita'.
 Una piu' netta ed inequivocabile  puntualizzazione,  suscettibile  di
 generalizzazione,  e'  poi contenuta nella sentenza n. 1165/1988, che
 ha precisato quale sia il principio cui deve attenersi il legislatore
 nel determinare l'indennita' di esproprio:  "quello  di  assumere  il
 valore  effettivo  del bene come base di riferimento dell'indennizzo,
 onde evitare una valutazione dello stesso  del  tutto  astratta";  in
 particolare  -  nella specie, in quella occasione esaminata, relativa
 all'art. 28 della legge della Provincia di Trento 20 dicembre 1972 n.
 31, come modificato dalla successiva legge 2 maggio 1983 n. 14  -  la
 Corte  ha ritenuto che il correttivo del valore venale potesse essere
 costituito dal valore agricolo tabellare  (che  -  puo'  rilevarsi  a
 margine - non e' poi concettualmente dissimile dal reddito dominicale
 previsto dall'art. 5- bis in esame) sicche' l'indennita' di esproprio
 delle  aree edificabili risultava legittimamente commisurata alla me-
 dia aritmetica tra il valore  venale  ed  il  valore  che,  entro  le
 valutazioni  fornite  da  una  determinata Commissione, doveva essere
 attribuito all'area quale terreno  agricolo  (anche  la  sentenza  n.
 231/1984 parla del valore venale come di mero criterio di riferimento
 nella  determinazione  dell'indennita').   Quindi - volendo tirare le
 fila di questi piu' recenti sviluppi giurisprudenziali  che  peraltro
 si  sono  mossi  lungo una linea di continuita' con la giurisprudenza
 maggiormente risalente - puo' dirsi, conclusivamente, che il  rischio
 dell'"astrattezza" del criterio di quantificazione dell'indennita' di
 espropriazione e' evitato quando uno dei parametri che concorrono sia
 ancorato al valore venale.
    6.3.  -  La ritenuta ammissibilita' in linea di massima di criteri
 "mediati" comporta una conseguente discrezionalita'  del  legislatore
 nell'individuazione  dei  parametri concorrenti con quelli del valore
 venale; nella sentenza n. 216/1990 la Corte ha infatti affermato  che
 residuano al legislatore "ampi margini di dicrezionalita' ..,dato che
 il  valore  effettivo  del bene viene in rilievo non quale misura, ma
 come criterio di riferimento per la determinazione  dell'indennizzo".
 Cosi'  anche la sentenza n. 138/1993 ha affermato che "il legislatore
 rimane  libero  di  adottare  criteri  piu'  o  meno  automatici   di
 determinazione  dell'indennizzo,  per esempio rapportandolo al valore
 catastale dell'immobile .. oppure alla media, eventualmente corretta,
 del valore venale col reddito dominicale rivalutato".  Nell'esercizio
 di questa discrezionalita' il legislatore opera  il  coordinamento  e
 bilanciamento con il pubblico interesse, peraltro tenendo anche conto
 delle  esigenze  della  finanza pubblica, che - come gia' ritenuto da
 questa Corte (sent. n. 15/1976) - legittimamente possono ispirare  la
 scelta del criterio "mediato" soprattutto se inserito nel contesto di
 una  piu'  vasta  ed  organica manovra finanziaria dello Stato.  Tale
 mediazione tra  l'interesse  generale  sotteso  all'espropriazione  e
 l'interesse  privato,  espresso  dalla  proprieta'  privata, non puo'
 fissarsi in un  indefettibile  e  rigido  criterio  quantitativo,  ma
 risente  sia del contesto complessivo in cui storicamente si colloca,
 sia  dello  specifico  che connota il procedimento espropriativo, non
 essendo il legislatore vincolato ad individuare un unico criterio  di
 determinazione    dell'indennita',   valido   in   ogni   fattispecie
 espropriativa.     Sotto  quest'ultimo  profilo   la   determinazione
 dell'indennita'  delle  aree  fabbricabili non puo' non risentire del
 fatto che la destinazione urbanistica  comporta  un  valore  aggiunto
 (rendita  di  posizione) rispetto al contenuto essenziale del diritto
 di proprieta'  sicche'  diverso  puo'  essere  il  bilanciamento  tra
 interesse   generale   ed   interesse  privato  rispetto  all'ipotesi
 dell'espropriazione di aree non fabbricabili. Come anche un  contesto
 complessivo che risulti caratterizzato da una sfavorevole congiuntura
 economica  -  che  il  legislatore  mira  a  contrastare con un'ampia
 manovra economico-finanziaria - puo' conferire  un  diverso  peso  ai
 confliggenti interessi oggetto del bilanciamento legislativo.  Questa
 essenziale  relativita'  dei  valori  in  giuoco  impone una verifica
 settoriale e legata al contesto di riferimento nel momento in cui  si
 pone  il  raffronto  tra  il  risultato del bilanciamento operato dal
 legislatore con la scelta di un determinato criterio "mediato" ed  il
 canone  di  adeguatezza  dell'indennita'  ex  art. 42, comma 3, della
 Costituzione.  Verifica questa che - operata con riferimento all'art.
 5- bis censurato - impone di considerare:
       a) la  particolare  urgenza  e  valenza  degli  "scopi"  che  -
 attraverso  l'acquisizione  dei suoli edificabili (e cioe' delle aree
 nude,  destinabili  alla  edificazione)  che  la  riferita  normativa
 specificamente  disciplina - il legislatore si propone di perseguire.
 Scopi,  in  particolare  legati  alla  ripresa  degli  interventi  di
 edilizia  residenziale  pubblica,  anche  in  funzione della positiva
 ricaduta che l'auspicato incremento edilizio puo' avere sui collegati
 settori lavorativi e sulla realizzazione del diritto alla abitazione,
 ed agli effetti di calmiere che la conseguente crescita  dell'offerta
 abitativa puo' produrre nel mercato, in guisa da secondare e modulare
 l'iniziale  liberalizzazione  degli affitti di abitazione, coevamente
 avviata; b) il  parallelo  obiettivo  di  perequare  il  costo  della
 indennita' in limiti quanto piu' possibili aderenti al valore proprio
 dei  suoli,  decurtandolo dal valore aggiunto determinato dall'azione
 della P.A. e che, con riguardo ai proprietari non espropriati, viene,
 anche  se  non  interamente,  recuperato  o  attraverso   misure   di
 contribuzione  all'atto della edificazione o attraverso la tassazione
 dei cosi' acquisiti  incrementi  di  valore  all'atto  dell'eventuale
 trasferimento  del  suolo;  c)  la  particolare congiuntura economica
 nella  quale  si  inserisce  la  legge   emanata   avente   carattere
 dichiaratamente  temporaneo,  in  attesa  di  un'organica  disciplina
 dell'espropriazione per pubblica utilita'.
    In conclusione - affermata in generale la legittimita' dei criteri
 "mediati" sempre che facciano riferimento al valore venale  del  bene
 espropriato  e  ritenuta in concreto la correttezza del bilanciamento
 di  interessi  operato  dal  legislatore  nel  definire  i  parametri
 concorrenti  con il valore venale - puo' escludersi, sotto il profilo
 principale della censura in esame, che  l'indennizzo  calcolato  alla
 stregua  della  disposizione  denunciata  sia "apparente", "meramente
 simbolico" od "irrisorio" e deve invece ritenersene la sufficienza  e
 congruita'  rispetto  alla  funzione  -  che  lo stesso, nel contesto
 dell'attuale situazione economico-finanziaria del paese, e'  chiamato
 ad   assolvere  -  di  esprimere  "il  massimo  di  contributo  e  di
 riparazione  che  nell'ambito  degli  scopi, di generale interesse la
 P.A. puo' garantire all'interesse privato".
    6.4. - La ritenuta adeguatezza dell'indennizzo consente  anche  di
 superare  gli altri profili, afferenti sempre al parametro costituito
 dall'art. 42, comma 3, della Costituzione.    Infatti  da  una  parte
 mette  conto rilevare che l'introduzione del criterio concorrente del
 reddito dominicale in luogo del coacervo dei  fitti  (quale  previsto
 dalla  legge  n. 2892 del 1885) non e' disomogenea ed incoerente alla
 luce  della  gia'  vista  giurisprudenza  della  Corte,   non   senza
 considerare che anche il reddito catastale (come gia' previsto per il
 coacervo  dei  fitti dalla legge su Napoli) va moltiplicato per dieci
 anni. Giova rilevare in particolare che  secondo  la  cit.  sent.  n.
 1165/1988  la  media  con  il valore tabellare agricolo e' legittima,
 quando tale concorrente criterio sia inserito in un insieme che tiene
 conto del valore effettivo (analogamente  la  sent.  n.  231/1984  ha
 ritenuto  utilizzabile  il  valore  agricolo  purche' si tenga conto,
 insieme, del valore  effettivo;  cosi'  anche  secondo  la  sent.  n.
 15/1976   e'  possibile  il  riferimento  all'imponibile  catastale).
 Nemmeno ha poi pregio il profilo di censura secondo cui la menzionata
 ritenuta di imposta del 20% rappresenterebbe un ulteriore elemento di
 riduzione che porterebbe l'indennizzo al  di  sotto  del  livello  di
 congruita'.  Va infatti considerato che la illegittimita' denunziata,
 semmai, riguarderebbe la  norma  impositiva,  mentre  il  trattamento
 tributario  della  indennita' e' estraneo alla vicenda espropriativa.
 Quanto poi all'evidenziato riferimento  temporale  della  valutazione
 circa  la  edificabilita'  di  fatto al momento della apposizione del
 vincolo preordinato all'esproprio, riferimento che - secondo la Corte
 d'appello di Reggio Calabria - giocherebbe nel senso di far  dubitare
 anche    sotto    questo    ulteriore    profilo   della   congruita'
 dell'indennizzo, mette conto osservare che la censura e' sotto questo
 profilo   irrilevante   non   essendo   nella   specie   dedotta   la
 sopravvenienza,  medio  tempore, di un mutamento della edificabilita'
 di fatto.
    6.5. - Ulteriori censure poi investono il primo comma dell'art. 5-
 bis in riferimento  agli  artt.  3  e  53  della  Costituzione.    In
 relazione  al primo parametro si lamenta la disparita' di trattamento
 tra i proprietari di aree edificabili oggetto  del  provvedimento  di
 espropriazione   che   si   vedranno   liquidata   una  siffatta  non
 satisfattiva indennita' ed i proprietari di  aree  aventi  le  stesse
 caratteristiche  e  poste nella stessa zona, i quali possono disporne
 in regime di libera contrattazione e ottenere cosi' il  pieno  valore
 di  mercato.   Ma l'argomento allegato a sostegno della censura prova
 troppo.  Una volta affermata - come e' pacifico in  giurisprudenza  e
 come e' stato sopra esposto - che non necessariamente l'indennita' di
 espropriazione   deve   essere   pari   al  valore  venale  del  bene
 espropriato,  consegue  inevitabilmente   che   possa   esserci   una
 differenza  tra  tali  due termini; differenza che, nei confronti del
 proprietario espropriato, si  giustifica  come  limitazione  del  suo
 diritto  in  ragione  della  "funzione sociale" della proprieta'. Una
 volta verificata la compatibilita' con  l'art.  42,  comma  3,  della
 Costituzione  (e  quindi  la legittimita') di questo quid minoris che
 percepisce  il  soggetto  espropriato  non  puo'  poi  rinnovarsi  la
 valutazione  di  costituzionalita' sotto il profilo dell'art. 3 della
 Costituzione assumendo una pretesa  violazione  della  disparita'  di
 trattamento  rispetto  ai proprietari delle aree non espropriate.  Se
 la parita' di trattamento dovesse ritenersi assicurata unicamente ove
 al  proprietario  dell'area   espropriata   fosse   garantita,   come
 indennizzo,  la  stessa  attribuzione  economica che puo' conseguire,
 come corrispettivo, il proprietario  dell'area  non  espropriata,  si
 finirebbe per leggere nel terzo comma dell'art. 42 un criterio rigido
 e  vincolato:  l'indennita'  non  potrebbe essere altro che il valore
 venale.  Ma cosi' non e' per le ragioni gia'  indicate:  l'indennizzo
 puo'  risultare  da un criterio in cui il valore venale e' mediato, e
 quindi corretto, da altri concorrenti parametri.   Pertanto non  c'e'
 disparita'  di trattamento perche' diverse sono le situazioni poste a
 raffronto; in un caso, e non nell'altro, l'area edificabile  presenta
 il  connotato  dell'idoneita'  alla  realizzazione  (su  di  essa) di
 un'opera di pubblica utilita'; cio'  giustifica  la  diversita'  (tra
 l'altro)  della  ragione dell'attribuzione patrimoniale, compensativa
 nell'un caso e corrispettiva nell'altro della dismissione  del  bene,
 attribuzione costituita rispettivamente dall'"indennizzo" nell'ambito
 di  un  procedimento  espropriativo e dal "prezzo" nell'ambito di una
 compravendita.   Se quindi l'"indennizzo" e'  adeguato  ex  art.  42,
 comma 3, della Costituzione non puo' risultare sperequato per difetto
 ex  art.  3  della Costituzione (cfr. sent. n. 216/1990 nella quale -
 seppur con riguardo alla diversa questione di criteri di liquidazione
 differenziati - e' enunciato il principio che il  criterio  adottato,
 se  legittimo  in  relazione  all'art.  42,  lo e' anche in relazione
 all'art. 3).   Viceversa (e simmetricamente)  se  l'"indennita'"  non
 risponde  al  parametro  di  adeguatezza dell'art. 42, comma 3, della
 Costituzione, come nell'ipotesi di un  criterio  astratto  del  tutto
 sganciato  dal  valore  venale, risulta violato anche il principio di
 eguaglianza   perche'   viene   meno   la    giustificazione    della
 differenziazione  (ed  infatti  la  sentenza  n.  5/1980  - dopo aver
 ritenuto violato il primo parametro - ha accolto anche il profilo  di
 censura riferito all'art.  3 della Costituzione).
    6.6.  -  Una  questione  di  costituzionalita' contigua al profilo
 appena esaminato e' quella riferita all'art. 53 della Costituzione (e
 congiuntamente all'art. 3 della Costituzione): l'art. 5- bis cit.  e'
 censurato  nella  parte  in cui il proprietario del bene espropriato,
 per   effetto   della   riduttiva   quantificazione   dell'indennizzo
 spettantegli,  sarebbe  di  fatto chiamato a concorrere alla spesa di
 realizzazione dell'opera  pubblica  con  un  contributo  personale  e
 diretto,  oltre  che  in  ragione  della  sua  capacita' contributiva
 generale. E' sufficiente pero' rilevare  -  come  gia'  affermato  da
 questa  Corte  (sent.  n. 5/1960), seppur in epoca risalente - che la
 materia espropriativa e' estranea all'area di operativita'  dell'art.
 53  della Costituzione. Come appena evidenziato al paragrafo che pre-
 cede, se l'esistenza di una differenza tra indennita' espropriativa e
 valore venale del bene espropriato non  viola  l'art.  42,  comma  3,
 della   Costituzione,   e'   nell'ambito  dell'operativita'  di  tale
 parametro che  va  apprezzato  il  quid  minoris  non  percepito  dal
 proprietario  e  non e' invece possibile attribuire a tale differenza
 la natura tributaria cosi' da richiedere una seconda  verifica  della
 legittimita'  della  quantificazione dell'indennizzo sotto il diverso
 ed  ulteriore  profilo  della  capacita'  contributiva  del  soggetto
 espropriato.       In   realta'   la   verifica   della   adeguatezza
 dell'indennizzo si esaurisce nell'ambito dell'art. 42, comma 3, della
 Costituzione;  ci  si deve quindi arrestare alla considerazione che -
 una volta rispettato  il  canone  di  adeguatezza  espresso  da  tale
 parametro  - rientra nella discrezionalita' del legislatore fissare i
 criteri  di  determinazione  dell'indennita'  espropriativa   secondo
 generali  valutazioni  di  politica economico-finanziaria che possono
 tenere conto anche del fatto che la rendita di posizione, della quale
 e' parzialmente privato il soggetto espropriato, e' frutto  in  larga
 parte  -  oggi  piu'  ancora  che  in passato - di investimenti della
 collettivita' (elemento questo peraltro preso in considerazione anche
 in  occasione  di  precedenti  iniziative  legislative  in  tema   di
 espropriazione  -  non  pervenute  pero'  a  compimento - proprio per
 giustificare   l'abbattimento   percentuale   della   quantificazione
 dell'indennizzo).      Rimane   l'esigenza  generale  di  coerenza  e
 ragionevolezza  che  il  legislatore  deve  rispettare   sicche'   la
 determinazione   dell'indennita'   espropriativa   in   un  ammontare
 sensibilmente inferiore al valore venale potrebbe richiedere una piu'
 adeguata disciplina riequilibratrice (soprattutto fiscale) delle aree
 fabbricabili non assoggettate  ad  espropriazione;  profilo,  questo,
 peraltro estraneo alla normativa espropriativa in questione.
    7.1.  -  Occorre ora passare all'esame del secondo comma dell'art.
 5- bis - che dispone che "in ogni fase del procedimento espropriativo
 il soggetto espropriato puo' convenire  la  cessione  volontaria  del
 bene.  In  tal  caso non si applica la riduzione di cui al comma 1" -
 norma che e' censurata sotto piu' profili. E' evocato l'art. 24 della
 Costituzione  perche'  la  disposizione   censurata   condizionerebbe
 pesantemente  la  proposizione  della  opposizione  alla  stima,  con
 l'indurre il proprietario "ad accettare l'indennita'  determinata  in
 sede  amministrativa  anche  se  il  valore  venale  posto a base del
 calcolo e' inferiore a  quello  effettivo",  stante  che  l'eventuale
 recupero  di valore derivante dalla determinazione giudiziale sarebbe
 in tutto o  in  notevole  parte  vanificato  dall'applicazione  della
 riduzione  del  quaranta  per  cento.  Analogamente  viene richiamato
 l'art. 113 della  Costituzione,  per  la  parallela  remora,  che  ne
 consegue,  anche nei confronti della tutela degli interessi legittimi
 avverso provvedimenti della P.A.    Si  sospetta  poi  la  violazione
 dell'art. 3 della Costituzione, sia per l'irragionevole disparita' di
 trattamento  tra  chi  al  momento  della  entrata  in  vigore  della
 normativa censurata ha gia' subito l'espropriazione e non  puo'  piu'
 convenire  la cessione volontaria del bene e chi invece non e' ancora
 colpito dal provvedimento  ablativo  e  puo'  addivenire  alla  detta
 cessione volontaria senza subire la riduzione del quaranta per cento;
 sia  per  disparita'  di  trattamento tra espropriato che convenga la
 cessione del bene ed espropriato che proponga  viceversa  opposizione
 alla stima ed impugni il decreto di espropriazione. Infine il secondo
 comma  dell'art. 5- bis e' censurato in riferimento all'art. 42 comma
 3  della  Costituzione,  in  quanto   il   previsto   meccanismo   di
 subordinazione  dell'esonero dalla riduzione del 40% della indennita'
 alla accettazione della stima provvisoria indicata dall'espropriante,
 ovvero  della  indennita'  definitiva   fissata   dalla   Commissione
 Provinciale,   avrebbe   un  sostanziale  carattere  sanzionatorio  e
 punitivo nei confronti dell'espropriato (che non accetti l'indennita'
 offertagli), facendo cosi' convergere nell'indennizzo una  "finalita'
 afflittiva" estranea alla previsione del precetto costituzionale.
   7.2.    -    Va    preliminarmente   considerata   l'eccezione   di
 inammissibilita' della Avvocatura dello Stato  per  essere  la  norma
 censurata   inapplicabile   nei   giudizi  a  quibus  che  concernono
 procedimenti espropriativi in cui e' gia' intervenuto il  decreto  di
 esproprio  e  nei  quali  quindi  non  e'  piu' possibile la cessione
 volontaria (l'eccezione e' pertinente a tutti  i  giudizi,  ancorche'
 formulata  solo  in  alcuni  di  essi,  giacche'  in  tutti  e'  gia'
 intervenuta l'espropriazione).  Deve a questo proposito  considerarsi
 che  nelle  censure  mosse  dalle  Corti  rimettenti al secondo comma
 dell'art. 5- bis possono enuclearsi due distinti  profili:  uno  piu'
 particolare,  che  attiene  al  fatto che i soggetti gia' espropriati
 risultano esclusi  dalla  possibilita'  di  ricorrere  alla  cessione
 volontaria per sottrarsi alla riduzione del 40%, ed uno piu' generale
 che  riguarda  la  disciplina  della cessione volontaria; distinzione
 questa che si rende necessaria  perche'  diversa  e'  la  valutazione
 della  rilevanza delle censure di costituzionalita'che investono, pur
 sotto  distinte  prospettive,  la  medesima  disposizione  in  esame.
 Infatti l'eccezione di difetto di rilevanza sollevata dall'Avvocatura
 non  e'  fondata  se  riferita  al primo profilo di costituzionalita'
 giacche' - pur vertendosi in tutti i giudizi a quibus in  ipotesi  di
 procedimenti espropriativi conclusi e non gia' in itinere sicche' non
 e'  piu'  ipotizzabile  una  cessione  volontaria essendosi l'effetto
 traslativo realizzato con il provvedimento ablativo -  la  disciplina
 del  secondo  comma  cit.  viene direttamente in rilievo in quanto le
 ordinanze  dei  giudici  rimettenti   mirano   proprio   a   superare
 l'esclusione    dei    soggetti   gia'   espropriati   dall'area   di
 applicabilita' della disposizione  stessa.  La  quale  infatti  viene
 censurata dalla Corte d'appello di Bologna e dalla Corte d'appello di
 Palermo per la (assunta) disparita' di trattamento tra chi al momento
 dell'entrata  in vigore della stessa ha gia' subito l'esproprio e chi
 invece non e'  stato  ancora  raggiunto  dal  provvedimento  ablativo
 giacche'  quest'ultimo  puo'  convenire  la cessione volontaria senza
 subire la riduzione del 40%, mentre  il  primo  e'  escluso  da  tale
 possibilita'.  L'obiettivo  di  entrambe le ordinanze - ancorche' non
 esplicitato ma non di meno  palese  -  e'  quello  di  una  pronuncia
 additiva  che, incidendo sul secondo comma cit., consenta ai soggetti
 gia' espropriati di sottrarsi alla falcidia della riduzione del  40%.
 Tale  censura va quindi intesa come rivolta non tanto a conseguire la
 estensione anche ai gia' espropriati del diritto di imporre alla P.A.
 la cessione volontaria (per  un  corrispettivo  pari  alla  semisomma
 determinata  secondo i criteri del primo comma, ma senza la riduzione
 del  40%),  estensione  non  possibile  per  il  principio   di   non
 contraddizione  che  non consente al soggetto di cedere il diritto di
 proprieta' di  cui  e'  gia'  stato  privato  in  forza  del  decreto
 autoritativo  di esproprio, quanto piuttosto a permettere comunque ai
 gia' espropriati il conseguimento del risultato economico  consentito
 ai  non  ancora  espropriati.  Si  addebita, cioe', al legislatore la
 omissione della previsione di uno strumento negoziale che -  coerente
 alla  situazione in cui tali soggetti versano - sia altresi' idoneo a
 conseguire lo stesso vantaggio economico conseguibile dai non  ancora
 espropriati mediante la cessione volontaria.
    7.3.  -  In  questi  termini,  la censura e' fondata.   Non appare
 infatti  ragionevole  che  il  legislatore  -  nel   predisporre   un
 meccanismo  negoziale,  alternativo al procedimento autoritativo e di
 natura  sostanzialmente  transattiva,  finalizzato  a  conseguire  un
 effetto  deflattivo  del contenzioso ed acceleratorio delle procedure
 mediante la offerta al proprietario di un quid pluris  rispetto  alla
 somma  da lui conseguibile nell'ambito della procedura autoritativa -
 abbia omesso di considerare la situazione di quei soggetti che,  gia'
 espropriati  al  momento  della  entrata in vigore della legge, hanno
 tuttavia ancora pendente il contenzioso relativo alla  indennita'.  E
 la non ragionevolezza della omissione si appalesa ancor piu' evidente
 se  si  considera  che  si tratta di soggetti, in favore dei quali al
 momento  della   espropriazione   era   prevista   dalla   legge   la
 corresponsione  di  una somma pari al pieno valore venale del bene, e
 che invece - per effetto del combinato giuoco, da un lato, della gia'
 intervenuta espropriazione alla data di entrata in vigore della nuova
 legge e, dall'altro, della applicazione di questa  anche  ai  giudizi
 pendenti  - vengono contemporaneamente a subire la forte riduzione di
 oltre due terzi di quella somma ed a vedersi preclusa la possibilita'
 di fruire, se lo vogliono, del non indifferente incremento  collegato
 dalla nuova legge alla definizione negoziale della vicenda.  Deve poi
 tenersi   conto   che   nel  bilanciamento  complessivo  operato  dal
 legislatore la speciale disciplina della cessione  volontaria  svolge
 anche un ruolo di contrappeso del (nuovo) meno favorevole criterio di
 determinazione  dell'indennita'  di  espropriazione.  E  pure  se  le
 ragioni esposte al paragrafo  n.  6.3,  che  precede,  consentono  di
 ritenere  che  non di meno tale criterio e' compatibile con il canone
 di adeguatezza dell'indennizzo  desumibile  dall'art.  42,  comma  3,
 della  Costituzione, e' vero che ad esso si affianca un criterio piu'
 vantaggioso (quello della  semisomma  piena)  sol  che  l'espropriato
 (secondo  la  tradizionale terminologia del legislatore, ma - recte -
 l'espropriando)  addivenga  alla  cessione  del  bene,  oggetto   del
 procedimento  espropriativo.    Non  a  caso quando il legislatore ha
 adottato  l'analogo  criterio  (della  semisomma  ridotta)   per   la
 determinazione    dell'indennita'    di    espropriazione   nell'area
 metropolitana di Roma (art. 7, comma 1, legge n.  396  del  1990)  ha
 anche abbinato (al secondo comma) un criterio piu' favorevole in caso
 di  cessione volontaria con la previsione dell'inapplicabilita' della
 riduzione del 40%.  E la Corte (sent. n.  1022/1988)  ha  valorizzato
 questo   nesso  puntualizzandone  l'aspetto  funzionale;  ha  infatti
 affermato che quando si adotta un criterio risultante  da  una  media
 "la   maggiorazione   per   la   cessione  volontaria  da  parte  del
 proprietario ha una sua peculiare funzione nel senso  che  la  spinta
 della   valutazione   verso   valori   piu'  vicini  a  quelli  reali
 contribuisce ad accelerare  l'acquisizione  del  bene  espropriando".
 Orbene,   pur   potendo  il  nuovo  meno  favorevole  criterio  avere
 applicazione retroattiva (per quanto si dira' infra al  paragrafo  n.
 9),  non  e'  pero'  consentito  scindere  questo parallelismo per la
 contraddizione intrinseca (e quindi il difetto di ragionevolezza) che
 ne deriverebbe giacche' tra il vecchio piu' favorevole  criterio  del
 valore  venale  -  applicabile  (o,  meglio,  applicato)  ai rapporti
 esauriti (o dove ci siano preclusioni processuali) - ed il nuovo meno
 favorevole criterio della semisomma ridotta ed alternativamente della
 semisomma piena in caso  di  cessione  volontaria  -  applicabile  ai
 procedimenti  espropriativi  in corso (oltre, come e' ovvio, ai nuovi
 procedimenti espropriativi) - si collocherebbe di fatto un  ulteriore
 criterio   (quello   esclusivamente  della  semisomma  ridotta)  piu'
 sfavorevole  di  entrambi,  applicabile  ad  una  residua  fascia  di
 espropriazioni: quelle, appunto,  per  le  quali  e'  intervenuto  il
 decreto  di esproprio, ma il rapporto non e' ancora esaurito.  Quindi
 sulla linea di confine, che dovrebbe vedere la saldatura della  nuova
 disciplina  alla vecchia, c'e' invece uno iato, una frattura, dove il
 bilanciamento operato dal legislatore ha un temporaneo e  contingente
 irrigidimento  in termini meno favorevoli per gli espropriati per poi
 risalire a quel livello (peraltro gia'  fortemente  restrittivo)  che
 risponde  alle  valutazioni  economico-politiche  sottese  alla norma
 censurata.   Questa frattura non puo'  avere  altra  motivazione  che
 quella   tecnico-giuridica   della   impossibilita'   della  cessione
 volontaria quando sia intervenuto il decreto di esproprio. Ma non  e'
 questa  una  ragione  sufficiente a giustificare un trattamento cosi'
 fortemente differenziato, tenuto  conto  della  preminente  finalita'
 transattiva   in   ordine   proprio  alla  determinazione  dell'onere
 economico dell'acquisizione  dell'area  fabbricabile,  quale  sottesa
 alla norma censurata.  La circostanza che il decreto di esproprio sia
 stato gia' emesso avrebbe dovuto comportare non gia' l'esclusione, ma
 la  riduzione  della  fattispecie  agevolata;  nel senso che - per le
 situazioni di diritto transitorio - in presenza di  tale  circostanza
 la  fattispecie  della  cessione  volontaria,  connotata dal consenso
 dell'espropriando sia sul trasferimento dell'area,  sia  sul  quantum
 spettantegli,  ben  puo'  "ridursi"  - senza alterare la sostanza del
 meccanismo transattivo - in una fattispecie piu'  semplice  connotata
 dalla  attribuzione  al  soggetto  gia'  espropriato  del  diritto di
 accettare la indennita' di espropriazione di cui al primo  comma  con
 esclusione  della  riduzione  del 40%, ferma restando l'acquisizione,
 per  ablazione,  dell'area.    Ne'  potrebbe  obiettarsi  -  come  fa
 l'Avvocatura  - che la facolta' di cessione volontaria gia' c'era nel
 regime precedente (legge n.  865/71) e di essa  gli  espropriati  non
 avevano inteso fruire. Infatti - pur potendo dubitarsi dell'esattezza
 del  presupposto  interpretativo  da  cui  muove  l'Avvocatura avendo
 questa Corte (sent. 1022/1988) affermato che la  cessione  volontaria
 ex  art.  12 della legge n. 865 del 1971, dopo gli interventi operati
 con le sentenze nn. 5/1980 e 223/1983 cit., non e'  piu'  applicabile
 alle   espropriazioni   di  immobili  con  destinazione  edificatoria
 giacche' non e' ipotizzabile una maggiorazione dell'indennizzo quando
 questo e' pari al valore venale - e' agevole comunque  osservare  che
 sono  mutati  i  termini di raffronto giacche' al criterio del valore
 venale  si  e'  sostituito  quello  della  semisomma  ridotta.     La
 possibilita'  di  riduzione  della  fattispecie  assicura  poi che la
 pronuncia additiva si  innesta  sulla  norma  censurata  seguendo  un
 binario obbligato. Si impone quindi una dichiarazione di parziale sua
 illegittimita'  nella parte in cui non prevede in favore dei soggetti
 gia' espropriati al momento della entrata in vigore  della  legge  n.
 359   del   1992,   e  nei  confronti  dei  quali  la  indennita'  di
 espropriazione non sia ancora divenuta incontestabile, il diritto  di
 accettare  l'indennita'  di  cui  al primo comma con esclusione della
 riduzione del 40%.
    7.4. - Le altre  censure  che  investono  il  secondo  comma  cit.
 riguardano   -  come  gia'  detto  -  la  disciplina  della  cessione
 volontaria.  Ma  tali  censure  -  come   esattamente   ha   eccepito
 l'Avvocatura  dello Stato - difettano di rilevanza perche' in nessuno
 dei giudizi a quibus si fa  questione  di  cessione  volontaria;  ne'
 potrebbe  farsene  perche', essendo gia' intervenuto il provvedimento
 ablatorio, si e' realizzato l'effetto traslativo onde non  c'e'  piu'
 spazio  per  un  trasferimento del medesimo bene su base consensuale.
 Sicche', quand'anche le censure si rivelassero fondate ed imponessero
 una pronuncia demolitoria dell'istituto, nessuna conseguenza potrebbe
 derivarne nei giudizi a quibus.   Ne' il difetto  di  rilevanza  puo'
 dirsi  emendato per effetto della pronuncia di incostituzionalita' di
 cui al precedente paragrafo.   Poiche', infatti, la  possibilita'  di
 accettare   l'indennita'   di  espropriazione  rappresenta  un  minus
 rispetto  alla  cessione  volontaria,  la  mancanza  di   una   piena
 sovrapposizione  dell'una  all'altra  impone  di tener distinti i due
 profili con la conseguenza che le censure che investono la disciplina
 della cessione volontaria possono riguardare soltanto fattispecie  in
 cui  di tale cessione volontaria si controverta e non anche quelle in
 cui  -  essendosi  gia'  realizzato  l'effetto  traslativo  dell'area
 edificabile  - si controverta unicamente della misura dell'indennita'
 di espropriazione.
    8. - Deve ora esaminarsi la censura che investe  il  comma  quinto
 dell'articolo  citato, che demanda ad un regolamento, da emanarsi con
 decreto del Ministero dei lavori pubblici, di definire i criteri ed i
 requisiti per la individuazione della edificabilita' di  fatto.  Tale
 disposizione,  secondo i giudici rimettenti, si pone in contrasto sia
 con l'art.  42,  comma  2,  della  Costituzione,  per  non  avere  il
 legislatore  fissato  i  criteri  direttivi  cui  deve conformarsi il
 potere esecutivo, cosi' sostanzialmente violando la riserva di  legge
 (se  pur  relativa) esistente in materia; sia con gli artt. 42, comma
 3, e 24 della Costituzione per la mancata indicazione di  un  termine
 entro  cui  il regolamento deve essere emanato; sia infine con l'art.
 117 della Costituzione, per la ragione che la definizione dei criteri
 di  edificabilita'  (rimessa  alla   regolamentazione   ministeriale)
 rientrerebbe viceversa nella competenza legislativa della Regione, in
 materia  di  "attivita' costruttiva edilizia".   Con riferimento alla
 questione di costituzionalita' sollevata  dalla  Corte  d'appello  di
 Bologna (che prospetta la vulnerazione degli artt. 42, commi 2 e 3, e
 24,   comma  1,  della  Costituzione)  va  preliminarmente  esaminata
 l'eccezione di difetto di rilevanza, sollevata dall'Avvocatura  dello
 Stato,  secondo cui dalla ordinanza risulterebbe trattarsi di terreno
 legalmente  edificabile  in   forza   dello   strumento   urbanistico
 impositivo  del  vincolo sicche' non verrebbe in rilievo la eventuale
 edificabilita' di fatto.  La questione e' in effetti irrilevante; non
 tanto per la ragione indicata dall'Avvocatura (giacche' non rileva lo
 strumento urbanistico impositivo del vincolo  espropriativo,  da  cui
 bisogna prescindere nella valutazione della edificabilita', dovendosi
 invece   fare  riferimento  al  regime  precedente),  quanto  perche'
 l'ordinanza nulla dice in ordine ad  un'ipotetica  edificabilita'  di
 fatto,  in  concreto  sopravvenuta,  che  rappresenta l'indefettibile
 presupposto perche' possa avere ingresso la censura mossa dalla Corte
 d'appello di Bologna.   Quanto poi  alla  questione  sollevata  dalla
 Corte  d'appello  di  Cagliari  nessuna  eccezione  di irrilevanza e'
 sollevata dall'Avvocatura ed in effetti dalla ordinanza  risulta  che
 si  controverte  proprio  in materia di edificabilita' di fatto.  Con
 tale ordinanza  la  Corte  rimettente  ha  denunziato  la  violazione
 dell'art. 117 della Costituzione (parametro al quale e' riconducibile
 anche  il  richiamo,  che la parte costituita fa all'art. 3, lett. f,
 dello  Statuto  di  autonomia  della  Sardegna).  La questione non e'
 fondata perche' non  si  versa  in  materia  urbanistica  essendo  la
 nozione  di  edificabilita'  di  fatto (cui si riferisce la delega al
 Ministro)  finalizzata  soltanto  al   calcolo   dell'indennita'   di
 espropriazione  e  non  gia' ad incidere sull'assetto normativo posto
 dai  vigenti   strumenti   urbanistici.   Il   decreto   ministeriale
 costituisce  uno  strumento  meramente  qualificatorio del terreno ai
 fini della indennita' di espropriazione e non  gia'  conformativo  ai
 fini  urbanistici;  esso  deve  intendersi  diretto  a  consentire di
 considerare  nel  procedimento  espropriativo  (proprio  al  fine  di
 evitare  che  il parametro di calcolo dell'indennita' possa risultare
 astratto ove sganciato dalla situazione concreta) quella  particolare
 "posizione"  dell'area,  gia' apprezzata dal libero mercato, che puo'
 conferire contenuto economico - in termini di valore venale  -  anche
 alla mera vocazione edificatoria dei terreni. Cio' quindi vale solo a
 rendere  "concreto"  il  parametro di calcolo dell'indennita', ma non
 altera la disciplina urbanistica (nel senso che non rende edificabili
 aree che tali non siano alla stregua di quest'ultima) e quindi,  meno
 che  mai,  puo'  negativamente incidere sulle competenze regionali in
 materia.
    9. - L'ultima censura investe la disposizione transitoria, di  cui
 al  comma  sesto  (e  settimo)  del predetto art. 5- bis, che prevede
 l'applicazione retroattiva della nuova normativa nei "procedimenti in
 corso": e' sospettata la vulnerazione dell'art. 3 della  Costituzione
 per  la irragionevole e grave disparita' di trattamento, che cosi' si
 determina, tra gli espropriati che hanno accettato la indennita' loro
 proposta, convenendo la cessione  volontaria,  o  nei  confronti  dei
 quali la indennita' sia divenuta non impugnabile o sia stata definita
 con  sentenza passata in giudicato prima dell'entrata in vigore della
 legge di conversione, e gli altri soggetti "espropriati con lo stesso
 procedimento di espropriazione, le cui opposizioni  alla  stima,  per
 vicissitudini  giudiziarie  non imputabili agli stessi opponenti, non
 siano ancora concluse con sentenza passata  in  giudicato  e  che  si
 vedranno   quindi  applicare  il  nuovo  criterio  di  determinazione
 dell'indennita', venendo cosi' a percepire soltanto il 30%  circa  di
 quanto hanno percepito i primi". La disparita' di trattamento e' piu'
 in  particolare denunziata tra i proprietari assoggettati allo stesso
 procedimento di espropriazione, per alcuni dei quali l'indennita'  e'
 stata  definita  prima  della  entrata in vigore della nuova legge (e
 quindi alla stregua del ragguaglio al valore  venale  pieno),  mentre
 per  altri,  con  indennita'  non  ancora definita per accidentalita'
 procedimentali o processuali, diventa applicabile il  nuovo  criterio
 in  base  al quale essi vengono a percepire soltanto il 30% di quanto
 (a parita' di valore) hanno percepito i primi.  Pertanto la questione
 non riguarda la possibilita' o meno di cedere in conseguenza del  non
 esservi  o dell'esservi gia' stata la espropriazione (sopra esaminata
 al paragrafo n. 7.3); ma riguarda invece  l'applicabilita',  o  meno,
 del  nuovo  criterio  di  determinazione della indennita' secondo che
 l'indennita' sia  divenuta  incontestabile  prima  della  entrata  in
 vigore della nuova legge ovvero a tale momento sia ancora sub iudice.
 Nei   termini  cosi'  puntualizzati  la  questione  non  e'  fondata.
 Infatti, come esattamente ha rilevato la Avvocatura dello  Stato,  si
 tratta  di differenziazione dipendente dalla successione di leggi nel
 tempo.  Questa Corte (sentt. nn. 39 del 1993; n. 155  del  1990;  91,
 123,  754  e 822 del 1988; 36 del 1985) ha piu' volte ribadito che il
 legislatore - salvo l'espresso limite  previsto  dall'art.  25  della
 Costituzione  in  materia  penale  -  puo', nell'introdurre una nuova
 disciplina,  disporne  la   operativita'   anche   per   il   passato
 prevedendone   la   efficacia  retroattiva.  L'irretroattivita',  pur
 costituendo un principio del nostro ordinamento (art.  11  preleggi),
 non  e'  elevato,  fuori  dalla  materia penale, al rango di generale
 canone  costituzionale  (sent.  n.  155/1990)  ed  "e'  rimessa  alla
 valutazione   del   legislatore   la  scelta  tra  retroattivita'  ed
 irretroattivita'in ordine ai fini che  intende  raggiungere,  con  il
 solo   limite   che   non   siano   contraddetti  principi  e  valori
 costituzionali"  (sent.  n.  190/1988).  Quindi  e'   possibile   una
 disciplina  a  carattere retroattivo che incida sfavorevolmente anche
 su posizioni di diritto soggettivo perfetto; e' pero' necessario  che
 non  risultino  violati  specifici  canoni  costituzionali, primo tra
 tutti quello  della  ragionevolezza  che  ridonda  in  ingiustificata
 disparita'  di  trattamento  (art.  3  della Costituzione) sicche' la
 riconosciuta retroattivita' della disposizione non  puo'  "trasmodare
 in  un  regolamento  irrazionale  ed  arbitrariamente  incidere sulle
 situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti" (sent. n.
 822/1988).  Nella fattispecie, non vertendosi in materia  penale,  e'
 in   generale   consentito  al  legislatore  di  adottare  una  nuova
 disciplina dell'indennita' espropriativa  con  efficacia  retroattiva
 non  essendo  in  particolare  vulnerato  - per quanto sopra detto al
 paragrafo n. 6.3 - il canone dell'obbligo di indennizzo  in  caso  di
 espropriazione  (art.  42,  comma  3,  della  Costituzione). Ne' tale
 retroattivita' confligge con il principio di ragionevolezza  giacche'
 da    tempo    in    materia,   per   effetto   delle   pronunce   di
 incostituzionalita' n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983,  si  versava  in
 una situazione di carenza normativa, colmata dalla giurisprudenza con
 il  ricorso  al  risalente  criterio dettato dall'art. 39 della legge
 generale del 1865, criterio che  il  legislatore  gia'  aveva  inteso
 superare  con  la legge n. 865 del 1971 e che non poteva non apparire
 datato giacche' questa Corte ha piu' volte affermato che  la  nozione
 di  "indennizzo" di cui all'art.  42, comma 3, della Costituzione non
 coincide  con  quello  di  valore  venale.    Ben  poteva  quindi  il
 legislatore  colmare,  anche  per  il passato, tale risalente carenza
 normativa  con  l'attribuire   efficacia   retroattiva   alla   nuova
 disciplina   dell'indennita'  espropriativa  non  costituendo  limite
 invalicabile  di  tale  sua  facolta'  di  scelta  l'aspettativa  dei
 titolari  di  aree  fabbricabili  di  vedersi liquidata la indennita'
 espropriativa secondo un criterio (quello del valore venale) per essi
 piu' favorevole di quello con cui lo stesso legislatore ha  ritenuto,
 nell'attuale  momento,  di  realizzare  il  giusto  bilanciamento tra
 interesse pubblico ed interesse privato, senza incorrere, come si  e'
 visto,   nelle  denunziate  violazioni  di  principi  costituzionali.
 Viceversa, una volta che la indennita'  sia  divenuta  incontestabile
 (vuoi  perche' si sia formato un giudicato, vuoi perche' si siano de-
 terminate delle preclusioni), il  relativo  rapporto  e'  esaurito  e
 quindi  e' conforme ai principi che sfugga alla incidenza della nuova
 disciplina.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi:
       a)   dichiara   l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  5-
 bis,comma 2, del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito, con
 modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n. 359 (Misure  urgenti  per
 il risanamento della finanza pubblica) nella parte in cui non prevede
 in  favore  dei soggetti gia' espropriati al momento della entrata in
 vigore della legge n. 359 del 1992, e  nei  confronti  dei  quali  la
 indennita'  di espropriazione non sia ancora divenuta incontestabile,
 il diritto di accettare  l'indennita'  di  cui  al  primo  comma  con
 esclusione della riduzione del 40%;
       b)   dichiara   inammissibili   le   ulteriori   questioni   di
 costituzionalita' dell'art. 5- bis, comma 2,  del  decreto  legge  11
 luglio  1992  n.  333,  convertito,  con modificazioni, nella legge 8
 agosto 1992 n. 359 (Misure urgenti per il risanamento  della  finanza
 pubblica),  sollevate, con riferimento agli artt. 3, 24, 42, comma 3,
 e 113 della Costituzione, dalle Corti  d'appello  di  Torino,  Reggio
 Calabria,  Bologna,  Palermo  e Cagliari con le ordinanze indicate in
 epigrafe;
       c) dichiara inammissibili  le  questioni  di  costituzionalita'
 dell'art. 5- bis del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333; dell'art. 1
 della  legge  di conversione 8 agosto 1992 n. 359 (Misure urgenti per
 il risanamento della finanza pubblica) e  dell'art.  15  n.  5  della
 legge  23 agosto 1988 n. 400 (Disciplina dell'attivita' di Governo ed
 ordinamento della Presidenza del Consiglio dei  Ministri)  sollevate,
 con  riferimento  agli  artt. 71 e 72 della Costituzione, dalla Corte
 d'appello di Cagliari con l'ordinanza indicata in epigrafe;
       d) dichiara inammissibili  le  questioni  di  costituzionalita'
 dell'art.  5-  bis, comma 5, del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333,
 convertito, con modificazioni, nella  legge  8  agosto  1992  n.  359
 (Misure   urgenti   per   il  risanamento  della  finanza  pubblica),
 sollevate, con riferimento agli artt. 24, comma 1, e 42, commi 2 e 3,
 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Bologna con  l'ordinanza
 indicata in epigrafe;
       e)  dichiara  non  fondate  le  questioni  di costituzionalita'
 dell'art. 5- bis, commi 1, 5, e 6, del decreto legge 11  luglio  1992
 n.  333,  convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n.
 359 (Misure urgenti  per  il  risanamento  della  finanza  pubblica),
 sollevate,  con riferimento agli artt. 3, 42, comma 3, 53 e 117 della
 Costituzione, dalle Corti d'appello  di  Cagliari,  Reggio  Calabria,
 Torino, Bologna e Palermo con le ordinanze indicate in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 10 giugno 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                         Il redattore: GRANATA
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 16 giugno 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0673