N. 481 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 gennaio - 3 agosto 1993
N. 481 Ordinanza emessa il 26 gennaio 1993 (pervenuta alla Corte costituzionale il 3 agosto 1993) dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Sicilia, sui ricorsi riuniti proposti da Pampallona Rosa contro il Ministero del tesoro. Previdenza e assistenza sociale - Pensioni corrisposte dalla C.P.D.E.L. - Dipendente che abbia optato per il versamento del contributo di riscatto in unica soluzione - Cessazione dal servizio senza aver effettuato il versamento - Conseguenze - Perdita del diritto alla pensione - Mancata previsione, cosi' come stabilito per i dipendenti che abbiano optato per il versamento rateale del contributo di riscatto, della possibilita' di chiedere all'ente previdenziale di recuperare il contributo mediante riduzione della pensione - Ingiustificata disparita' di trattamento con incidenza sul diritto alla garanzia previdenziale. (R.D.L. 3 marzo 1938, n. 680, art. 73). (Cost., artt. 3 e 36).(GU n.37 del 8-9-1993 )
LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza n. 122/93/ord. sui ricorsi pensionistici, iscritti ai nn. 1761/C e 4728/C del registro di segreteria, prodotti dalla signora Pampallona Rosa, rappresentata e difesa dagli avvocati Cristiano Romano e Francesco Mistretta ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in Palermo, viale della Liberta', n. 171, per la dichiarazione d'illegittimita'dei provvedimenti del Ministero del tesoro, dir. gen. istituti di previdenza, Cassa per le pensioni dei dipendenti degli enti locali pos. 2999391 del 22 novembre 1985 e del 21 febbraio 1986, nonche' del decreto n. 555 adottato dalla stessa Cassa in data 9 gennaio 1991 e per l'accertamento del diritto, quale erede, al trattamento pensionistico ordinario spettante al di lei coniuge, sig. Giordano Giovanni, deceduto il 3 settembre 1984, e, in proprio, al trattamento pensionistico di riversibilita', quale coniuge superstite, dalla data del decesso del dante causa; Visti gli atti e i documenti di causa; Uditi all'udienza del 26 gennaio 1993 il relatore, consigliere dott. Giuseppe Cozzo, l'avv. Guido Aula delegato dall'avv. Mistretta, e il vice procuratore generale dott. Antonio Dagnino; F A T T O Il sig. Giordano Giovanni e' stato dipendente del comune di Caltagirone, cessando dal servizio in data 1 agosto 1980. La giunta municipale, con deliberazione n. 767 del 18 giugno 1980, previa concessione dell'aumento di dieci anni di anzianita' di servizio ai fini pensionistici ai sensi dell'art. 3, secondo comma, della legge n. 336/1970, ha attribuito al predetto il trattamento provvisorio di pensione, che e' stato regolarmente liquidato dalla competente direzione provinciale del tesoro. Alla sua morte, l'ente liquidatore ha corrisposto alla vedova, signora Pampallona Rosa, odierna ricorrente, il corrispondente trattamento di quiescenza di riversibilita'. Senonche', a distanza di circa cinque anni dal collocamento a riposo del Giordano, la Cassa pensioni per i dipendenti degli enti locali (C.P.D.E.L.), con il provvedimento del 22 novembre 1985 e con il successivo del 21 febbraio 1986, ritenendo che il dipendente non avesse maturato il diritto a pensione, ha disposto la sospensione del trattamento di riversibilita' in atto goduto dalla signora Pampallona e, contestualmente il recupero della complessiva somma di L. 35.643.376, erogata al Giordano, a titolo di pensione provvisoria diretta, dal 1 agosto 1980 al 3 settembre 1984 (data del suo decesso), e alla ricorrente, a titolo di pensione provvisoria di riversibilita', dal 4 settembre 1984 al 31 dicembre 1985. I motivi posti a base di tali determinazioni consistono nella negata valutazione dell'aumento dell'anzianita' pensionistica previsto dall'art. 3, secondo comma, della legge n. 336/1970, in quanto l'interessato "doveva comunque essere contingentato al 31 dicembre 1979, cosi' come previsto dall'art. 1 della legge 14 agosto 1984, n. 355", e del servizio militare per il quale il Giordano aveva richiesto il riscatto, poiche' l'ente previdenziale "non puo' considerare utile il riscatto del servizio militare in quanto il pagamento del relativo contributo non risulta perfezionato nei termini di legge e cioe' entro il mese di giugno 1981", con conseguente insufficiente anzianita' utile ai fini del sorgere del diritto a pensione. Contro tali provvedimenti l'interessata ha proposto il primo dei due ricorsi giurisdizionali indicati in epigrafe, rilevando che il coniuge, alla data del collocamento a riposo, aveva maturato ai fini pensionistici un'anzianita' superiore al limite minimo, previsto in ventiquattro anni, mesi sei e giorni uno dall'art. 7 della legge 11 aprile 1955, n. 379, necessario per il sorgere del diritto a pensione. In particolare, il Giordano aveva maturato un'anzianita' complessiva di anni ventiquattro, mesi undici e giorni sei, di cui: anni undici e un mese di servizio effettivo alle dipendenze del comune di Caltagirone, anni tre, mesi dieci e giorni sei di servizio militare riscattato con decreto del Ministero del tesoro n. 5201/79, pos. n. 2999391, e anni dieci per beneficio combattentistico ai sensi dell'art. 3, secondo comma, della legge n. 336/1970. La mancata valutazione del beneficio ex art. 3, secondo comma, della legge n. 336/1970, sostiene la ricorrente, sarebbe illegittima in quanto l'ente non avrebbe tenuto conto dell'art. 1- bis del d.l. 8 luglio 1974, n. 355, secondo il quale: "Per coloro che alla data di entrata in vigore del presente decreto e comunque entro e non oltre il termine previsto per l'ultimo contingente di cui al comma terzo del precedente art. 1, hanno pendente la procedura di riconoscimento delle qualifiche che danno titolo a fruire dei benefici previsti dall'art. 3 della legge 24 maggio 1970, n. 336, il termine per la presentazione della domanda prevista dall'art. 1 del presente decreto e' rinviata a trenta giorni dopo l'avvenuta notifica del provvedimento formale di riconoscimento". Trovandosi il dipendente nelle condizioni previste dalla richiamata disposizione (egli infatti alla data della sua entrata in vigore aveva pendente il procedimento di riconoscimento della qualifica di invalido di guerra), avrebbe diritto al beneficio in questione. Ugualmente illegittima sarebbe la mancata valutazione del servizio militare. L'ente previdenziale avrebbe errato nell'interpretare il secondo comma dell'art. 72 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, che statuisce: "L'impiegato che entro il termine perentorio di novanta giorni dalla comunicazione della deliberazione del consiglio di amministrazione non abbia fatto pervenire alla cassa di previdenza la domanda di pagamento rateale, deve effettuare il pagamento del contributo di riscatto alla cassa medesima, a pena di decadenza, entro un anno dalla comunicazione stessa". Sostiene al riguardo la ricorrente: 1) che la decadenza non colpirebbe il diritto al riscatto, bensi' la possibilita' di richiedere, trascorsi i novanta giorni, forme di pagamento rateale; 2) che, posto che il sig. Giordano aveva tempestivamente comunicato all'ente, con dichiarazione del 26 giugno 1980, di accettare il pagamento del contributo di riscatto in unica soluzione, egli non sarebbe incorso nella decadenza, essendo essa prevista per le sole ipotesi in cui il richiedente non esprima entro i termini prescritti la volonta' di accettare una qualsiasi forma di pagamento; 3) che ogni diversa interpretazione sancirebbe un'irragionevole disparita' di trattamento tra chi, avendo scelto il pagamento rateale, resti poi inadempiente, prevedendo in tal caso la norma non la decadenza dal diritto al riscatto ma il pagamento degli interessi legali, e chi, come il Giordano, avendo espresso l'intenzione di pagare il contributo in unica soluzione, non sia poi in grado di adempiere la sua obbligazione alla scadenza; 4) che l'ente previdenziale avrebbe omesso di valutare la non imputabilita' dell'inadempimento, che sarebbe stato provocato dalle gravi affezioni fisiche e psichiche dell'interessato, con conseguente inoppugnabilita' allo stesso del termine di decadenza. La ricorrente ha, infine, eccepito l'irripetibilita' dell'indebito pensionistico, in quanto percepito in buona fede e destinato alle esigenze della vita, ha chiesto di essere ammessa al pagamento del contributo di riscatto, e quindi, l'accoglimento del ricorso, previa sospensione degli atti impugnati. Con ordinanza n. 60/90 del 19 aprile 1990, questa sezione sospendeva in via cautelare il recupero della somma ritenuta indebita dall'ente. Con decreto n. 555 del 9 gennaio 1991, la C.P.D.E.L. ha respinto la domanda di pensione diretta proposta dal sig. Giordano Giovanni "per mancanza del periodo minimo di anzianita' di servizio, previsto dall'art. 7 della legge 11 aprile 1966, n. 379" conferendo, invece, al medesimo, e per lui agli eredi, l'indennita' una tantum di L. 5.515.118, determinata sulla base di anni undici e mesi uno di servizi valutati in pensione, con conseguente costituzione della posizione assicurativa presso l'I.N.P.S. Avverso tale provvedimento la signora Pampallona ha prodotto il secondo dei ricorsi in epigrafe, ribadendo nella sostanza le stesse considerazioni e osservazioni esposte nel primo ricorso giurisdizionale. Il procuratore generale, nelle conclusioni scritte, ha chiesto il rigetto del ricorso, dichiarando genericamente di condividere l'operato dell'ente previdenziale. Con memoria depositata l'11 gennaio 1993, la ricorrente ha sostenuto che i provvedimenti impugnati devono ritenersi illegittimi anche alla luce delle recenti disposizioni introdotte dall'art. 20 della legge n. 958/1986 e dall'art. 20 della legge n. 274/1991, che avrebbero statuito per gli iscritti alla C.P.D.E.L. la valutabilita' ex se, senza alcun onere di riscatto a carico del dipendente, dei periodi di servizio militare, con effetti sui rapporti giuridici non ancora esauriti. Per la Cassa si e' costituita l'Avvocatura dello Stato che, con memoria depositata il 12 gennaio 1993, ha osservato quanto segue. La disposizione di cui all'art. 1- bis del d.l. n. 261/1974 ha consentito a coloro che alla data di entrata in vigore avessero pendente la procedura di riconoscimento di una delle qualifiche richieste dalla legge n. 336/1970 di poter fruire del beneficio previsto dall'art. 3 della medesima legge, purche' sia il riconoscimento che il collocamento a riposo avvenissero entro e non oltre il 31 dicembre 1979, data di scadenza dell'ultimo contingente; nella specie, sia il riconoscimento (intervenuto il 19 dicembre 1979, ma notificato il 29 marzo 1980) che il collocamento a riposo (disposto in data 31 luglio 1980) sarebbero avvenuti oltre il termine predetto. La valutazione del servizio militare sarebbe stata legittimamente omessa dall'ente previdenziale, poiche' il secondo comma dell'art. 72 del r. d.l. n. 680/1938 prevederebbe la decadenza del diritto al riscatto nell'ipotesi del mancato pagamento del contributo in unica soluzione entro un anno dalla comunicazione trasmessa all'interessato. Tale pagamento non e' stato effettuato dal Giordano che, anzi, in data 26 aprile 1982, rivolgeva all'ente previdenziale istanza di trasformazione del contributo medesimo in quota vitalizia passiva sulla pensione. La ripetizione dell'indebito sarebbe, infine, legittima sia perche' inerente a trattamenti di pensione provvisoria e, quindi, suscettibile di successive variazioni, sia perche' troverebbe in specie applicazione l'art. 2033 del c.c. All'udienza, l'avv. Guido Aula per la ricorrene e il pubblico ministero hanno confermato le richieste di cui agli atti scritti. D I R I T T O Le parti sottopongono all'esame del collegio due questioni: la prima, concerne il diritto del coniuge della ricorrente alla pensione diretta ordinaria a carico della C.P.D.E.L. e conseguentemente il diritto di quest'ultima alla pensione di riversibilita' a seguito del decesso del dante causa; la seconda, il diritto alla irripetibilita' di quanto percepito dai pensionati, a diverso titolo, quale pensione provvisoria. E' evidente che debba, innanzitutto, considerarsi la prima delle dette questioni, poiche' l'accoglimento della tesi sostenuta dalla ricorrente finirebbe per assorbire la seconda. Come si e' visto precedentemente, il diritto del sig. Giordano e della signora Pampallona alla pensione diretta e di riversibilita' e' negato dall'ente previdenziale per un duplice motivo: il dante causa non avrebbe maturato il periodo minimo di anzianita' richiesto per il sorgere del diritto a pensione - periodo stabilito in specie in ventiquattro anni, mesi sei e un giorno di servizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 della legge 11 aprile 1955, n. 379, e 35 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680 - per effetto della non fruibilita' dell'aumento di dieci anni previsto dall'art. 3 della legge n. 336/1970 e della non computabilita' del periodo di servizio militare, determinato in sede di riscatto in anni tre, mesi dieci e giorni sei. La C.P.D.E.L., infatti, adottando il provvedimento definitivo di pensione (decreto n. 555 del 9 gennaio 1991) ha conferito all'interessato l'indennita' una tantum, costituendo, peraltro, la posizione assicurativa presso l'I.N.P.S. valutando ai fini della liquidazione del trattamento di quiescenza esclusivamente il periodo di servizio (undici anni e un mese) effettivamente dallo stesso prestato alle dipendenze del comune di Caltagirone. Ora, nessun dubbio sussiste in ordine al diritto dell' ex dipendente all'aumento previsto dall'art. 3, secondo comma, della legge n. 336/1970, poiche', come osservato dalla ricorrente, l'art. 1- bis del d.l. 8 luglio 1974, n. 261, introdotto dalla legge di conversione 14 agosto 1974, n. 355, richiede, in favore di coloro che non abbiano ancora conseguito il riconoscimento della qualifica necessaria per il godimento del beneficio stesso, che l'interessato abbia pendente la procedura di riconoscimento alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legge e comunque entro e non oltre il termine previsto (31 dicembre 1979) per l'ultimo contingente degli esodanti e che abbia presentato la relativa domanda nel termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento di riconoscimento, ma non prevede affatto, come sostiene l'amministrazione resistente, che la procedura predetta debba essersi conclusa entro detto termine. La lettera della norma e' assolutamente chiara sul punto e non da' adito ad alcun problema interpretativo (si vedano, per esempio, Corte cass. sez. lav. 17 gennaio 1984, n. 390 e Cons. Stato, sez. quarta, del 15 aprile 1987, n. 276). D'altra parte, la tesi sostenuta dall'ente previdenziale si risolve in mere affermazioni - senza neppure tentare di individuare una ratio normativa che giustifichi il distacco interpretativo dal dato letterale (ammesso che la assoluta limpidita' di tale dato consenta il ricorso ad un diverso modo di interpretazione) - che palesemente collidono con il contenuto letterale della disposizione. Posto che la norma richiede espressamente, tra gli altri presupposti indispensabili del diritto, che l'istante abbia pendente il procedimento di riconoscimento della qualifica "entro e non oltre il termine previsto per l'ultimo contingente di cui al comma terzo del precedente art. 1", e' del tutto irrazionale sostenere che il legislatore abbia inteso dire nello stesso tempo che entro e non oltre il medesimo termine l'interessato debba anche avere ottenuto il riconoscimento e debba pure essere stato collocato a riposo. Se alla data di riferimento e' sufficiente, infatti, che il procedimento predetto sia in corso, non si vede come possa sostenersi, per altra via, che esso debba anche essere stato gia' concluso. Il provvedimento di riconoscimento, infatti, per la sua natura costitutiva, non puo' venire ad esistenza che al termine del relativo procedimento amministrativo. Ugualmente infondata e' l'altra osservazione secondo la quale il beneficiario avrebbe dovuto essere collocato a riposo entro la data prevista per l'ultimo contingente. La ratio della norma aggiunta e', infatti, quella di consentire la fruizione del beneficio anche al personale in servizio che avesse in itinere il procedimento di riconoscimento di una delle qualifiche in- dicate dalla legge n. 336/1970, e che, pertanto, non ne avesse potuto immediatamente beneficiare per il tardivo o comunque lungo esperimento delle procedure amministrative e giudiziarie, ancorche' il provvedimento di riconoscimento venisse adottato dopo la data prevista come termine dell'ultimo contingente. E' evidente che una volta che tale riconoscimento fosse successivamente intervenuto, riguardando caso sporadici e, soprattutto, distribuiti nel tempo, non sarebbe piu' sussistita alcuna esigenza di ulteriore contingentamento (introdotto non al fine di limitare il numero dei beneficiari della legge n. 336/1970, ma a quello di garantire, attraverso un graduale esodo, il regolare funzionamento dell'amministrazionepubblica) e che esso avrebbe dovuto comportare per il destinatario la possibilita' di fruirne, alla stregua degli altri beneficiari, ai sensi e per gli effetti dell'art. 3 della legge n. 336/1970, anche ai fini di un successivo collocamento a riposo anticipato. Proprio in quest'ultima possibilita' (collocamento a riposo anticipato) consiste, infatti, il principale beneficio che la legge in questione ha voluto riservare agli appartenenti alle varie qualifiche dalla stessa indicate. Risulta dagli atti che il Giordano produsse istanza di pensione privilegiata di guerra al Ministero del tesoro in data 20 novembre 1976 e che soltanto in data 29 marzo 1980 ebbe notificata la eterminazione ministeriale concessiva del relativo trattamento pensionistico. In data 2 aprile 1980, e cioe' entro il termine di trenta giorni previsto dall'art. 1- bis del d.l. n. 261/1974, egli chiese di essere collocato a riposo anticipato coni benefici di cui alla legge n. 336/1970. Su questi fatti non vi e' contrasto tra le parti. Correttamente, dunque, per quanto si e' in precedenza osservato, il comune di Caltagirone, con deliberazione della g.m. n. 767 del 17 giugno 1980, ha accolto l'istanza, collocando a riposo anticipato con i benefici predetti il dipendente. Deve ritenersi, pertanto, che al coniuge della ricorrente spettasse l'aumento dell'anzianita' di dieci anni ai fini pensionistici. Piu' complessa questione e' quella che si pone relativamente alla valutabilita' o meno del servizio prestato dal signor Giordano e per il quale egli ha avanzato, in costanza di rapporto d'impiego, domanda di riscatto all'ente di previdenza. Ed e' ovvio che soltanto da una soluzione positiva del quesito puo' derivare il pieno accoglimento delle domande proposte dalla ricorrente, poiche' solo in tal modo il dante causa raggiungerebbe l'anzianita' minima richiesta (ventiquattro anni, sei mesi e un giorno) per il diritto al trattamento ordinario di quiescenza e, conseguentemente sorgerebbe in capo alla ricorrente il diritto alla pensione di riversibilita'. Diversamente, l'aumento di dieci anni collegato al riconoscimento della qualifica di invalido di guerra si risolverebbe semplicemente in una maggiore quantificazione dell'indennita' una tantum gia' concessa dall'ente previdenziale con il provvedimento di pensione definitiva. Sostiene la ricorrente a tale riguardo: 1) che la deteminazione negativa assunta dall'ente poggia su di un'errata interpretazione dell'art. 72 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, sopra richiamato. Tale articolo avrebbe riguardo, infatti, ad una fattispecie diversa da quella in esame, e cioe' semplicemente all'ipotesi in cui il dipendente non abbia fatto pervenire all'ente entro novanta giorni l'istanza di pagamento rateale del contributo di riscatto e non abbia nel termine di un anno dalla comunicazione della deliberazione del consiglio di amministrazione ne' espresso la sua volonta' di accettare il riscatto ne' effettivamente adempiuto al pagamento dell'onere posto a suo carico, ma non anche all'altra nella quale il dipendente medesimo abbia espressamente manifestato entro l'anno detta volonta'. Il signor Giordano non e' rimasto silente i fronte alla documentazione della deliberazione, ma ha esplicitamente dichiarato, sottoscrivendo l'apposito modello, di volere pagare il contributo di riscatto in unica soluzione. La sanzione della decadenza implicherebbe, oltre tutto, una disparita' di trattamento tra chi dichiari di accettare il pagamento rateale e che poi non paghi tempestivamente e chi, pur dichiarando, allo stesso modo, di accettare il pagamento in unica soluzione, incorra nella mora per mancanza di momentanea solvibilita'. Nel primo caso, infatti, l'art. 72 in questione, piuttosto che la decadenza, prevede l'applicazione degli interessi moratori. Anche quando nella specie dovesse ritenersi verificata la decadenza, l'ente non avrebbe tenuto conto della non imputabilita' dell'inadempimento all'interessato, affetto da una forma grave di cirrosi epatica, risultata poi letale, e da una grave forma di sindrome dissociativa. L'art. 72 del r.d.l. n. 680/1938, in realta', prevede la decadenza del riscatto non per effetto della mancanza della manifestazione di volonta' esplicita dell'interessato entro il termine indicato, bensi' quale conseguenza del mancato o intempestivo pagamento del relativo contributo. La stessa scelta di pagamento rateale non rileva per il fatto di recare una espressa dichiarazione di accettazione dell'onere, ma costituisce soltanto una forma diversa attraverso la quale si realizza il fatto saliente rappresentato appunto dall'acquisizione da parte dell'ente previdenziale della prestazione contributiva posta a carico del dipendente. Anche se si ponesse un problema di compatibilita' della disposizione in parte qua con il prinipio di uguaglianza posto dalla Costituzione, cio' non giustificherebbe comunque un'interpretazione della legge difforme dal suo effettivo contenuto letterale e razionale. Trattandosi di un termine di decadenza non rilevato, secondo i principi generali, cause di inadempimento che si ricolleghino a situazioni soggettive. Nella specie, d'altra parte, la documentazione prodotta per dimostrare lo stato di incapacita' del Giordano si riferisce, per quanto rigurada l'infermita' psichica, per un verso, ad epoca antecedente ai fatti, mentre per l'altro, non dimostra puntualmente che detto stato di incapacita' sia sussistito ininterrottamente per tutto il tempo in cui e' durato l'inadempimento; 2) che, per effetto dell'art. 20 della legge n. 958/1986 e degli artt. 1 e 8 della legge n. 274/1991, che hanno reso utile a pensione il servizio militare di leva a semplice domanda dell'interessato e senza alcun onere a suo carico, applicabile al caso in esame, e' venuto meno, in sostanza, l'effetto di decadenza che la precedente normativa ricollegava al mancato tempestivo pagamento del contributo in unica soluzione. Le nuove disposizioni avrebbero efficacia retroattiva e, comunque, dovrebbero applicarsi ai rapporti, come quello oggetto di giudizio, non ancora esauriti. La tesi non puo' essere condivisa. Le norme sopravvenute devono essere attuate dal giudice al rapporto controverso a condizione che esse trovino applicazione nel caso sottoposto al suo esame e non per il semplice fatto della sopravvenienza di una norma innovativa. Quel che rileva e', in sostanza, che la disposizione sopravvenuta regoli diversamente il rapporto, producendo effetti che in qualche modo incidono su di esso, cosi' che il giudice possa direttamente assumerli a fondamento della sua decisione. Nella specie, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la disposizione nuova, come si desume chiaramente dall'art. 1, primo comma, della legge 8 agosto 1991, n. 274, secondo il quale la nuova regolamentazione della materia si applica con effetto dalla data di entrata in vigore della legge n. 958/1986, non ha efficacia retroattiva e, pertanto, non trova attuazione nel rapporto controverso. Il parere del Cons. Stato, sezione terza, n. 782, del 12 luglio 1988, e la deliberazione della sezione contr. Stato della Corte dei conti n. 2049 del 29 dicembre 1988, entrambi richiamati dalla ricorrente, hanno, il primo, negato efficacia retroattiva dell'art. 20 della legge n. 958/1986, e il secondo, semplicemente affermato la valenza del servizio anche se prestato anteriormente alla data di entrata in vigore della normativa sopravvenuta (vedi, ora, l'art. 7 della legge n. 412/1992), ma non si sono pronunciati in ordine all'estensione della nuova disciplina alle domande gia' prodotte e, come nel caso, al personale cessato prima di detta data. Costituisce principio interpretativo di carattere generale nella materia, desumibile dal sistema normativo interessato, che nei confronti del personale cessato dal servizio debba aversi riguardo ai fini della liquidazione delle trattamento di quiescenza alle norme vigenti all'epoca del suo collocamento a riposo, salvo che la norma sopravvenuta espressamente vi deroghi. Nella specie, non solo la norma non fa riferimento implicito o esplicito ai rapporti precedentemente sorti, ma espressamente, come si e' rilevato, stabilisce che la nuova disciplina abbia effetto dalla data di entrata in vigore della legge n. 958/1986, in tal modo chiaramente escludendo i rapporti pensionistici sorti prima di tale data. Ritiene, pero', il collegio che la normativa interessata presenti profili di dubbia costituzionalita'. Al riguardo, occorre brevemente richiamare i fatti che appaiono rilevanti. Il signor Giordano ha chiesto il riscatto del servizio militare in data 22 aprile 1976. Nel giugno 1980 ha ricevuto la delibera del consiglio di amministrazione della cassa con la quale veniva determinato l'onere di riscatto a suo carico. In data 26 giugno 1980, ha compilato la dichiarazione di accettazione del pagamento del contributo in unica soluzione. In data 1 agosto 1980, a distanza di poco piu' di un mese e prima che fosse trascorso, dunque, l'anno previsto come termine di decadenza, e' cessato dal servizio. In data 26 aprile 1992 ha chiesto, infine, all'ente previdenziale che il contributo fosse trasformato in quota vitalizia passiva. Tale istanza non e' stata presa neppure in considerazione dall'ente previdenziale. Senonche', rileva il collegio che l'art. 73 del r.d.l. n. 680/1938, prevede che l'impiegato che abbia chiesto il versamento rateale del contributo di riscatto e che cessi dal servizio senza averlo compiuto, ovvero la sua vedova o i suoi orfani, debbono versare in unica soluzione o con ritenuta del quinto della pensione, l'importo delle rate del contributo che avrebbero dovuto essere versate qualora il pagamento rateale avesse avuto effetto dal primo del mese successivo alla presentazione della domanda di riscatto, diminuito delle rate effettivamente versate ed aumentato dell'importo degli interessi eventualmente dovuti. Per le ulteriori rate l'impiegato che abbia acquistato diritto a pensione ha la facolta' di versarne in una volta sola il valore capitale, determinato sulla base della tabella C annessa al r.d.l. n. 680/1938, oppure di chiedere che la pensione spettantegli sia ridotta di una quota vitalizia, da calcolarsi in base alla tabella B annessa allo stesso r.d.l. La disposizione introduce indubbiamente una disciplina del rapporto pensionistico e contributivo che si sostituisce, per effetto della cessazione del rapporto d'impiego, a quella precedentemente fondata sull'accordo delle parti o, meglio, sulla scelta espressamente effetuata dal dipendente. Con la cessazione, stando al dettato normativo, soltanto colui che abbia assunto l'onere del pagamento rateale del contributo di riscatto, dovrebbe essere assoggettato alla diversa disciplina dettata dalla disposizione in questione, anche se, per avventura, all'atto della cessazione egli non abbia ancora neppure dato inizio al pagamento delle rate. Tale norma crea un'irrazionale discriminazione nei confronti di chi, come il Giordano, pur avendo scelto il pagamento del contributo in unica soluzione, sia poi cessato dal servizio senza avere potuto adempiere alla propria obbligazione. Non consentendogli di chiedere la riduzione della pensione spettantegli di una quota vitalizia, si lascia agire l'effetto caducatorio conseguente al mancato pagamento dell'intero contributo dovuto entro l'anno dalla comunicazione dell'ente di previdenza, dal quale deriva nella specie addirittura la perdita del diritto a pensione, precludendo all'interessato una piu' favorevole forma di pagamento, consentita soltanto a chi abbia scelto il pagamento rateale, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo vi abbia effettivo inizio all'atto della cessazione. Ritiene il collegio che la ratio dell'art. 73, nella parte che qui interessa, debba ravvisarsi nella esigenza di pervenire, nei confronti del dipendente che abbia in corso il pagamento dell'onere di riscatto al momento della sua cessazione dal servizio, ad una nuova disciplina del rapporto obbligatorio in essere, per nulla dipendente o collegata alle precedenti determinazioni accettate dalle parti, al fine di salvaguardare ad un tempo l'interesse della cassa di ottenere quanto le sia dovuto e l'interesse del pensionato, che, in relazione a tale suo nuovo stato, puo' vedere grandemente limitata la sua capacita' di produzione del reddito e la disponibilita' di risorse finanziarie sufficienti per condurre la sua esistenza di attuare una forma di pagamento compatibile con la mutata situazione patrimoniale, consentendo una modifica del rapporto in aderenza alle mutate condizioni di fatto. In quest'ottica, appare assolutamente arbitraria la discriminazione in relazione al tipo di scelta del pagamento effettuata dal pensionato durante il rapporto d'impiego. Tale disciminazione, d'altra parte, e' stata gia' sanzionata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 454/1990, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 27, secondo comma, ultimo alinea, della legge 24 maggio 1952, n. 670, nella parte in cui prevedeva che il contributo relativo a riscatti domandati dopo la cessazione del servizio venisse recuperato mediante ritenuta sulle intere prime rate del complessivo assegno di quiescenza anziche', alla stragua dell'art. 73 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, mediante riduzione della pensione di una quota vitalizia da calcolarsi in base alla tabella B annessa allo stesso r.d.l. La fattispecie di cui si e' occupato il giudice delle leggi e' certamente diversa da quella in esame, ma altrettanto certamente ha in comune con questa il fatto che la discriminazione sanzionata e' stata ritenuta sussistente in relazione a circostanze tutt'altro differenti da quelle ricollegabili alla scelta o meno di una piuttosto che altra forma di pagamento nel corso del rapporto d'impiego. Non e' stato ritenuto, in sostanza, di significato alcuno che l'art. 73 del r.d.l. facesse espresso riferimeno al dipendente che avesse scelto la forma di pagamento rateale, rispetto alla disparita' di trattamento che ne conseguiva in rapporto al personale comunque cessato nella posizione di debitore del contributo di riscatto. Ritiene, dunque, il collegio che anche nel caso in esame sussistano i medesimi profili d'incostituzionalita' rilevati dalla Corte costituzionale nella decisione richiamata, in relazione all'art. 73 del r.d.l. n. 680/1938, nella parte in cui esclude la possibilita' del dipendente, cessato senza avere effettuato il pagamento dell'onere del riscatto e che non sia incorso durante il servizio nella decadenza prevista dal precedente art. 72, secondo comma, di chiedere all'ente previdenziale che il contributo venga recuperato mediante riduzione della pensione di una quota vitalizia da calcolarsi in base alla tabella B annessa allo stesso r.d.l. Il solo elemento differenziatore rispetto alla fattispecie esplicitamente prevista dall'art. 73 e' il modo di pagamento scelto dal dipendente durante il servizio. Ma a questo elemento non puo' attribuirsi decisiva rilevanza ove si tenga conto sia della portata che della ratio della norma denunciata: e cioe', della sua indubbia novita' rispetto alla precedente regolamentazione in qualche modo pattizia del rapporto contributivo e il fine riequilibratore del rapporto obbligatorio in relazione delle mutate condizioni di fatto. Ne' su di esso puo' fondarsi, soprattutto, una ragionevole discriminazione. Invero, come ha osservato la Corte costituzionale, anche nelle ipotesi di domanda presentata prima della cessazione dal servizio da colui che ha scelto poi la forma di pagamento rateale puo' accadere che, a quel momento, la domanda non sia stata nemmeno accolta o quantomeno che non abbia ancora inizio il pagamento del contributo. Si consideri oltretutto che il dipendente obbligato al pagamento dell'intero contributo potrebbe vedere pregiudicate le sue esigenze di vita, dovendo destinare allo scopo tutta o parte della pensione ovvero rinunciare, per effetto della difficolta' dell'adempimento in unica soluzione, al godimento della pensione stessa, con grave vulnus dell'art. 36 della Costituzione. La questione di legittimita' costituzionale e' rilevante, poiche' soltanto dal suo accoglimento puo' discendere, secondo le ragioni in precedenza esposte, il riconoscimento del diritto alla pensione fatto valerre dalla ricorrente, salvo che per quanto concerne la irripetibilita' dell'eventuale indebito.
P. Q. M. La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la regione siciliana, riuniti i giudizi ai sensi dell'art. 273 del c.p.c.; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 73 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, nella parte in cui esclude la possibilita' al dipendente, cessato senza avere effettuato il pagamento dell'onere del riscatto in unica soluzione e che non sia incorso durante il servizio nella decadenza prevista dal precedente art. 72, secondo comma, di chiedere all'ente previdenziale che il contributo venga recuperato mediante riduzione della pensione di una quota vitalizia da calcolarsi in base alla tabella B annessa allo stesso r.d.l., per contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione; Dispone la sospensione del giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale; Ordina che a cura della segreteria della sezione gli atti vengano rimessi alla Corte costituzionale e copia della presente ordinanza venga notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Cosi' provveduto in Palermo, nella camera del consiglio del 26 gennaio 1933. Il presidente: CORAZZINI Depositata oggi in segreteria nei modi di legge. Palermo, addi' 3 maggio 1993 Il direttore della segreteria: BADAME 93C0928