N. 430 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 maggio 1993
N. 430 Ordinanza emessa il 26 maggio 1993 dal pretore di Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli, nel procedimento civile vertente tra Dinacci Filippo e il comune di Procida ed altra Amministrazione pubblica - Ente pubblico (nella specie: comune di Procida) in stato di definitiva impotenza ad adempiere le proprie obbligazioni - Previsto assoggettamento ad una procedura di tipo concorsuale in contrasto con i principi che vietano l'assoggettabilita' della p.a. a tale tipo di procedura - Ingiustificata contestuale previsione, a scapito dei creditori, di una serie di privilegi per la p.a.: 1) prevista estinzione obbligatoria delle procedure esecutive pendenti in luogo della semplice improseguibilita' dell'azione esecutiva; 2) impossibilita' per il creditore di agire per l'inserimento del proprio credito nella massa passiva del piano di estinzione; 3) prevista restituzione dei beni pignorati alla p.a. debitrice; 4) inoppugnabilita' della prevista ordinanza d'estinzione delle procedure esecutive pendenti - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa e sul principio della libera iniziativa economica. (D.L. 18 gennaio 1993, n. 8, art. 21, convertito in legge 19 marzo 1993, n. 68). (Cost., artt. 2, 3, secondo comma, 24, 28, 41 e 113; c.c. art. 2082; r.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1; c.p.c. artt. 826, 828, 830, ultimo comma, 514 e 545; c.c. art. 2740; r.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 51; legge 20 marzo 1965, n. 2247, art. 4, dell'all. E); r.d. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 92, 93 e 98; c.p.c. artt. 632, 617, 629 e 630).(GU n.35 del 25-8-1993 )
IL VICE PRETORE ORDINARIO Ha pronunziato in data 12 maggio 1993 la seguente ordinanza nel procedimento esecutivo, iscritto nel r.g. es. al n. 237/19/91 tra Dinacci Filippo, quale procuratore di se stesso, con studio in Napoli, alla via F.S. Lomonaco, 3, esecutante, contro il comune di Procida, in persona del suo sindaco pro-tempore, domiciliato presso la casa municipale dell'ente, assistito dall'avv. Enrico Scotto di Carlo, con studio in Procida alla via G. da Procida, 20, esecutato, e S.p.a. Banco di Napoli, agenzia di Procida, nella qualita' di tesoriere, in persona del suo legale rapp.te pro-tempore con sede in Procida, terzo; Premesso che il creditore procedente, in forza di titolo esecutivo con fonte giudiziale - giudicato -, di condanna del comune di Procida, con atto del 29 gennaio 1991, assoggettava a pignoramento le somme in possesso del tesoriere, appartenenti all'ente comunale debitore detto; che questo giudice s'e' riservato di provvedere nella presente procedura, come in altre, contro la medesima p.a. debitrice; che il comune di Procida, mentre nella presente procedura e' comparso, senza opporsi, in altre ha proposto opposizione ( ex art. 615, secondo comma, del c.p.c.) invocando, l'applicazione dell'art. 25 della legge n. 144/1989 e dell'art. 16 del d.l. n. 440 del 19 novembre 1992, avendo gia' deliberato il piano di risanamento, ex art. 25 citato; Rilevato che i giudici di questa pretura, in altre controversie, in applicazione del combinato disposto di cui alle citate norme, nonche' dell'art. 12- bis della legge n. 80/1991 e della circolare ministeriale del 15 maggio 1991, f.l. n. 19/1991 del Ministro dell'interno hanno ritenuto: a) l'obbligo, per la p.a. debitrice, di procedere al riconoscimento del debito portato dal giudicato ( ex art. 12- bis della legge n. 80/1991), e, conseguentemente, quello di inserimento del debito nella massa passiva del piano di estinzione; b) che solo in presenza di tale riconoscimento e dell'inserimento del debito nel piano detto, puo' pararsi di fronte la necessita' di valutare l'istanza, avanzata dal debitore, volta alla declaratoria di "cessazione" della procedura esecutiva, secondo l'art. 16 del d.l. n. 440/1992; Rilevato che detta disposizione (art. 16) e' stata, prima riprodotta con il d.l. n. 8/1993 (art. 21) e, quindi, convertita in legge (legge n. 68/1993) ma con modificazioni e che, per il richiamo contenuto all'ottavo comma, le previsioni dell'art. 21 si applicano anche al comune di Procida, debitore escusso, che delibero' l'adozione del piano di risanamento, prima dell'entrata in vigore dell'art. 21 citato; Rilevato che il terzo, all'udienza fissata per la sua comparizione (4-5-92), ha dedotto sullo stato di dissesto della p.a. ed ha reso una dichiarazione di quantita' (che va interpretata come) positiva, mentre la p.a. debitrice (comparsa con l'assistenza di un difensore) non ha comunicato se abbia o meno inserito, previo riconoscimento, il debito nel piano di estinzione; Rilevato che l'art. 21 della legge n. 68/1993, con la previsione: "sono dichiarate estinte dal giudice, previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure esecutive pendenti e non possono essere promosse nuove azioni esecutive" (a differenza dalla previsione di cui all'art. 21 del d.l. n. 8/1993, secondo cui dalla data di deliberazione di dissesto "cessano le azioni esecutive"), esclude categoricamente la possibilita' di interpretare la norma, nel senso di potere subordinare la declaratoria di "cessazione" della procedura esecutiva alla verifica dell'inserimento del debito nel piano di estinzione e lascia intendere che i conseguenti rilievi possano essere tutti di "ufficio"; e cio' perche' pare chiaro che la norma, oggi, ed inequivocabilmente, instituisce il principio dell'inammissibilita' assoluta delle azioni esecutive individuali, mentre l'art. 21 del d.l. n. 8/1993, da un lato, si limitava a prevedere la "cessazione" delle procedure esecutive, sicche', non potendo cessare cio' che non aveva avuto inizio, ne legittimava la promuovibilita': (cfr. al riguardo i precedenti giurisprudenziali di questa stessa pretura: ord. 14 gennaio 1993, r.g. es. 178/19/92 in proc. IdealFood/comune Procida; ordinanza 15-18 marzo 1993, r.g. es. 1080-1081-1082/19/9z2 in proc. Edilsigma/comune Procida) e, dall'altro, subordinava la declaratoria di cessazione detta all'inserimento del debito del piano di estinzione, per effettuare il quale l'ente poteva invocare la sospensione della procedura esecutiva (art. 25 della legge n. 144/1989); Rilevato che, alla luce delle modificazioni apportate dal legislatore all'art. 21 citato, in sede di conversione in legge del d.l. n. 8/1993, va rivisitata l'intera impostazione interpretativa della norma che, in punto di ammissibilita' dell'esecuzione, nei confronti di una p.a. debitrice, incide sino a sconvolgere l'orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulla materia (compreso quello dei giudici di questa pretura; vedi i riferimenti sopra citati) ed i principi espressi dalla Corte costituzionale; sicche' si impone un approfondimento che, come si vedra', pero', non potra' condurre a definitive interpretazioni, senza l'intervento indispensabile della Corte costituzionale al riguardo e sotto i piu' profili della norma che l'interpretazione induce a ritenere che sia sospetta di incostituzionalita', emergendo chiara la rilevanza delle questioni, sul giudizio in corso; giudizio che l'art. 21 citato imporrebbe di definire con una mera pronunzia (di rito) di estinzione del processo, seppure in mancanza di opposizione o anche di semplici istanze al riguardo. Primo profilo di sospetta incostituzionalita' Non si e' mai sospettato (anzi e' stato sempre escluso) che una p.a. potesse, pur trovandosi in uno stato di definitiva impotenza patrimoniale ad adempiere integralmente ed immediatamente le proprie obbligazioni, essere soggetta ad una esecuzione collettiva e, meno che mai, ad una procedura di tipo concorsuale. La ratio di tale principio si collega alla logica che, se l'inadempienza e' un fatto illecito, che lede l'interesse del creditore insoddisfatto, non e' tollerabile che una p.a. possa essere protagonista del fatto illecito detto, visto che la stessa (p.a.) e', poi, preposta istituzionalmente ad evitare che vengano commessi fatti illeciti e, quindi, a garantire che non vengano commessi tali fatti. La norma in esame, invece, collide con i principi, espressi sul tema in numerose decisioni dalla Corte costituzionale, sottrae la p.a. dalla posizione istituzionale di garante ed assimila (rectius: tenta di assimilare) addirittura l'attivita' della stessa a quella di un soggetto-imprenditore privato debitore; cio' ingiustificatamente e, per giunta, con una serie di privilegi, per la p.a., che non trovano giustificazione alcuna, come appresso dovra' dirsi. Ripugna, peraltro, alla coscienza giuridica l'idea che una p.a. possa "dissestare" (rectius: fallire o liquidare) in senso stretto. Sotto tale profilo e cioe' quanto alla verifica dell'assoggettabilita' ad un'esecuzione collettiva di una p.a., la norma pare, dunque, che violi gli artt. 2 e 3, secondo comma della Costituzione, attinenti le garanzie e l'obbligo di rimozione di ostacoli, nonche' l'art. 41, attinente il riconoscimento dell'iniziativa economica, come valore costituzionale e l'attivita' di controllo, programma, indirizzo e coordinamento della iniziativa economica detta, anche con riferimento agli artt. 2082 del c.c. e 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (l.f.). Secondo profilo di sospetta incostituzionalita' Senonche', a parte le dette questioni (circa l'ammissibilita' di una procedura concorsuale, nei confronti di una p.a.), va rilevato che la disposizione in esame (art. 21), nella sua complessiva strutturazione, pur introducendo norme sussunte da quelle che caratterizzano l'esecuzione collettiva (cioe', le procedure concorsuali e sia quelle fallimentari che quelle liquidatorie), e' totalmente carente di quelle tipiche previsioni, la cui presenza soltanto garantirebbe il perseguimento dello scopo del soddisfacimento dei crediti; sicche' anche sotto tale profilo e' sospetta di incostituzionalita', limitando le azioni ai creditori, come adesso deve dirsi. La norma contiene: le previsioni della delibera dello stato di dissesto, dell'esclusione della capitalizzazione di somme per interessi ed accessori, dell'inammissibilita' delle azioni esecutive individuali, del riparto "nei limiti della massa attiva" (e con cio' ipotizza l'incapienza), dell'inammissibilita' di richieste di crediti di data anteriore all'approvazione del piano di estinzione. Tutte tali previsioni sono tipiche delle procedure concorsuali. La norma, poi, postula lo "stato di insolvenza", tipico presupposto della dichiarazione di fallimento, non sempre necessario, pero', nell'ipotesi di liquidazione (coatta amministrativa). Senonche', si distingue dalle norme che disciplinano le procedure concorsuali perche' non risulta affatto strumentale alla realizzazione dei crediti; la stessa, cioe', non integra un mezzo tecnico, apprestato dall'ordinamento, a tutela dei creditori insoddisfatti. Le norme relative alle procedure concorsuali ruotano intorno al principio di assicurare la par condicio dei creditori, in affermazione del principio di eguaglianza, previsto dall'art. 2740 del c.c.; nelle procedure concorsuali e' l'interesse generale di tutti i creditori che viene tutelato; con l'esecuzione collettiva si apre un concorso necessario di tutti i creditori e vengono sottoposti ad espropriazione "tutti" i beni del debitore, sui quali ogni creditore ha eguale diritto di essere soddisfatto; l'esecuzione collettiva realizza un regolamento giudiziale di tutti i rapporti sulla base della par condicio, rendendo incompatibile, per tale solo motivo giustificatamente, l'inizio o la continuazione di eventuali esecuzioni individuali. La procedura, instituita dall'art. 21, invece, non contiene tali fondamentali caratteristiche e, per tali ragioni, e' sospetta di incostituzionalita' la norma nella parte in cui prevede l'inammissibilita' di nuove azioni esecutive individuali e la dichiarazione di estinzione di quelle pendenti, difettando cosi' al creditore un'apprezzabile tutela mirata al soddisfacimento del proprio diritto; cioe' una tutela in grado di assicurargli tale soddisfacimento. In effetti, lo stato di dissesto non viene dichiarato ad istanza del creditore, ma dalla stessa p.a. debitrice; il fallimento dell'imprenditore commerciale e', invece dichiarato con sentenza e lo stato di insolvenza, che conduce al decreto di liquidazione coatta, deve essere preventivamente accertato all'autorita' giudiziaria. La previsione, secondo cui il commissario o la commissione, di cui al terzo comma dell'art. 21, hanno titolo a "transigere vertenze in atto o pretese in corso" non assicura ai creditori alcun controllo sull'attivita' di predisposizione della massa passiva; nella procedura fallimentare, invece, detto controllo (come quello sulla formazione dell'attivo), oltre a quello del giudice, e' costante; nella liquidazione e', poi, specificamente, disciplinato dall'art. 198 della l.f. La norma, pur ipotizzando un riparto, "nei limiti della messa attiva disponibile", non impone che siano liquidati "tutti i beni" del debitore. La norma (diversamente dagli artt. 42, 47 e 200 della l.f.) non sottrae al debitore la disponibilita' e l'amministrazione dei suoi beni (funzione cautelare), assicurandone la consistenza (e, ove del caso, la produttivita'), mediante il conferimento del potere di conservazione, di amministrazione e di liquidazione agli organi della procedura i quali, in contrario, sono chiamati ad una mera attivita' di contabilizzazione; anzi, in contrario, consente alla p.a. dissestata l'adozione di una serie di misure destinate ad aumentare le entrate, senza precludere le spese (ed almeno quelle non necessarie). La norma non garantisce, in danno dei creditori, l'accertamento, con indagine giudiziale e con efficacia definitiva, della consistenza e dell'entita' della massa passiva, nonche' dell'ammontare e della natura di ciascun credito: il commissario o la commissione hanno infatti titolo (pare proprio senza limiti) a "transigere vertenze in atto o pretese in corso", come "giudici definitivi", pur difettando loro l'imparzialita' e senza alcun potere di interferenza, sulla loro attivita', da parte dei creditori; nella procedura fallimentare ed in quella liquidatoria, invece, v'e' sempre l'opposizione contenziosa quale garanzia dell'interessato. La norma non prevede la liquidazione di "tutti i beni" (disponibili) attuali e futuri (della p.a. debitrice), per il soddisfacimento dei crediti; e, cio' che e' altrettanto grave, neppure prevede che i beni (disponibili), in ipotesi, gia' "sottratti" vengano (o possano essere) acquisiti alla massa attiva, attraverso procedimenti di revoca degli atti compiuti dal debitore. La norma non consente ai creditori alcun controllo in sede di riparto ed oltre a non prevedere (neppure tanto comprensibilmente) qualcuno degli "effetti personali" (che le norme del r.d. del 1942, invece, collegano, in danno del debitore o degli amministratori, alla dichiarazione di fallimento o all'accertamento dello stato di insolvenza, nel caso dell'art. 203 della l.f.), non prospetta (qui certo irrazionalmente) la perseguibilita' (anche penale) dei responsabili della p.a. dissestata, ne' prevede che, dalla dichiarazione del dissesto, si produca qualcuno di quegli "effetti patrimoniali" che le norme concorsuali prescrivono, invece, e come e' ovvio, in danno dell'imprenditorefallito; non collega alla p.a. dissestata la perdita della capacita' di stare in giudizio; non detta previsioni sul recupero dei crediti; non obbliga all'inventario; non prevede quali siano gli effetti della dichiarazione di dissesto sui giudizi in corso e rispetto ai rapporti giuridici pendenti, sui negozi giuridici (specie quelli onerosi) in corso di svolgimento, sui contratti di conto corrente, di locazione, di appalto, di assicurazione etc.; e' carente delle previsioni circa la partecipazione dei creditori alla formazione del piano di riparto ed alle azioni revocatorie; non disciplina la possibilita' di "riapertura" della liquidazione. Da siffatti ragionamenti, allora non puo' che derivare il rilievo che la singolare procedura, disciplinata dall'art. 21, non e' assimilabile affatto ad una procedura concorsuale, difettando com'e' delle caratteristiche e della logica principali e che, come strutturata, non costituisce una forma di tutela del creditore giuridicamente apprezzabile. A siffatta procedura, dunque, per le ragioni espresse, difetta il principale requisito dello scopo di essere "nell'interesse della generalita' dei creditori"; sicche', laddove, poi, la norma prevede l'inammissibilita' delle azioni esecutive individuali, in danno della p.a. dissestata, e l'obbligo della declaratoria di estinzione da parte del giudice delle procedure esecutive pendenti, la stessa, ovviamente, si manifesta in contrasto con i principi costituzionali ed in particolare con l'art. 24. E' costante e consolidata giurisprudenza ritenere l'ammissibilita' dell'espropriazione (compresa quella "presso terzi", nei confronti della p.a. (cass. sez. unite 18 dicembre 1987, n. 9407, cass. sez. unite 9 marzo 1981, n. 1299). Di fronte ad una sentenza di condanna al pagamento di somme la posizione della p.a. non e' diversa da quella di ogni altro debitore (cass. 9 marzo 1979, n. 1464; cass. 14 gennaio 1981, n. 323); sicche' anche nei suoi confronti e' esperibile l'esecuzione forzata in quanto "e' conseguenza imprescindibile della condanna della p.a. al pagamento di somme, l'ammissibilita' dell'esecuzione per espropriazione" (Corte costituzionale 21 luglio 1981, n. 138). Nei confronti della p.a. debitrice sono, pertanto, perfettamente applicabili i principi generali in tema di esecuzione e che la stessa deve essere soggetto passivo dell'esecuzione "con tutti i suoi beni presenti e futuri" (art. 2740 del c.c.). I limiti di pignorabilita' dei beni della p.a. possono essere individuati solo concretamente ed in relazione specifica alla natura o alla destinazione dei beni stessi e quando risulti che quelli assoggettati a pignoramento siano destinati a soddisfare un interesse pubblico; cosa che si traduce nel rilievo che la legge gia' accorda alle pp.aa. una particolare tutela, quando rimane accertata l'esistenza di un vincolo di destinazione dello specifico bene (assoggettato all'esecuzione) ad un "pubblico servizio". Cio' solo, infatti, e' conforme alla previsione di cui al secondo comma del citato art. 2740 del c.c. (analogicamente a quanto disposto dagli artt. 514 e 545 del c.p.c. in tema di impignorabilita' di cose mobili o di crediti) e traduce il criterio che "il limite dell'esecuzione puo' essere solamente oggettivo e non certo soggettivo". Con la disposizione di cui all'art. 21 citato, che non istituisce una procedura concorsuale in danno della p.a. e neppure una qualsiasi altra procedura in grado di garantire il soddisfacimento dei crediti, assicurando la par condicio, e meno che mai un apprezzabile tutela del creditore, risulta dunque accordata alla p.a. un'indiscriminata ed illogica forma di tutela, che non tiene conto di tutte le regole citate e che, ingiustificatamente, in danno dei creditori, limita i mezzi di esecuzione; e cio', pur prevedendo la norma e singolarmente che, proprio a seguito della deliberazione di dissesto, la p.a. interessata viene autorizzata ad aumentare, sino al tetto massimo di legge, le aliquote dei tributi (oltre che dei canoni e delle tariffe), in danno della collettivita'; cosa che appare tanto piu' grave, laddove si rifletta sull'ulteriore dato che, mentre tale elevazione delle aliquote e' destinata a protrarsi secondo le previsioni della norma, anche per il tempo successivo al riparto (cioe' per il periodo successivo alla chiusura della liquidazione), le maggiori entrate non risultano affatto destinate al soddisfacimento dei crediti (e dire che le maggiori entrate - per effetto dell'elevazione delle aliquote dei tributi, tariffe e canoni, ai livelli massimi - sono un indiscutibile danno per la collettivita' e, come e' facile comprendere, spesso, per gli stessi soggetti creditori). La questione, pertanto, attenendo al diritto di procedere in esecuzione (in quanto la norma esclude l'eseguibilita' per espropriazione), riproduce l'oramai superata tesi secondo cui la p.a. non puo' essere soggetta ad esecuzione forzata e, pertanto, ripropone l'altrettanto nota questione di giurisdizione, superata, come gia' si e' osservato, da tutta la giurisprudenza di merito, di legittimita' (cass. s.u. n. 4071 del 1979 e cass. s.u. 9 marzo 1981, n. 1299) e della stessa Corte costituzionale (sentenza 21 luglio 1981, n. 138). E' certamente incostituzionale (anche per violare il diritto di difesa), pertanto, la previsione di esclusione di esecuzioni tipiche previste dal c.p.c., solo a vantaggio della p.a.; peraltro, nel caso di specie, solo a vantaggio di quelle amministrazioni interessate dalla norma e senza considerare affatto l'oggettivo dato della disponibilita' o indisponibilita' specifica dei beni aggrediti. Tutto cio' traduce una macroscopica violazione dei precetti costituzionali e comporta la concreta vanificazione dei principi cui e' pervenuta la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, in forza dei quali "di fronte ad una sentenza di condanna al pagamento di somme, la posizione della p.a. non e' diversa da quella di qualsiasi altro debitore e secondo cui il pagamento e' un atto dovuto dalla p.a. medesima che non puo' percio' sottrarvisi, vanificando il comando del giudice, con l'adozione, chiaramente discrezionale, di una propria graduatoria di priorita' degli obblighi cui adempiere con le risorse disponibili" (cfr. Corte costituzionale 21 luglio 1981, n. 138). Il problema nei termini esposti, oltre che giuridico e' anche e soprattutto morale, perche' non puo' tollerarsi che la p.a. non paghi debiti, anche se "giudicati". L'esclusione dell'esecuzione e' priva di qualsiasi altra logica giustificazione di supporto e costituisce un indiscriminato favoritismo, accordato alle pp.aa. dal legislatore, perche' non risultano neanche sussistenti ragioni di urgenza, che hanno consigliato la norma, con l'effetto che, in definitiva, la stessa non risulta che tuteli un interesse pubblico (in quanto non tutela il bene oggetto del pignoramento), perche', in contrario, protegge, ma del tutto ingiustificatamente, il solo debitore. Tutto cio', salvo a potere escludersi, auspicabilmente (ma come pare certo, pero', non si possa fare) che l'ultima parte del terzo comma dell'art. 21 in esame non voglia affatto significare "estinzione dei diritti di credito" (compresi quelli eventualmente residuati dal riparto proporzionale della massa attiva, per l'ipotesi, cioe', di incapienza della liquidazione); e cioe' salvo che la norma in esame (art. 21, terzo comma) nell'ultima parte, sancisca solo la regola imputet sibi, quando il creditore non siasi attivato e non abbia avanzato la richiesta di credito affinche' questo sia inserito nel piano di estinzione; sicche' in tale ipotesi, i crediti insoddisfatti dal riparto e quelli non inclusi nella massa passiva lo potrebbero essere una volta tornata in bonis la p.a. dissestata. Tale conclusione escluderebbe, infatti, l'assimilabilita' della procedura in esame ad una di tipo concorsuale. Ed in effetti, i particolari ristretti termini accordati dal legislatore, al commissario o ai commissari, per la predisposizione del piano di estinzione, potrebbero pure indurre a pensare (ma sempre con discutibili forzature interpretative) che il legislatore (dell'art. 21) abbia voluto imporre l'attivita' di questi (commissari) mirata ad una rapida, ma sommaria, ricognizione della massa passiva ed ad una pronta liquidazione (sia pure nei limiti della massa attiva) dei crediti, per impedire un aggravio della situazione patrimoniale e frenare le spese, mediante l'adozione delle misure economiche previste dalle leggi n. 144/1989 e n. 68/1993, con la contestuale adozione dei provvedimenti di riequilibrio. Tali rilievi potrebbero anche avere una loro valenza, specie laddove ci si rifiutasse di ipotizzare che crediti, in corso di accertamento giudiziale e non transatti dal commissario (o dalla commissione), possano rimanere insoddisfatti, sol perche' "anteriori alla data della decisione" del Co.Re.Co. di approvazione del rendiconto finale di gestione (vedi l'ultima parte del terzo comma dell'art. 21). Sicche' tali ultime considerazioni ed il rilievo che la p.a. dissestata e' tenuta alla previsione di "un'ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato" (art. 21, quarto comma), potrebbero confermare la tesi del ritorno in bonis della p.a., evitando di sospettare: a) che il commissario o i commissari possano assurgere al ruolo di "giudici" definitivi (in positivo ed in negativo); b) che la procedura liquidatoria possa protrarsi per piu' tempo (i crediti vanno liquidati entro il termine di sei mesi dall'acquisizione del mutuo e questa puo' avvenire in un termine anche anteriore all'approvazione del piano di estinzione da parte del Ministero); c) che la p.a. dissestata, infine, possa permanere in tale stato, sine die, con il conseguente protrarsi delle misure economiche e finanziarie, imposte dall'art. 25, in danno della collettivita'. Sul punto, e' pertanto, e sempre, necessario l'intervento interpretativo della Corte adita, tale da escludere l'ipotizzabilita' del vizio di costituzionalita' e di apprestare all'interprete un adeguato e sicuro canone ermeneutico, conforme ai principi del dettato costituzionale. Terzo profilo di sospetta incostituzionalita' Diverse interpretazioni (quelle che, come gia' osservato, alla luce della norma, invece, appaiono piu' attendibili) inducono a risottolineare i sospetti di incostituzionalita' ed a ritenere, peraltro, che la norma pur imponendo al giudice la declaratoria di estinzione delle procedure esecutive pendenti (precludono la proponibilita' di nuove procedure) non assicuri, inoltre, ai creditori mezzi di tutela volti all'inserimento del debito nella massa passiva, al controllo della predisposizione della massa attiva e del riparto; e cio' pur prevedendo che il giudice debba liquidare gli importi anche per spese; tale liquidazione (intesa, necessariamente, come "quantificazione" delle somme, se non a rischio di essere incompatibile con la previsione dell'estinzione) appare funzionale all'inserimento del debito nel piano di estinzione, ma la norma non garantisce tale inserimento (rectius: non appresta mezzi al creditore per far valere il suo diritto all'inserimento, in tutti quei casi di inadempimento della p.a. anche sul punto). Sicche', anche sotto tale subordinato profilo, la norma pare violare gli artt. 3 e 24 della Costituzione, perche' la sua applicazione potrebbe pure avvantaggiare alcuni dei creditori (quelli inseriti nella massa passiva), in danno di altri (e tra questi anche quelli pignoranti). Quarto profilo di sospetta incostituzionalita' La norma prevede, del tutto irrazionalmente, la declaratoria di estinzione delle procedure esecutive pendenti, da parte del g.e.; ed e', anche sotto tale profilo, sospetta di incostituzionalita' (per contrasto con gli artt. 3 e 24, con riferimento agli artt. 632 del c.p.c. e 51 della l.f.), poiche' per tutte le ipotesi di fallimento del debitore o di liquidazione, si ha la sopravvenienza di una causa di improseguibilita' dell'azione esecutiva (cass. 61/481; cass. 83/4030) e non certo di estinzione. Cio' con tutta una serie di conseguenze (tra cui quella dell'ammissibilita', per i creditori, dell'azione ex art. 2913 del c.c. e della confluenza del pignorato nella massa passiva della liquidazione), facilmente comprensibili che, pero', la norma stessa - prevedendo che il g.e. debba liquidare (nel senso detto di "quantificare") le somme spettanti al creditore, al fine della confluenza nella massa passiva - pare contemplare, senza tenerne, pero', debitamente conto, con la previsione di adeguate garanzie al creditore stesso, perche' il suo credito, nella misura "quantificata" del giudice, venga inserito nella massa passiva. Quinto profilo di sospetta incostituzionalita' La norma, poi, nel prevedere l'"estinzione" delle procedure esecutive, genera il forte sospetto che, potendo collegarsi a tale declaratoria di estinzione - ai sensi dell'art. 632 del c.p.c. - l'inefficacia degli atti esecutivi compiuti, i beni pignorati (nel caso, le somme possedute dal terzo che, nella fattispecie in esame, ha reso una dichiarazione di quantita' positiva), vadano restituiti alla p.a. debitrice e non certo consegnati ai commissari, per essere riversati nell'esecuzione collettiva (come dovrebbe invece piu' logicamente avvenire e come avviene certo nel caso del fallimento dell'imprenditore, prima dell'aggiudicazione di un bene espropriato). Sicche' sotto tale profilo la norma appare incostituzionale, per essere in contrasto con gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione anche per sottrarre garanzie ai creditori, avvantaggiando il debitore. Sesto profilo di sospetta incostituzionalita' La norma non prevede poi, ed irrazionalmente, mezzi di tutela in favore del debitore, avverso la liquidazione delle somme da parte del giudice e neppure di tutela avverso la declaratoria di estinzione. Impone la declaratoria detta di estinzione, di ufficio, e destinati a soddisfare un interesse pubblico; cosa che si traduce nel rilievo che la legge gia' accorda alle pp.aa. una particolare tutela, quando rimane accertata l'esistenza di commissario o commissione), innovando, cosi' in maniera del tutto irrazionale, al consolidato insegnamento dei giudici di legittimita', sul punto della rilevabilita' solo su istanza di parte (curatore) e derogando all'impostazione sistematica dei mezzi di impugnazione recepita dal vigente codice di rito. Cosi' come strutturata, la norma, pertanto, anche sotto tali ulteriori profili, non e' in linea con le norme costituzionali, peraltro, cia' esaminate in fattispecie analoghe dalla stessa Corte costituzionale (in tema di reclamabilita' dell'ordinanza del g.e., che pronunzia l'estinzione del processo esecutivo, in caso di rinunzia agli atti, cfr. Corte costituzionale 17 dicembre 1981, n. 195). Il rilievo che la Corte e' gia' intervenuta in argomento, con la citata pronunzia (n. 195/1981), esclude la necessita' di tentare una interpretazione analogica. Sotto tali profili, la norma, dunque, viola gli artt. 3 e 24 della Costituzione, in correlazione agli artt. 617, 629 e 630 del c.p.c.
P. Q. M. Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 del d.l. 18 gennaio 1993, n. 8, convertito in legge n. 68 del 19 marzo 1993, nella parte in cui assoggetta ad esecuzione collettiva una p.a. e, nel caso, un comune, per contrasto con gli artt. 2, 3, secondo comma e 41 della Costituzione, con riferimento agli artt. 2082 del c.c. e 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 della (l.f.); Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui prevede che "in deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione di dissesto .. sono dichiarate estinte dal giudice, previa liquidazione dell'importo dovuto per capitale, accessori e spese, le procedure esecutive pendenti", per violazione degli artt. 3, 24, 28 e 113 della Costituzione, in correlazione con gli artt. 826, 828 e 830, ultimo comma, 514 e 545 del c.p.c., 2740 del c.c., 51 della l.f. e 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2247, all. E); Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui prevede la declaratoria di estinzione delle procedure esecutive pendenti, ma non prevede che il creditore abbia azione per ottenere che il proprio credito, anche dopo la liquidazione operata dal giudice, a norma dello stesso art. 21, venga inserito nella massa passiva del piano di estinzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, e con riferimento agli artt. 92, 93 e 98 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267; Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui prevede la declaratoria di estinzione delle procedure esecutive pendenti, da parte del g.e., e non quella di mera improseguibilita' dell'azione esecutiva, per contrasto con agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con riferimento agli artt. 632 del c.p.c. e 51 della l.f.; Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' dell'art. 21 citato, nella parte in cui prescrive l'estinzione delle procedure esecutive, senza prevedere che i beni pignorati non vadano restituiti alla p.a. debitrice e confluiscano, invece, nella massa passiva, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, con riferimento all'art. 51 della l.f.; Dichiara non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' della stessa norma (art. 21), per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione in correlazione con gli artt. 617, 629 e 630 del c.p.c., laddove non estende, all'ordinanza del g.e. dichiarativa dell'estinzione del processo esecutivo e di liquidazione delle somme, il reclamo previsto dall'art. 630, ultimo comma, del c.p.c. o qualsiasi altro mezzo di tutela; Conseguentemente, rimette alla Corte costituzionale, per la decisione, le predette questioni di legittimita' costituzionale, ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; Sospende il presente procedimento, che non puo' essere definito senza risolvere prima le sollevate questioni; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla predetta Corte; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata dal Cancelliere, ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Pozzuoli, addi' 26 maggio 1993 Il vice pretore ordinario: BUONANNO Depositata in cancelleria oggi 3 giugno 1993. Il cancelliere: (firma illeggibile) 93C0820