N. 349 SENTENZA 24 giugno - 28 luglio 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento  penitenziario  -  Condannati  per  determinati  reati  -
 Assoggettabilita', con decreto ministeriale, ad un regime  carcerario
 particolarmente  restrittivo  -  Lamentata  violazione del divieto di
 restrizioni  alla  liberta'  personale  se  non  per  atto   motivato
 dell'autorita'  giudiziaria,  nonche'  del  principio  della funzione
 rieducativa della pena - Esclusione, in considerazione del fatto  che
 il  potere  attribuito  dalla norma impugnata al Ministro e' limitato
 alla  sospensione  di   regole   ed   istituiti   gia'   appartenenti
 all'amministrazione  penitenziaria  -  Non fondatezza della questione
 nei sensi di cui in motivazione.
 
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 41- bis).
 
 (Cost., artt. 13, primo e secondo comma, 15, secondo comma, 27, terzo
 comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma)
 
(GU n.32 del 4-8-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici:  dott.  Francesco  GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
 SPAGNOLI, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro  FERRI,  prof.  Luigi
 MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato GRANATA, prof. Francesco
 GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis,  secondo
 comma,  della  legge  26  luglio 1975, n. 354 (Norme sull'Ordinamento
 penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative  e  limitative
 della  liberta'),  introdotto dall'art. 19 del decreto-legge 8 giugno
 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con
 n. 6 ordinanze emesse il 9 gennaio 1993 dal Tribunale di sorveglianza
 di Ancona, iscritte ai nn. 106, 107, 175, 176, 177 e 178 del registro
 ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 nn. 11 e 18, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio  del  9  giugno  1993  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
   1.1.  - Con due ordinanze di identico contenuto, entrambe emesse il
 9 gennaio 1993, il Tribunale di sorveglianza di Ancona  ha  sollevato
 questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 41-bis, secondo
 comma, della legge  sull'Ordinamento  penitenziario,  in  riferimento
 agli artt. 13, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.
    Il  giudice  a  quo,  chiamato  a  deliberare  in merito ad alcuni
 reclami proposti avverso l'applicazione del regime detentivo  di  cui
 al  citato  art.  41-bis,  dopo  aver  affermato, in seguito ad ampia
 disamina, sia la propria giurisdizione  che  la  propria  competenza,
 ritiene che la normativa introdotta della norma impugnata (improntata
 all'esigenza  di predisporre un trattamento di particolare rigore nei
 confronti di detenuti  che,  in  ragione  del  reato  loro  ascritto,
 appaiono  forniti  di un elevato grado di pericolosita' sociale) sia,
 sotto diversi profili, confliggente con  i  parametri  costituzionali
 prima indicati.
    1.2. - In primo luogo, premesso che la tutela prevista dal secondo
 comma  dell'art. 13 della Costituzione si sostanzia in una riserva di
 legge e in una riserva di giurisdizione  sul  diritto  alla  liberta'
 personale, il remittente ritiene che il concreto contenuto precettivo
 del  regime  introdotto  dalla  disposizione  in  esame  comporti una
 restrizione della liberta' personale riconducibile alla citata tutela
 costituzionale: il detenuto sottoposto a tale regime  detentivo  vede
 ulteriormente  compressi i propri spazi residui di liberta' personale
 (permanenza  all'aria  aperta,  possibilita'  di  esperire  attivita'
 lavorativa  artigianale per conto proprio e per conto terzi, acquisto
 di generi alimentari, colloqui con i familiari, sottoposizione  della
 corrispondenza  a visto di controllo, possibilita' di ricevere pacchi
 dall'esterno, ecc.) rispetto a cio' che  costituisce  il  trattamento
 ordinario. Il fatto che tali restrizioni vengano applicate da un atto
 della  pubblica  amministrazione  (nella specie: dell'amministrazione
 penitenziaria) senza che sia previsto un intervento, neanche  in  via
 di  ratifica,  dell'Autorita' giudiziaria, costituisce, ad avviso del
 remittente, un evidente contrasto con il disposto del  secondo  comma
 dell'art. 13 della Costituzione.
    1.3.  -  Inoltre,  premesso che il principio di rieducazione della
 pena sancito  dall'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  va
 correttamente  inteso  come  finalizzazione dell'esecuzione penale al
 raggiungimento del reinserimento sociale del  reo,  il  Tribunale  di
 sorveglianza  di  Ancona  ravvisa  un'ulteriore  illegittimita' della
 disciplina  in  esame  per  la  sottoposizione  di  alcuni  detenuti,
 selezionati quasi semplicemente in base al titolo di reato, ad un re-
 gime indiscriminatamente sanzionatorio, ispirato ad un ottica di mera
 neutralizzazione,  contrastante,  per di piu', anche con il principio
 di individualizzazione dell'esecuzione penale.
    Per altro verso, prosegue il remittente, la  violazione  dell'art.
 27,   terzo   comma,  della  Costituzione,  viene  anche  in  rilievo
 considerando che la sospensione delle regole di  trattamento  per  un
 tempo  indubbiamente  rilevante  (tre  anni  decorrenti dalla data di
 entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 306
 del 1992) implica la rinunzia a qualsivoglia intervento  dello  Stato
 inteso  a rimuovere le cause del disadattamento sociale; proprio cio'
 cui  dovrebbe  tendere,  invece,  il  trattamento  rieducativo,   che
 costituisce un vero e proprio diritto del condannato.
    2.1. - Il medesimo art. 41-bis, secondo comma, viene impugnato con
 censure  sostanzialmente identiche (pur se riferite formalmente anche
 al primo comma dell'art. 13 della Costituzione e non solo al secondo)
 dal medesimo Tribunale remittente con altre tre ordinanze pronunciate
 il 9 gennaio 1993.
    3.1. - Con  un'ultima  ordinanza  emessa  il  9  gennaio  1993  il
 Tribunale  di  sorveglianza di Ancona, dopo aver reiterato i dubbi di
 costituzionalita' sulla citata  norma  in  riferimento  al  principio
 rieducativo  della  pena  sancito  dall'art.  27,  terzo comma, della
 Costituzione, solleva ulteriori censure, in  riferimento  agli  artt.
 15,  secondo  comma,  97,  primo comma, e 113, primo e secondo comma,
 della Costituzione.
    3.2. - Sussisterebbe, in primo luogo, la violazione dell'art.  15,
 secondo   comma,   della  Costituzione,  in  quanto  la  disposizione
 impugnata,  sospendendo  la  vigenza  delle  norme   dell'Ordinamento
 penitenziario  in  ordine  al visto di controllo sulla corrispondenza
 dei detenuti, esclude il motivato  provvedimento  del  magistrato  di
 sorveglianza.  Rileva  il  giudice  remittente  che  il provvedimento
 ministeriale emesso in applicazione della  norma  impugnata  prevede,
 tra  l'altro,  la  sottoposizione  della  corrispondenza epistolare e
 telegrafica del detenuto direttamente al visto di controllo da  parte
 del direttore dell'Istituto penitenziario; il che rappresenterebbe un
 evidente  contrasto  con  la  invocata norma costituzionale, la quale
 prevede che  una  tale  limitazione  possa  avvenire  solo  per  atto
 motivato  dall'Autorita'  giudiziaria con le garanzie stabilite dalla
 legge.
    3.3. - Infine, posto che il combinato disposto degli  artt.  97  e
 113  della Costituzione richiede una esauriente motivazione dell'atto
 amministrativo, al fine di consentire al destinatario la possibilita'
 di  tutelare  diritti  ed  interessi  in  via  giurisdizionale,  puo'
 configurarsi,  ad  avviso  del giudice a quo, anche la violazione dei
 suddetti  parametri  costituzionali  in  quanto   nei   provvedimenti
 applicativi del regime detentivo previsto dal secondo comma dell'art.
 41-bis tale motivazione risulterebbe del tutto assente.
    4.1.  -  E'  intervenuto  in  tutti  i  giudizi  il Presidente del
 Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale  dello
 Stato,  concludendo  per  l'infondatezza  (rectius: inammissibilita')
 della questione.
    La difesa del governo ritiene che, nella  materia  in  esame,  non
 sussista   la  giurisdizione  ne'  la  competenza  del  Tribunale  di
 sorveglianza.
    4.2.  -  In  tema  di  giurisdizione,  rileva   l'Avvocatura,   il
 provvedimento  ministeriale  ex  art.  41-  bis, secondo comma, della
 legge n. 354 del 1976 non andrebbe ad incidere su di  un  diritto  di
 liberta'  pieno  ma  si  inserirebbe  in  una  situazione in cui tale
 diritto gia' risulta compresso.
    Le misure adottate con detto provvedimento non sarebbero  qualcosa
 di  qualitativamente  diverso  rispetto  ad  altre,  "ordinarie", che
 caratterizzano la detenzione. Potrebbe anzi affermarsi che tale  atto
 concorre  ad  individuare il complessivo regime di vita penitenziario
 del detenuto, insieme ed al pari di tutte le misure previste da altre
 disposizioni:  il  detenuto e' sottoposto ad una serie di limitazioni
 della liberta' personale tra le quali e' possibile che  vi  siano,  a
 certe condizioni, anche quelle previste dalla norma impugnata.
    In conclusione, poiche' il ricorso nei confronti del provvedimento
 ministeriale  porta a sindacare le concrete modalita' di esercizio di
 un potere riconosciuto per legge alla  pubblica  amministrazione,  si
 dovrebbe   concludere  nel  senso  della  giurisdizione  del  giudice
 amministrativo.
    4.3.  -  Qualora  si  volesse  seguire  una   diversa   linea   di
 ragionamento,  prosegue  l'Avvocatura, possono sussistere dubbi anche
 sulle conclusioni cui il giudice remittente e' pervenuto in  tema  di
 competenza.
    Nell'ordinanza   si   richiama,   a   fondamento  della  affermata
 competenza  del  Tribunale  di  sorveglianza,  la   possibilita'   di
 applicazione    analogica   della   disciplina   della   sorveglianza
 particolare, nel cui  ambito  e'  regolamentato  il  procedimento  di
 reclamo dei relativi provvedimenti.
    I  presupposti e le fasi procedimentali del regime di sorveglianza
 particolare sarebbero pero'  diversi  da  quelli  previsti  dall'art.
 41-bis, per cui dovrebbe dubitarsi della possibilita' di fare ricorso
 allo  strumento  dell'analogia,  ed  inoltre sembrerebbe ravvisabile,
 nelle norme dell'Ordinamento  penitenziario,  l'attribuzione  di  una
 competenza  generale  a  conoscere  dei  reclami dei detenuti, non al
 Tribunale, bensi' al Magistrato di sorveglianza.
                        Considerato in diritto
   1.1. - Il Tribunale di sorveglianza di Ancona, con sei ordinanze di
 contenuto in parte identico, in parte strettamente  connesso,  dubita
 della  legittimita'  costituzionale  dell'art. 41-bis, secondo comma,
 della  legge  26  luglio  1975   n.   354   (Norme   sull'Ordinamento
 penitenziario  e  sull'esecuzione delle misure privative e limitative
 della liberta').  Tale norma, introdotta dall'art.  19  del  decreto-
 legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356,
 attribuisce al Ministro di grazia e giustizia, quando ricorrano gravi
 motivi  di ordine e di sicurezza pubblica, la facolta' di sospendere,
 in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per  taluni  delitti,
 l'applicazione  delle regole di trattamento e degli istituti previsti
 dallo stesso Ordinamento penitenziario.
    1.2. - Poiche' i  provvedimenti  di  rimessione  investono,  sotto
 profili  in  larga  parte  coincidenti, la medesima norma di legge, i
 relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi  con  unica
 sentenza.
    2.1.  -  La  questione  e'  stata  sollevata  nel  corso di alcuni
 giudizi, avanti il Tribunale di sorveglianza di Ancona,  sui  reclami
 proposti  da alcuni detenuti avverso i decreti del Ministro di grazia
 e giustizia che, in attuazione della norma impugnata, hanno  disposto
 un regime detentivo di particolare rigore nei loro confronti rispetto
 al regime detentivo ordinario: in particolare, i decreti ministeriali
 restringono  la  possibilita'  di  colloqui,  anche telefonici, con i
 familiari e vietano quelli con persone diverse; sospendono i colloqui
 premiali; dispongono che la corrispondenza in partenza  o  in  arrivo
 sia  sottoposta  a  visto  di  controllo;  restringono  la permanenza
 all'aria aperta a non piu' di  due  ore  al  giorno;  proibiscono  lo
 svolgimento di attivita' artigianali per conto terzi, e pongono varie
 altre    restrizioni   sugli   acquisti   all'interno   dell'istituto
 penitenziario,  sulla  ricezione  di  pacchi  o di somme di denaro, e
 sullo  svolgimento,   in   genere,   delle   attivita'   volte   alla
 realizzazione della personalita' dei detenuti.
    2.2.  -  Ad avviso dei giudici remittenti la disciplina introdotta
 dalla norma impugnata -  anche  al  di  la'  dell'attuazione  che  in
 concreto ne e' stata data - esprime potenzialita' applicative tali da
 porre  sostanzialmente  nel  nulla un eventuale iter rieducativo gia'
 positivamente  intrapreso  dal  detenuto  e,  pertanto,  si  pone  in
 contrasto:
      con  l'art.  13,  primo  e secondo comma, della Costituzione, in
 quanto attribuisce  al  Ministro  di  grazia  e  giustizia  (anziche'
 all'Autorita'  giudiziaria) il potere, mediante la sospensione totale
 o parziale dell'applicazione delle  regole  di  trattamento  e  degli
 istituti  previsti  dall'Ordinamento penitenziario, di introdurre nei
 confronti  dei  detenuti   ulteriori   restrizioni   della   liberta'
 personale;
      con  l'art.  15,  secondo  comma,  della  Costituzione, perche',
 sospendendo la vigenza delle norme dell'Ordinamento penitenziario  in
 materia  di  corrispondenza  dei  detenuti  (art. 18, settimo comma),
 esclude il motivato provvedimento del Magistrato di  sorveglianza  in
 ordine al visto di controllo;
      con  l'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  in quanto
 implica  trattamenti  penali  contrari  al  senso  di  umanita',  non
 ispirati   a   finalita'   rieducativa   ed,   in   particolare,  non
 "individualizzati" ma rivolti indiscriminatamente  nei  confronti  di
 reclusi selezionati solo in base al titolo di reato;
      con  gli  artt.  97,  primo comma, e 113, primo e secondo comma,
 della Costituzione, per la mancanza di un'esauriente motivazione  del
 provvedimento  applicativo del piu' rigoroso regime penitenziario, il
 che non consentirebbe al destinatario la possibilita' di tutelare  in
 modo adeguato i suoi diritti in via giurisdizionale.
    3.1.   -  L'Avvocatura  dello  Stato  eccepisce  pregiudizialmente
 l'inammissibilita' della questione per difetto di giurisdizione e  di
 competenza del giudice remittente.
    Ritiene  la  difesa  del  Governo  che  i  diritti di liberta' del
 detenuto  siano  diritti  gia'  "affievoliti"  o  "compressi"   dalla
 sentenza  di  condanna  a  pena  detentiva,  e pertanto l'oggetto dei
 giudizi a quibus risulterebbe essere  il  concreto  esercizio  di  un
 potere  riconosciuto  per legge alla pubblica amministrazione; potere
 sottoposto, in quanto tale, al sindacato giurisdizionale del  giudice
 amministrativo.  Inoltre,  neppure  la  competenza  del  Tribunale di
 sorveglianza potrebbe  essere  affermata,  dovendosi  riconoscere  al
 Magistrato  di  sorveglianza,  e  non  al  Tribunale,  una competenza
 generale a decidere sui reclami dei detenuti.
    3.2. - Sulla  base  del  costante  orientamento  di  questa  Corte
 l'eccezione  non puo' essere accolta (v., da ultimo, sentt. nn. 163 e
 288 del 1993).
    Stante l'autonomia del giudizio di  costituzionalita'  rispetto  a
 quello  dal  quale proviene la questione sollevata, la Corte, in sede
 di  verifica  dell'ammissibilita',  puo'  rilevare  il   difetto   di
 giurisdizione,  o  di competenza, del giudice a quo soltanto nei casi
 in cui questo appaia macroscopico,  cosi'  che  nessun  dubbio  possa
 aversi  sulla  sussistenza  di  quel  vizio.  Nel  caso  in esame, al
 contrario, tutti i giudici a quibus hanno  ritenuto,  sulla  base  di
 un'ampia  motivazione,  sia  la  propria giurisdizione che la propria
 competenza, e cio' non contrasta con consolidata  giurisprudenza,  di
 merito  o  di legittimita', in diverso avviso; puo' anzi riscontrarsi
 un  convergente  orientamento  della  giurisprudenza   amministrativa
 sull'assoluto  difetto  di  giurisdizione  del giudice amministrativo
 nella materia in esame. Devono quindi rimanere ferme  le  valutazioni
 compiute   dai   giudici   remittenti   in   ordine   alla  legittima
 instaurazione dei giudizi a quibus.
    4.1. - Nel merito, la questione, sotto tutti i profili  sollevati,
 e' infondata nei sensi di seguito esposti.
    Alcune  premesse  di  ordine  generale  si  rendono necessarie per
 definirne con chiarezza i termini.
    4.2.  -  Va  tenuto  fermo,  in  primo  luogo,   che   la   tutela
 costituzionale  dei diritti fondamentali dell'uomo, ed in particolare
 la garanzia della inviolabilita'  della  liberta'  personale  sancita
 dall'art.  13 della Costituzione, opera anche nei confronti di chi e'
 stato sottoposto a legittime  restrizioni  della  liberta'  personale
 durante  la  fase  esecutiva  della pena, sia pure con le limitazioni
 che, com'e' ovvio, lo stato di  detenzione  necessariamente  comporta
 (v. sentt. n. 204 del 1974, n. 185 del 1985, n. 312 del 1985, 374 del
 1987,  n.  53  del  1993).  Questa  Corte  ha gia' avuto occasione di
 affermare che, dal principio accolto nell'art. 27, terzo comma, della
 Costituzione,  secondo  cui  "le  pene  non  possono  consistere   in
 trattamenti  contrari  al  senso  di umanita'", discende direttamente
 quale ulteriore principio di civilta' che a  colui  che  subisce  una
 condanna  a  pena  detentiva  "sia  riconosciuta  la  titolarita'  di
 situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalita'
 umana che la pena non intacca" (v. sent. n. 114 del 1979).
    In breve, la sanzione detentiva non puo' comportare una totale  ed
 assoluta  privazione  della  liberta'  della  persona; ne costituisce
 certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova  in
 stato  di  detenzione,  pur  privato  della  maggior  parte della sua
 liberta', ne conserva sempre un residuo, che e' tanto  piu'  prezioso
 in  quanto  costituisce  l'ultimo ambito nel quale puo' espandersi la
 sua personalita' individuale.
    Da  cio'  consegue  che  l'adozione  di  eventuali   provvedimenti
 suscettibili  di  introdurre  ulteriori restrizioni in tale ambito, o
 che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado  di
 privazione  della  liberta'  personale, puo' avvenire soltanto con le
 garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione)  espressamente
 previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.
    4.3.  - A fronte della posizione giuridica soggettiva del detenuto
 vi e', d'altro lato, l'opposto potere di coazione personale di cui lo
 Stato e' titolare al fine della difesa dei  cittadini  e  dell'ordine
 giuridico;  potere  che,  durante  la  fase di espiazione della pena,
 comporta  l'assoggettamento  alle  regole  previste  dall'Ordinamento
 penitenziario,  le quali definiscono i rapporti fra l'Amministrazione
 - cui compete la responsabilita' della custodia,  del  trattamento  e
 della   sicurezza  dell'istituzione  penitenziaria  -  gli  individui
 assoggettati al regime di detenzione e di rieducazione prescritto,  e
 l'Ordine  giudiziario cui spetta istituzionalmente l'attuazione della
 potesta' punitiva dello Stato e il  controllo  sull'esecuzione  della
 pena.
    Poiche'  i  diritti  inviolabili  dell'uomo,  fra  cui quello alla
 liberta' personale, rispondono ad un principio di valore fondamentale
 che ha carattere generale, la loro limitazione  o  soppressione  (nei
 soli  casi  e  modi  previsti  dalla  Costituzione,  o per i quali e'
 disposta una riserva di legge) ha carattere derogatorio ad una regola
 generale e, quindi, presenta natura eccezionale: e' questo il  motivo
 per  cui le norme che siano suscettibili di incidere ulteriormente su
 tali diritti, previste dall'Ordinamento penitenziario (che e' appunto
 un tipico ordinamento derogatorio), non possono essere applicate  per
 analogia e vanno interpretate in modo rigorosamente restrittivo.
    5.1.  -  Quanto  ora  esposto  consente di riassumere alcuni punti
 fermi in materia.
    L'Amministrazione penitenziaria  puo'  adottare  provvedimenti  in
 ordine  alle  modalita'  di  esecuzione  della  pena  (rectius: della
 detenzione), che non eccedono il sacrificio della liberta'  personale
 gia'  potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna,
 e che naturalmente rimangono soggetti  ai  limiti  ed  alle  garanzie
 previsti  dalla  Costituzione  in  ordine al divieto di ogni violenza
 fisica e morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari al
 senso di umanita' (art. 27, terzo comma), ed  al  diritto  di  difesa
 (art. 24).
    Ma e' certamente da escludere che misure di natura sostanziale che
 incidono  sulla  qualita'  e  quantita'  della pena, quali quelle che
 comportano un sia pur temporaneo distacco,  totale  o  parziale,  dal
 carcere (c.d. misure extramurali), e che percio' stesso modificano il
 grado  di  privazione  della  liberta' personale imposto al detenuto,
 possano essere adottate al di fuori dei  principi  della  riserva  di
 legge  e  della  riserva  di  giurisdizione  specificamente  indicati
 dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.
    Misure di tal genere - e' bene sottolinearlo - devono  uniformarsi
 anche  ai  principi  di  proporzionalita' e individualizzazione della
 pena, cui  l'esecuzione  deve  essere  improntata;  principi,  questi
 ultimi,  che  a  loro  volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo
 comma, e 3 della Costituzione (cfr. sentt. n. 50 del 1980  e  n.  203
 del  1991)  - nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa
 proporzione della medesima alle  personali  responsabilita'  ed  alle
 esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sentt. n. 299 del 1992 e
 n. 306 del 1993) - ed implicano anch'essi l'esercizio di una funzione
 esclusivamente propria dell'ordine giudiziario.
    5.2. - E' questo un vero e proprio limite di competenza funzionale
 dell'Amministrazione,  che  -  come  si  e'  visto  - e' direttamente
 conseguente alla  natura  dei  poteri  esercitati  e  costituisce  un
 criterio    generale   gia'   presente   nello   stesso   Ordinamento
 penitenziario.
    Vi  e'  infatti  una  distinzione  sostanziale  tra  modalita'  di
 trattamento del detenuto all'interno dell'istituto penitenziario - la
 cui applicazione e' demandata di regola all'Amministrazione, anche se
 sotto  la  vigilanza  del  magistrato  di  sorveglianza  (v.  art. 69
 Ordinamento  Penitenziario),  o  con  possibilita'  di   reclamo   al
 Tribunale  di sorveglianza (v. art. 14-ter Ordinamento Penitenziario)
 - e misure che ammettono a forme di espiazione della pena  fuori  dal
 carcere   (previste,   per   lo   piu',  al  Capo  VI  del  Titolo  I
 dell'Ordinamento Penitenziario, "Misure alternative alla detenzione":
 affidamento in prova al  servizio  sociale,  detenzione  domiciliare,
 semiliberta',    liberazione    anticipata,    licenze;    ma   anche
 l'assegnazione al lavoro esterno o i permessi premio previsti al Capo
 III)  le  quali  sono sempre di competenza dell'Autorita' Giudiziaria
 (v. artt. 21, 30, 30-ter, 69  e  70  dell'Ordinamento  penitenziario)
 proprio  perche'  incidono sostanzialmente sull'esecuzione della pena
 e, quindi, sul grado di liberta' personale del detenuto.
    5.3. - Alla luce di tali principi la norma in  esame  puo'  essere
 interpretata in modo aderente al dettato costituzionale.
    Posto infatti che i giudici remittenti lamentano, in sostanza, che
 il secondo comma dell'art. 41-bis attribuisca al Ministro di grazia e
 giustizia  la  facolta' di incidere (in peius) sulla pena e sul grado
 di liberta' personale del detenuto, la censura non risulta fondata in
 quanto  la  corretta  lettura  della  norma  (in  base  ai   principi
 costituzionali  prima indicati ed al canone ermeneutico rigorosamente
 restrittivo delle  norme  di  carattere  eccezionale)  non  puo'  che
 limitare  il  potere  attribuito al Ministro alla sola sospensione di
 quelle  medesime  regole  ed  istituti  che   gia'   nell'Ordinamento
 penitenziario    appartengono    alla    competenza    di    ciascuna
 amministrazione penitenziaria e  che  si  riferiscono  al  regime  di
 detenzione in senso stretto.
    Eventuali   variazioni   di   tale   regime   possono   comportare
 evidentemente un maggiore o minore contenuto afflittivo  per  chi  ad
 esse e' assoggettato, proprio perche' un certo grado di flessibilita'
 puo'  rivelarsi  necessario  sia ai fini di rieducazione del detenuto
 che per l'ordine e la sicurezza interni (dovendosi del pari  prendere
 atto che la realta' di ogni istituzione penitenziaria comprende anche
 la   presenza   di   soggetti   refrattari  a  qualsiasi  trattamento
 riabilitativo, ed anzi  cosi'  spiccatamente  pericolosi  da  rendere
 indispensabile  la  possibilita'  di un regime differenziato nei loro
 confronti),  ma  nel  novero  delle   misure   attualmente   previste
 dall'Ordinamento  penitenziario  esse  non  esulano dall'ambito delle
 modalita' di esecuzione di un titolo di detenzione gia' adottato  con
 le previste garanzie costituzionali.
    Vero   e'  che  la  norma  in  esame,  certamente  di  non  felice
 formulazione, sembra comprendere indistintamente nella sua amplissima
 enunciazione tutte le regole di trattamento e gli  istituti  previsti
 dall'Ordinamento  penitenziario, ivi comprese quindi le misure alter-
 native alla  detenzione  e  l'assegnazione  al  lavoro  esterno  o  i
 permessi  e  le licenze. Ma una simile interpretazione va esclusa non
 solo per le ragioni prima indicate, ma  anche  perche'  nello  stesso
 testo della legge (e va qui presa in considerazione la legge 7 agosto
 1992 n. 356, con la quale e' stato aggiunto il secondo comma in esame
 all'art.   41-bis  della  legge  n.  354  del  1975)  allorquando  il
 legislatore ha inteso far riferimento anche alle  misure  extramurali
 le ha sempre specificamente indicate (cfr. art. 15 della legge n. 356
 cit.,  che  modifica  l'art.  4-bis  della  legge  n.  354 cit.), mai
 accomunandole  alle  regole  di  trattamento   previste   nel   testo
 dell'Ordinamento penitenziario.
    6.1.  - Individuati quindi i corretti limiti dei poteri attribuiti
 al Ministro, tutte le  censure  prospettate  dai  giudici  remittenti
 risultano  o  infondate o non riferibili alla norma impugnata ma solo
 ai provvedimenti che di questa hanno fatto applicazione:  ed  invero,
 per  quanto  sin  qui  esposto, il secondo comma dell'art. 41-bis non
 consente l'adozione di provvedimenti  suscettibili  di  incidere  sul
 grado  di  liberta' personale del detenuto, e quindi non viola l'art.
 13,  primo  e  secondo  comma,  della Costituzione; del pari nulla e'
 rinvenibile nella disposizione in esame che attribuisca  al  Ministro
 una  specifica  competenza  in  ordine alla sottoposizione a visto di
 controllo della corrispondenza dei detenuti, e che costituisca quindi
 deroga all'art. 18 dell'Ordinamento penitenziario (che,  come  si  e'
 visto,  riserva  tale  potere  al giudice), e, quindi, elusione della
 garanzia d'inviolabilita' delle comunicazioni  sancita  dall'art.  15
 della  Costituzione; cosi' come (a parte la perplessita' che puo' de-
 stare l'individuazione per titoli di reato dei destinatari finali dei
 provvedimenti, non coerente con il principio  di  individualizzazione
 della  pena)  deve  ritenersi  implicito  -  anche  in assenza di una
 previsione espressa nella norma, ma sulla base dei principi  generali
 dell'ordinamento  - che i provvedimenti ministeriali debbano comunque
 recare una puntuale motivazione per ciascuno dei  detenuti  cui  sono
 rivolti  (in  modo  da  consentire  poi  all'interessato un'effettiva
 tutela  giurisdizionale),  che  non  possano   disporre   trattamenti
 contrari  al  senso di umanita', e, infine, che debbano dar conto dei
 motivi di un'eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalita'
 rieducative della pena.
    7. - E' opportuno, infine, sottolineare che  le  medesime  ragioni
 che  consentono  di  escludere  l'illegittimita' costituzionale della
 norma in esame, delimitandone l'ambito applicativo ed integrandone il
 portato  con  il  richiamo  a  principi  generali   dell'ordinamento,
 conducono  anche alla conclusione che taluni dei rilievi espressi dai
 giudici remittenti, pur se rivolti  avverso  la  citata  disposizione
 dell'art.  41-bis,  non  trovano  la  loro causa nella norma di legge
 bensi' - come si e' gia' visto - nel solo provvedimento  ministeriale
 di applicazione.
    In   base   a  tutte  le  ragioni  sin  qui  esposte,  anche  tali
 provvedimenti,  come  del  resto  esattamente  ritengono  le   stesse
 ordinanze  di  rimessione,  sono  certamente  sindacabili dal giudice
 ordinario, il quale, in caso di reclamo, esercitera' su  di  essi  il
 medesimo  controllo  giurisdizionale  che l'Ordinamento penitenziario
 gli attribuisce in  via  generale  sull'operato  dell'Amministrazione
 penitenziaria  e  sui provvedimenti comunque concernenti l'esecuzione
 delle pene (cfr. sent. n. 53 del 1993).
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi, dichiara  non  fondata,  nei  sensi  di  cui  in
 motivazione,  la  questione  di legittimita' costituzionale dell'art.
 41-bis, secondo comma, della legge  26  luglio  1975  n.  354  (Norme
 sull'Ordinamento   penitenziario   e   sull'esecuzione  delle  misure
 privative e limitative della  liberta'),  sollevata,  in  riferimento
 agli  artt.  13,  primo e secondo comma, 15, secondo comma, 27, terzo
 comma,  97,  primo  comma,  e  113,  primo  e  secondo  comma,  della
 Costituzione,   dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Ancona  con  le
 ordinanze in epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 28 luglio 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0872