N. 359 SENTENZA 26 - 30 luglio 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via principale.
 
 Impiego regionale - Razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche
 e  revisione  della disciplina in materia di pubblico impiego - Nuova
 disciplina in tema di contrattazione collettiva e  rappresentativita'
 sindacale  Istituzione  di  un  organismo  statale  (l'Agenzia per le
 relazioni sindacali) affidatario della fase contrattuale - Esclusione
 delle regioni da tale fase con conseguente  sottrazione  del  potere,
 gia'  ad  esse  spettante,  di  approvazione  degli accordi sindacali
 relativi  al  comparto  regionale  -  Violazione   delle   competenze
 regionali - Illegittimita' costituzionale parziale.
 
 (D.Lgs.  3  febbraio 1993, n. 29, artt. 45, settimo e nono comma, 47,
 49, secondo comma, 50, secondo, terzo, quarto, ottavo e decimo comma,
 51, primo comma).
 
 (Cost., artt. 39, 76, 97, 117, 118, 119 e 124).
 
 Impiego regionale - Razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche
 e revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico  impiego  -
 Previsione  di  minuziosa  disciplina  in  ordine  alla mobilita' del
 personale regionale con esclusione dell'intervento  delle  regioni  -
 Violazione    delle    competenze    regionali    -    Illegittimita'
 costituzionale parziale.
 
 (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 35, quarto comma).
 
 (Cost., artt. 39, 76, 117, 118 e 119).
 
 Impiego regionale - Razionalizzazione delle amministrazioni pubbliche
 e revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico  impiego  -
 Contrattazione  collettiva  - Istituzione di un organismo tecnico per
 la rappresentanza negoziale della parte pubblica autonoma  sottoposto
 alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Prevista
 stipulazione  di  contratti collettivi nazionali vincolanti anche per
 le regioni - Disciplina di dettaglio in  ordine  alla  organizzazione
 degli  uffici  e  previsione  di  poteri sostitutivi nei confronti di
 organi regionali -  Nuova  disciplina  del  commissario  del  Governo
 presso le regioni - Lamentata violazione delle competenze regionali -
 Esclusione - Non fondatezza delle questioni.
 
 (Legge  23  ottobre  1992,  n.  421, art. 2, primo comma, lett.   b);
 D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, artt. 1, terzo comma; 13; 15,  secondo
 comma;  18,  primo  comma;  26;  27,  secondo e quarto comma; 28; 30,
 secondo comma; 31; 32; 33; 34;  35  primo,  secondo,  terzo,  quinto,
 sesto  e  settimo  comma; 41, primo e terzo comma; 42, secondo comma;
 43; 45, primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e ottavo  comma;
 50,  primo, quinto, sesto, settimo e nono comma; 51, secondo, terzo e
 quarto  comma;  52; 54; 60; 61, secondo comma; 63, secondo comma; 64;
 65; 67; 70, secondo comma).
 
 (Cost., artt. 39, 76, 97, 117, 118, 119 e 124)
 
(GU n.32 del 4-8-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici:  prof.  Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
 BALDASSARRE, prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.
 Luigi   MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato  GRANATA,  prof.
 Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2, primo  comma,
 lett.  b), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per
 la razionalizzazione e la revisione delle discipline  in  materia  di
 sanita',   di   pubblico   impiego,   di   previdenza  e  di  finanza
 territoriale) e degli artt. 1, terzo comma, 13,  15,  secondo  comma,
 18,  primo  comma,  26,  27,  secondo e quarto comma, 28, 30, secondo
 comma, 31, 32, 33, 34, 35, 41,  primo  e  terzo  comma,  42,  secondo
 comma, 43, 45, 47, 49, secondo comma, 50, 51, 52, 54, 60, 61, secondo
 comma,  63, secondo comma, 64, 65, 67, 70, secondo comma, del decreto
 legislativo   3   febbraio    1993,    n.    29    (Razionalizzazione
 dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della
 disciplina  in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della
 legge 23 ottobre 1992, n. 421), promossi con i ricorsi delle  Regioni
 Veneto  e Lombardia, notificati il 30 novembre 1992 e l'8 marzo 1993,
 depositati in cancelleria il 10 dicembre 1992 ed il  13  e  17  marzo
 1993 ed iscritti al n. 70 del registro ricorsi 1992 ed ai nn. 19 e 20
 del registro ricorsi 1993;
    Visti  gli  atti  di costituzione del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 22 giugno 1993 il Giudice relatore
 Enzo Cheli;
    Uditi  l'avvocato  Vitaliano  Lorenzoni  per  la  Regione  Veneto,
 l'avvocato Valerio Onida per la Regione Lombardia e l'avvocato  dello
 Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con ricorso depositato il 30 novembre 1992 (n. 70 del 1992)
 la Regione Veneto ha impugnato, in riferimento agli artt.  97  e  117
 della  Costituzione,  l'art. 2, primo comma, lett. b), della legge 23
 ottobre  1992,  n.  421,  recante   "Delega   al   Governo   per   la
 razionalizzazione  e  la  revisione  delle  discipline  in materia di
 sanita',  di  pubblico  impiego,   di   previdenza   e   di   finanza
 territoriale".  La  norma  impugnata  ha, tra l'altro, autorizzato il
 Governo a prevedere l'istituzione di un "organismo tecnico, dotato di
 personalita' giuridica", avente compiti di rappresentanza della parte
 pubblica per  la  formazione  degli  accordi  sindacali  in  sede  di
 contrattazione  collettiva relativa ai comparti del pubblico impiego.
 La medesima norma ha previsto anche che l'organismo in questione  sia
 sottoposto   alla   vigilanza  della  Presidenza  del  Consiglio  dei
 ministri, operando  "in  conformita'  alle  direttive  impartite  dal
 Presidente  del  Consiglio  dei  ministri". Questo vincolo, ad avviso
 della Regione ricorrente, violerebbe sia  la  competenza  legislativa
 regionale in materia di ordinamento degli uffici, di cui all'art. 117
 della  Costituzione, sia i principi di buon andamento e imparzialita'
 dell'amministrazione, di cui all'art. 97 della Costituzione.
    Nel ricorso si espone che la Corte costituzionale, nella  sentenza
 n.  219  del 1984, aveva affrontato il problema dell'incompatibilita'
 con l'autonomia regionale dell'art. 10,  ultimo  comma,  della  legge
 quadro  sul pubblico impiego (L. 29 marzo 1983, n. 93) nella parte in
 cui imponeva alle Regioni una  perfetta  corrispondenza  delle  leggi
 regionali  di  recepimento  dell'accordo sindacale al contenuto dello
 stesso,  dichiarando  l'illegittimita'  di  questa  disposizione.   A
 seguito  di  tale declaratoria di incostituzionalita' l'art. 10 della
 legge n. 93 del 1983 veniva novellato dalla legge 8 agosto  1985,  n.
 426,  che  consentiva  che il provvedimento regionale di approvazione
 dell'accordo   provvedesse   all'adeguamento   dello   stesso    alle
 peculiarita'  dell'ordinamento  degli uffici regionali. La ricorrente
 osserva altresi' che nella legge n. 93 del  1983  "la  necessita'  di
 realizzare  sia  il  principio  di  contrattazione  collettiva sia il
 principio dell'autonomia legislativa delle Regioni ha portato ad  una
 procedura  in  cui  ciascuna  Regione  e'  legittimata  dalla legge a
 partecipare, in piena autonomia, ad ambedue le fasi fondamentali  del
 procedimento:  sia alla fase contrattuale, mediante la presenza di un
 proprio rappresentante nella delegazione di parte pubblica costituita
 per la stipula degli  accordi,  sia  alla  fase  normativa,  mediante
 l'approvazione  con provvedimento regionale degli accordi stipulati".
 La sottoposizione dell'organismo tecnico di cui alla norma  impugnata
 alle direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri in
 sede  di  contrattazione collettiva riproporrebbe, invece, secondo la
 ricorrente, una  illegittima  ingerenza  nell'autonomia  regionale  e
 condizionerebbe  la  legge  regionale  di  recepimento  ad  un previo
 procedimento  "che  non  e'  di  per   se'   ne'   contrattuale   ne'
 legislativo".
    2.  - Con ricorso depositato in data 8 marzo 1993 (n. 20 del 1993)
 la stessa Regione Veneto ha impugnato,  sempre  in  riferimento  agli
 artt.  97 e 117 della Costituzione, anche le norme delegate, relative
 all'organismo tecnico di cui all'art. 2, primo comma, lett. b), della
 legge  di  delega  n. 421 del 1992, contenute negli artt. 50, 51 e 52
 del  decreto  legislativo   3   febbraio   1993,   n.   29,   recante
 "Razionalizzazione    dell'organizzazione    delle    amministrazioni
 pubbliche  e  revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico
 impiego".  La Regione si riporta integralmente al ricorso precedente,
 con il quale e' stata impugnata la norma di  delegazione,  e  osserva
 che  l'art.  50  della  normativa  delegata  si  limita  a regolare i
 rapporti tra l'organismo tecnico cui e' demandata  la  rappresentanza
 negoziale della parte pubblica (Agenzia per le relazioni sindacali) e
 la  Presidenza  del  Consiglio dei ministri, senza prevedere forme di
 collegamento tra tale organismo ed il sistema delle  Regioni  per  la
 contrattazione relativa ai rapporti di impiego regionale.
    Con  riferimento  poi  all'art. 51 del decreto impugnato si rileva
 che tale norma, riservando  al  Governo  la  decisione  finale  circa
 l'approvazione  dei  contratti  stipulati  dall'Agenzia  anche per le
 Regioni, e' anch'essa incostituzionale per le medesime ragioni  poste
 alla  base  delle  censure  rivolte  nei  confronti  della  norma  di
 delegazione.
    Infine, nell'art. 52, quarto comma, si ravvisa la  violazione  dei
 principi  in  tema di autonomia finanziaria regionale enunciati nella
 sentenza di questa Corte n. 369 del 1992.
    3. - Con ricorso depositato il 13 marzo 1993 (n. 19 del  1993)  la
 Regione  Lombardia  ha  impugnato, per violazione degli artt. 39, 76,
 117, 118, 119  e  124  della  Costituzione,  varie  disposizioni  del
 decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (artt. 1, terzo comma, 13,
 15,  secondo  comma, 18, primo comma, 26, 27, secondo e quarto comma,
 28, 30, secondo comma, 31, 32, 33, 34, 35, 41, primo e  terzo  comma,
 42, secondo comma, 43, 45, 47, 49, secondo comma, 50, 51, 52, 54, 60,
 61, secondo comma, 63, secondo comma, 64, 65, 67, 70, secondo comma).
    Una  prima  censura investe l'art. 1, terzo comma, dove si prevede
 che le disposizioni contenute nello stesso decreto  n.  29  del  1993
 "costituiscono  principi  fondamentali  ai  sensi dell'art. 117 della
 Costituzione" e che "le Regioni a statuto ordinario si  attengono  ad
 esse  tenendo  conto  della peculiarita' dei rispettivi ordinamenti".
 Nel ricorso si dubita della possibilita' che "principi  fondamentali"
 suscettibili  di  vincolare  le  Regioni ai sensi dell'art. 117 della
 Costituzione possano essere enunciati in  una  legge  delegata  e  si
 rileva  che  il  contenuto di estremo dettaglio della normativa posta
 dal decreto n. 29 sarebbe comunque tale  da  eccedere  l'ambito  e  i
 limiti propri dei "principi fondamentali": di conseguenza, la pretesa
 di  vincolare  le Regioni all'osservanza di tutte le disposizioni del
 decreto legislativo risulterebbe lesiva dell'autonomia regionale.
    Con riferimento alla qualifica dirigenziale - regolata dal capo II
 del titolo II del decreto impugnato - la  ricorrente  censura,  oltre
 l'art.  13  sui  destinatari  della nuova disciplina, la disposizione
 espressa nell'art. 15, secondo  comma  (dove  si  stabilisce  che  la
 dirigenza  si  esprime  attraverso  la  qualifica  di  "dirigente" da
 intendersi come unica, mentre solo nelle amministrazioni statali puo'
 essere  prevista  l'ulteriore  qualifica  di  "dirigente  generale"),
 nonche'  quella  contenuta nell'art. 27, secondo comma, seconda parte
 (dove si prevede che "per le Regioni, il dirigente cui sono conferite
 funzioni di coordinamento e' sovraordinato, limitatamente alla durata
 dell'incarico, al restante personale dirigenziale"). In proposito  la
 ricorrente  rileva  che  in  base  all'attuale disciplina la carriera
 dirigenziale nelle Regioni e' articolata su due qualifiche diverse  e
 che  l'applicazione  delle  disposizioni richiamate verrebbe a ledere
 l'autonomia regionale, costringendo le stesse Regioni a modificare il
 proprio ordinamento, con la riduzione delle qualifiche dirigenziali e
 con la disciplina delle funzioni di coordinamento nel modo  specifico
 richiesto dal decreto impugnato.
    Sono  poi  impugnati  l'art. 18, primo comma, che attribuisce a un
 organismo interamente statale il  compito  di  definire,  sulla  base
 delle indicazioni del Ministero del Tesoro, "i criteri e le procedure
 per l'analisi e la valutazione dei costi dei singoli uffici" e l'art.
 28,   che  disciplina  l'accesso  alla  qualifica  di  dirigente  con
 disposizioni di dettaglio e attribuisce al Presidente  del  Consiglio
 dei  ministri il compito di definire con proprio decreto le modalita'
 dei concorsi e delle selezioni dei dirigenti. Anche di queste  norme,
 ove  ritenute  applicabili  ai dirigenti della Regione, si censura il
 carattere invasivo della competenza e dell'autonomia regionale.
    Un ulteriore profilo di illegittimita' viene riferito all'art. 13,
 nella parte in cui dispone che le norme sulla dirigenza previste  dal
 decreto  impugnato  si applichino al personale del Servizio sanitario
 nazionale:  una  siffatta  disciplina  non  sarebbe  compatibile  con
 l'attuale  configurazione  delle  Unita'  sanitarie  locali come enti
 strumentali della Regione (prevista dall'art.  3,  primo  comma,  del
 decreto  legislativo  30  dicembre  1992,  n.  502)  e  lederebbe  la
 competenza regionale in materia di ordinamento degli enti  dipendenti
 dalla   Regione.  In  particolare,  sarebbero  lesivi  dell'autonomia
 regionale  l'art.  26   (che   contiene   norme   transitorie   sulla
 conservazione  di  talune  posizioni funzionali fino all'attribuzione
 della qualifica di dirigente, sulla revoca dei concorsi e sul  blocco
 degli  incrementi delle dotazioni di personale dirigenziale fino alla
 ridefinizione delle piante organiche), l'art. 27, quarto  comma  (che
 prevede  il  potere  sostitutivo  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri  in  caso  di  inerzia  della  Regione   nell'individuazione
 dell'organo   competente  a  effettuare  la  verifica  dei  risultati
 dell'attivita' svolta dagli uffici, senza subordinare l'esercizio  di
 tale  potere  alle  condizioni  e alle modalita' procedurali indicate
 nella giurisprudenza di questa  Corte),  nonche'  l'art.  28,  decimo
 comma   (che   disciplina,  dettagliatamente,  l'accesso  al  livello
 dirigenziale del ruolo professionale  tecnico  e  amministrativo  del
 Servizio sanitario nazionale).
    Passando all'esame del capo III del titolo II del decreto - che si
 riferisce  agli  "uffici, piante organiche, mobilita' e accesso" - la
 ricorrente censura che l'art. 30, secondo  comma,  preveda  direttive
 del  Dipartimento  per la funzione pubblica, di concerto col Ministro
 del Tesoro,  ai  fini  della  ridefinizione  triennale  delle  piante
 organiche,  e  che  l'art.  31,  nel  disciplinare la rilevazione del
 personale e le proposte  di  ridefinizione  delle  piante  organiche,
 imponga  la  riduzione  per  accorpamento degli uffici dirigenziali e
 delle relative dotazioni organiche in misura non  inferiore  al  10%,
 regolando  la procedura per addivenire a tali riduzioni e prevedendo,
 in caso di inerzia  delle  amministrazioni  non  statali,  un  potere
 sostitutivo  del Presidente del Consiglio dei ministri. Viene inoltre
 censurato il divieto - previsto dal sesto comma dello stesso articolo
 - di assunzione di personale fino a che non siano state approvate  le
 proposte  relative  alle  nuove  piante. La Regione impugna anche gli
 artt. 32, 33, 34 e 35 del  decreto  in  questione,  che  regolano  la
 procedura  di  mobilita'  tra  diversi  enti,  anche  appartenenti  a
 comparti diversi.
    Ad avviso  della  ricorrente  la  disciplina  centralizzata  della
 mobilita'  fissata  in  tali  norme - non prevedendo alcun intervento
 regionale in ordine ai movimenti di personale da o verso le Regioni -
 risulterebbe palesemente in contrasto  con  i  criteri  affermati  da
 questa Corte con le sentt. nn. 407 e 410 del 1989.
    Si  osserva  poi che l'art. 41 del decreto impugnato demanda ad un
 regolamento del  Governo  la  disciplina  dei  requisiti  di  accesso
 all'impiego,   delle  procedure  di  reclutamento  tramite  liste  di
 collocamento,  della   composizione   e   degli   adempimenti   delle
 commissioni  giudicatrici:  ove fosse applicabile anche alla Regione,
 questa normativa violerebbe l'autonomia  regionale,  comportando  tra
 l'altro  l'esercizio  di  una  potesta'  regolamentare del Governo in
 materia di competenza regionale e in assenza di  sufficienti  criteri
 legislativamente fissati.
    Anche l'art. 42, secondo comma, prevedendo direttive impartite dal
 Dipartimento  per  la  funzione  pubblica sui programmi di assunzione
 nelle amministrazioni pubbliche di  portatori  di  handicap,  sarebbe
 invasivo  della  competenza  regionale  in  tema  di assunzioni negli
 uffici  della  Regione.  Inoltre,  la  natura  di  norme  di  stretto
 dettaglio  delle  disposizioni  contenute nell'art. 43 (relative alla
 presentazione dei documenti da parte degli assunti ed all'obbligo  di
 permanenza  nella  prima  sede  per  almeno  sette  anni)  renderebbe
 illegittima la loro estensione al  personale  regionale.  La  Regione
 rileva  poi  come il titolo III del decreto impugnato - dedicato alla
 contrattazione collettiva  ed  alla  rappresentativita'  sindacale  -
 preveda  profonde  innovazioni  rispetto  alla legge quadro n. 93 del
 1983.  Le  materie  riservate  alla  legge  risultano,  nella   nuova
 disciplina,  ridotte  e  per  le  altre si rinvia alla contrattazione
 collettiva senza piu' prevedere una fase "normativa"  di  recepimento
 degli  accordi,  dal  momento  che  le amministrazioni pubbliche sono
 tenute ad osservare gli obblighi assunti con i  contratti  collettivi
 (artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma). In merito a questo nuovo
 assetto  del settore, nel ricorso si dubita innanzitutto che gli enti
 pubblici dotati di  autonomia  costituzionalmente  garantita  possano
 essere   assoggettati   al   vincolo   di  contratti  collettivi  "di
 categoria", specie se efficaci  erga  omnes.  In  secondo  luogo,  si
 rileva  che  il  vincolo  per  il  singolo  ente in tanto si potrebbe
 giustificare in quanto  l'ente  medesimo  fosse  rappresentato  dalle
 organizzazioni stipulanti. La normativa in questione prevede, invece,
 che  i  contratti per il pubblico impiego siano stipulati non gia' da
 organizzazioni rappresentative degli enti pubblici datori di  lavoro,
 o  da  delegazioni di parte pubblica (come nel sistema previsto dalla
 legge n. 93 del 1983), ma dall'Agenzia  per  le  relazioni  sindacali
 istituita dall'art. 50 del decreto impugnato cui spetta il compito di
 rappresentare  in  sede  di  contrattazione  collettiva  nazionale le
 pubbliche amministrazioni (art. 50, secondo comma).
    Dopo aver sottolineato la natura "strettamente" statale di  questo
 organismo  - posto sotto la vigilanza e soggetto alle direttive della
 Presidenza del Consiglio; disciplinato da un regolamento  governativo
 e guidato da un direttore nominato dal Presidente del Consiglio - e i
 poteri  del  Ministro  del  Tesoro  di quantificazione e ripartizione
 delle risorse destinate a  ciascun  comparto  di  contrattazione,  la
 Regione  ricorrente  afferma  che  il  descritto  sistema e' tale "da
 spogliare del tutto le Regioni della loro autonomia". Esse risultano,
 infatti, escluse dalla fase contrattuale, dal momento che  spetta  al
 Governo  autorizzare la sottoscrizione dei contratti (art. 51), salvo
 il solo parere della Conferenza dei Presidenti delle Regioni per  gli
 aspetti  di  interesse  regionale,  e  dal  momento  che  le semplici
 "indicazioni" che la Conferenza dei  Presidenti  delle  Regioni  puo'
 formulare   (art.   50,   quarto   comma)   nonche'   l'apporto   dei
 rappresentanti  da  questa  designati  nel  previsto   "comitato   di
 coordinamento"  che  coadiuva  il  direttore  dell'Agenzia  (art. 50,
 decimo comma) non possono "sostituire la partecipazione della singola
 Regione ad una contrattazione i cui  esiti  sono  peraltro  per  essa
 totalmente  vincolanti".  E questo tanto piu' ove si consideri che e'
 stata eliminata la fase "normativa" di recepimento degli accordi  con
 legge  regionale,  che  consentiva  alle  Regioni  di adeguarli "alle
 peculiarita' dell'ordinamento degli uffici ed alle disponibilita' del
 bilancio regionale" (v. sentt. nn. 219 del 1984 e 1001 del 1988).  La
 Regione  -  rileva  ancora  la ricorrente - risulta, pertanto, "da un
 lato privata della sua potesta' legislativa in ordine alla disciplina
 del  rapporto  di  lavoro  dei  dipendenti  propri   e   degli   enti
 strumentali;  dall'altro  lato  e'  privata  della  propria autonomia
 contrattuale, poiche' e' vincolata dai contratti collettivi alla  cui
 stipulazione  essa  non  puo'  prendere parte in modo significativo e
 determinante".
    Una siffatta disciplina sarebbe, ad avviso  della  ricorrente,  in
 contrasto  sia  con  i  principi  costituzionali in tema di autonomia
 regionale sia con l'art. 39  della  Costituzione,  in  quanto  lesiva
 dell'autonomia sindacale e contrattuale della Regione.
    Nel  ricorso  si  sottolinea  anche che alcune materie specifiche,
 nonche' la durata  dei  contratti  collettivi  di  comparto,  possono
 essere  disciplinate  da  contratti  collettivi  quadro,  in grado di
 vincolare anche le Regioni, stipulati dall'Agenzia  statale  e  dalle
 Confederazioni  maggiormente  rappresentative sul piano nazionale, la
 cui individuazione e' demandata ad  un  accordo  tra  Presidente  del
 Consiglio  dei  ministri  e Confederazioni sindacali, da recepire con
 decreto presidenziale (v. artt.  45-  47).  Anche  in  riferimento  a
 queste  disposizioni  si  rileva  come risulti sottratta alle Regioni
 ogni autonomia nel  determinare  le  controparti  contrattuali  e  si
 sollevano  dubbi  sulla  conformita'  della  disciplina  in questione
 all'art. 39 della Costituzione.
    Ulteriore censura, sempre per violazione dell'autonomia regionale,
 viene, infine, rivolta alla disposizione (art. 54) che rinvia  ad  un
 apposito  accordo  stipulato tra Presidente del Consiglio e sindacati
 la determinazione dei limiti massimi delle aspettative e dei permessi
 sindacali e  demanda  al  Dipartimento  della  funzione  pubblica  la
 ripartizione di tali aspettative tra le organizzazioni sindacali.
    L'art.  60,  nel  disciplinare  l'orario di servizio e l'orario di
 lavoro con norme di estremo dettaglio, e l'art. 61, nel prevedere che
 le amministrazioni adottino misure per  attuare  le  direttive  delle
 Comunita'  europee  in  materia di "pari opportunita'", sulla base di
 quanto disposto dal Dipartimento per la funzione pubblica,  sarebbero
 anch'essi lesivi dell'autonomia regionale.
    Gli  artt.  63,  64  e  65,  stabilendo disposizioni in materia di
 controllo della spesa per il personale, e assoggettando la Regione  a
 poteri  di  direttiva,  di  determinazione  e  di controllo di organi
 centrali contrasterebbero anch'essi con  l'autonomia  conferita  alla
 ricorrente.  In particolare, l'art. 63, secondo comma, attribuisce al
 Ministero del Tesoro e all'organismo  statale  previsto  dall'art.  2
 della  legge  n.  421  del  1992  poteri  di  definizione dei sistemi
 informatici impiegati da  tutte  le  amministrazioni  pubbliche;  gli
 artt.  64  e  65 disciplinano procedure e tecniche di rilevazione dei
 costi, attribuendo compiti specifici al Ministero del Tesoro ed  alla
 Presidenza  del  Consiglio  e prescrivendo anche che questa adotti un
 atto di indirizzo e coordinamento per la "omogeneizzazione delle pro-
 cedure presso  i  soggetti  pubblici  diversi  dalle  amministrazioni
 sottoposte  alla vigilanza ministeriale". Questo potere di indirizzo,
 ad avviso  della  ricorrente,  contrasterebbe  con  il  principio  di
 legalita'  sostanziale,  in quanto esercitato con procedura anomala e
 non vincolato a criteri di legge.
    Anche l'art. 70, secondo comma, prevedendo verifiche del Ministero
 del   Tesoro   e   del   Dipartimento   della    funzione    pubblica
 sull'applicazione  dei  contratti collettivi, se esteso alle Regioni,
 violerebbe la loro autonomia.
    Infine,  viene  impugnato  l'art.  67,  che  stabilisce   che   il
 Commissario   del   Governo   rappresenta  lo  Stato  nel  territorio
 regionale.  La  medesima  norma  attribuisce  a  questo   organo   la
 responsabilita'  in  ordine  al flusso di informazioni indirizzate al
 Governo dagli enti pubblici operanti nel  territorio  e  prevede  che
 "ogni  comunicazione  del  Governo  alla  Regione  avviene tramite il
 Commissario di Governo".
    Secondo la Regione ricorrente questa configurazione estensiva  del
 ruolo  e  dei  compiti  del Commissario non corrisponderebbe a quanto
 disposto  dall'art.  124  della  Costituzione,  che   attribuisce   a
 quest'organo   solo   il   compito  di  soprintendere  alle  funzioni
 amministrative esercitate  in  periferia  dagli  organi  dello  Stato
 coordinando le stesse con quelle esercitate dalla Regione.
    4.  -  In tutti i giudizi ha spiegato intervento il Presidente del
 Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
 Generale  dello  Stato, per chiedere che le questioni sollevate siano
 dichiarate infondate.
    In riferimento  ad  entrambi  i  ricorsi  proposti  dalla  Regione
 Veneto,  l'Avvocatura  richiama  i  contenuti  della legge quadro sul
 pubblico impiego e dell'art. 2 della legge n. 426 del 1985 - dove  si
 prevede  che  la  disciplina  nascente dagli accordi e' approvata con
 provvedimento  regionale,  salvi  i   "necessari   adeguamenti   alle
 peculiarita' dell'ordinamento degli uffici regionali" - per osservare
 che "non appare sostenibile la tesi della Regione ricorrente, in base
 alla quale l'agire dell'organo di rappresentanza della parte pubblica
 in  sede  di  contrattazione,  secondo  le  direttive  impartite  dal
 Presidente del Consiglio dei ministri, rappresenterebbe  un'ingerenza
 nella  autonomia  regionale,  atteso che la responsabilita' negoziale
 appartiene al Governo, laddove le Regioni  sono  rappresentate  nelle
 trattative   attinenti  al  loro  comparto,  cosicche'  esse  possono
 adattare   la   nuova   disciplina   alle   eventuali    peculiarita'
 dell'organizzazionedi ciascuna".
    5.  -  In  merito alle questioni sollevate dalla Regione Lombardia
 l'Avvocatura  premette  che   questa   Corte   ha   riconosciuto   la
 legittimita' di norme di indirizzo e coordinamento, adottate con atti
 legislativi   ed   amministrativi,  che  al  fine  di  assicurare  la
 salvaguardia dell'interesse  nazionale  hanno  "avocato"  allo  Stato
 settori di materie regionali.
    Inoltre,  l'Avvocatura osserva che le norme impugnate, inserendosi
 nella manovra economico-finanziaria del Governo, sono state  determi-
 nate  dall'esigenza  di  provvedere  ad  una profonda revisione della
 disciplina del pubblico impiego per rendere  piu'  efficace  l'azione
 amministrativa e piu' razionale l'utilizzazione delle risorse umane.
    Dopo aver sottolineato che questa Corte, nella sentenza n. 219 del
 1984,  ha  gia' riconosciuto la natura di legge di riforma economico-
 sociale anche alla legge  quadro  n.  93  del  1983,  avente  portata
 innovativa  inferiore  al decreto legislativo impugnato, l'Avvocatura
 afferma che tale decreto ha comunque previsto una serie  di  garanzie
 idonee  ad  evitare la lesione dell'autonomia regionale. In tal senso
 si  richiama  anche  il  documento  approvato  dalla  Conferenza  dei
 Presidenti  delle  Regioni  l'11 gennaio 1993, nel quale si riconosce
 che il decreto adottato dal  Governo  ha  prestato  "una  particolare
 attenzione   alle   peculiarita'  dell'ordinamento  regionale  ed  un
 sufficiente rispetto delle autonomie costituzionalmente garantite".
    6. - In  prossimita'  dell'udienza  hanno  depositato  memorie  la
 Regione Lombardia e il Presidente del Consiglio dei ministri.
    Nella  memoria della Regione Lombardia si richiama l'art. 45, nono
 comma, del decreto impugnato, per rilevare come  questa  disposizione
 precluda  ogni possibilita' di adeguamento del contenuto contrattuale
 della  disciplina  del   rapporto   di   lavoro   alle   peculiarita'
 dell'ordinamento  regionale, con la conseguenza che tale disposizione
 potrebbe essere considerata legittima solo ove ciascuna Regione fosse
 messa nelle condizioni di partecipare direttamente alla trattativa in
 vista della conclusione del contratto. Poiche' cio'  non  accade,  la
 norma sarebbe incostituzionale, e la ricorrente richiede che la Corte
 ribadisca  il  principio  espresso nella sentenza n. 219 del 1984 dal
 quale deriverebbe che spetta alle Regioni adeguare  i  contenuti  dei
 contratti   collettivi   all'ordinamento   degli   uffici   ed   alle
 disponibilita' del bilancio regionale.
    Un ulteriore profilo evidenziato  dal  richiamato  art.  45,  nono
 comma,  e  dall'art. 49, secondo comma, concerne la concorrenzialita'
 della nuova fonte introdotta dal decreto - i contratti  collettivi  -
 con  la  fonte  legislativa  regionale  prevista  dall'art. 117 della
 Costituzione.
    Dal  punto  di  vista  delle  Regioni,  il  contratto   collettivo
 opererebbe,  infatti, come una vera e propria fonte normativa, munita
 di efficacia vincolante nei confronti della legge regionale,  pari  a
 quella  che,  nei  limiti dell'art. 117 della Costituzione, spiega la
 legge statale: ma tali effetti, riferiti al contratto collettivo,  si
 presentano  in  contrasto  con  la  Costituzione  e  con  i  principi
 affermati  in   tema   di   fonti   primarie   dalla   giurisprudenza
 costituzionale (sentt. nn. 26 del 1966 e 79 del 1970).
    Se  invece  il  contratto collettivo fosse considerato quale fonte
 statale di livello subordinato alla legge, il carattere vincolante ad
 esso attribuito nei confronti della legislazione regionale violerebbe
 il principio ripetutamente affermato dalla Corte secondo il quale  le
 fonti  statali  secondarie  non possono incidere su materie riservate
 alla competenza regionale. Ma neppure la qualificazione dei contratti
 quali atti di autonomia privata  negoziale  varrebbe  a  superare  le
 censure  sollevate  dal momento che, seguendo questa interpretazione,
 occorrerebbe configurare la Regione come soggetto appartenente ad una
 categoria di datori di lavoro, iscritto al sindacato che  stipula  il
 contratto,  ovvero  obbligato dall'efficacia erga omnes del contratto
 medesimo conseguita nei modi previsti  dall'art.  39,  quarto  comma,
 della   Costituzione.   In   proposito  si  osserva  che  secondo  la
 giurisprudenza della Corte (sent. n. 106 del 1962) e' da  considerare
 "palesemente  illegittima"  quella  disciplina  legislativa  la quale
 cerchi di conseguire l'estensione dell'efficacia obbligatoria  di  un
 contratto  collettivo  a  tutti  gli  appartenenti ad una determinata
 categoria con strumenti diversi da quelli previsti dall'art. 39 della
 Costituzione.
    Sotto diverso profilo la disciplina impugnata violerebbe anche  la
 liberta'  sindacale  della  Regione,  garantita  dallo stesso art. 39
 della Costituzione, dal momento che la neo-istituita Agenzia  per  le
 relazioni  sindacali  "tiene  addirittura luogo del sindacato ai fini
 dalla  stipulazione  dei  contratti  collettivi"  vincolanti  per  le
 Regioni,  senza che sia prevista per esse alcuna liberta' di adesione
 ovvero la partecipazione alla fase contrattuale.
    7. - Nella memoria dell'Avvocatura dello  Stato  -  presentata  in
 relazione  al  ricorso n. 20/1993 della Regione Veneto - si ribadisce
 in primo luogo  il  carattere  radicalmente  innovativo  della  legge
 delega  n.  421  del 1992 e del decreto attuativo n. 29 del 1993 che,
 realizzando la "privatizzazione" del rapporto  di  impiego  pubblico,
 avrebbero   determinato  una  mutazione  del  complessivo  quadro  di
 riferimento di tutta la  materia  e  delle  fonti  normative  che  la
 disciplinavano. A giudizio dell'Avvocatura tale mutamento delle fonti
 relative  al  rapporto  di  impiego  del  personale  delle  pubbliche
 amministrazioni non determinerebbe, peraltro,  alcuna  lesione  delle
 competenze regionali in materia di organizzazione degli uffici, posto
 che,  per  espressa  previsione dell'art. 2, lett. c), della legge n.
 421,  la  materia   dell'organizzazione   e'   sottratta   all'ambito
 contrattuale  e  resta  riservata  alla  legge,  proprio  al  fine di
 impedire la cogestione tra amministrazione  e  sindacato  per  quanto
 attiene alla organizzazione del lavoro.
    D'altro  canto,  l'oggetto  delle direttive, impartite all'Agenzia
 dal Presidente del Consiglio ai  sensi  dell'art.  50,  terzo  comma,
 sarebbe   limitato  all'indicazione  delle  risorse  complessivamente
 disponibili  per  i  comparti  e  dei   criteri   generali   per   la
 distribuzione  di  tali  risorse  al  personale.  Fermo  restando che
 l'individuazione delle stesse risorse e' rimessa a  sede  diversa  da
 quella  negoziale  e,  precisamente,  alla  legge finanziaria, la cui
 formazione e' preceduta da momenti  di  consultazione  nei  quali  le
 Regioni    sarebbero    ampiamente    rappresentate.   Le   direttive
 assolverebbero, pertanto, alla duplice funzione  di  fissare  criteri
 minimali  di  uniformita' - in ordine ai quali le Regioni potrebbero,
 comunque, sviluppare una disciplina integrativa - e di  stabilire  il
 tetto  entro  il quale ogni comparto puo' svolgere la contrattazione,
 in relazione alle risorse.
    In  questo  senso, gli artt. 50, 51 e 52 del decreto devono essere
 valutati nel contesto sistematico della disciplina posta dal  decreto
 stesso, con particolare riferimento agli artt. da 63 a 67, in materia
 di  controllo  della  spesa,  che  assumono  un  particolare  rilievo
 rispetto al fine perseguito dal legislatore di realizzare un  sistema
 di  efficace valutazione dei costi e di trasparenza dei meccanismi di
 spesa.
    In questo quadro, la partecipazione delle Regioni alla  formazione
 delle  direttive,  nella  forma  della consultazione preventiva della
 Conferenza dei Presidenti regionali, cosi'  come  prevista  dall'art.
 50, terzo comma, unitamente agli altri momenti partecipativi previsti
 dal  decreto  a  favore delle Regioni, sarebbe - secondo l'Avvocatura
 dello Stato - idonea a garantire  il  ruolo  regionale,  in  rapporto
 all'oggetto delle direttive, come sopra precisato.
    8.  - L'Avvocatura dello Stato ha presentato, inoltre, una memoria
 in relazione al ricorso n. 19/1993 della Regione Lombardia.  In  tale
 memoria  l'Avvocatura  dello  Stato  si sofferma in particolare sugli
 aspetti inerenti al personale del Servizio sanitario  nazionale,  per
 rilevare   che  l'applicabilita'  della  normativa  delegata  a  tale
 personale e' stata esplicitamente prevista  dall'art.  1,  lett.  q),
 della  legge  di  delega  n. 421 del 1992. A giudizio dell'Avvocatura
 dello Stato la nuova configurazione  delle  Unita'  sanitarie  locali
 quali "enti strumentali" delle Regioni, di cui al decreto legislativo
 n.  502  del 1992, non avrebbe modificato il principio di omogeneita'
 della disciplina del personale, necessaria, tra l'altro, a consentire
 le procedure di mobilita' di cui all'art. 2, primo comma,  lett.  r),
 della  stessa  legge  n.  421. Tale preminente interesse di carattere
 nazionale giustificherebbe,  pertanto,  il  mantenimento  allo  Stato
 della  competenza  in materia di personale sanitario, ferma restando,
 per le Regioni, la facolta', sancita dall'art. 1,  terzo  comma,  del
 decreto  impugnato,  di  attuare le norme statali tenendo conto della
 peculiarita' dei rispettivi ordinamenti.
                        Considerato in diritto
    1. - I due ricorsi avanzati dalla Regione  Veneto  ed  il  ricorso
 promosso   dalla  Regione  Lombardia  sollevano  questioni  in  parte
 identiche ed in parte connesse: possono essere, pertanto, riuniti  al
 fine di essere decisi con un'unica pronuncia.
    2.  -  Con  il  primo  dei due ricorsi (n. 70 del 1992) la Regione
 Veneto impugna l'art. 2,  primo  comma,  lett.  b),  della  legge  23
 ottobre   1992,   n.   421,   recante   "Delega  al  Governo  per  la
 razionalizzazionee  la  revisione  delle  discipline  in  materia  di
 sanita',   di   pubblico   impiego,   di   previdenza  e  di  finanza
 territoriale".
    Secondo la ricorrente, la norma in  questione,  nel  conferire  al
 Governo  il  potere di prevedere, mediante legge delegata, "strumenti
 per la rappresentanza negoziale della  parte  pubblica,  autonoma  ed
 obbligatoria,  mediante  un  apposito  organismo  tecnico,  dotato di
 personalita' giuridica, sottoposto alla  vigilanza  della  Presidenza
 del  Consiglio dei ministri ed operante in conformita' alle direttive
 impartite dal Presidente del Consiglio", avrebbe violato  l'art.  117
 della Costituzione, con riferimento alla competenza regionale in tema
 di  ordinamento  degli  uffici, nonche' l'art. 97 della Costituzione,
 che   assicura   il   buon   andamento   e   l'imparzialita'    della
 amministrazione.
    La questione non e' fondata.
    La  norma di delegazione in questione, nella generalita' della sua
 previsione,  non  e'   tale   da   apportare   lesione   alla   sfera
 dell'autonomia  regionale  ne'  al principio di cui all'art. 97 della
 Costituzione, dal momento che, pur prevedendo per  la  rappresentanza
 della  parte  pubblica  nella  contrattazione collettiva un organismo
 unitario sottoposto alla vigilanza e  operante  in  conformita'  alle
 direttive  del  Presidente del Consiglio, non esclude la possibilita'
 di una partecipazione adeguata delle Regioni alle attivita'  di  tale
 organismo  ed  alle  procedure  della  contrattazione,  ove le stesse
 vengano a investire, con  carattere  vincolante,  la  disciplina  dei
 rapporti  di lavoro e di impiego alle dipendenze delle stesse Regioni
 e degli enti regionali. Tale partecipazione regionale  appare,  anzi,
 sottintesa  negli  stessi principi espressi dalla norma impugnata la'
 dove essa, nel suo primo inciso, conferisce al Governo il  potere  di
 prevedere  "criteri  di  rappresentativita'" ai fini della tutela dei
 diritti sindacali e delle procedure  di  contrattazione  "compatibili
 con le norme costituzionali".
    La  lesione  della sfera dell'autonomia regionale, la' dove essa -
 come vedremo - si e' verificata, e' stata, pertanto, determinata, non
 dalla norma di delegazione espressa dall'art. 2, primo  comma,  lett.
 b),  della  legge  n.  421  del  1992,  bensi'  dal  modo come questa
 disposizione e' stata, in concreto, attuata attraverso  alcune  delle
 norme  contenute  nel  decreto  legislativo  n.  29  del  1993: norme
 anch'esse impugnate dalla Regione Veneto con il successivo ricorso n.
 20 del 1993, oggetto dell'esame che verra' condotto, congiuntamente a
 quello relativo al ricorso  proposto  dalla  Regione  Lombardia,  nei
 paragrafi che seguono.
    3.  -  Formano  oggetto  delle impugnative proposte con il secondo
 ricorso della Regione Veneto (n. 20 del 1993) e con il ricorso  della
 Regione  Lombardia  (n.  19 del 1993) numerose disposizioni contenute
 nel  decreto  legislativo   3   febbraio   1993,   n.   29,   recante
 "Razionalizzazione    dell'organizzazione    delle    amministrazioni
 pubbliche  e  revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico
 impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421".
    Con  tale  decreto  - emanato in attuazione della delega contenuta
 nell'art. 2 della legge n. 421 del 1992 (Delega  al  Governo  per  la
 razionalizzazione  e  la  revisione  delle  discipline  in materia di
 sanita',  di  pubblico  impiego,   di   previdenza   e   di   finanza
 territoriale)  -  e'  stata  formulata  una nuova disciplina organica
 della materia dell'organizzazione degli  uffici  e  dei  rapporti  di
 lavoro  e  di  impiego  nell'ambito  delle amministrazioni pubbliche,
 disciplina ispirata alle finalita' di "accrescere l'efficienza  delle
 amministrazioni  in  relazione  a  quella dei corrispondenti uffici e
 servizi dei paesi della Comunita'  europea",  di  "razionalizzare  il
 costo  del  lavoro  pubblico,  contenendo la spesa complessiva per il
 personale,  diretta  e  indiretta,  entro  i  vincoli  della  finanza
 pubblica",  di  "integrare  gradualmente  la  disciplina  del  lavoro
 pubblico con quella del lavoro privato" (v.  art. 1).
    La normazione espressa nel decreto n. 29 del 1993 ha profondamente
 innovato la disciplina in precedenza posta  dalla  legge  quadro  sul
 pubblico  impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93), ricostruendo l'intera
 materia intorno ai nuovi principi  della  "privatizzazione"  e  della
 "contrattualizzazione"  enunciati nell'art. 2, primo comma, lett. a),
 della legge n. 421 del 1992 e attuati, nel decreto n.  29  del  1993,
 mediante   l'inquadramento  dei  rapporti  d'impiego  pubblico  nella
 cornice del  diritto  civile  e  nella  contrattazione  collettiva  e
 individuale.
    Le  Regioni  ricorrenti non contestano le linee di fondo di questa
 riforma, ma ritengono che le  sue  modalita'  attuative,  cosi'  come
 articolate  nel  decreto  legislativo n. 29, siano tali da incidere e
 menomare, per vari aspetti, la sfera dell'autonomia regionale.
    Piu' in particolare, la Regione Veneto contesta -  per  violazione
 degli  artt.  97  e  117 della Costituzione - la disciplina posta dal
 decreto legislativo in tema di Agenzia per le relazioni sindacali, di
 sottoscrizione  dei   contratti   e   di   risorse   destinate   alla
 contrattazione collettiva (artt. 50, 51 e 52).
    A  sua  volta, la Regione Lombardia impugna - per violazione degli
 artt. 39, 76, 117, 118, 119  e  124  della  Costituzione  -  numerose
 disposizioni  concernenti:  a) l'efficacia della nuova disciplina nei
 confronti delle Regioni (art. 1, terzo comma); b) la dirigenza (artt.
 13; 15, secondo comma; 18, primo comma;  26;  27,  secondo  e  quarto
 comma;  28); c) il personale delle Unita' Sanitarie locali (artt. 26;
 26, quarto  comma;  28,  decimo  comma;  d)  gli  uffici,  le  piante
 organiche,  la  modalita' e gli accessi (artt. 30, secondo comma; 31;
 32; 33; 34; 35; 41, primo e terzo comma; 42, secondo comma;  43);  e)
 la contrattazione collettiva e la rappresentativita' sindacale (artt.
 45;  47;  49,  secondo  comma;  50,  51,  52 e 54); f) il rapporto di
 lavoro, con riferimento all'orario di servizio e di  lavoro  ed  alla
 disciplina della pari opportunita' tra uomini e donne (artt. 60 e 61,
 secondo comma); g) il controllo della spesa (artt. 63, secondo comma;
 64;  65 e 70, secondo comma); h) i poteri del Commissario del Governo
 (art. 67).
    4. - I ricorsi sono in parte fondati.
    Per procedere ad un esame ordinato delle varie censure  converra',
 in   primo   luogo,   muovere   dalla   valutazione  dei  profili  di
 illegittimita' che vengono a  investire  gli  aspetti  piu'  generali
 della nuova disciplina (art. 1, terzo comma, e disposizioni contenute
 nel   titolo   III,   in   tema   di   contrattazione   collettiva  e
 rappresentativita' sindacale), per poi passare allo  scrutinio  delle
 questioni  piu'  particolari,  secondo  l'ordine  di collocazione nel
 testo della legge delegata delle disposizioni impugnate.
    5. - La prima censura che va esaminata e' quella  che  la  Regione
 Lombardia  ha  formulato  nei  confronti del terzo comma dell'art. 1,
 dove si stabilisce - in attuazione di quanto  previsto  dall'art.  2,
 secondo  comma,  della  legge  n.  421 del 1992 - che le disposizioni
 contenute  nel  decreto  n.  29  del  1993  "costituiscono   principi
 fondamentali  ai  sensi  dell'art.  117  della Costituzione" e che le
 Regioni  ordinarie  "si  attengono  ad  esse  tenendo   conto   delle
 peculiarita' dei rispettivi ordinamenti".
    Ad avviso della ricorrente tale norma - anche a voler ammettere la
 possibilita'  di  formulare principi fondamentali di cui all'art. 117
 della Costituzione, in una legge delegata - sarebbe incostituzionale,
 dal  momento  che  verrebbe  a  vincolare  le  Regioni  al   rispetto
 indiscriminato  di tutte le disposizioni enunciate nel decreto n. 29,
 ivi comprese quelle contenenti discipline di estremo dettaglio.
    La questione non e' fondata.
    Mentre  non  possono  sussistere dubbi in ordine alla possibilita'
 che i "principi fondamentali" di cui all'art. 117 della  Costituzione
 possano  essere  enunciati  anche  in  una  legge delegata, stante la
 diversa natura ed il diverso grado di generalita' che detti  principi
 possono  assumere rispetto ai "principi e criteri direttivi" previsti
 in tema di legislazione delegata dall'art. 76 della Costituzione,  va
 in  concreto  rilevato  che la norma impugnata, nella sua integrale e
 corretta lettura, non e' tale da produrre quegli effetti  di  vincolo
 assoluto e generalizzato che la Regione lamenta. Le disposizioni for-
 mulate  nel  decreto  legislativo  vincolano,  infatti,  le Regioni a
 statuto ordinario non tanto in relazione alla mera qualifica  formale
 di  "principi  fondamentali"  riconosciuta  dalla  legge,  quanto  in
 relazione alla natura oggettiva di normazione  di  principio  che  le
 disposizioni  stesse,  in  conformita'  alla  loro qualifica formale,
 vengono a manifestare (v., analogamente, con riferimento  alle  leggi
 di  riforma economico-sociale, sentt. nn. 219 del 1984; 192 del 1987;
 85 del 1990; 349 del 1991): di  talche'  le  stesse  Regioni  saranno
 tenute  alla loro osservanza non indiscriminatamente, ma nella misura
 in cui tali disposizioni siano suscettibili di esprimere, per il loro
 contenuto e la loro formulazione, un principio fondamentale e non una
 norma  di  dettaglio.  Diversamente  non  sarebbe  neppure  possibile
 spiegare  la stessa formulazione della norma impugnata che vincola le
 Regioni ad osservare le disposizioni  del  decreto  legislativo  come
 espressione  di  "principi  fondamentali",  ma  tenendo  conto "delle
 peculiarita' dei rispettivi ordinamenti".
    6. - Passando all'esame delle censure  prospettate  dalla  Regione
 Veneto   e,  con  maggiore  ampiezza,  dalla  Regione  Lombardia  nei
 confronti delle norme formulate nel titolo III del decreto n. 29  del
 1993  in  tema  di  contrattazione collettiva e di rappresentativita'
 sindacale, conviene innanzi  tutto  richiamare  i  tratti  essenziali
 della nuova disciplina espressa nell'ambito di tale titolo.
    Questa disciplina s'incentra sui punti seguenti:
     a)   tutte  le  materie  relative  ai  rapporti  di  lavoro  alle
 dipendenze di amministrazioni pubbliche  -  ad  eccezione  di  quelle
 riservate  alla  legge,  ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. e),
 della legge n. 421  del  1992  -  sono  regolate  mediante  contratti
 collettivi,   nazionali  e  decentrati  (cui  si  possono  aggiungere
 contratti  collettivi  quadro,  destinati  a  disciplinare  in   modo
 uniforme per tutte le aree di contrattazione collettiva la durata dei
 contratti  e  specifiche  materie) (artt. 45, primo, secondo e quinto
 comma);
     b)  la  contrattazione  nazionale   e'   attuata   per   comparti
 comprendenti  settori  omogenei  o affini, individuati, sulla base di
 accordi sindacali, con  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,  sentita la Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli
 aspetti  di  interesse  regionale  (art.   45,   terzo   comma).   La
 contrattazione  decentrata  si  svolge  sulle  materie  e  nei limiti
 stabiliti dai contratti nazionali (art. 45, quarto comma);
     c) i contratti  collettivi,  una  volta  sottoscritti,  vincolano
 immediatamente  le  amministrazioni  pubbliche,  che  sono  tenute  a
 garantire ai propri dipendenti trattamenti  non  inferiori  a  quelli
 previsti  nei  rispettivi  contratti  (artt.  45,  nono  comma, e 49,
 secondo  comma).   Risulta,   pertanto,   eliminata   la   fase   del
 "recepimento"   o   della  "approvazione"  degli  accordi  collettivi
 mediante atto normativo (statale o regionale),  gia'  prevista  dalla
 legge quadro sul pubblico impiego (artt. 6 e 10 L. n. 93 del 1983);
     d)  i  contratti  collettivi nazionali ed i contratti quadro sono
 stipulati, per la parte pubblica,  dalla  Agenzia  per  le  relazioni
 sindacali,  istituita  dall'art.  50,  e per la parte sindacale dalle
 Confederazioni  maggiormente  rappresentative  sul  piano  nazionale.
 L'Agenzia  - cui spetta la rappresentanza di tutte le amministrazioni
 pubbliche (ivi comprese le Regioni a  statuto  ordinario,  mentre  le
 Regioni a statuto speciale e le Province autonome "possono" avvalersi
 dell'attivita' dell'Agenzia) - e' un organismo dotato di personalita'
 giuridica,  sottoposto  alla  vigilanza del Presidente del Consiglio,
 disciplinato da un regolamento governativo ed  il  cui  direttore  e'
 nominato  con  decreto  del  Presidente  del  Consiglio. L'Agenzia si
 attiene,  nella  contrattazione,   alle   direttive   impartite   dal
 Presidente  del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti delle
 Regioni  per  gli   aspetti   di   interesse   regionale.   Ulteriori
 indicazioni,  per i contratti relativi al comparto regionale, possono
 essere  date  all'Agenzia  dalla  Conferenza  dei  Presidenti   delle
 Regioni.  L'Agenzia,  per lo svolgimento dei suoi compiti, si avvale,
 tra l'altro,  di  consulenti  prescelti  tenendo  anche  conto  delle
 indicazioni  delle  Regioni. Il direttore dell'Agenzia e' coadiuvato,
 per le questioni concernenti il personale degli enti  locali,  da  un
 comitato  di coordinamento i cui membri sono in parte designati dalla
 Conferenza dei Presidenti delle Regioni (art. 50);
     e)  per  quanto  concerne  la   parte   sindacale   la   maggiore
 rappresentativita'  sul  piano nazionale viene definita in base ad un
 apposito  accordo  tra  Presidente  del  Consiglio  e  Confederazioni
 sindacali  (individuate  ai  sensi  dell'art.  8 del d.P.R. 23 agosto
 1988, n. 395), accordo recepito  con  decreto  del  Presidente  della
 Repubblica (art. 47);
     f)  i  contratti  decentrati  vengono  stipulati,  per  la  parte
 pubblica, da una delegazione composta  dal  titolare  del  potere  di
 rappresentanza delle singole amministrazioni e per la parte sindacale
 da  una rappresentanza composta secondo modalita' da definire in sede
 di contratto nazionale (art. 45, ottavo comma);
     g)  la  sottoscrizione  dei  contratti   nazionali   e'   operata
 dall'Agenzia  in  base  ad  autorizzazione  del Governo sottoposta al
 controllo della Corte dei conti e regolata da un'apposita  procedura.
 Il  Governo  assume  il  parere della Conferenza dei Presidenti delle
 Regioni per gli aspetti di interesse regionale (art. 51);
     h) la quantificazione degli oneri derivanti dalla  contrattazione
 collettiva  e'  affidata,  per tutte le amministrazioni pubbliche, al
 Ministero del Tesoro e le risorse  vengono  ripartite  tra  le  varie
 amministrazioni con la particolare procedura fissata nell'art. 51. Al
 Presidente del Consiglio spetta impartire direttive all'Agenzia per i
 rinnovi   contrattuali,   indicando   le   riserve   complessivamente
 disponibili per i comparti ed i  criteri  generali  di  distribuzione
 delle risorse (art. 51, secondo comma);
     i)  un  apposito accordo tra Presidente del Consiglio e sindacati
 maggiormente  rappresentativi   regola   i   limiti   massimi   delle
 aspettative e dei permessi sindacali nel settore pubblico (art. 54).
    7.  - Larga parte di tale normazione viene impugnata dalle Regioni
 ricorrenti, in quanto ritenuta  lesiva  delle  competenze  regionali,
 anche  in  relazione  alla  disciplina  in  precedenza posta, per gli
 accordi collettivi relativi al comparto regionale, dalla legge quadro
 sul pubblico impiego (e, in particolare, dall'art. 10, ultimo comma),
 nonche'  alla giurisprudenza di questa Corte elaborata in relazione a
 tale legge (sentt. n. 219 del 1984; n. 217 del 1987; nn. 1001 e  1003
 del 1988). Ad avviso della ricorrente, infatti, la nuova procedura di
 contrattazione fissata dal decreto legislativo n. 29 sarebbe venuta a
 spogliare  le  Regioni  delle  competenze  costituzionali alle stesse
 spettanti in tema di disciplina dei propri rapporti  d'impiego  sotto
 un duplice profilo: da un lato, escludendo del tutto le Regioni dalla
 fase  contrattuale,  affidata  in  esclusiva  ad un organismo statale
 qual'e' l'Agenzia per le relazioni sindacali; dall'altro,  sottraendo
 alla  sfera  regionale  il  potere di approvazione (e di adeguamento)
 degli accordi sindacali relativi al comparto regionale gia'  previsto
 dall'art.   10,  ultimo  comma,  della  legge  n.  93  del  1983.  La
 vincolativita' piena che il decreto legislativo n. 29 conferisce - ai
 sensi degli artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma - ai  contratti
 stipulati  per  il  comparto regionale senza il concorso attivo delle
 Regioni verrebbe, di conseguenza, a determinare  una  violazione  sia
 dell'art. 117 che dell'art. 39 della Costituzione.
    8.   -   Tali  doglianze  si  presentano  in  parte  fondate,  con
 riferimento al loro nucleo centrale che investe la procedura prevista
 per la contrattazione nazionale.
    Non si puo', infatti, negare che tale  procedura  -  riducendo  lo
 spazio riservato alla legge regionale ed eliminando la fase normativa
 di recepimento degli accordi gia' prevista dalla legge n. 93 del 1983
 - sia venuta a limitare notevolmente l'ambito d'intervento consentito
 alle  Regioni a statuto ordinario dall'art. 117 della Costituzione in
 tema di disciplina dei propri rapporti di lavoro e di impiego  senza,
 di  contro,  compensare  tale  limitazione  attraverso  una  presenza
 adeguata delle stesse Regioni nella fase  della  trattativa  e  della
 sottoscrizione del contratto.
    L'affidamento in esclusiva, con effetti vincolanti, di tale fase -
 e  della  relativa  rappresentanza  della  parte  pubblica  -  ad  un
 organismo quale  l'Agenzia  -  dotato  di  propria  personalita',  ma
 sottoposto  alla vigilanza della Presidenza del Consiglio - non puo',
 d'altro canto, non incidere nella sfera dell'autonomia connessa  alla
 contrattazione collettiva, che anche per quanto concerne le Regioni a
 statuto  ordinario viene a discendere dai principi di cui all'art. 39
 della Costituzione: autonomia la cui  limitazione  risulta  aggravata
 dalla  procedura di individuazione delle controparti contrattuali, da
 cui le stesse Regioni si trovano, ai  sensi  dell'art.  47,  primo  e
 secondo comma, del tutto escluse.
    Ne'  compensazioni adeguate alla sottrazione di potere normativo e
 contrattuale operato nei confronti delle Regioni dalla disciplina  in
 esame   possono   essere  individuate  nelle  funzioni  consultive  e
 d'indirizzo attribuite alla Conferenza dei Presidenti  delle  Regioni
 dall'art.  50,  terzo  e quarto comma, e dall'art. 51, primo comma, e
 neppure negli apporti all'organizzazione dell'Agenzia consentiti alla
 stessa Conferenza dall'art. 50, ottavo e decimo comma. E invero  tali
 funzioni  e  tali  apporti  vengono  pur  sempre  a configurarsi come
 secondari  e  marginali  rispetto  alla  formazione  della   volonta'
 contrattuale,  ne'  sono tali da giustificare l'assenza della Regione
 come parte sostanziale del rapporto.
    9. - Le osservazioni che precedono conducono, dunque, ad affermare
 l'illegittimita' delle norme espresse  nel  titolo  III  del  decreto
 impugnato,  suscettibili  di  riferirsi alla contrattazione nazionale
 relativa ai rapporti di lavoro e d'impiego delle Regioni ordinarie  e
 degli  enti  amministrativi dipendenti dalle stesse. La dichiarazione
 di illegittimita' costituzionale colpisce, di conseguenza, gli  artt.
 45,  settimo e nono comma; 47; 49, secondo comma; 50, secondo, terzo,
 quarto,  ottavo  e  decimo  comma;  51,  primo  comma,  del   decreto
 legislativo  n.  29  del  1993,  nella parte in cui tali disposizioni
 risultino  applicabili  alle  Regioni   a   statuto   ordinario   con
 riferimento  alla  contrattazione  nazionale  relativa ai rapporti di
 lavoro e di impiego alle dipendenze delle stesse Regioni e degli enti
 regionali.
    La pronuncia di illegittimita'  non  colpisce,  invece,  le  altre
 norme  del  titolo III che formano oggetto d'impugnativa, dal momento
 che le stesse o non incidono nella sfera di autonomia  delle  Regioni
 ordinarie (art. 45, quinto e sesto comma) od offrono a tale autonomia
 un  riconoscimento  adeguato (art. 45, terzo e ottavo comma; art. 51,
 terzo comma) o sono  tali  da  trovare  la  loro  giustificazione  in
 esigenze  primarie  di  rilievo  nazionale ispiratrici della riforma,
 quali   quelle   connesse   allo   sviluppo    della    produttivita'
 dell'amministrazioneed  al controllo della spesa pubblica relativa al
 personale (artt. 51, quarto comma; 52; 54).
    D'altro canto, e' appena il caso di osservare che la pronuncia  di
 illegittimita' delle norme sopra elencate, con riferimento ai profili
 denunciati,  non comporta che il legislatore, in sede di formulazione
 della nuova disciplina che dovra' sostituire quella ora caducata, non
 possa pur sempre ispirarsi ai principi enunciati  nell'art.  2  della
 legge  n.  421 del 1992 - che piu' hanno innovato rispetto alla legge
 n. 93 del 1983 - sia in tema di "contrattualizzazione"  del  rapporto
 di impiego pubblico (con la relativa separazione della fase normativa
 dalla fase contrattuale) che in tema di imputazione dell'attivita' di
 contrattazione   ad   un  unico  organismo  tecnico.  Tale  pronuncia
 comporta,  invece,  che,  nell'adottare  la  nuova  disciplina  della
 contrattazione  nazionale,  lo  stesso legislatore debba in ogni caso
 adottare
   soluzioni organizzative e procedurali in  grado  di  garantire  una
 partecipazione effettiva dei soggetti regionali tanto alla fase della
 formazione che a quella della sottoscrizione dei contratti collettivi
 concernenti i rapporti di lavoro e di impiego imputabili alle Regioni
 ordinarie.
    10.   -  Passando  ora  all'esame  dei  profili  piu'  particolari
 enunciati  nel  solo  ricorso  della  Regione  Lombardia,  le   prime
 questioni  che vanno affrontate sono quelle prospettate nei confronti
 degli artt. 13; 15, secondo  comma;  18,  primo  comma;  27,  secondo
 comma, e 28, concernenti la disciplina della dirigenza.
    Ad avviso della ricorrente tali disposizioni - se applicabili alla
 dirigenza  regionale  -  dovrebbero ritenersi lesive delle competenze
 costituzionali proprie delle Regioni in tema di pubblico impiego,  in
 quanto  dirette  a  imporre  l'unicita'  della qualifica dirigenziale
 (art. 15, secondo comma) ed a  regolare  in  dettaglio  i  poteri  di
 coordinamento  dei  dirigenti  regionali  (art.  27,  secondo comma).
 Vengono, inoltre, censurati l'art. 18, primo comma, per il  fatto  di
 attribuire   ad  un  organismo  interamente  statale  il  compito  di
 definire, in base alle  indicazioni  del  Ministero  del  Tesoro,  "i
 criteri  e  le procedure per l'analisi e la valutazione dei costi dei
 singoli uffici", nonche' l'art. 28, per  il  fatto  di  regolare  con
 norme  di  estremo  dettaglio  l'accesso alla qualifica dirigenziale,
 conferendo al Presidente del Consiglio dei  ministri  il  compito  di
 definire le modalita' dei concorsi e delle selezioni.
    Tali questioni non sono fondate.
    Va,  infatti,  escluso  che  gli  artt.  15,  secondo comma, e 27,
 secondo comma, pongano norme suscettibili di qualificarsi come disci-
 pline di dettaglio, mentre va riconosciuto allo Stato  il  potere  di
 formulare  -  in  sede  di  riassetto  della  funzione dirigenziale -
 principi suscettibili di vincolare la sfera regionale sia  in  ordine
 ai  possibili livelli di tale funzione che al carattere temporalmente
 limitato dell'attivita' di coordinamento affidata  dalle  Regioni  ai
 propri  dirigenti:  e  questo  tanto  piu'  ove si considerino quelle
 esigenze di "armonizzazione" tra i diversi tipi di dirigenza, statale
 e regionale, che, anche di recente, la Corte ha gia'  avuto  modo  di
 sottolineare (sent. n. 493 del 1991).
    Infondata  risulta  anche  la  questione  relativa  al primo comma
 dell'art. 18, dal momento che la definizione dei criteri e delle pro-
 cedure per l'analisi e la  valutazione  dei  costi  degli  uffici  si
 presenta  strumentale ad un'attivita' conoscitiva che in tanto potra'
 conseguire risultati utili, sul piano  dell'economicita'  dell'azione
 amministrativa  e  della  verifica  dei  risultati,  in  quanto venga
 attuata attraverso  un  organismo  dotato  di  specifiche  competenze
 tecniche  e  in  grado  di  operare sulla base di apporti informativi
 omogenei e comparabili.
    Infine, si presenta infondata anche  la  censura  prospettata  nei
 confronti  dell'art.  28,  dal momento che tale disposizione riguarda
 l'accesso alla dirigenza statale e agli enti pubblici non  economici,
 ma  non  detta  alcuna  disciplina  in tema di accesso alla dirigenza
 regionale.
    11. - Sempre sul piano dei  profili  particolari  prospettati  nel
 ricorso della Regione Lombardia, un secondo ordine di censure investe
 gli  artt.  13,  26, 27, quarto comma, e 28, decimo comma, in tema di
 dirigenza del Servizio sanitario nazionale.
    Secondo la Regione tali disposizioni sarebbero lesive della  sfera
 di  autonomia  regionale  per il fatto di avere esteso tutte le norme
 sulla dirigenza alle amministrazioni, enti ed  aziende  del  Servizio
 sanitario  nazionale  (art.  13);  di  aver dettato una disciplina di
 dettaglio sia in via  transitoria  (art.  26)  che  di  accesso  alla
 dirigenza  sanitaria  (art.  28,  decimo  comma); di aver previsto un
 potere sostitutivo del Presidente  del  Consiglio  non  preceduto  da
 diffida  (art.  27,  quarto  comma):  censure  tutte  collegate  alla
 premessa che l'unita' sanitaria locale  -  a  seguito  della  riforma
 introdotta  con  il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - e'
 stata configurata come  "ente  strumentale  della  Regione",  con  la
 conseguenza  che  la  disciplina  del  personale  degli enti sanitari
 dovrebbe oggi  risultare  affidata,  ai  sensi  dell'art.  117,  alla
 Regione.
    Tali questioni non sono fondate.
    In  primo  luogo  va  rilevato  che  l'art.  13 del decreto n. 29,
 nell'estendere  la  normazione  sulla  dirigenza  anche  al  Servizio
 sanitario  nazionale,  ha  fatto espressamente salvo quanto stabilito
 per il ruolo sanitario dal decreto legislativo n. 502 del 1992, dove,
 all'art. 15, e'  stata  formulata  una  disciplina  speciale  per  la
 dirigenza  sanitaria.  Le  norme  enunciate  in tema di dirigenza dal
 decreto   n.   29  si  estendono,  dunque,  al  ruolo  sanitario  non
 indistintamente,  ma  solo  compatibilmente   con   tale   disciplina
 speciale.
    In secondo luogo, va sottolineato che il nuovo inquadramento delle
 Unita' sanitarie locali disposto con l'art. 3 del decreto legislativo
 n.  502  del  1992  non  ha  fatto  venire  meno  quelle  esigenze di
 uniformita' che hanno a suo tempo indotto il  legislatore  statale  a
 riservare   alla  propria  sfera  di  competenza  la  disciplina  del
 personale sanitario (v. art. 47, terzo e quarto comma, L. 23 dicembre
 1978,  n.  833),  esigenze  ripetutamente  convalidate  anche   dalla
 giurisprudenza di questa Corte (v. sentt. nn. 294 del 1986; 112 e 308
 del  1990).  Dal  che la conseguente infondatezza delle censure mosse
 alle disposizioni di cui agli  artt.  26  e  28,  decimo  comma,  del
 decreto  n.  29,  con  riferimento al loro carattere di discipline di
 dettaglio.
   Infine, va riconosciuta infondata la  censura  relativa  al  potere
 sostitutivo  conferito  dall'art. 27, quarto comma, al Presidente del
 Consiglio. L'assenza della diffida, nel  caso  di  specie,  si  puo',
 infatti,  spiegare  tenendo  conto  della  particolarita'  del potere
 d'intervento conferito allo stesso Presidente, in relazione al potere
 regionale di  individuazione  dell'organo  competente  a  nominare  i
 "nuclei  di valutazione" (potere esercitato una tantum, nella fase di
 avvio della nuova disciplina), nonche' alla necessita' di non  creare
 ritardi  nella messa in atto di un istituto particolarmente rilevante
 per gli scopi di efficienza e produttivita' perseguiti dalla riforma.
    12. - Un terzo ordine di doglianze viene formulato  nei  confronti
 degli  artt.  30,  secondo  comma,  e  31, in tema di uffici e piante
 organiche.
    In proposito, la ricorrente lamenta che, ai  sensi  dell'art.  30,
 secondo  comma, la ridefinizione triennale delle piante organiche sia
 sottoposta alle direttive del Dipartimento della  funzione  pubblica,
 di  concerto con il Ministro del Tesoro e che, ai sensi dell'art. 31,
 la Regione sia tenuta, in sede  di  prima  applicazione  della  nuova
 disciplina, a provvedere alla rilevazione di tutto il personale; alla
 formulazione  di  una  proposta  di ridefinizione dei propri uffici e
 delle piante organiche (con  una  riduzione  per  accorpamento  degli
 uffici  dirigenziali  in misura non inferiore al 10% e con la riserva
 di un  contingente  di  dirigenti  all'esercizio  delle  funzioni  di
 direzione  dei  sistemi informatico-statistici); alla trasmissione al
 Dipartimento  della  funzione  pubblica  della  rilevazione  e  delle
 proposte,  con  la previsione di un potere sostitutivo del Presidente
 del Consiglio in caso di inerzia dell'amministrazione. Viene, infine,
 censurato  il  blocco  delle  assunzioni  disposto  dal  sesto  comma
 dell'art.  31  fino a quando non siano state approvate le proposte di
 ridefinizione delle piante organiche.
    Anche tali censure non sono fondate.
    Innanzitutto  va  rilevato  che  l'art.  30,  secondo  comma,  nel
 richiamare  la  procedura  di cui all'art. 6 del decreto legislativo,
 limita chiaramente la sua operativita' alle amministrazioni  statali,
 rispetto   a   cui   la   procedura   stessa  risulta  specificamente
 configurata.  Inoltre,  dai  vari  aspetti  della  disciplina   posta
 dall'art.  31  non  viene  a discendere alcuna lesione dell'autonomia
 regionale, dal momento che alle Regioni, se da un lato viene  imposto
 un  obbligo  di  rilevazione  e  di proposta, nonche' di trasmissione
 delle  rilevazioni e delle proposte, dall'altro viene anche riservato
 il potere di approvazione delle stesse proposte "con i  provvedimenti
 e  nei  tempi  previsti  dai rispettivi ordinamenti" (art. 31, quarto
 comma). Mentre, d'altro canto, i vincoli piu' specifici imposti dallo
 stesso articolo (riduzione delle dotazioni  organiche  del  personale
 dirigenziale;  riserva  di una quota di detto personale per attivita'
 informatiche; blocco temporaneo delle assunzioni) possono -  al  pari
 del  potere  sostitutivo  riconosciuto  al Presidente del Consiglio -
 trovare la  loro  giustificazione  nei  fini  stessi  della  riforma,
 fondata,  in  prevalenza,  sulla razionalizzazione degli uffici e sul
 controllo della spesa connessa al personale,  nonche'  nell'interesse
 nazionale sotteso alla sua riuscita.
    13. - Un quarto ordine di censure investe poi gli artt. 32, 33, 34
 e  35,  in tema di mobilita' del personale. Tali disposizioni vengono
 impugnate per il  fatto  di  prevedere  una  disciplina  minuziosa  e
 centralizzata della mobilita' estesa anche al personale regionale, ma
 senza alcun intervento delle Regioni.
    La questione e' in parte fondata.
    Per  quanto  concerne  la sfera delle competenze regionali, nessun
 rilievo si puo' formulare in ordine alla disciplina posta dagli artt.
 32 (in tema di ricognizione delle vacanze), 33 (in tema di competenze
 dei comitati provinciali e metropolitani), 34 (in tema  di  messa  in
 disponibilita'),  nonche'  in ordine al procedimento per l'attuazione
 della  mobilita'  descritto  nell'art.  35,  primo,  secondo,  terzo,
 quinto,  sesto  e  settimo  comma),  dal momento che la disciplina in
 questione realizza, con procedura appropriata, le finalita' peculiari
 dell'istituto della mobilita', cosi' come  lo  stesso  si  e'  andato
 configurando,  in  stretta  connessione  con  esigenze  di  interesse
 nazionale, dopo la legge quadro sul pubblico impiego del 1983.
    Una lesione dell'autonomia regionale viene, invece, a manifestarsi
 con riferimento all'art. 35, quarto comma, che affida ad  un  decreto
 del  Presidente  del  Consiglio dei ministri i trasferimenti connessi
 alla mobilita' esterna alle singole amministrazioni, quand'anche  gli
 stessi comportino spostamenti di personale da e verso le Regioni.
    Questa Corte ha gia' avuto modo di affermare che, ove le procedure
 di mobilita' riguardino movimenti di personale da e verso le Regioni,
 cosi'  da  determinare  una  penetrante  interferenza  nell'autonomia
 regionale, alle stesse Regioni, ai fini del rispetto del principio di
 "leale  collaborazione",  debba   essere   assicurato   "un   momento
 partecipativo, quanto meno nella forma della consultazione" (sent. n.
 407 del 1989).
    Tale  principio  va  qui confermato e comporta, di conseguenza, la
 dichiarazione di illegittimita' della norma in esame, nella parte  in
 cui  la stessa non prevede, per i processi di mobilita' da e verso le
 Regioni, una consultazione delle Regioni interessate.
    14. - Un quinto ordine di  censure  concerne  gli  artt.  41,  42,
 secondo comma, e 43, in tema di assunzioni.
    La   Regione  lamenta,  in  particolare,  che  la  disciplina  dei
 requisiti  di  accesso  all'impiego  e  delle  modalita'  concorsuali
 risulti  affidata ad un regolamento governativo, da adottare ai sensi
 dell'art. 17 della legge  n.  400  del  1988  (art.  41);  che  sulla
 promozione  e sulla proposta di programmi di assunzione per portatori
 di handicap siano previste direttive del Dipartimento della  funzione
 pubblica (art. 42, secondo comma); che agli assunti all'impiego nelle
 amministrazioni  pubbliche vengano estese le norme di cui all'art. 7,
 quinto e settimo comma, della legge n.  444  del  1985  (in  tema  di
 presentazione  dei  documenti  e  di  efficacia  dei provvedimenti di
 nomina) e venga imposto l'obbligo di permanenza nella sede  di  prima
 destinazione per un periodo non inferiore a sette anni (art. 43).
    Anche tali questioni non si presentano fondate.
    Per  quanto  concerne  l'art.  41,  va rilevato che il regolamento
 governativo ivi previsto al primo comma non puo' non attenere al solo
 impiego statale, stante l'esplicito divieto, espresso  nell'art.  17,
 secondo  comma,  lett. b), della legge n. 400 del 1988, di interventi
 regolamentari  del  Governo  in  materie  riservate  alla  competenza
 regionale.  Resta,  pertanto,  inalterata,  in ordine alla disciplina
 dell'accesso e delle modalita' concorsuali nell'impiego regionale, la
 competenza normalmente affidata alle fonti regionali.
    Per quanto concerne poi l'art.  42,  secondo  comma,  il  dato  da
 considerare  e' che le direttive ivi previste risultano fondate nella
 legge ne' possono considerarsi lesive  dell'autonomia  regionale  ove
 vengano espresse, come dovuto, nelle forme appropriate dell'indirizzo
 e del coordinamento.
    Infine, con riferimento alle censure mosse nei confronti dell'art.
 43,  va  rilevato che le norme espresse in tale articolo - nonostante
 la specificita' dei loro contenuti - assumono, nel quadro dei criteri
 di  omogeneita'  ispiratori  della  riforma,  valore  di   norme   di
 principio,   suscettibili  di  operare  nei  confronti  di  tutte  le
 amministrazioni pubbliche.
    15. - Il ricorso formula poi censure nei confronti degli artt.  60
 e 61, secondo comma, concernenti rispettivamente l'orario di servizio
 e  di lavoro e le direttive in tema di pari opportunita' tra uomini e
 donne. La Regione ritiene  tali  disposizioni  lesive  dell'autonomia
 regionale,  dal  momento  che  la  prima  porrebbe  norme  di estremo
 dettaglio  e  la  seconda  prevederebbe  una  funzione  di  indirizzo
 contrastante con il principio di legalita' sostanziale.
    Anche tali questioni non sono fondate.
    La  disciplina  dell'orario  di  servizio  e  di  lavoro  prevista
 nell'art. 60 si riferisce a situazioni ordinarie ("di  norma"):  essa
 consente,  pertanto,  alle  Regioni di adattare i principi desumibili
 dalla nuova disciplina "alle peculiarita' dei rispettivi ordinamenti"
 (art. 1, terzo comma).
    Con riferimento all'art. 61, secondo  comma,  va,  d'altro  canto,
 rilevato  che  la norma affida alle singole amministrazioni il potere
 di attuare le direttive della  Comunita'  europea  in  tema  di  pari
 opportunita'  e  che le "disposizioni" della Presidenza del Consiglio
 richiamate da tale norma, ove rivolte alle Regioni, non potranno  non
 assumere le forme proprie della funzione d'indirizzo e coordinamento,
 che, in questo caso, verra' a trovare la sua base legale nella stessa
 direttiva comunitaria.
    16.  - Ulteriori censure vengono poi formulate nei confronti degli
 artt. 63, secondo comma, 64, 65 e  70,  secondo  comma,  in  tema  di
 controllo  della spesa per il personale. La ricorrente ritiene che le
 norme espresse in tali articoli siano lesive dell'autonomia regionale
 in quanto dirette ad assoggettare la Regione a poteri  di  direttiva,
 di determinazione e di controllo di organi centrali.
    La questione e' priva di fondamento.
    Le  attivita'  di  rilevazione  dei  flussi finanziari delle varie
 amministrazioni e dei costi imputabili alle stesse, di cui agli artt.
 63 e 64, sono previste in funzione del controllo sulla spesa pubblica
 e sul costo del personale tanto in sede nazionale che  locale:  esse,
 per  risultare efficaci, non potranno non svolgersi secondo criteri e
 parametri omogenei e sottostare a indirizzi fissati in sede centrale.
 Si spiega, pertanto, il potere d'indirizzo e  coordinamento  affidato
 in  materia  alla  Presidenza  del  Consiglio dei ministri dal quarto
 comma dell'art. 64, potere che viene  a  trovare  il  suo  fondamento
 legale  sia  nel fine di "omogeneizzazione delle procedure" enunciato
 dalla stessa norma,  sia,  piu'  in  generale,  nel  complesso  della
 disciplina posta dal titolo V del decreto legislativo.
    Per quanto concerne, poi, il controllo del costo del lavoro di cui
 all'art.  65  - controllo che comporta, tra l'altro, l'obbligo per la
 Regione di presentare un conto annuale delle spese per  il  personale
 rilevato  secondo  un  modello  elaborato  dal Ministero del Tesoro -
 nonche' i poteri di verifica sulla applicazione dei contratti di  cui
 all'art.  70,  secondo  comma, affidati al Ministero del Tesoro ed al
 Dipartimento della funzione pubblica, e'  sufficiente  osservare  che
 tali   istituti  appaiono  conformi  alle  finalita'  primarie  della
 riforma, che trova il  suo  fondamento  nell'interesse  nazionale  al
 riequilibrio  della  finanza  pubblica  ed alla migliore efficienza e
 qualita' delle prestazioni rese dalle  amministrazioni  pubbliche  ai
 cittadini.
    17.   -  L'ultima  censura  proposta  nel  ricorso  dalla  Regione
 Lombardia investe l'art. 67,  che  ha  affidato  al  Commissario  del
 Governo  la  rappresentanza  dello  Stato  nel  territorio regionale,
 nonche'  la  responsabilita'  verso  il   Governo   del   flusso   di
 informazioni  degli enti pubblici operanti nel territorio, conferendo
 altresi' allo stesso il compito di trasmettere tutte le comunicazioni
 del Governo alla Regione.
    Ad avviso della ricorrente tale configurazione  del  ruolo  e  dei
 compiti   del   Commissario  verrebbe  a  violare  l'art.  124  della
 Costituzione,  che  affida  a  tale  organo  solo   il   compito   di
 sovrintendere  alle  funzioni amministrative esercitate dallo Stato e
 di coordinarle con quelle esercitate dalla Regione.
    La questione non e' fondata.
    La norma, che ricalca in parte la disciplina gia' posta  dall'art.
 13  della  legge n. 400 del 1988 - oltre a rispondere ad un principio
 di autorganizzazione dello Stato di per se  non  lesivo  della  sfera
 dell'autonomia  regionale  -  non altera la fisionomia costituzionale
 del Commissario, ma ne specifica la natura  secondo  linee  implicite
 nello  stesso  disegno  costituzionale.  E  invero,  sia i compiti di
 rappresentanza dello  Stato  che  i  compiti  di  trasmissione  delle
 informazioni  da  e  verso  la  Regione,  che  l'art.  67  affida  al
 Commissario, possono essere fatti derivare tanto  dalle  funzioni  di
 "sovraintendenza"   che   da   quelle   di   "coordinamento"  che  la
 Costituzione ha espressamente affidate a tale organo.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i ricorsi dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  degli
 artt.  45,  settimo e nono comma; 47; 49, secondo comma; 50, secondo,
 terzo, quarto, ottavo e decimo comma; 51, primo  comma,  del  decreto
 legislativo  3  febbraio 1993, n. 29, nella parte in cui disciplinano
 la  contrattazione  nazionale  relativa  ai  rapporti  di lavoro e di
 impiego alle dipendenze delle Regioni a  statuto  ordinario  e  degli
 enti regionali;
    Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  35,  quarto
 comma, dello stesso decreto legislativo n. 29 del 1993,  nella  parte
 in  cui  non  prevede,  per  i  processi  di  mobilita' da e verso le
 Regioni, la consultazione delle stesse;
    Dichiara non fondate le questioni di  legittimita'  costituzionale
 sollevate,  con i ricorsi di cui in epigrafe, nei confronti dell'art.
 2, primo comma, lett. b), della legge 23  ottobre  1992,  n.  421,  e
 degli  artt.  1, terzo comma; 13; 15, secondo comma; 18, primo comma;
 26; 27, secondo e quarto comma; 28; 30, secondo comma;  31;  32;  33;
 34;  35,  primo,  secondo,  terzo, quinto, sesto e settimo comma; 41,
 primo e terzo comma; 42,  secondo  comma;  43;  45,  primo,  secondo,
 terzo,  quarto,  quinto,  sesto  e  ottavo  comma; 50, primo, quinto,
 sesto, settimo e nono comma; 51, secondo, terzo e quarto  comma;  52;
 54; 60; 61, secondo comma; 63, secondo comma; 64; 65; 67; 70, secondo
 comma,   dello  stesso  decreto  legislativo  n.  29  del  1993,  con
 riferimento agli artt.  39,  97,  76,  117,  118,  119  e  124  della
 Costituzione.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 26 luglio 1993.
                        Il presidente: CASAVOLA
                          Il redattore: CHELI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 30 luglio 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0882