N. 566 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 1993
N. 566 Ordinanza emessa il 7 luglio 1993 dalla pretura di Bassano del Grappa, sezione distaccata di Asiago, nel procedimento penale a carico di Forte Carlo ed altri. Caccia - Esercizio dell'attivita' venatoria nei confronti di specie protette (nel caso: capriolo di eta' inferiore all'anno) effettuato da soggetti muniti dei relativi provvedimenti autorizatori (licenza di porto di fucile rilasciata a seguito di autorizzazione regionale) - Impossibilita' di ritenere sussistente, nel caso, il reato di furto venatorio, essendo tale condotta, a norma delle nuove disposizioni sulla caccia, punita con la sola ammenda - Conseguente possibilita' di estinguere il reato mediante oblazione - Prospettata illegittimita' costituzionale sotto diversi e molteplici profili (irragionevolezza, tutela dell'ambiente, conformita' al diritto internazionale riconosciuto, tutela della famiglia e della proprieta' privata) - Riproposizione, con estensione a norma in precedenza non impugnata, di questione gia' dichiarata inammissibile sulla base di argomentazioni non condivise dal giudice a quo. (Legge 27 dicembre 1977, n. 968, artt. 8, primo, quinto, sesto, ottavo e nono comma, 21, primo e secondo comma, e 22, secondo e terzo comma; legge 11 febbraio 1992, n. 157, artt. 1, secondo comma, 12, primo, sesto, ottavo, undicesimo e dodicesimo comma, 14, terzo, quarto, settimo e ottavo comma, 22, primo, secondo, settimo e nono comma, e 30, terzo comma). (Cost., artt. 2, 3, 9, 10, 11, 30, 32, 33, 41, 42, 44 e 101).(GU n.40 del 29-9-1993 )
IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 1539/93 r. mod. 23 nei confronti di Forte Carlo, De Marchi Gilberto e Forte Andrea proponendo d'ufficio questione di legittimita' costituzionale degli artt. 8, primo, quinto, sesto, ottavo e nono comma; 21, primo e secondo comma; 22, secondo e terzo comma, della legge 27 dicembre 1977, n. 968; 1, secondo comma; 12, primo, sesto, ottavo, undicesimo e dodicesimo comma; 14, terzo, quarto, settimo e ottavo comma: 22, primo, secondo, settimo e nono comma, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, nella parte in cui consentono l'esercizio della caccia da parte di soggetti privati, sia pure previo rilascio di concessione e di licenza di porto di fucile per uso di caccia a seguito di abilitazione regionale, ma in assenza di alcun fine di utilita' sociale; ovvero, e comunque, nella parte in cui non prevedono limitazioni al numero massimo dei soggetti cosi' abilitati, in ambito nazionale ne' locale; dell'art. 30, terzo comma, della legge da ultimo citata, nella parte in cui prevede che, nei casi indicati dal primo comma, non si applichino gli artt. 624, 625 e 626 del codice penale, essendo tale regime sanzionatorio di favore dipendente dal presupposto dell'esistenza e della validita' dei menzionati provvedimenti amministrativi, disciplinati dalle disposizioni che precedono, e cosi' subordinato alla legittimita' costituzionale di queste: in riferimento agli artt. 2; 3, primo e secondo comma; 9, primo e secondo comma; 10, primo comma; 11, secondo inciso; 32, primo comma; 30, primo comma; 33, primo comma; 41, secondo e terzo comma; 42, secondo comma; 44, primo comma; 101, secondo comma, della Costituzione; O S S E R V A 1. - Forte Carlo, De Marchi Gilberto e Forte Andrea sono stati citati a giudizio per rispondere della imputazione di cui agli artt. 110, cpv., del c.p. e 30, lett. h), della legge 11 febbraio 1992, n. 157, in relazione all'art. 12, lett. a), punto 1, della l.r. 11 agosto 1989, n. 31, per avere, in concorso tra loro, materialmente agendo Forte Carlo e De Marchi Gilberto, abbattuto con tre colpi di fucile, un giovane di capriolo (cucciolo di eta' inferiore all'anno) e, percio', mammifero, nei cui confronti la caccia non era consentita. Sebbene il fatto contestato sia anteriore all'entrata in vigore della legge statale indicata, il capo d'imputazione e' stato redatto nell'evidente presupposto che la legge stessa rechi disposizioni piu' favorevoli agli imputati, e percio' trovi applicazione retroattiva in forza dell'art. 2, terzo comma, del c.p. Piu' radicalmente la difesa, nella memoria depositata, esclude che il fatto sia soggetto ad alcuna sanzione penale: perche' la regione Veneto, introducendo, con l'art. 12 della l.r. cit., il divieto di caccia ai caprioli giovani dell'anno, avrebbe ecceduto i limiti del potere conferitole dall'art. 12 della legge statale previgente, esercitabile mediante l'esclusione della caccia a determinate specie, e non gia' all'uno o all'altro sesso di una specie. Analoghi limiti sarebbero imposti dall'art. 19 della recente legge dello Stato. Non avendo la regione ottemperato all'adeguamento della propria legislazione ai principi e alle norme della nuova legge entro il termine perentorio stabilito dall'art. 36, sesto comma, di questa, l'art. 12 della l.r. cit. sarebbe stato abrogato dall'art. 37 della legge stessa: cosicche' il fatto contestato non sarebbe (attualmente) preveduto dalla legge come reato. Il pretore non ravvisa contrasto della disposizione regionale con la legge statale previgente, ne' con quella sopravvenuta. Nel quadro della normazione di principio, che non ha subi'to, per questa parte, significative modifiche, spetta alle regioni il potere non soltanto di escludere talune specie dall'elenco di quelle cacciabili, ma anche di limitare gli abbattimenti di esemplari di una data specie, in relazione a particolari situazioni ambientali oppure a caratteristiche di sesso, eta' e simili: la deroga del secondo tipo e', palesemente, compresa nella prima, perche' piu' limitata. D'altronde, codesta corte ha osservato che le regioni, anche quelle speciali, e le province autonome potranno apportare variazioni all'elenco delle specie cacciabili, come definito dalla legge statale e dai successivi atti governativi, ma solo "nel senso di un rafforzamento del fine protezionistico affermato dalle norme fondamentali della legge n. 968"; e, quindi, "al fine di limitare e non di ampliare il numero delle eccezioni al divieto generale di caccia espresso dal primo comma .." dell'art. 11. Ne' giova replicare che l'elenco delle specie cacciabili, contenuto nell'art. 12 della l.r. cit., avesse vigore a tempo determinato, esauritosi, appunto, con l'entrata in vigore della legge statale che ha riformato la materia: infatti, in presenza di leggi temporanee, quale la disposizione in esame, vige la deroga disposta dal quarto comma dell'art. 2 del c.p. rispetto ai principi enunciati nei commi precedenti. Cio' posto, esaurita l'istruzione dibattimentale, e salva la possibilita' di integrarla successivamente con l'esame dei testi di riferimento, ai sensi dell'art. 195, primo comma, del c.p.p., il pre- tore ritiene non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione la questione di legittimita' costituzionale delle disposizioni di legge statale, previgenti e sopravvenute, astrattamente applicabili alla fattispecie concreta, e rispetto alle quali la legislazione regionale svolge una mera funzione integratrice. 2. - Il pretore e' indotto a riproporre la questione in termini sostanzialmente analoghi a quelli dell'ordinanza emessa il 10 aprile 1992 nel procedimento penale a carico di Gabrieli Leopoldo (iscritta al n. 350 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1992); tenendo conto, peraltro, delle indicazioni che hanno motivato la pronuncia, da parte di codesta ecc.ma Corte, della manifesta inammissibilita' della precedente questione (ordinanza n. 93 dell'8-15 marzo 1993 (Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 13 del 24 marzo 1993): "Considerato che le questioni sottoposte all'esame della Corte non appaiono rilevanti, dal momento che il giudizio a quo verte sull'applicazione all'imputato della normativa penale sopravvenuta, a lui piu' favorevole, di cui all'art. 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 - che ha previsto nuove sanzioni penali per l'ipotesi criminosa di abbattimento di animale appartenente a specie protetta, escludendo per questa fattispecie l'applicabilita' della sanzioni previste per il furto - e che tale disposizione di favore non risulta impugnata nel presente giudizio; che l'invocata declaratoria di illegittimita' costituzionale della disciplina autorizzatoria dell'esercizio dell'attivita' venatoria non potrebbe, comunque, nella specie, influire sulla legittimita' di tale esercizio effettuato sulla base della licenza di caccia di cui risultava in possesso l'imputato all'epoca del fatto contestato". In conseguenza del primo rilievo, l'attuale questione viene prospettata con riguardo esplicito, oltre che alle disposizioni precedentemente impugnate, anche all'art. 30 della legge vigente; e, tuttavia, limitatamente non gia' al primo comma - che, isolatamente considerato, reca apposite sanzioni penali per le violazioni ivi elencate - bensi' al terzo comma, che, in relazione alle fattispecie descritte nei precedenti, introduce la deroga all'applicazione delle pene stabilite per il furto. Per definire l'esatta portata della censura, torna utile rammentare che gli artt. 30 e 31 della recente legge, introducendo sanzioni penali e, rispettivamente, amministrative per una serie di illeciti connessi alla tutela della fauna, e disponendo che, nei corrispondenti casi, non si applicano i sopra ricordati articoli del codice penale, non comprendendo, fra le attivita' vietate, la condotta di chi esercita la caccia in assenza di provvedimento autorizzativo - ora definito di "concessione" dall'art. 12, primo comma - ovvero di licenza di porto di fucile per uso di caccia, oppure di previa abilitazione regionale (artt. 12, ottavo e dodicesimo comma; 22, primo e secondo comma): a differenza di quanto prevedeva l'art. 31, lett. a) e, rispettivamente, lett. g), della legge abrogata. A meno di sostenere che il legislatore del 1992 abbia considerato lecito il solo fatto di praticare la caccia in assenza dei cennati provvedimenti, pare desumersi, al contrario, la sua univoca volonta' che tale condotta resti soggetta, appunto, alle pene stabilite per il furto: in adesione ad un orientamento giurisprudenziale che - anche in riferimento alle ulteriori violazioni descritte nelle citate disposizioni della legge previgente - si avviava a divenire consolidato (fra le piu' recenti: Cass., 24 febbraio 1989, Beggini; 17 aprile 1989, Maschio; 24 gennaio 1989, Giacomozzi; 28 giugno 1989, Valluzzo; 6 febbraio 1989, Bernacchi; 20 dicembre 1989, Pini; 16 gennaio 1990, Frau; 26 aprile 1990, Foddis; contra: 17 gennaio 1989, Lepri). Percio', e' alla titolarita' di siffatti provvedimenti che consegue la prevalenza, sulle pene stabilite per il furto, di quelle introdotte dal primo comma dell'art. 30 della legge vigente: le une e le altre, non essendo legate da rapporto di specialita', dovrebbero sottostare - in mancanza del terzo comma - al regime del concorso formale di reati e di pene, disciplinato dagli artt. da 73 ad 80 del c.p., ovvero - piu' correttamente - della unificazione ai sensi dell'art. 81, primo comma, del c.p. Del resto, nel vigore della legge n. 968/1977, era stato autorevolmente dimostrato che, tra le violazioni amministrative da essa previste e la fattispecie del furto, non intercorreva il rapporto di specialita' disciplinato dall'art. 9, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, e che, di conseguenza, le rispettive sanzioni trovavano applicazione congiunta (Corte costituzionale, sentenza n. 97/1987; Cass., 6 febbraio 1989, Bernacchi; 3 marzo 1989, Giana; 16 gennaio 1990, Frau; 26 aprile 1990, Foddis, cit.). Incisivamente e' stato osservato che, in presenza dei principi stabiliti dagli artt. 1, primo comma, e 12, primo comma, legge vigente, l'esclusione delle sanzioni previste per il furto non poteva conseguire che a una deroga espressa (P. Trento, sez. Borgo Valsugana, sentenza 3 giugno 1992, Rampellotto, Giur. merito, 1993, II, 113). E' dato, coerentemente, argomentare che, nel vigore della recente legge, qualora non fosse stata dettata la disposizione di deroga, tutti gli atti di abbattimento della fauna selvatica, sia perche' compiuti da soggetto privo ci concessione - la quale, per inciso, non sembra configurare un provvedimento autonomo e distinto da quelli di porto d'arma per uso di caccia e di abilitazione regionale - sia perche', pur in presenza della stessa, siano commessi in violazione di altre disposizioni della legge, sarebbero astrattamente soggetti alle sanzioni previste per il furto, concorrenti, nel secondo caso, con quelle introdotte dagli artt. 30 e 31. Nel sistema della legge, dunque, le violazioni compiute dai soggetti abilitati, elencate nel primo comma di ciascuno di detti articoli, rimangono sottoposte al solo, e piu' mite, trattamento sanzionatorio ivi previsto. Ad avviso del pretore, l'ipotetico accoglimento della questione di legittimita' delle disposizioni, gia' contenute nella legge n. 968/1977, e riformate dalla legge n. 157/1992, recanti la disciplina dei presupposti e delle formalita' di rilascio dei menzionati titoli abilitativi o, attualmente, concessori dell'esercizio venatorio, non potrebbe che riverberare gli effetti sull'esistenza dei poteri di accordare tali provvedimenti. Venendo preclusa la stessa possibilita' di rilasciare la concessione o l'abilitazione, sarebbe caducata la disposizione derogatrice che, nell'esistenza di questi provvedimenti, trova gli unici, attuali significato e ragion d'essere. Fra la riproposta questione di legittimita' delle disposizioni che disciplinano i cennati provvedimenti, e quella incentrata sul terzo comma dell'art. 30 della legge vigente, non sembra improprio scorgere una relazione di pregiudizialita', che fonda la rilevanza - presupposta dall'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 - sia, mediamente, dell'una che, direttamente, dell'altra. Alla natura stessa della sentenza di accoglimento appartiene la produzione di effetti piu' ampi di quelli strettamente postulati dall'ordinanza di rimessione, siccome aderenti all'oggetto del giudizio a quo: restando, in ipotesi, preclusa - al di la' della eliminazione del differente regime sanzionatorio collegato all'esistenza o non, nell'agente, del titolo autorizzativo o concessorio - la possibilita' di autorizzare e, quindi, di praticare lecitamente la caccia, intesa nel senso tradizionale di attivita' svolta per iniziativa del privato e per fini estranei all'utilita' sociale, residuando unicamente gli interventi di competenza delle amministrazioni preposte in funzione della tutela della fauna. In estrema sintesi: resterebbero eliminate dal sistema legislativo le stesse categorie di provvedimenti amministrativi di cui si dis- cute, l'esistenza e la validita' dei quali, agli effetti penali, integrano il presupposto, attualmente, di un piu' mite trattamento sanzionatorio al confronto del furto, oppure, nei rispettivi casi, della liceita' della condotta. Tutto cio', fermo restando il divieto - gia' ricordato nella precedente ordinanza di rimessione - di fare applicazione, nel giudizio a quo, del trattamento penale meno favorevole, pur derivante, in astratto e per l'avvenire, dalla eventuale declaratoria d'illegittimita': la quale, lungi dal ridondare in pregiudizio dell'imputato, influirebbe solo sulla formulazione del dispositivo e sulle premesse argomentative della pronuncianda sentenza: come, piu' avanti, incombe al remittente rammentare. Fin qui, l'esame delle conseguenze di una pronuncia d'incostituzionalita' sul futuro regime dell'attivita' considerata, restando ancora da valutarne i riflessi sui titoli abilitativi gia' rilasciati, sia nel vigore della legge abrogata che di quella intervenuta. Tale valutazione introduce al secondo profilo emergente dall'ordinanza d'inammissibilita' delle precedenti questioni. Il pre- tore, pur nella rispettosa cautela imposta dall'autorita' di ogni pronuncia di codesta Corte, osserva, sommessamente, che il riconoscimento della incostituzionalita' delle disposizioni impugnate non resterebbe senza conseguenze sulla validita' del titolo concessorio - o, esattamente, abilitativo, perche' regolato dalla legge previgente - di cui l'imputato e' munito. Si vuole trascrivere (senza citarne la fonte, in osservanza del divieto di cui all'art. 118, terzo comma, delle disp. att. del c.p.c.) solo alcune fra le opinioni dottrinali piu' accreditate: "In ordine alla validita' dell'atto occorre dunque aver riguardo unicamente alle norme vigenti e alla situazione di fatto esistente al momento del suo venire in essere. Un fenomeno di invalidita' sopravvenuta puo' verificarsi percio' soltanto nel caso del sopraggiungere di leggi retroattive, che considerino necessario un qualche requisito non richiesto al tempo della emanazione dell'atto (omissis). Non possono invece esser considerati come casi di invalidita' sopravvenuta quelli in cui l'invalidita' di un atto amministrativo venga dichiarata in conseguenza della emanazione di una sentenza (della Corte costituzionale o del Consiglio di Stato) che abbia fatto venir meno, con operativita' ex tunc, taluna delle norme in base alle quali l'atto era stato emanato, come pure quelli in cui l'invalidita' di un atto amministrativo venga dichiarata in conseguenza della invalidazione, con effetto ex tunc, di altri atti, che abbiano condizionato l'emanazione di quello in questione. In entrambe le ipotesi considerate l'atto amministrativo era infatti da considerare invalido (e poteva essere percio' legittimamente disapplicato) fin dal principio. E' chiaro che, cosi' come quella originaria, anche la invalidita' sopravvenuta dovra' agire a partire dallo stesso momento della emanazione dell'atto: una volta determinatesene le condizioni, essa quindi necessariamente retroagira'". "Poiche' queste (le autorita' amministrative) non possono adottare se non quei determinati atti, tipizzati dalla legge, nell'esercizio dei poteri da questa ad esse specificamente attribuiti per il perseguimento dei fini di pubblico interesse cui sono preordinati, ne consegue che, dichiarata costituzionalmente illegittima la norma sulla quale il provvedimento emesso si fondava, questo sara' da considerare (ora per allora) viziato a sua volta da illegittimita' 'derivata': onde, logicamente, il divieto alla autorita' giudiziaria ordinaria di farne concreta applicazione, il potere degli organi della giurisdizione amministrativa (ove non siano decorsi termini di decadenza) di annullarli, il dovere (fors'anche) della pubblica amministrazione di procedere comunque al loro annullamento d'ufficio". Il pretore aderisce alle tesi riportate, salvo che per la possibilita' di disapplicazione diretta dell'atto amministrativo, viziato dal contrasto della norma, che ne disciplina l'emanazione, con i precetti costituzionali: disapplicazione che, all'inverso, si ritiene necessariamente mediata dalla pronuncia d'illegittimita' della norma. L'opinione riferita e' stata accolta da codesta Corte, in particolare con la sentenza n. 124/1990, in sede di dichiarazione della illegittimita' costituzionale di alcune disposizioni della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 24 luglio 1969, n. 17, le quali, in deroga agli artt. 6 e 8 della legge 5 agosto 1981, n. 503, che ha ratificato e dato esecuzione alla convenzione adottata a Berna il 19 settembre 1979 - valutati quali norme interposte per verificare il rispetto dell'invocato parametro costituzionale, cioe' dello statuto regionale, che l'osservanza degli obblighi internazionali, assunti attraverso le convenzioni, postulava - autorizzavano l'uccellagione praticata con appostamenti fissi e consentivano la cattura di uccelli in massa con mezzi non selettivi. La decisione chiari' la rilevanza della questione nel giudizio a quo: " .. proprio perche' obbligato ad applicare in favore dell'imputato la discriminante fornita dalla licenza, il giudice penale ha il potere di sollevare pregiudizialmente la questione di costituzionalita' delle norme da cui l'atto amministrativo ripete la sua legittimita'. La questione e' rilevante nel senso chiarito dalla sentenza n. 148/1983 di questa Corte, in quanto l'eventuale accoglimento verrebbe a incidere sulla formula di proscioglimento dell'imputato. Invero, in caso di accoglimento, l'autorizzazione amministrativa sarebbe disapplicabile come discriminente di un comportamento altrimenti sussumibile sotto una fattispecie di reato, e verrebbe in considerazione come ragione assolutoria di altra natura". Il principio della invalidita' derivata dall'atto amministrativo puo' dirsi consolidato nella giurisprudenza amministrativa. "Nel caso in cui venga dichiarata incostituzionale una norma attribuitiva di potere, l'atto che l'amministrazione ha adottato in virtu' del detto potere, non e' nullo, bensi' meramente annullabile" (T.a.r. Lazio, sezione terza, 9 giugno 1980, n. 583, T.a.r. 1980, I, 2308). "Ancorche' gli atti amministrativi, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, non vengano travolti dalla cessazione di efficacia della legge, sulla quale si fondano, dovuta a dichiarazione di illegittimita' costituzionale, il giudice amministrativo ha il potere di rilevare, anche d'ufficio, i vizi riflessi derivanti all'atto impugnato dalla norma dichiarata incostituzionale, anche quando l'eccezione di costituzionalita' non sia stata sollevata dalla parte interessata nel corso del giudizio" (T.a.r. Puglia, 30 settembre 1982, n. 410, Foro amm. 1983, I, 2455). "E' illegittimo il provvedimento amministrativo adottato sulla base di una norma di legge successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima" (Consiglio di Stato, sezione quinta, 14 maggio 1983, n. 157, ivi, I, 990). "La dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della norma nella quale trova esclusivo fondamento il potere esercitato dalla p.a. con il provvedimento impugnato, svolge il suoi effetti ex tunc nei giudizi in corso, comportando l'illegittimita' del provvedimento stesso, del quale va dichiarato l'annullamento con sentenza del giudice amministrativo" (Consiglio di Stato, sezione sesta, 20 novembre 1986, n. 855, ivi, 1986, 2468). "Le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale hanno effetto retroattivo; pertanto gli atti amministrativi emanati in virtu' di un potere discrezionale attribuito da una norma poi dichiarata incostituzionale sono illegittimi, perche' emanati in virtu' di un potere inesistente" (T.a.r. Campania, sezione prima, 21 marzo 1988, n. 186, T.a.r. 1988, I, 1781). " .. l'eventuale dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle norme di legge denunciate con l'ordinanza di rimessione non potrebbe non avere effetti sulla validita' dei provvedimenti amministrativi impugnati, che di quelle disposizioni di legge hanno fatto applicazione" (T.a.r. Emilia-Romagna, sezione seconda (ord.) 27 luglio 1989, n. 247, Foro it. 1990, III, 157). "La Corte dei conti e' legittimata a sollevare questioni di costituzionalita' delle leggi che essa deve applicare nell'esercizio della sua funzione di controllo dei decreti governativi, in riferimento ai profili di copertura finanziaria posti dall'osservanza dell'art. 81 della Costituzione" (Corte costituzionale, sentenza n. 384/1991). Ben vero, il principio subisce un temperamento in osservanza del rispetto delle situazioni consolidate: e cosi', dell'assenza di interesse pubblico all'annullamento dell'atto in sede di autotutela, ovvero in presenza di provvedimenti divenuti ormai inoppugnabili (Consiglio di Stato, sezione quinta, 26 agosto 1988, n. 502, Consiglio di Stato 1988, I, 865), oppure che abbiano esaurito i loro effetti (Consiglio di Stato, sezione sesta, 20 aprile 1991, n. 219, Consiglio di Stato 1991, I, 779). Siffatti limiti non s'impongono, tuttavia, alla cognizione del giudice ordinario, pur sempre obbligato - al di la' di ogni preclusione propria del diritto amministrativo - e disapplicare incidentalmente il provvedimento affetto da illegittimita' (anche se) sopravvenuta: e, per piu' forte ragione, quando l'atto conservi l'efficacia di assentire l'esercizio di una attivita' altrimenti vietata. Tanto ha voluto significare codesta Corte, nella ricordata sentenza n. 124/1990, rilevando, in sede di esame dell'ammissibilita' della questione, che " .. si e' omesso di precisare da chi in concreto le licenze dell'autorita' provinciale avrebbero potuto essere impugnate ..". La stessa decisione riveste particolare significato, anche perche' afferma la rilevanza, nel giudizio a quo, della illegittimita' derivata di provvedimenti amministrativi, aventi efficacia scriminante da responsabilita' penale perche' previsti da norme di favore, della cui costituzionalita' si discute. Del tutto analogamente, il combinato delle disposizioni che disciplinano il potere di rilascio della licenza di caccia e degli artt. 30, terzo comma, e 31, quinto comma, della legge vigente, integra il contenuto di una speciale norma penale di favore, perche' sottrae il titolare del provvedimento, in via generale e per atti di apprensione di selvatici, sebbene altrimenti vietati, alle pene stabilite per il furto; oppure, in relazione alle violazioni specificamente elencate negli stessi articoli, lo sottopone ad un trattamento sanzionatorio minore. Il rilievo introduce al problema dell'ammissibilita' del sindacato costituzionale su norme di siffatta natura. Gia' codesta Corte si era pronunciata nel merito della legittimita' dell'art. 51, quarto comma, del c.p. (sentenza n. 123/1972): cioe', di una disposizione che configura una causa di giustificazione generale; senza, tuttavia, esaminare esplicitamente il profilo della rilevanza, accennato dal giudice remittente: " .. assumeva tuttavia di non poter emettere la sentenza istruttoria di proscioglimento degli imputati perche' il detto art. 51 cod. pen. appariva sospetto di illegittimita' costituzionale ..". Per contro, e' stata dichiarata (sentenza n. 146/1993) la manifesta inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, e 31, quinto comma, della legge in esame, sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla corte d'appello di Venezia e dal tribunale di Udine, osservando che, " .. secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. tra le altre le sentenze nn. 108/1981 e 42/1977), al giudice costituzionale non e' dato di pronunciare una decisione dalla quale possa derivare la creazione - esclusivamente riservata al legislatore - di una nuova fattispecie penale; e cio' in forza del principio di legalita' sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione; che, infine, una eventuale pronuncia di accoglimento della questione prospettata dal giudice remittente - oltre ad interferire indebitamente, per le ragioni suesposte, in ambiti rigorosamente riservati al legislatore - risulterebbe comunque irrilevante nel giudizio a quo in virtu' del principio di applicazione della legge penale piu' favorevole ..". Nella meno recente delle decisioni richiamate, codesta Corte, negando di potere, nella materia penale, " .. sottrarre alcune fattispecie alla disciplina comune per ricondurle in una disciplina speciale che si ritiene piu' congruamente tutelare gli interessi coinvolti e tanto meno quando cio' comporti un aggravamento di pena", non escludeva, tuttavia, la possibilita' di " .. eliminare dall'ordinamento norme penali di favore allo scopo di restaurare il vigore generale delle norme incriminatrici derogate, restando riservato ai giudici di merito valutare l'efficacia di una simile pronunzia nei giudizi penali in corso ..". Del pari, l'altra sentenza richiamava motivata l'inammissibilita' di numerose fra le lquestioni prospettate con la considerazione che " .. in ogni caso la Corte non puo' pronunciare alcuna decisione, dalla quale derivi la creazione - esclusivamente riservata al legislatore (cfr. sentenza n. 42/1977) - di una nuova fattispecie penale". Senonche', tanto le questioni proposte dalla corte d'appello di Venezia e dal tribunale di Udine nel piu' recente giudizio di costituzionalita', quanto quella odiernamente riproposta, non involgono affatto la richiesta di una pronuncia additiva in materia penale: non viene sollecitata la creazione di una nuova fattispecie, e neppure la sottrazione di quelle gia' configurate alla disciplina comune per ricondurle ad altra speciale, secondo i rispettivi paradigmi descritti nelle sentenze appena richiamate. Nel presente giudizio e (per quanto consta) in quelli trattati dagli altri uffici remittenti, viene in considerazione una relazione normativa esattamente rovesciata (e tenuta ben distinta dalla sentenza n. 42/1977): e' la disposizione impugnata che, senza abrogare fattispecie gia' presenti e compiutamente delineate nella disciplina penale comune, eccettua da quest'ultima alcune, determi- nate e limitate ipotesi, per esimerle radicalmente da rilevanza penale, talvolta lasciando residuare meri illeciti amministrativi, oppure, nei rispettivi casi, per sottoporle ad un trattamento sanzionatorio penale piu' mite. Questo regime di favore, tuttavia - e diversamente da quando, implicitamente, assumono gli altri Giudici remittenti - non si estende indiscriminatamente ad ogni atto o comportamento comunque riconducibile alla nozione della caccia; ma, come notato, opera alla condizione che l'agente sia munito di tutti i provvedimenti abilitativi richiesti dalla legge per l'esercizio dell'attivita' venatoria, in difetto dei quali tornano applicabili le norme incriminatrici di diritto penale comune. Di qui, la rilevanza della questione incentrata non solo sulle disposizioni recanti la deroga ma, altresi', su quelle che disciplinano i provvedimenti costituenti il presupposto della stessa. Codesta corte, riesaminando approfonditamente il problema della rilevanza delle prospettazioni d'illegittimita' di norme penali di favore, aveva tenuto nettamente distinto il profilo della tassativita' delle fattispecie da quello della irretroattivita' delle conseguenti pronunce di accoglimento (sentenza n. 148/1983): " .. la giurisprudenza della corte puo' considerarsi ormai consolidata, per cio' che riguarda il principio di legalita', inteso nei termini gia' fissati dall'art. 1 del c.p.: nel senso che sono state ripetutamente dichiarate inammissibili (da ultimo, con la sentenza n. 71 del presente anno) le impugnazioni attraverso le quali si richiedeva, in sostanza, che la corte configurasse nuove norme penali, cosi' determinando conseguenze sfavorevoli per l'imputato. Ma riesce evidente che il caso in esame non rientra in questo quadro, poiche' il giudice istruttore del tribunale di Roma non ha ipotizzato alcuna decisione di accoglimento additivo; bensi' ha prospettato l'esigenza che il regime penale dei componenti il Consiglio superiore della magistratura venga ricondotto nell'ambito delle norme di diritto comune, mediante una pura e semplice dichiarazione d'illegittimita' costituzionale dell'intera disposizione impugnata". Quanto al principio d'irretroattivita', dopo avere ricordato che le precedenti pronunce si collocavano su versanti opposti, la sentenza avvertiva: "Altro infatti e' la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alle dichiarazioni d'illegittimita' delle norme penali di favore; altro e' il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile". Veniva, quindi, chiarita l'influenza di simili questioni sull'esercizio della funzione giurisdizionale: "In primo luogo, l'eventuale accoglimento delle impugnative di norme siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali: i quali dovrebbero imperniarsi, per effetto della pronuncia emessa dalla corte, sul primo comma dell'art. 2 del c.p. (sorretto dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione) e non sulla sola disposizione annullata dalla corte stessa. E conviene aggiungere che la pronuncia della corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiche' in tal caso ne risulterebbe alterato - come e' stato esattamente notato in dottrina - il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa". "In secondo luogo, le norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento. Ma lo stabilire in quali modi il sistema potrebbe reagire all'annullamento di norme del genere, non e' un quesito cui la corte possa rispondere in astratto, salve le implicazioni ricavabili dal principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene; sicche', per questa parte, va confermato che si tratta di un problema (ovvero di una somma di problemi) inerente all'interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per caso, nell'ambito delle rispettive competenze". "In terzo luogo, la tesi che le questioni di legittimita' costituzionale concernenti norme penali di favore non siano mai pregiudiziali ai fini del giudizio a quo, muove da una visione troppo semplificante delle pronunce che questa corte potrebbe adottare, una volta affrontato il merito di tali impugnative .. non puo' escludersi a priori che il giudizio della corte su una norma penale di favore si concluda con una sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi di cui in motivazione) o con una pronuncia comunque correttiva delle premesse esegetiche su cui si fosse fondata l'ordinanza di rimessione: donde una serie di decisioni certamente suscettibili d'influire sugli esiti del giudizio penale pendente". Possibilita' di particolare rilievo, nel caso d'impugnativa - come la presente - relativa ad una " .. norma finora inapplicata in sede penale .. su cui non si e' dunque formata alcuna interpretazione giurisprudenziale consolidata ..". Codesta Corte aveva, del resto, gia' avvertito che, in materia di norme penali di favore, i problemi derivanti dalla cosiddetta retroattivita' delle decisioni di accoglimento, attengono all'interpretazione e devono pertanto essere risolti dai giudici comuni (sentenza nn. 155/1973 e 22/1975). Nel merito della questione, la sentenza n. 148/1983 osservava: "Ben altro e' invece il caso delle cause di non punibilita', stabilite in vista dell'esercizio di determinate funzioni. Norme siffatte abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali; ma non e' indispensabile - ad avviso della corte - che il fondamento consista in una previsione esplicita. All'opposto, il legislatore ordinario puo' bene operare in tal senso al di la' delle ipotesi espressamente previste dalle fonti sopraordinate, purche' le scriminanti cosi' stabilite siano il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco". Cio' significa - annota la dottrina - che le cause di non punibilita' necessitano di un puntuale fondamento a livello costituzionale, ancorche' non tradotto in una previsione esplicita all'interno del sistema sopraindicato; e che il canone di ragionevolezza, desunto dal principio di uguaglianza ed eretto a limite dell'attivita' discrezionale del legislatore, richiede, in presenza di cause siffatte, l'equilibrata composizione dei valori costituzionali confrontati. La decisione commentata, dunque, non solo impone di considerare rilevanti le questioni vertenti su cause di non punibilita'; ma indica pure i criteri che guidano, in materia, il sindacato di codesta Corte. In punto di rilevanza, resta chiarito che il principio di legalita', come non veniva posto in discussione dalla censura della particolare esimente, esaminata nella sentenza, cosi' non lo sarebbe per effetto della eventuale declaratoria d'illegittimita' della causa di giustificazione - del pari speciale - costituita dalla licenza di caccia: il venir meno della quale, lungi dall'implicare una nuova incriminazione ed una corrispondente fattispecie penali, oppure l'inasprimento delle sanzioni previste - secondo i paradigmi delle sentenze additive non consentite - comporterebbe soltanto l'automatica (e, secono la prospettazione, costituzionalmente necessitata) espansione delle norme precettive e sanzionatorie vigenti, compiutamente delineate nell'ordinamento penale comune. Egualmente, non e' scalfito l'altrettanto fondamentale canone d'irretroattivita', di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, poiche' l'eventuale accoglimento della questione non e' incompatibile con il dovere di fare applicazione della norma piu' favorevole nel giudizio a quo; a tacere della considerazione che tale risultato, trattandosi di disposizione - nella specie - sopravvenuta al compimento del fatto da giudicare, non e' imposto dal precetto costituzionale, bensi' dal principio - pur coerente con esso, e cogente per il giudice ordinario, ma non costituzionalizzato nella sua interezza - di cui all'art. 2, terzo comma, del c.p. Coerentemente, codesta Corte ha ritenuto non esclusa, ne' preclusa, dal principio di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione la pronuncia d'illegittimita' dell'art. 2, quinto comma, del c.p., in quanto diretta a rendere inoperante questa disposizione limitatamente alla retroattivita' - da essa assicurata in riferimento al secondo e terzo comma - delle norme penali di favore contenute nei decreti-legge non convertiti: e cioe', limitatamente ai fatti commessi anteriormente all'emanazione dei decreti stessi (sentenza n. 51/1985). Nel merito, codesta Corte puo' essere richiesta di sindacare - sulla base dei criteri, da essa indicati, della ricerca di un puntuale fondamento di rango costituzionale, anche se implicito, e del ragionevole bilanciamento dei valori in gioco - le norme che, attraverso il duplice congegno del rilascio dei provvedimenti abilitativi o, attualmente, concessori, e della deroga ai precetti di diritto comune, sottraggono il cacciatore, cosi' abilitato, alle sanzioni stabilite dal codice penale. Le analogie fra la sentenza n. 148/1983 e la presente questione finiscono qui: in particolare, non viene in considerazione, per giustificare la causa di non punibilita' esaminata in questa sede, il collegamento all'esercizio di "determinate funzioni", la cui analisi, nella detta decisione, condusse alla conclusione di infondatezza. All'inverso, l'assenza di peculiari attribuzioni istituzionali - quali permisero, nella decisione richiamata, di riconoscere l'implicito fondamento costituzionale della deroga del regime punitivo comune - come pure di differenti interessi pubblici per l'esercizio della caccia ad opera di privati, suggerisce un rigore ancor maggiore nella ricerca di un radicamento nei valori dello statuto nonche' di un razionale bilanciamento fra questi: criteri indicati da codesta Corte per valutare la legittimita' - e' dato intendere - di qualunque causa di esclusione dell'antigiuridicita'(come la gia' esaminata esimente comune di cui all'art. 51, ultimo comma, del c.p.) ovvero, in genere, di non punibilita'. Di recente, codesta Corte ha ripreso e consolidato - salvo nelle ricordate ordinanza n. 93 e sentenza n. 146 del 1993, entrambe in materia di caccia - le conclusioni raggiunte in tema di rilevanza. "Come piu' volte affermato da questa Corte (sentenze nn. 148/1983, 826/1988 e 124/1990), le pronunce concernenti la legittimita' delle norme penali di favore o comunque piu' favorevoli all'imputato possono influire sul conseguente esercizio della funzione giurisdizionale. Invero, l'eventuale accoglimento dell'impugnativa viene ad incidere sulle formule di proscioglimento o quanto meno sul dispositivo della sentenza penale". "La pronuncia della Corte potrebbe riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria modificandone la ratio decidenti. In tal caso ne risulterebbe alterato il fondamento normativo. L'eventuale sentenza interpretativa di rigetto che la Corte puo' emettere oltre le sentenze di accoglimento o di rigetto, influirebbe certamente sugli esiti del giudizio penale. Il che puo' avvenire nella specie in quanto la norma impugnata non e' stata finora oggetto di interpretazione da parte del giudice ordinario" (sentenza n. 167/1993). "Si ribadisce che (sentenze nn. 146/1983, 826/1988 e 124/1990) le pronunce di legittimita' delle norme penali di favore o comunque piu' favorevoli all'imputato influiscono o possono influire sul conseguente esercizio della funzione giurisdizionale e che l'eventuale accoglimento delle impugnative di siffatte norme viene ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sul disposivito delle sentenze penali". Inoltre, la pronuncia della Corte potrebbe riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria modificandone la ratio decidendi. In tal caso risulterebbe alterato il fondamento normativo della decisione (sentenza n. 194/1993). La questione non diviene meno rilevante nella piu' limitata angolazione della richiesta di una pronuncia che, senza abolire il regime della licenza o concessione di caccia, dichiari illegittime le disposizioni che ne disciplinano il rilascio, nella parte in cui non vincolano il corrispondente potere all'accertamento di un numero chiuso dei soggetti abilitati, in ambito nazionale ne' regionale o, comunque, locale: infatti, come, in tema di invalidita' derivata, la ricordata giurisprudenza amministrativa non annette alla pronuncia di illegittimita' conseguenze diverse a seconda che si tratti di norme che regolano l'emanazione di provvedimenti vincolati oppure discrezionali; cosi', l'annullamento parziale delle disposizioni in questione, modificando i presupposti dell'atto amministrativo da esse disciplinato, e riducendo la discrezionalita' del relativo potere attraverso l'esigenza di accertare il non superamento di un numero chiuso, non potrebbe che inficiare la validita' dei provvedimenti rilasciati sulla base delle norme stesse. Nei termini delineati, la rilevanza della questione si estende, dalle disposizioni della legge previgente che disciplinavano i presupposti del rilascio dei provvedimenti abilitativi, e quelle che, nella legge sopravvenuta, li regolano attualmente. Diversamente, l'eventuale pronuncia d'incostituzionalita' soltanto delle prime, pur comunicando l'invalidita' derivata al provvedimento rilasciato sulla base di queste, non impedirebbe di ritenere avvenuta, per effetto delle seconde, la convalida in via legislativa dell'abilitazione stessa: se non altro, ancora una volta, in forza del principio di retroattivita' delle norme piu' favorevoli. All'opposto, la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale delle sole disposizioni vigenti, resterebbe ininfluente sulla validita' dei provvedimenti precedentemente rilasciati, la quale, per regola generale, va confrontata esclusivamente con le norme in vigore all'epoca dell'emanazione dell'atto amministrativo. Percio', soltanto la caducazione delle une e delle altre, nonche' di quella recante la deroga del regime penale ordinario, rendendo il provvedimento abilitativo " .. disapplicabile come discriminante di un comportamento altrimenti sussumibile sotto una fattispecie di reato .." (sentenza n. 124/1990), e' idonea ad alterare il fondamento normativo della emandata sentenza, modificandone lo schema argomentativo ed incidendo sulla formula di proscioglimento o, quanto meno, sul dispositivo. Nella materia considerata, infatti, tornerebbero applicabili, beninteso soltanto in astratto, e senza possibilita' di irrogazione nel presente giudizio - in aderenza ai principi ricordati, ed assolutamente consolidati nella giusprudenza di codesta Corte - le sanzioni di diritto penale comune. Del pari, un'eventuale sentenza interpretativa di rigetto sarebbe certamente influente sugli esiti del giudizio penale, in quanto vertente sia sulla disciplina pregressa che su quella sopravvenuta, non ancora sottoposta all'esegesi del giudice ordinario: e cosi' giustifica la duplice prospettazione della presente questione. Le considerazioni precedenti presuppongono che, fra la disciplina anteriore e quella sopravvenuta, intercorra la relazione prevista dall'art. 2, terzo comma, del c.p., con la conseguente applicazione della seconda, ritenuta piu' favorevole in quanto recante deroga alle sanzioni previste per il furto, in favore delle pene da essa introdotte. Tale premessa risulta pero' avversata da recenti sentenze della suprema Corte. Prescindendo, per il momento, da una pronuncia sicuramente riferibile all'ipotesi del tentativo di furto (sezione quinta, 12 marzo 1992, Placenti), altra decisione (sezione quinta, 12 novembre 1992, Reghin) argomenta, in tema di uccellagione, che questa pratica costituisse, prima della recente riforma, un semplice illecito amministrativo. Percio', l'art. 30 della legge sopravvenuta, prevedendo per la corrispondente condotta apposite sanzioni penali ed escludendo quelle comminate per il furto, implicherebbe fenomeni separati di abrogazione di una disposizione penale anteriore e di introduzione di una nuova figura di reato: cosicche', per questa seconda parte, la sua applicazione retroattiva incontrerebbe il divieto di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. La sentenza accenna ai diversi criteri utilizzabili per individuare il fenomeno della successione di leggi penali diverse: quali la "continuita' del tipo di illecito" e il "rapporto di continenenza", cui va aggiunto quello c.d. del "fatto concreto". Di questi, una parte della dottrina,, valutati insoddisfacenti il primo, perche' di scarsa utilita' pratica, e il terzo in quanto non mediato da un confronto tra norme, propende per il secondo: che ritiene verificato quando la nuova norma incrimini una condotta che rientrava gia' nella previgente, e cioe' quando si presenti speciale rispetto all'altra; ravvisando, pero', analoga successione se, all'inverso, sia di portata generale la norma sopravvenuta. Il detto criterio non sarebbe soddisfatto dal confronto del precetto sul furto con la nuova legge venatoria, perche' ne emerge - non diversamente da quello con la legge previgente in materia (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 97/1987) - un rapporto di specialita' bilaterale o reciproca o d'interferenza, non assimilabile alla specialita' in senso tecnico: la tesi della Cassazione ne risulterebbe, quindi convalidata. Ma il problema va impostato diversamente. Non e' esatta l'affermazione che le violazioni della previgente legge non costituissero, per se', reato, salva l'applicazione della norma incrimatrice del furto. In realta', per effetto del principio fondamentale dettato dall'art. 1 di detta legge, le disposizioni recanti successivi divieti rivestivano funzione integratrice dell'art. 624 c.p.: il precetto recato da questo risultava percio' costituito, nella specifica materia, sia dalla disposizione di diritto comune che da quelle della legge speciale, recanti l'enunciazione del principio e, rispettivamente, dei singoli divieti. Si obiettera' che tale integrazione fosse frutto di un'opzione interpretativa; ma e' dato replicare che essa, una volta consolidatasi nella giurisprudenza di legittimita', immedesimava il diritto vivente. Consegue che, al fine di accertare se ricorra il fenomeno della successione di leggi penali (entrambe incriminatrici), il confronto non va effettuato fra la legge speciale anteriore, ovvero fra la norma incriminatrice del furto, isolatamente considerati, da una parte, e la legge sopravvenuta dall'altra; bensi' fra il combinato delle prime due e la terza. Risultera' che il rapporto fra le disposizioni precettive dei rispettivi complessi normativi non e' di specialita', ne' tecnica ne' bilaterale: perche', tra la combinazione di ciascun divieto recato dalla legge previgente con l'incriminazione del furto, ed ogni altra corrispondente violazione della nuova legge - nella parte in cui aderisce ad un'attivita' gia' vietata dalla precedente - e' ravvisabile non la presenza di elementi specializzanti, ma la completa identita' di contenuto precettivo. Risulta, con cio', verificata l'esatta coincidenza delle fattispecie astratte, corrispondenti alle disposizioni confrontate: la quale soddisfa il presupposto per l'applicazione del regime della successione di leggi penali, previsto dall'art. 2, terzo comma, del c.p., in misura ancor piu' rigorosa di quella postulata dal rapporto di specialita' in senso tecnico. Pare, d'altronde, fuor di luogo definire norma brogatrice di precedente incrimazione - quale richiesta per i differenti effetti di cui al secondo comma dell'art. 2 del c.p. - l'art. 30, terzo comma, della recente legge, il quale introduce soltanto una deroga agli artt. 624, 625 e 626 del c.p.: deroga, per giunta, limitata ai "casi di cui al comma primo", cosi' da autorizzare l'opinione della sopravvivenza del regime del furto anche nella specifica materia, in particolare - come notato in precedenza - nei confronti di chi sia sprovvisto della licenza o concessione. Un'attenta dottrina considera compreso nel fenomeno della concessione di leggi il caso dell'abrogazione di norma incrimatrice, non accompagnata da un nuovo precetto, la quale, tuttavia, comporti la ricaduta dei fatti incriminati dalla norma abrogata nell'ambito di applicazione di una norma generale gia' vigente nell'ordinamento. Rispetto alla vera abrogazione, l'introduzione di una deroga rappresenta un evento legislativo minore: e cosi' rientra pur essa, a pieno titolo, nel fenomeno della successione di leggi penali. Se ne arguisce riprova dell'utilita', ed anzi della necessita' che la deroga in questione risultasse formulata in modo espresso, per realizzare il chiaro intento del legislatore di escludere dalla materia - peraltro, limitatamente ad alcune violazioni - il regime del furto, Infatti, il terzo comma dell'art. 30 della legge vigente non puo' riguardarsi come semplice applicazione della regola dettata dall'art. 15 del c.p., nel quale caso risulterebbe perfettamente inutile; bensi' come implicante eccezione al regime del concorso formale di reati, il quale e' applicabile quando con una sola azione od omissione sono violate diverse disposizioni di legge (art. 81, primo comma, del c.p.). Tanto riconosce anche la Corte regolatrice (12 novembre 1992, Reghin, cit.), quando nota che l'art. 30, terzo comma, della legge citata e' dettato "nel presupposto, a quanto pare, che le fattispecie del primo comma e quelle del furto siano diverse e che per evitare il concorso di norme occorra appunto escludere espressamente l'applicabilita' di quelle sul furto". Ma, se e' questa la relazione fra vecchia e nuove norme incrimatrici, rispetto a fatti commessi nella vigenza di entrambe: essa non puo' risultare differente in relazione a fatti anteriori alle seconde; e se, rispetto agli uni, avrebbe comportato - in assenza di deroga espressa - un'ipotesi di concorso formale di reati, non puo' che implicare, riguardo agli altri, identita' delle fattispecie incriminate e conseguente applicazione del principio dettato dal terzo comma dell'art. 2 del c.p. Si vuol dire che, se il fatto concreto ricade sotto entrambi i precetti, fra questi non puo' che essere ravvisata la successione di leggi. La conferma e' nell'art. 1 della legge vigente: il quale, in aderenza all'opinione giurisprudenziale prevalsa anteriormente, avrebbe egualmente comportato l'applicazione del precetto sul furto, in concorso formale con le nuove figure di reato se, in relazione a queste, non fosse stata dettata la deroga; e tuttora la comporta per altre violazioni, quale l'esercizio della caccia in assenza di licenza o concessione. Cio' rivela che l'operazione ermeneutica compiuta dalla suprema Corte, in quanto mediata dallo scorporo del principio fondamentale contenuto nell'art. 1 sia della legge previgente che di quella sopravvenuta, non convalida la tesi dell'abrogazione e della separata, nuova incriminazione. Diviene, a questo punto, possibile sciogliere il dubbio riguardo al tentativo di furto. Non pare conclusivo osservare (Cass., 12 marzo 1992, Placenti, cit.) che "risulta inapplicabile al fatto contestato la disciplina del tentativo, perche' non estensibile, in base a quanto espressamente disposto dall'art. 56 del c.p., alle contravvenzioni ..". Non tutte le violazioni previste dalla legge vigente riguardano, diversamente da quanto sostiene la sentenza, "l'avvenuta cattura o l'avvenuto abbattimento di uno o piu' esemplari della fauna selvatica protetta, e, quindi, interdetta alla caccia". Al contrario, l'art. 30, primo comma, non diversamente dalla legge previgente, sanziona anche condotte quali "l'esercizio" della caccia o dell'uccellagione (lettere a), d), f), h), i) e rispettivamente, e). Poiche' tali pratiche implicano il compimento non solo ne' necessariamente di atti di apprensione o di abbattimento, ma anche di quelli semplicemente diretti a tale scopo, in adesione alle nozioni di esercizio della caccia contenute nell'art. 12, secondo e terzo comma, della legge vigente (che, di piu', comprendono perfino il vagare o il soffermarsi con mezzi atti allo scopo), se ne deduce che alcuni fra i comportamenti vietati sono idonei ad integrare anche il tentativo di furto: per concludere che violazioni materialmente identiche sono previste come reato tanto dalla legge vigente quanto dagli artt. 56 e 624 del c.p. in combinato con le corrispondenti disposizioni della legge abrogata. In ogni caso, anche aderendo alla tesi criticata, non ne risulterebbe scalfita la rilevanza della questione di costituzionalita': l'art. 30, terzo comma, della legge vigente, operando per l'avvenire come presupposto del piu' mite trattamento penale introdotto dal primo comma, fungerebbe, secondo questa tesi, come radicale causa di esclusione della perseguibilita' penale dei fatti pregressi; e, quindi, non si sottrae, al pari di ogni altra disposizione regolatrice di cause di non punibilita', al sindacato di costituzionalita'. A sua volta, l'efficacia esimente di tale disposizione con riguardo ai fatti anteriori, postula, a monte, la titolarita' nell'agente della licenza di caccia: neppure si sottraggono, percio', al detto sindacato le disposizioni regolatrici del rilascio del provvedimento abilitativo, in quanto comportano una causa generale di non punibilita' per atti di esercizio venatorio non altrimenti vietati. La pronuncia d'inammissibilita' della precedente questione autorizza il pretore a riprodurre pressocche' letteralmente - salvo marginali aggiornamenti del quadro normativo - le considerazioni di merito esposte nell'ordinanza di rimessione del 10 aprile 1992: ritenendo che queste, sebbene svolte in riguardo espresso alle disposizioni che disciplinavano e, rispettivamente, disciplinano i titoli abilitativi piu' volte menzionati, implicano censura conseguenziale della norma di cui all'art. 30, terzo comma, della legge vigente. Se e' vero - come si e' cercato di dimostrare - che la disposizione appena indicata esplica la funzione di norma penale di favore solo se letta in combinazione con quelle sopra richiamate, e cioe' solo in presenza di agente munito della licenza di caccia e dell'abilitazione regionale, in mancanza delle quali tornano applicabili le sanzioni stabilite per il furto, anche prescindendo dalla sussistenza di taluna fra le specifiche violazioni elencate nell'art. 30, primo comma, della legge citata: consegue che l'impugnativa della disciplina della licenza e dell'abilitazione predette inevitabilmente si estende alla disposizione di deroga del diritto penale comune, la cui applicazione trova l'attuale ed essenziale presupposto, appunto, nell'esistenza e nella legittimita' di quei provvedimenti, esposti da un'eventuale pronuncia di accoglimento al rilievo della invalidita' derivata. In sostanza, la norma penale di favore risulta dall'inscindibile collegamento fra le une e l'altra disposizione della recente legge, in quanto la scriminante o, nei rispettivi casi, il piu' mite trattamento sanzionatorio introdotti dalla seconda operano alla esclusiva condizione dell'avvenuto rilascio dei provvedimenti disciplinati dalle prime: sicche', la pronuncia d'illegittimita' di queste, quand'anche non comportasse la caducazione automatica dell'altra - ove non direttamente coinvolta nella impugnativa - implicherebbe comunque, ad avviso del pretore, quella conseguenziale prevista dall'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 3. - Nel sistema della legge abrogata, riconosciuta recare una riforma economico sociale (sentenza n. 1002/1988), alle solenni affermazioni dell'appartenenza della fauna selvatica al patrimonio indisponibile dello Stato, dell'apprestamento della tutela nell'interesse della comunita' nazionale e dell'estensione del relativo oggetto, del divieto di uccellagione (artt. 1, 2 e 3), seguiva una serie di disposizioni - segnatamente quelle impugnate - che contraddicevano o, almeno, non presentavano rigorosa corrispondenza (sentenza n. 63/1990) nelle regole generali. A tacere dell'esuberanza dell'elenco delle specie cacciabili, le regole predette e le esigenze rappresentate, in via di principio, dall'art. 8, primo comma, venivano frustrate dal numero aperto di coloro che, avendo compiuto il diciottesimo anno di eta', fossero muniti di licenza e di un'assicurazione per la responsabilita' civile verso terzi (art. 8, sesto comma), nonche' di un tesserino rilasciato dalla regione (nono comma) a seguito di abilitazione (art. 21) e di apposito esame (art. 22), dai quali derivava la facolta' di esercitare la caccia in tutto il territorio nazionale (art. 8, ottavo comma) e, correlativamente, l'appartenenza della fauna selvatica, abbattuta nel rispetto delle norme, a colui che l'aveva cacciata (art. 8, quinto comma). La nuova legge reca affermazioni di principio non dissimili (art. 1, comma primo, 2, comma primo, e 3); tuttavia, l'impianto generale non si discosta nella sostanza dalla disciplina previgente. In particolare, la pianificazione faunistico- venatoria, di cui agli artt. 9 e 10, comportante una destinazione differenziata del territorio, non rappresenta una reale novita' rispetto ai piani regionali disciplinati dalla legge abrogata; salvo introdurre la predeterminazione di criteri, ad opera dell'autorita' statale, perche' la programmazione sia basata "anche" sulla conoscenza delle risorse e della consistenza faunistica, da conseguirsi "anche" mediante modalita' omogenee di rilevazione e di censimento (art. 10, undicesimo comma). Ma, soltanto a partire dalla stagione venatoria 1995-96, e' previsto che i calendari venatori delle province indichino le zone dove l'attivita' di prelievo e' consentita in forma programmata (art. 14, sedicesimo comma), in base alla ripartizione che sara' operata dalle regioni (primo comma); e solo nella stagione 1994-95 l'art. 36, quinto comma, prevede la piena attuazione della legge, previa adozione degli atti di rispettiva competenza da parte dei soggetti partecipanti al procedimento di programmazione, entro i termini che saranno fissati dal Ministro dell'agricoltura (in concreto, con d.m. 12 agosto 1992). Il complesso di queste disposizioni (in particolare, gli art. 10, undicesimo comma, e 14 undicesimo comma) implica l'ammissione dell'insufficienza delle conoscenze faunistiche per l'Italia, e della mancanza di dati di censimento accurato e completo della grande maggioranza delle specie di selvatici (Annuario europeo dell'ambiente, Varese 1986, p. 288 e 297). Nondimento, rimane aperto il numero di coloro che possono conseguire la "concessione" per lo svolgimento dell'attivita' venatoria (art. 12, primo comma), ed estesa al territorio nazionale la validita' della licenza (undicesimo comma); viene fatta salva la possibilita' di accedere ad ambiti o comprensori ulteriori a quello determinato in base alle emanande norme regionali, anche compresi in una regione diversa da quella di residenza (art. 14, quinto comma), nonostante la prevista opzione, entro il 30 novembre 1993 (sesto comma), per una delle forme di caccia indicate nell'art. 12, quinto comma. Ne' l'opzione comporta un numero chiuso, sia pure in ambito locale. Infatti, sulla base dei dati censuari e scaduto il termine predetto, il Ministero comunichera' (entro il 1 marzo 1994) gli indici di densita' venatoria minima (non massima) per ogni ambito territoriale di caccia (art. 14, settimo comma), dei quali non potranno risultare inferiori quelli previsti dal piano faunistico-venatorio e dal regolamento di attuazione, approvandi dalle regioni; restando in facolta' degli organi direttivi degli ambiti territoriali di ammettere un numero di cacciatori superiore a quello fissato dal regolamento (ottavo comma). All'impossibilita' di apprestare piani di intervento tecnicamente corretti, in mancanza delle cennate conoscenze del patrimonio faunistico, si aggiunge cosi' quella di assicurarne la pratica attuazione, a causa dell'inesistenza di un numero chiuso di cacciatori, in ambito sia nazionale che locale: atteso che la nuova disciplina prevede la fissazione di indici di densita' venatoria minimi, e superabili, per di piu', ad opera della programmazione regionale e, ulteriormente, degli organi di gestione, ma non riducibili. E' lecito paventare che l'attuale normativa, ancor piu' della previgente, conduca a dilapidare il capitale costituito dalla fauna selvatica, ben al di la' della fruizione dei soli interessi. 4. - Essendo assicurato dall'art. 11 della legge abrogata - e dal parallelo art. 18 di quella sopravvenuta - " .. l'oggetto minimo inderogabile della protezione dello Stato, anche in adempimento di obblighi assunti in sede internazionale e comunitaria, ha ritenuto di dover offrire al proprio patrimonio faunistico" (sentenze n. 1002/1988 e 577/1990), il pretore prospetta il dubbio che appunto il carattere minimale di questa tutela ne riveli l'inadeguatezza al rispetto dei principi costituzionali stabiliti negli artt. 9 e 32. Invero, la fauna " .. rientra fra i beni la cui tutela costituisce elemento essenziale di un sistema istituzionale di protezione della natura .." (sentenza n. 1029/1988); comprendendo il bene ambientale, tra l'altro, " .. la esistenza e la preservazione .. di tutte le spe- cie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni .. Ne deriva la repressione del danno ambientale cioe' del pregiudizio arrecato da qualsiasi attivita' volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente", in funzione della " .. salvaguardia dell'ambiente come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettivita'" (sentenza n. 210/1987): in una prospettiva non lontana dal riconoscimento di un "diritto all'ambiente salubre" (Cass., sez. un. civ., 6 ottobre 1979, n. 5172). Il pretore rammenta che fu riconosciuta infondata la questione di legittimita' dell'art. 842, primo comma, del c.c., in riferimento all'art. 42, secondo e terzo comma, della Costituzione (sentenza n. 57/1976): venne allora in esame il conflitto fra il diritto di proprieta' e l'esercizio della caccia, il quale fu definito "non privo di positivo rilievo"; senonche', a differenza dei precetti ivi considerati, l'art. 9, secondo comma, della Costituzione " .. erige il valore estetico-culturale riferito (anche) alla forma del territorio a valore primario dell'ordinamento .. (cfr. sentenze di questa Corte n. 94/1985 e n. 359/1985), cioe' come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro" (sentenza n. 151/1986). Sembra al pretore che tanto la precedente quanto la nuova legge compromettano la tutela di detto valore con interessi di natura ben differente, di rango inferiore e, comunque, non costituzionalmente garantiti: e cio' per il solo fatto che, attraverso le disposizioni impugnate, prevedono la possibilita' per qualunque soggetto privato, sia pure subordinatamente all'esistenza di requisiti soggettivi e all'accertamento di doti attitudinali, di esercitare la caccia. Tale situazione rimane sospetta di illegittimita' anche nell'ipotesi di conoscenze faunistiche adeguate - e tuttora mancanti - la disponibilita' delle quali non consentirebbe, ad ogni modo, una seria programmazione, fino a tanto che chiunque possa chiedere ed ottenere la concessione gia' menzionata. Solo per inciso, l'assenza di siffatte conoscenze rivela che l'inclusione dell'una o dell'altra specie di selvatici nell'elenco di quelle cacciabili, gia' recato dall'art. 11, secondo comma, legge previgente, ed ora dall'art. 18 della sopravvenuta, non risponde ad alcuna rigorosa ponderazione scientifica ne', tanto meno, di pubblico interesse: il che supera ed assorbe la questione di legittimita' del solo terzo comma dell'art. 11 della legge citata, esaminata, in una differente prospettazione, da codesta Corte (sentenza n. 278/1988). Pare agevole concludere che ne' l'una ne' l'altra legge apprestano " .. una tutela del paesaggio improntata a integrita' e globalita' ..", quale ritenuta " .. aderente al precetto dell'art. 9 della Costituzione" (sentenza n. 151/1986). La compromissione degli equilibri ambientali, quale prevedibile effetto dell'una e dell'altra disciplina, e' foriera di risultati nocivi alla salute dell'uomo, in quanto parte inscindibile dell'assetto della natura: la relativa, precisa prognosi si presenta difficile proprio in mancanza di cognizioni adeguate, la quale per se' dovrebbe indurre alla piu' attenta conservazione di tutto il patrimonio faunistico esistente, salvo limitati interventi riequilibratori. E' certo, frattanto, che l'esercizio venatorio, da parte di un numero sempre piu' esteso di persone, comporta una grave limitazione delle possibilita' ricreative della maggioranza: la quale vede impedita, o grandemente limitata, la fruizione dell'ambiente, in termini di godimento delle componenti naturali, dal massiccio impiego di armi di notevole potenzialita' offensiva (art. 9 della legge abrogata e 13 della legge vigente) nelle zone del territorio nazionale non urbanizzate, e percio' aperte al soggiorno ed intrattenimento per svago o riposo: impiego che, prima e indipendentemente dalla conseguenza dell'alterazione degli equilibri naturali, costituisce attentato alla tranquillita' e alla serenita' degli altri utenti dei luoghi meno antropizzati; e, per se solo, comprime il bene della salute, intesa non nel superato significato di assenza di stati patologici oggettivamente diagnosticabili, ma nella moderna dimensione positiva di completo, generale ed equilibrato benessere fisico e psichico. Questo bene richiede la preservazione " .. delle condizioni indispensabili o anche soltanto propizie .."; e la sua difesa " .. puo' e deve avvenire anche indipendentemente da ogni intervento dell'autorita' amministrativa e persino contro di essa" (Cass., sez. un., cit.). 5. - La descritta disciplina dell'abilitazione all'esercizio venatorio lede il diritto alla sicurezza, garantito dall'art. 5, primo comma, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, adottata a Roma il 4 novembre 1950, della quale e' stata autorizzata la ratifica con legge 4 agosto 1955, n. 848, e compreso nel novero di cui all'art. 2 della Costituzione. Non pare dubbio che, prevedendo l'uso di armi da fuoco, in luoghi pubblici e privati, da parte di una pluralita' indeterminata e, di fatto, esorbitante di persone - anche prescindendo dalle negative implicazioni sociali della diffusione della detenzione e del porto relativi (cfr. art. 37, secondo comma, della legge vigente) - la normativa sopravvenuta, al pari di quella precedente, ponga a repentaglio la vita e l'incolumita' dei terzi. Circa la pericolosita' di tale esercizio, codesta Corte si e' ripetutamente pronunciata, giustificando l'accentuata pubblicizzazione del settore (sentenza n. 69/1962) e l'onere dell'assicurazione (sentenza n. 124/1969), sicche' non occorre diffondersi. Rinviando l'esame del valore della norma pattizia nell'ordinamento interno, " .. non si tratta di dischiudere la sfera dell'art. 2 della Costituzione a situazioni soggettive che il testo fondamentale manca di prevedere" (sentenza n. 132/1985). In realta', "Nel nostro ordinamento la integrita' personale e' configurabile come fondamentale diritto dell'individuo", con la prescrizione del dovere della Repubblica di tutelarlo (cfr. art. 32 della Costituzione), nonche' col riconoscimento della sua "inviolabilita'" ai sensi dell'art. 2 della Costituzione (cfr. sentenza n. 132/1985) (sentenza n. 319/1989). La sicurezza, identificata nella integrita' della persona, riceve protezione da ulteriori precetti costituzionali, quale l'art. 41, secondo comma, che ne annovera la lesione fra i limiti all'iniziativa economica privata, ai quali corrispondono altrettanti diritti fondamentali (ordinamento n. 105/1989). Diversamente da taluna decisione di segno dubitativo (per es., sentenza n. 226/1983), il riconoscimento della inviolabilita' assicura una tutela costituzionale rafforzata rispetto ad altre situazioni soggettive, pur esse considerate nel testo fondamentale: "Il trasparente riferimento all'art. 2 della Costituzione .. esplicita ancor meglio peraltro sia il contenuto che il tipo della protezione" (Cass., sez. un., cit.). Percio', codesta Corte, pur riconoscendo l'utilita' sociale dell'iniziativa economica connessa con il traffico aereo, concluse che la mancata copertura del ristoro integrale del danno alla persona " .. lede la garanzia eretta dall'art. 2 della Costituzione a presidio inviolabile della persona" (sentenza n. 132/1985). Senonche', ricordando che la caccia " .. non e' piu' un mezzo per soddisfare necessita' alimentari, e nemmeno di regola un'attivita' professionale, ma un puro esercizio sportivo .." (sentenza n. 93/1973), cosi' da esulare dalla nozione dell'iniziativa economica: e' lecito chiedersi se il contrasto di tale attivita' con l'utilita' sociale, e la sua attitudine a recare danno alla sicurezza, siano neutralizzati dalla semplice copertura assicurativa, oppure debbano condurre al radicale divieto del relativo svolgimento, in ottemperanza all'art. 41, secondo comma, della Costituzione. Anche la congiunzione della tutela del paesaggio con quella del territorio, per un verso, e di questa con la protezione della salute per l'altro, gia' individuata dalla Cassazione (sez. un., cit.; sez. sesta pen., ordinanze 9 marzo 1977 e 6 giugno 1977), e' stata affermata da codesta Corte: "La normativa impugnata, invero, proprio per l'estensione e la correlativa intensita' dell'intervento protettivo .. introduce una tutela del paesaggio improntata a integrita' e globalita', vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale" (sentenza n. 151/1986). "L'ambiente e' protetto come elemento determinativo della qualita' della vita. La sua protezione non persegue astratte finalita' naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che e' necessario alla collettivita' e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamento sentiti; e' imposta anzitutto la precetti costituzionali (artt. 9 e 32 della Costituzione), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto" (sentenza n. 641/1987). Essendo ricompreso nell'utilita' sociale il fine di tutela delle bellezze naturali (sentenza n. 9/1973), non assumono - da opposta angolazione - rilievo costituzionale le conseguenze che, dalla soppressione della caccia, possano derivare sulla occupazione e sull'indotto, segnatamente legati alla fabbricazione di armi e munizioni: atteso che il diritto al lavoro non identifica un interesse, pure costituzionalmente protetto, all'intangibilita' di ogni situazione che sia presupposto della conservazione del posto di lavoro (sentenze nn. 45/1965, 194/1970, 174/1971 e 9/1973). Peraltro, la questione non e' prospettabile in riferimento limitato agli ambiti sottoposti a vincolo nell'interesse paesaggistico, per effetto di provvedimenti amministrativi ovvero dell'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431; sebbene, dal carattere di grande riforma economico-sociale di quest'ultima, emerga una valutazione d'infondatezza ancor meno manifesta che con riguardo al restante territorio nazionale. Ma i diritti inviolabili non possono venire confinati a detti ambiti, perche' spetta allo Stato il compito di dettare le norme che assicurino l'uniformita' delle condizioni igieniche e le garanzie di salute nell'intero territorio nazionale (sentenze nn. 305, 306 e 800 del 1988). 6. - Le disposizioni impugnate non sembrano informate al principio di eguaglianza sostanziale dei cittadini, in quanto consentono ad una minoranza - sebbene numerosa - selezionata dalla maggiore disponibilita' finanziaria (quale rivelano la destinazione di mezzi all'acquisto degli strumenti di caccia ed al pagamento dei corrispettivi per l'esercizio di questa - non assimilabili ad imposizioni tributarie in senso proprio: sentenza n. 148/1979 - nonche' la possibilita' dei dedicarvi fino a tre giornate della settimana lavorativa in periodo non feriale: art. 18, quinto comma, della legge vigente), di sottrarre al territorio, in vista di un'attivita' meramente lucida o asseritamente sportiva, le risorse faunistiche, con pregiudizio per l'interesse economico alla relativa gestione da parte della collettivita'. Per questa via, pare frustrata l'aspettativa della rimozione di ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica e sociale del Paese: in una fase, quale la programmazione dell'uso delle risorse ambientali, certo non meno importante, ad esempio, della soddisfazione dell'esigenza di alloggio per i meno abbienti (esaminata da sentenza n. 193/1976). 7. - Le norme in discussione paiono ostacolare - lungi dall'assicurare - la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, quale compito attribuito alla Repubblica dal primo comma dell'art. 9 della Costituzione: della cultura, alla quale appartiene la insopprimibile affermazione della tutela dell'ambiente, anche nella dimensione sovranazionale; della ricerca scientifica che, a causa della caccia, vede rapidamente e inesorabilmente annientare uno degli oggetti non secondari: la fauna selvatica. E' appena il caso di notare che non si discute della legittimita' del divieto - desumibile dall'art. 842, primo comma, del c.c. - di accedere a fondi di proprieta' privata anche non recintati, e pure per svolgersi attivita' artistico culturali (sentenza n. 57/1976). Con la ricerca scientifica sul campo, legittimabile attraverso il consenso del proprietario del fondo, o compatibile con l'uso pubblico dell'area, entra in conflitto, ostacolandola o precludendola, direttamente la pratica venatoria: in prima approssimazione, mediante l'imponente disturbo recato ai selvatici; in seconda, e definitiva, rischiando di provocare la rarefazione o l'estinzione di specie, dalle quali risulteranno falsati o impediti i risultati della ricerca. 8. - In ragione dell'ammissione di un numero non predeterminato di soggetti privati all'esercizio della caccia, le disposizioni impugnate sono sospette di non conformare l'ordinamento giuridico alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Dichiarando l'ammissibilita' del referendum abrogativo di numerose disposizioni della legge previgente, nonche' dell'art. 842, primo e secondo comma, del c.c., codesta Corte aveva gia' fugato il dubbio che l'eventuale abrogazione implicasse violazione di obblighi internazionalmente assunti; chiarendo, anzi, che la richiesta referendaria si muoveva nella stessa direzione della normativa internazionale e comunitaria (sentenza n. 63/1990). In tale decisione potrebbe, quindi, gia' rinvenirsi la risposta negativa al quesito della compatibilita' della vigente legislazione in materia venatoria con norme recepite dall'art. 10, primo comma, della Costituzione. E' pur vero che "l'art. 10, primo comma, della Costituzione prevede l'adattamento automatico del nostro ordinamento solo per le norme del diritto internazionale consuetudinarie materiali ed esclude dalla sfera della sua applicazione i trattati .." (da ult., sentenze nn. 323/1989 e 496/1991). Nondimeno, la regola della immunita' dell'agente diplomatico dalla giurisdizione civile dello stato accreditatario, e' stata riconosciuta appartenere al primo tipo, cosicche' le norme pattizie, che pure la prevedono, devono considerarsi meramente ricognitive di quella generalmente riconosciuta (sentenza n. 48/1979). Sembra, in questa prospettiva, non appagante escludere dalla previsione del precetto costituzionale una determinata regola, perche' - o solo perche' (sentenza n. 48/1967) - recepita in uno o piu' trattati: senza verificare se, nei singoli casi, la funzione della norma pattizia sia ricognitiva di una regola internazionale consuetudinaria, e risponda al fine di obbligare alla relativa osservanza gli Stati firmatari privi, a differenza del nostro, di una previsione costituzionale di adattamento automatico. Per altro verso, il secondo comma dell'art. 10, in forza del quale la condizione giuridica dello straniero e' regolata dalla legge in conformita' delle norme e dei trattati internazionali, non pare rivelatore della volonta' del Costituente di sottrarre il legislatore all'osservanza delle stesse norme e trattati, in sede di disciplina dei diritti fondamentali del cittadino. Ove neppure presentassero funzione ricognitiva, talune norme pattizie potrebbero assumere il piu' limitato significato di regole costituenti espressione di civilta' giuridica, accolte negli ordinamenti democratici fondati sulla sovranita' popolare (sentenza n. 50/1989, in riferimento all'art. 6 della citata convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo); ovvero idonee a definire il contenuto e la tutela dei diritti inviolabili protetti dall'art. 2 della Costituzione (sentenza n. 404/1988, in riferimento all'art. 25 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata a New York il 10 dicembre 1948). Il diritto alla sicurezza, garantito dall'art. 5 della ricordata convenzione, e, peraltro, gia' identificato nel fondamentale diritto previsto dall'art. 32 della Costituzione, oltre che connotato dalla inviolabilita' (sentenze nn. 132/1985 e 319/1989), segnatamente intesa come immunita' ad opera dell'iniziativa economica privata, in forza dell'art. 41, secondo comma, della Costituzione - che annovera diritti fondamentali a sua volta (ordinanza n. 105/1989) - proprio dalle convenzioni internazionali in materia di tutela dell'ambiente, attesa la stretta interdipendenza di questo valore con la salute, riceve significative definizioni di contenuto. Assumono particolare rilievo le seguenti enunciazioni: 1) il patrimonio culturale e naturale va conservato (convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23 novembre 1972, dichiarata esecutiva con legge 6 aprile 1977, n. 184, preambolo); 2) la flora e la fauna selvatiche costituiscono un elemento insostituibile dei sistemi naturali (convenzione sulla conservazione delle specie migratorie appartenenti alla fauna selvatica, adottata a Bonn il 23 giugno 1979, dichiarata esecutiva con legge 25 gennaio 1983, n. 42, preambolo; convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washingtono il 3 marzo 1973, dichiarata esecutiva con legge 19 dicembre 1975, n. 874, preambolo); e, di conseguenza, vanno a loro conservate (convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale in Europa, adottata a Berna il 19 settembre 1979, art. 1, primo comma, dichiarata esecutiva con legge 5 agosto 1981, n. 503; convenzione Washington, cit.); in particolare, tutti gli uccelli devono, in linea di massima, essere protetti (convenzione per la protezione degli uccelli, adottata a Parigi il 18 ottobre 1950, dichiarata esecutiva con legge 24 novembre 1978 n. 812, preambolo); parallelamente, gli Stati membri della Cee adottano le misure necessarie per instaurare un regime generale di protezione di tutte le specie di uccelli viventi allo stato selvatico (direttiva Cee del Consiglio, n. 79.409 del 2 aprile 1979, art. 5); 3) in funzione della conservazione, incombente in primo luogo allo Stato contraente, ma che richiede la cooperazione internazionale (convenzione di Parigi del 1972, cit., art. 4), devono essere promossi programmi di informazione e di educazione, per rafforzare il rispetto e il legame dei popoli verso il patrimonio culturale e naturale (ivi, art. 27), nonche' per persuadere della necessita' di conservare le specie di flora e fauna selvatiche ed i loro habitats (convenzione di Berna, cit., art. 3); in particolare, va promossa l'educazione dei bambini e dell'opinione pubblica per convicerli della necessita' di preservare e proteggere gli uccelli (convenzione di Parigi del 1950, cit., art. 10). A siffatte regole sono sicuramente rimaste indifferenti, nell'impianto generale e nelle singole disposizioni, le leggi commentate: delle quali la recentissima, pur affermando di recepire la citata direttiva e le successive in materia, nonche' di dare attuazione alle convenzioni di Parigi, da ult. cit., e di Berna (art. 1, quarto comma), non instaura affatto un regime generale di protezione dell'avifauna, ne', tanto meno, introduce programmi educativi nei sensi indicati. Seppure estranee all'ambito di recepimento previsto dall'art. 10 della Costituzione, le dette regole contribuiscono a definire l'"oggetto minimo inderogabile" indicato da codesta Corte, appunto in riferimento alle convenzioni di Berna e di Bonn, " .. nella consapevolezza che 'flora e fauna selvatica costituiscono un patrimonio naturale di valore estetico, scientifico, culturale, ricreativo, economico e intrinseco che va preservato e trasmesso alle generazioni future', dato 'il ruolo fondamentale della flora e della fauna selvatiche per il mantenimento degli equilibri biologici'" (sentenza n. 1002/1988). Si ritiene, percio', necessitato l'esame di compatibilita' delle norme impugnate, se non con il precetto di cui all'art. 10, ancora, e per altro profilo, con il principio della inviolabilita' del diritto alla salute, in quanto assicurato (fra l'altro) dalla tutela del patrimonio faunistico, voluta dalle regole internazionali; cui non si oppongono disposizioni derogatorie, contenute nelle convenzioni stesse le quali autorizzano addirittura una piu' rigorosa disciplina (sentenza n. 63/1990; direttiva Cee, cit., art. 14; convenzione Berna, art. 12; convenzione Bonn, art. XII, terzo comma, convenzione Washington, art. XIV, primo comma). 9. - Ricorre il dubbio di legittimita' anche in riferimento all'art. 11 della Costituzione. La protezione ambientale " .. costituisce uno degli scopi essenziali della Comunita'" (Corte di giustizia Cee, sentenza 7 febbraio 1985, causa 240/43, Raccolta 1985, p. 539). Inoltre, gli artt. 13OR, 13OS e 13OT dell'Atto unico europeo, recante modifiche ai tre trattati istitutivi delle Comunita' europee, aperto alla firme a Lussemburgo il 17 febbraio 1986, del quale e' stata autorizzata la ratifica con legge 23 dicembre 1986, n. 909, riguardano - come nota autorevole dottrina - specificamente l'ambiente considerato come essenziale componente delle politiche comunitarie, che va trattato in modo globale al fine di garantire uno sviluppo armonico dei Paesi membri. Cio' posto, la Corte di giustizia dichiaro' che alcune disposizioni della legge n. 968/1977 non rispettavano la direttiva dianzi richiamata (sentenza 8 luglio 1987, causa 262/85). Ma vengono in considerazione, altresi', le convenzioni di Washington, di Bonn e di Berna, negoziate in proprio dalla Cee, essendo stata la prima trasfusa nel reg. 3 dicembre 1982, n. 3626, e le altre accolte nelle dec. 82/972 del 3 dicembre 1981 e 827/461 del 24 giugno 1982, con la conseguente entrata in vigore nelle date rispettive del 31 dicembre 1979, 1 settembre 1982 e 1 novembre 1983. A seguito del loro ingresso nell'ordinamento comunitario, vengono, precipuamente, in considerazione l'allegato terzo della convenzione di Berna, comprendente, fra le specie di uccelli protette, tutte quelle non contemplate nel secondo ("specie rigorosamente protette"), ad eccezione di sole undici espressamente indicate; l'art. 7, che impone alle parti contraenti di regolamentare lo sfruttamento di dette specie in modo da non compromettere la sopravvivenza; l'art. 2, che obbliga all'adozione delle "misure necessarie a mantenere o portare le presenza della flora e della fauna selvatiche ad un livello che corrisponda in particolare alle esigenze ecologiche, scientifiche e culturali, tenuto conto delle esigenze economiche e ricreative nonche' delle necessita' delle sottospecie, varieta' o forme minacciate sul piano locale"; l'art. 8, che prescrive di vietare "il ricorso a mezzi non selettivi di cattura e di uccisione, nonche' il ricorso a mezzi suscettibili di provocare localmente la scomparsa, o di compromettere la tranquillita' degli esemplari di una data specie, e in particolare ai mezzi contemplati nell'allegato quarto". L'art. II della convenzione di Bonn prevede l'impegno ad adottare, in relazione " .. alle specie migratrici che si trovano in stato di conservazione sfavorevole, .. singolarmente o in cooperazione, le misure necessarie per la conservazione delle spe- cie e del loro habitat", e quelle " .. per evitare che una specie migratrice possa divenire una specie minacciata"); altresi', lo sforzo " .. di concludere 'Accordi' sulla conservazione e la gestione delle specie migratrici elencate nell'allegato II". Tali accordi, secondo l'art. V, quinto comma, lett. j), dovrebbero, in particolare, prevedere "misure, basate su principi ecologici ben fondati, miranti ad esercitare un'azione di controllo e gestione dei prelievi effettuati sulla specie migratrice interessata". D'altronde, non trovano riscontro nella situazione nazionale " .. i fabbisogni di coloro che utilizzano .." una specie compresa nell'allegato I, " .. nel quadro di una economia tradizionale di sussistenza", considerati nell'art. III, quinto comma, lett. c). E' poi vero che l'art. 7, n. 1), della direttiva piu' volte citata consente che le specie elencate nell'allegato II siano oggetto di caccia nel quadro della legislazione nazionale; ma impegna pure gli Stati membri a fare in modo che la caccia di queste specie non pregiudichi le azioni di conservazione intraprese nella loro area di distribuzione; nonche' ad accertarsi (n. 4) che l'attivita' venatoria rispetti i principi di una saggia utilizzazione e di una regolazione ecologicamente equilibrata delle specie di uccelli interessate, e sia compatibile, per quanto riguarda il contingente numerico delle medesime e, in particolare, delle specie migratrici, con le disposizioni derivanti dall'art. 2. Sono misure, impegni e principi che, seppure, all'apparenza, considerati in taluna delle disposizioni delle leggi in commento, vengono traditi in blocco dal criterio del numero aperto di cacciatori, al quale sono informate entrambe; e cio', soprattutto nella perdurante insufficienza - piu' volte sottolineata - delle conoscenze faunistiche, e nell'assenza di dati di censimento per la quasi totalita' delle specie cacciabili: situazione della quale il legislatore del 1992 si mostra consapevole, al punto da prevedere una sorta di moratoria, in vista dell'esercizio dell'attivita' venatoria in forma programmata, e cosi' della piena attuazione della legge, nella stagione 1994-95 (art. 36, quinto comma) o 1995-96 (art. 14, sedicesimo comma). E' certo, pero', che la programmazione seria di qualunque attivita' esige che sia definito, o almeno preventivabile, il numero di coloro che saranno ammessi a praticarla, sia a livello nazionale che nei singoli ambiti territoriali. Solo di passaggio, la nuova legge - non diversamente dalla precedente - si pone anche per altri profili in vistoso contrasto con le norme comunitarie che dichiara di attuare: considerando cacciabili quarantasei specie di uccelli (art. 18), a fronte delle trentatre in- dicate, per l'Italia, dall'allegato II della direttiva 79.409; ed elencando, dello stesso ordine, come particolarmente protette settantasette specie (art. 2), di contro alle centosettantacinque incluse nell'allegato I della stessa direttiva, come sostituito, prima, dalla direttiva della commissione 85.411 e, quindi, da quella 91.244 dello stesso organo (si confronti la sentenza della Corte Cee 17 gennaio 1991, causa C-334/89). E' appena il caso di avvertire che, fra le esigenze ricreative, richiamate dall'art. 2 della convenzione di Berna, e - in un contesto pressocche' identico - dall'art. 2 della direttiva piu' volte citata, non e' annoverabile il puro e semplice esercizio della caccia: sia perche' la seconda di dette disposizioni non costituisce " .. una deroga autonoma al regime generale di protezione .." (Corte di giustizia Cee, 8 luglio 1987, cit.); sia considerando che " .. la deroga deve basarsi su almeno uno dei motivi elencati in modo limitativo all'art. 9, n. 1, lettere a), b), e c) " (idem), fra i quali non e' compresa la generica "ricreazione", ne', specificamente, la caccia, bensi' il fine di " .. consentire in determinate condizioni e sotto stretto controllo la cattura, la detenzione e l'impiego misurato di determinati uccelli in piccole quantita'" (art. cit., lett. c)). Tant'e' che il Governo italiano, nella ricordata causa, neppure addusse la giustificazione di presunte esigenze ricreative, ma soltanto della nocivita' di alcune specie, peraltro ritenuta infondata dalla Corte. Alla prevedibile obiezionie che le direttive e le convenzioni commentate non rechino regole puntuali, contrastanti con le disposizioni impugnate, e' dato replicare che " .. anche gli obblighi internazionali dello Stato, per la cui operativita' e' necessario il complemento di una normazione interna, sono parametri di valutazione della legittimita' costituzionale delle leggi emanate dalle regioni nelle materie in cui tali obblighi incidono" (sentenze nn. 124/1990, 30/1959, 49/1963, 21/1968 e 182/1976): e, dunque, delle stesse leggi quadro nazionali, particolarmente in quanto assunti nell'ordine comunitario e concorrenti a definire l'oggetto minimo inderogabile piu' volte richiamato. Viene in considerazione il potere dovere del giudice di assicurare la piena e continua osservanza dei regolamenti comunitari, senza tenere conto delle leggi nazionali, anteriori o successive, eventualmente confliggenti (sentenze nn. 47 e 48 del 1985 e 170/1984); e lo stesso principio vale per le sentenze interpretative della Corte di giustizia (sentenza n. 113/1985), ovvero rese in giudizio di condanna (sentenza n. 389/1989), nonche' per le direttive, nei rapporti fra gli Stati membri e i privati, quando contengano disposizioni precettive (sentenza n. 182/1976). La Corte della Cee ha chiarito che le direttive possono essere utilmente invocate dai privati a sostegno di pretese, quando il relativo contenuto si presenti incondizionato e sufficientemente preciso (sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84; 22 settembre 1983, causa 271/82; 19 gennaio 1982, causa 8/81); ben potendo, allo scopo, essere fatte valere quelle disposizioni che, tenuto conto del loro specifico oggetto, sono atte ad essere isolate dal contesto ed applicate come tali (19 gennaio 1982, cit.), pure nel caso che siano state recepite in modo inadeguato, con conseguente obbligo dell'a.g. e della p.a. di disapplicare le norme interne (sentenza 22 giugno 1989, causa 103/88). L'ultimo principio, in riferimento alle disposizioni comunitarie aventi efficacia diretta, e' stato accolto anche da codesta Corte (sentenza n. 389/1989); la quale aveva, d'altronde, chiarito che la responsabilita' dello Stato per l'adempimento di una direttiva " .. molto specifica e dettagliata, in gran parte precettiva ..", ne giustifica l'interesse " .. all'emanazione e all'attuazione delle norme di diritto interno onde la operativita' di uno dei limiti all'autonomia delle regioni e delle province" (sentenza n. 210/1987). Senonche', la Corte di giustizia ha avvertito che una direttiva non puo' creare obblighi a carico di un singolo, ne' nei confronti di altri privati ne', a maggior ragione, nei confronti dello Stato; e neppure puo' avere l'efficacia, di per se' e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilita' penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (sentenza 11 giugno 1987, causa 14/86); ma la Corte stessa, d'altra parte, non e' competente, nell'ambito dell'applicazione dell'art. 177 del trattato Cee, a statuire sulla compatibilita' di una disposizione nazionale con il diritto comunitario (sezione terza, 22 settembre 1988, causa 228/87; 26 febbraio 1986, cit.). Attesa l'incidenza della direttiva nella sfera della perseguibilita' penale, non resterebbe al giudice nazionale che prendere atto dell'irriducibile contrasto delle disposizioni sufficientemente precise, in essa contenute, con norme interne, non disponendo del potere di investire del quesito la Corte di giustizia: se non soccorresse, nell'ordinamento italiano, l'intervento del giudice delle leggi, non cotrastato ed anzi necessitato dall'art. 11 della Costituzione, per sopperire all'inadempienza del legislatore, mediante una pronuncia che assicuri l'attuazione delle disposizioni suddette. Per inciso, anche la disapplicazione di norme nazionali, in presenza di disposizioni comunitarie direttamente applicabili, lascia salva " .. l'esigenza che gli Stati membri apportino le necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilita' o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie" (sentenza n. 389/1989). L'intervento di codesta Corte e' reso tanto piu' pressante dal rilievo che le direttive in materia di protezione della fauna selvatica non figurano negli elenchi allegati alle leggi 9 febbraio 1982, n. 42, 16 aprile 1987, n. 183, 29 dicembre 1990, n. 428 e 19 febbraio 1992, n. 142, e percio' non sono comprese tra quelle di cui e' prevista l'attuazione nell'ordinamento interno; mentre, per le ragioni esposte, la recente legge, recante le disposizioni impugnate, nonostante la dichiarazione d'intenti contenuta nell'art. 1, quarto comma, contraddice, piu' che assicurare, ancorche' in modo inadeguato, il recepimento delle direttive ricordate. A tale risultato non si rinvengono ostacoli di principio. All'ingresso delle regole comunitarie nella normativa sulla caccia, non si oppone la riserva di legge (statale) in materia penale. Difatti, con il venir meno del regime della concessione per l'esercizio della caccia da parte di privati, ovvero con una pronuncia che dichiari l'illegittimita' del numero aperto dei cacciatori, riprenderebbe la massima estensione il principio dell'appartenenza della fauna selvatica al patrimonio indisponibile dello Stato, dal quale la giurisprudenza prevalente della suprema Corte deduce la configurabilita' della fattispecie del furto: indirizzo al quale il pretore, confortato da codesta Corte (sentenza n. 97/1987), incondizionatamente aderisce. Continuerebbe, cioe', ad applicarsi, nei confronti dell'agente privo di concessione o di abilitazione regionale, un precetto penale gia' esistente e compiutamente delineato nel diritto comune: non diversamente da quanto avveniva, in forza dell'art. 11, ultimo comma, della legge abrogata, per effetto di modifiche, riduttive dell'elenco delle spe- cie cacciabili, apportate con decreto governativo; mentre l'esercizio del potere previsto dall'art. 18, terzo comma, della nuova legge provoca l'estensione del precetto introdotto dall'art. 30, lett. h), di questa; parallelamente, la sfera di punibilita' per il primo reato poteva venire ampliata mediante provvedimento regionale, in base all'art. 12, primo comma, della legge previgente (in quanto giustificato solo " .. nel senso di un rafforzamento del fine protezionistico ..": sentenza n. 1002/1988), e quella del secondo, attualmente, per effetto della previsione contenuta nell'art. 19, primo comma, della legge in vigore; cosi' come puo' avvenire, in altri settori normativi, con legge regionale (sentenza n. 210/1972). Una eventuale pronuncia di accoglimento non esula dai poteri di codesta Corte (sentenze nn. 140/1983 e 124/1990), come ricordato in tema di rilevanza. 10. - Considerando che le direttive comunitarie di contenuto puntuale e incondizionato possono farsi valere giudizialmente dal privato, ove la pubblica amministrazione si sottragga al dovere di disapplicare le norme interne confliggenti (Corte della Cee, 22 giugno 1989; Corte costituzionale, sentenza n. 389/1989); e che le direttive in materia hanno inteso ampliare la tutela dei cennati valori primari, la quale dall'ordinamento interno e' stata affidata allo Stato, conferendogli la legittimazione ad agire per il ristoro del danno ambientale (art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349): deriva l'indebita compressione del potere di agire in giudizio, riconosciuto allo Stato amministrazione, dal prospettato inadempimento dell'obbligo di attuare le regole comunitarie da parte dello Stato legislazione; e cosi', la sospetta lesione sia - per ulteriore profilo - dei precetti corrispondenti a tali valori, sia di quello dettato dall'art. 24, primo comma, della Costituzione. Si realizza una situazione inversa, ma parallela, a quella che comporta l'intervento di codesta Corte, secondo la sua giurisprudenza (sentenza n. 183/1973): in luogo dell'accertamento della perdurante compatibilita' del trattato di Roma con i diritti inalienabili della persona, questi ultimi vengono posti in discussione dal mancato adeguamento dell'ordinamento interno a regole comunitarie che tutelano valori primari, identificabili nel diritto alla salute e alla sicurezza, spettante al singolo, e nella pretesa alla tutela dell'ambiente, attribuita allo Stato; cosi' da impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del sistema o del nucleo essenziale dei principi contenuti nel trattato, come puo' avvenire per effetto di statuizioni della legge statale a cio' dirette (sentenza n. 170/1984). 11. - Le ricordate regole internazionali e comunitarie aderiscono a principi costituzionali ulteriori, contenuti nel commentato art. 9, primo comma (promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica), negli artt. 33, primo comma, e 30, primo comma. La liberta' della scienza e del relativo insegnamento si risolverebbe in una lustra, se l'ordinamento non conducesse ad effettivita' la tutela dei rispettivi campi di attivita': e, quindi, essenzialmente la protezione della natura, quale oggetto basilare dell'uno e dell'altro. Si e' gia' osservato quanto la caccia ostacoli la ricerca scientifica, sia nei possibili risultati, attraverso la progressiva rarefazione, fino alla paventata estinzione, di specie, e la conseguente compromissione di equilibri ecologici, altrimenti suscettibili di venire chiariti; sia nella fase dello studio sul campo, posto che il disturbo recato dal cacciatore alla fauna e' d'intralcio al ricercatore, il quale sia munito, a differenza dell'altro, e in stretta osservanza della garanzia assicurata dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, del consenso del proprietario per l'ingresso in fondi non chiusi nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia. 12. - L'attivita' venatoria e' sospetta di ostacolare il diritto e il dovere di educazione dei figli, previsti dall'art. 30, primo comma, della Costituzione. Se si conviene che l'educazione non puo' volgersi ad impartire principi e insegnamenti di qualsiasi genere, bensi' soltanto quelli che sono condivisi o, almeno, non contrastati in un certo momento storico dalla collettivita' nazionale ed internazionale (perche', altrimenti, si risolverebbe in un'attivita' antisociale e nella violazione stessa di quel dovere); e' giuocoforza constatare che la caccia si pone in conflitto con alcuni di quei principi generalmente condivisi, recando l'implicito, ma non equivocabile, insegnamento che - non per necessita' alimentare o di altra natura, ma - per sport, per gioco o per "ricreazione" e' lecito, quando non meritorio, uccidere esseri viventi. La regola opposta, cui l'educazione si ispira, emergera' dal commento delle disposizioni in materia di protezione degli animali. 13. - La caccia, che non costituisce esercizio del diritto di proprieta', ne' espressione di facolta' in questo comprese (sentenze nn. 59/1965 e 153/1971), e neppure di un differente diritto soggettivo (sentenza n. 212/1972), tanto meno, costituzionalmente garantito (sentenze nn. 50/1967, 93/1973 e 219/1974), non qualificabile esattamente come liberta' (sentenza n. 148/1979), in difetto di una riserva di legge in materia (sentenza n. 134/1963), identifica un'attivita' che e' lecita sol perche' il legislatore ordinario non reputa di vietarla. Sembra, percio', corretto desumere un ulteriore parametro di legittimita' dalla considerazione che neppure un diritto soggettivo costituzionalmente garantito, quale quello di proprieta' privata, puo' essere regolamentato senza la previsione di limiti, che ne assicurino la funzione sociale (art. 42, secondo comma, della Costituzione). La stessa funzione sociale pare criterio idoneo a discernere le attivita', ricadenti nell'ambito delle generiche liberta' individuali, che possono dal legislatore venire consentite, da quelle che viceversa vanno vietate in vista di valori costituzionali, riassumibili nel superiore interesse della collettiva. Il pretore prospetta l'ipotesi che l'esercizio venatorio non solo sia privo di qualunque funzione sociale; ma, addirittura, si ponga in contrasto con gli obiettivi perseguibili da una societa' moderna. Ripudiate da codesta Corte le vetuste giustificazioni giusnaturalistiche del diritto civico di caccia (sentenza n. 93/1973), tale attivita' non puo' neppure riguardarsi come puro esercizio sportivo. Codesta Corte dubito', incidentalmente, della legittimita' costituzionale di un ente pubblico a struttura associativa, come la Feredazione italiana della caccia, soprattutto in considerazione che essa - sebbene munita di personalita' giuridica, a differenza di altre federazioni appartenenti al Coni - non svolgeva attivita' agonistica, demandata invece alle Federazioni del tiro a segno e del tiro a volo, la quale, a differenza di quella solo sportiva, avrebbe potuto giustificare l'obbligatorieta' dell'iscrizione (sentenza n. 69/1962). Ma, riconosciuta la legittimita', per un verso, della perdita - disposta con d.P.R. 23 dicembre 1978 - della personalita' giuridica di diritto di detta Federazione, ormai priva della titolarita' di funzioni pubbliche in relazione al d.m. 22 dicembre 1978 (T.a.r. Lazio, sezione prima, 1 ottobre 1986, n. 1376); e, per l'altro, delle disposizioni di legge regionale che hanno stabilito un divieto di carattere generale per l'attivita' di tiro a volo su ogni specie di animali vivi, assimilabile " .. a quella venatoria in senso proprio, cui risulta altresi' solitamente collegata in funzione propedeutica o strumentale" (sentenza n. 578/1990): e' rivelato estraneo alla caccia sia un ruolo agonistico, perche' puo' non esserne lecita, in ambito regionale, l'attivita' propedeutica suddetta; sia meramente sportivo, alle cui peculiari doti della lealta', dell'impegno fisico ed intellettuale, del rispetto e della parita' con il competitore, del rispetto dell'ambiente ove la competizione si svolge, ripugna l'uccisione di esseri viventi con mezzi tecnologici soverchianti. 14. - Pur essendo stata vagliata da codesta Corte l'assenza, per la caccia, di garanzie costituzionali, in particolare di quella assicurata all'iniziativa economica privata - essendo attivita' non qualificabile, almeno di regola, professionale (sentenza n. 93/1973) - non viene meno - ed anzi, risulta valorizzata - l'esigenza del confronto con i limiti stabiliti dall'art. 41, secondo comma della Costituzione: dei quali, essendo gia' stati prospettati il contrasto con l'utilita' sociale e il danno per la sicurezza, resta da esaminare il pregiudizio alla dignita' umana. Con il rispetto di quest'ultimo valore, oltre a ritenere contrastanti attivita' che comportino umiliazione o sfruttamento dei lavoratori (sentenza n. 78/1958), codesta Corte ha reputato non del tutto compatibili " .. situazioni o comportamenti (perdita di tempo e di denaro, dedizione all'ozio, vita in comune con persone disponibili anche per attivita' moralmente e socialmente riprovevoli, ecc.) ..", suscettibili di " .. determinare o comunque agevolare tendenze antisociali" (sentenza n. 8/1970). Si crede appartenere alla dignita' umana il sentimento di riprovazione per l'uccisione o la sofferenza inflitta, per puro divertimento e, dunque, in assenza di necessita', ad esseri provvisti di sensibilita': comportamenti che, oltre a costituire indici - in taluni casi - di abitudini dissipate, paiono, ad ogni modo, idonei a determinare od agevolare tendenze antisociali di soggetti, soprattutto in giovane eta', non sufficientemente maturi. In simile prospettiva, il cennato valore costituzionale si rivela tutt'altro che estraneo agli ideali ed ai principi che costituiscono il "comune patrimonio" dei membri del Consiglio d'Europa, " .. mossi dal desiderio di evitare, per quanto possibile, ogni sofferenza agli animali trasportati" (preambolo della convenzione europea sulla protezione degli animali nei trasporti internazionali, adottata a Parigi il 13 dicembre 1968, resa esecutiva con legge 12 aprile 1973, n. 222, ed alla quale la Cee e' stata abilitata ad aderire con protocollo addizionale approvato a Strasburgo il 10 maggio 1979, reso esecutivo con legge 28 aprile 1982, n. 244). In attuazione della direttiva Cee n. 77.489 del 18 luglio 1977, concernente la protezione degli animali nei trasporti internazionali, e nell'esercizio dei poteri delegati con la legge n. 42/1982 cit., il d.P.R. 5 giugno 1982, n. 624 ha dettato norme dirette a proteggere da gravi pregiudizi lo stato di benessere degli animali (art. 5), e a risparmiare o ridurre al minimo qualsiasi sofferenza di essi (art. 6), anche - per quanto rileva ai fini che ne occupano - in relazione a specie non domestiche (cap. IV dell'allegato). La citata direttiva e' stata sostituita da quella del consiglio n. 91/628 del 19 novembre 1991, analogamente ispirata allo scopo di evitare agli animali, durante il trasporto, "sofferenze inutili" o "indebite" o maltrattamenti, e ad assicurarne il benessere. Con legge 14 ottobre 1985, n. 263 sono state rese esecutive le convenzioni europee sulla protezione degli animali negli allevamenti e sulla protezione degli animali da macello, adottate a Strasburgo nelle date rispettive del 10 marzo 1976 e 10 maggio 1979: della prima, mirando gli art. 4 e 6 ad evitare all'animale sofferente o danni inutili, e l'art. 7 all'adozione di misure temporanee necessarie per preservare il benessere degli animali; della seconda, essendo gli artt. 4, 13, 16 e 17 analogamente ispirati al fine di impedire dolori o sofferenze evitabili, ed escludendo l'art. 2, secondo comma, che alcuna disposizione della convenzione limiti la facolta' delle parti contraenti di adottare misure piu' severe che mirino alla protezione degli animali. Anche la prima di dette convenzioni e' stata approvata, con dec. 78/923, dalla CEE, che ha emanato le direttive 91/629 e 91/630 del 19 novembre 1991, recanti norme minime da rispettare negli allevamenti intensivi di talune specie. Nel settore venatorio, il Consiglio della CEE ha adottato il reg. n. 3254/91 del 4 novembre 1991, che prevede il divieto dell'uso di tagliole, in relazione allo sviluppo di metodi di cattura non crudeli mediante trappole. Il legislatore nazionale ha, di recente, riconosciuto che la promozione e la disciplina della tutela degli animali di affezione, la condanna degli atti di crudelta' contro di essi, dei maltrattamenti e del loro abbandono, rispondono al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l'ambiente (art. 1 della legge 14 agosto 1991, n. 281); e ha dettato norme di protezione che si aggiungono a quelle, pur di vario inserimento, connotate da finalita' analoghe (art. 727 del c.p.; 1 e 9 della legge 12 giugno 1913, n. 611; 1, 2 e 3 della legge 12 giugno 1931, n. 924; 70 del testo unico di p.s.; 129 regol. di p.s.; 9 r.d. 20 dicembre 1928, n. 3298). L'art. 6 della legge 7 febbraio 1992, n. 150, ha introdotto il divieto di detenere e commerciare esemplari di specie, fra le altre, che subiscono un elevato tasso di mortalita' durante il trasporo o durante la cattura nei luoghi di origine. Infine, il d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 116, emanato in attuazione della direttiva del consiglio CEE 86/609 del 24 novembre 1986, in base alla delega conferita con legge n. 428/1990 cit., detta, in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici, una disciplina complessivamente mirante a limitare rigorosamente gli esperimenti stessi (art. 4), nonche' ad evitare che questi cagionino angoscia e sofferenza o dolore inutili agli animali (artt. 6, 9 e 12), e che siano ripetuti inutilmente (art. 16); abrogando la citata legge n. 924/1931, ad eccezione dell'art. 1, primo e terzo comma (art. 20). Anche se non si ritenga di aderire all'autorevole tesi (Cass. sez. terza pen., 14 marzo 1990, Foro it. 1990, II, 478), per la quale l'ordinamento " ... tutela gli animali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilita' psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino una soglia di normale tollerabilita'", in luogo dell'opinione tradizionale che identifica l'oggetto della tutela, apprestata dall'ar. 727 del c.p., nel sentimento di pieta' dell'uomo verso l'animale; sembra arduo negare che, dalle richiamate convenzioni, norme comunitarie e nazionali, sia ricavabile il principio del doveroso risparmio di ogni inutile dolore o sofferenza agli esseri senzienti. Tali disposizioni, seppure non fossero ricognitive di una regola appartenente alla categoria indicata nell'art. 10, primo comma della Costituzione, immedesimano - se sono corrette le notazioni precedenti (n. 8) - criteri idonei a definire precetti costituzionali, sia in relazione al contenuto e alla tutela di diritti inviolabili (sentenza n. 404/1988); che alla portata di regole costituenti espressione di civilta' giuridica (sentenze n. 212/1986 e 50/1989); che, infine, alla individuazione di principi generali dell'ordinamento giuridico (sentenza n. 103/1989); in quanto valgono a determinare, per un verso, il contenuto della dignita' umana, quale diritto fondamentale (ordinanza n. 105/1989) e limite imposto all'iniziativa economica; per l'altro, del diritto alla salute - salvaguardato (anche) dalla tutela degli animali (art. 1 della legge n. 281/1991) - e, da ultimo, della stessa caccia, " .. congiuntamente diretta alla protezione dell'ambiente naturale e di ogni forma di vita, a cui viene subordinata qualsiasi attivita' sportiva" (sentenza n. 63/1990). La liberta' di caccia, configurata nella disciplina vigente, ed in quella abrogata come attivita' esercitabile ad iniziativa del privato, non necessitata ed anzi in potenziale contrasto con l'utilita' collettiva, non pare conciliabile - prima e indipendentemente dall'esistenza di un numero chiuso delle persone abilitate a praticarla - con i cennati principi. 15. - Le valutazioni esposte autorizzano a prospettare il dubbio di legittimita' delle disposizioni impugnate anche in riferimento al primo comma dell'art. 3 della Costituzione. Se finanche attivita' utili o necessarie - riconducibili effettivamente all'iniziativa economica - quali il trasporto, l'allevamento e la macellazione di animali, sono sottoposte a rigorose disposizioni, volte ad evitare inutili dolori o sofferenze agli animali; se la vivisezine, considerata - a torto o a ragione - utile se non indispensabile al progresso della ricerca scientifica s'imbatte in limitazioni dettate dal legislatore comunitario e da quello nazionale, soggiacendo alcune delle rispettive violazioni a sanzione penale (art. 3, quinto comma; 4, terzo, ottavo e decimo comma; 14, primo comma, del d.lgs. n. 116/1992): non e' dato intuire i motivi - necessari per dare riprova della razionalita' del sistema normativo complessivo - della impunita' di analoghi, se non piu' gravi, atti di crudelta' o sevizie, sistematicamente compiuti nell'esercizio venatorio, perche' intrinsechi e connaturati alle sue stesse modalita': l'estenuante inseguimento dei selvatici, la cattura od uccisione con l'ausilio dei cani, la lunga agonia che segue alla cattura mediante reti o simili strumenti di uccellagione, ovvero con l'impiego di trappole, il ferimento, specie quando non seguito dall'apprensione ne' dall'uccisione. In buona sostanza, le dispozioni impugnate, disciplinando il rilascio dei titoli di licenza, o concessione, al detto esercizio, fungono da discriminante della responsabilita' penale per atti altrimenti passibili delle sanzioni previste dall'art. 727 del c.p. Accertata la disparita' di trattamento, il pretore, in sede di doverosa deliberazione della questione, ha indagato se la stessa trovi una razionale giustificazione (sentenza n. 103/1976); ma con esito negativo. Infatti, la non completa omogeneita' delle situazioni poste a confronto, lungi dal dissipare il dubbio di legittimita', lo alimenta. Posto che sono le cennate attivita' di trasporto, allevamento e macellazione di animali a rivestire indubbia utilita' sociale, l'esenzione da responsabilita' penale per atti di crudelta' potrebbe trovare una qualche giustificazione - pur non condividibile - in relazione ad esse; e non certo alla caccia la quale, con riguardo ai valori e precetti commentati, sembra presentare unicamente profili di disvalore. Resta da valutare se l'impunita' del cacciatore per il compimento di atti di crudelta', discenda dall'esimente prevista dall'art. 51, primo comma, del c.p., e quindi, sia riconducibile ad un principio fondamentale dell'ordinamento giuridico;) ma, essendo stata ripetutamente esclusa da codesta Corte la ricognizione di un diritto soggettivo di caccia, si rivela insostenibile, anche per questo profilo, la ragionevolezza della disparita'. Ed anche se mancasse il raffronto con situazioni omogenee, la prospettata diversita' di trattamento merita attenzione alla stregua della piu' recente giurisprudenza di codesta Corte, che - autorevolmente si osserva - a di la' di una concezione meramente formale del giudizio di eguaglianza, fa riferimento alla "non irragionevolezza" delle scelte legislative, intesa nel senso di un "equo bilanciamento degli interessi contrapposti" (sentenza n. 468/1990), o al "principio di razionalita'" del legislatore (sentenze nn. 32, 155, 314 e 341 del 1990), non conseguente, nemmeno, indirettamene, ad un comparazione tra discipline diverse. 16. - L'esercizio venatorio esclusivamente sportivo - ove tale possa definirsi quello non giustificato da esigenze collettive - reso possibile dalla disciplina della licenza o concessione, comporta obblighi e vincoli che non sembrano rientrare fra quelli imponibili in attuazione dell'art. 44, primo comma, della Costituzione, perche' non giustificati dal fine di stabilire equi rapporti sociali; ne' conciliabili con l'impegno di aiutare la piccola e la media proprieta'; rappresentando la caccia un elemento di rottura di quegli equilibri sui quali lo sfruttamento della terra si fonda, per condurre ad utili risultati produttivi. 17. - Conseguenziale e' la denuncia di costituzionalita' delle disposizioni in commento, per violazione dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione; se queste sono illegittime in riferimento ai parametri prima indicati, lo sono, per ragione piu' forte, i provvedimenti amministrativi di licenza, concessione o abilitazione regionale rilasciati in attuazione di esse: dai quali ultimi, mediatamente, risulterebbe vulnerata l'indipendenza del giudice, intesa nel significato di soggezione soltando alla legge e, ancor prima, ai precetti costituzionali (sentenza n. 18/1989). 18. - Non puo' sfuggire la parziale coincidenza tra le disposizioni impugnate e quelle oggetto di recente consultazione referendaria. Ebbene, decidendo dell'ammissibilita' della proposta abrogativa, codesta Corte ha gia' chiarito che il venir meno delle norme in questione non era suscettibile di ledere l'autonomia regionale; in particolare, rilevando che " .. su alcune forme di caccia, intesa in senso tradizionale, la potesta' legislativa regionale sopravviverebbe comunque (ad es. in materia di caccia detta 'di selezione' e di quella ai c.d. 'ungulati') .."; e neppure ha ravvisato il limite costituito dal divieto di abrogazione di leggi tributarie (sentenza n. 63/1990). Va, comunque, ribadito che " .. il rispetto degli obblighi internazionali dello Stato e', per la competenza regionale, un limite indefettibile, pur se il singolo statuto non lo segnali in modo espresso (sentenze nn. 30/1959, 49/1963, 21/1968 e 182/1976), ed anche se l'operativita' di tali obblighi richieda il complemento di una normazione interna (sentenza n. 124/1990); ed ancor piu' - sembra coerente aggiungere - quando la legislazione regionale si sia conformata a norme statali di principio contrastanti con detti obblighi.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara necessaria per la definizione del giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale delle disposizioni elencate in premessa in riferimento agli articoli della Costituzione ivi indicati; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e che sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Asiago, addi' 7 luglio 1993 Il pretore: MONTINI TROTTI 93C0955