N. 566 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 luglio 1993

                                N. 566
 Ordinanza  emessa  il  7  luglio  1993  dalla  pretura di Bassano del
 Grappa, sezione distaccata  di  Asiago,  nel  procedimento  penale  a
 carico di Forte Carlo ed altri.
 Caccia - Esercizio dell'attivita' venatoria nei confronti di specie
    protette   (nel   caso:   capriolo  di  eta'  inferiore  all'anno)
    effettuato  da  soggetti   muniti   dei   relativi   provvedimenti
    autorizatori  (licenza  di porto di fucile rilasciata a seguito di
    autorizzazione   regionale)   -   Impossibilita'    di    ritenere
    sussistente,  nel  caso, il reato di furto venatorio, essendo tale
    condotta, a norma delle nuove disposizioni  sulla  caccia,  punita
    con  la  sola  ammenda - Conseguente possibilita' di estinguere il
    reato   mediante   oblazione    -    Prospettata    illegittimita'
    costituzionale     sotto     diversi    e    molteplici    profili
    (irragionevolezza, tutela dell'ambiente,  conformita'  al  diritto
    internazionale   riconosciuto,   tutela  della  famiglia  e  della
    proprieta' privata) - Riproposizione, con estensione  a  norma  in
    precedenza   non   impugnata,   di   questione   gia'   dichiarata
    inammissibile sulla  base  di  argomentazioni  non  condivise  dal
    giudice a quo.
 (Legge 27 dicembre 1977, n. 968, artt. 8, primo, quinto, sesto,
    ottavo  e  nono  comma, 21, primo e secondo comma, e 22, secondo e
    terzo comma; legge 11 febbraio 1992,  n.  157,  artt.  1,  secondo
    comma,  12,  primo,  sesto, ottavo, undicesimo e dodicesimo comma,
    14, terzo, quarto, settimo e ottavo  comma,  22,  primo,  secondo,
    settimo e nono comma, e 30, terzo comma).
 (Cost., artt. 2, 3, 9, 10, 11, 30, 32, 33, 41, 42, 44 e 101).
(GU n.40 del 29-9-1993 )
                              IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale n.
 1539/93 r. mod. 23 nei confronti di Forte Carlo, De Marchi Gilberto e
 Forte  Andrea  proponendo   d'ufficio   questione   di   legittimita'
 costituzionale  degli  artt.  8,  primo, quinto, sesto, ottavo e nono
 comma; 21, primo e secondo comma; 22, secondo e  terzo  comma,  della
 legge  27  dicembre 1977, n. 968; 1, secondo comma; 12, primo, sesto,
 ottavo, undicesimo e dodicesimo comma; 14, terzo, quarto,  settimo  e
 ottavo  comma:  22, primo, secondo, settimo e nono comma, della legge
 11 febbraio 1992, n. 157, nella parte in cui  consentono  l'esercizio
 della  caccia  da parte di soggetti privati, sia pure previo rilascio
 di concessione e di licenza di porto di fucile per uso  di  caccia  a
 seguito  di  abilitazione  regionale,  ma in assenza di alcun fine di
 utilita'  sociale;  ovvero,  e  comunque,  nella  parte  in  cui  non
 prevedono limitazioni al numero massimo dei soggetti cosi' abilitati,
 in  ambito  nazionale  ne'  locale;  dell'art. 30, terzo comma, della
 legge da ultimo citata, nella parte in  cui  prevede  che,  nei  casi
 indicati  dal primo comma, non si applichino gli artt. 624, 625 e 626
 del codice  penale,  essendo  tale  regime  sanzionatorio  di  favore
 dipendente  dal  presupposto  dell'esistenza  e  della  validita' dei
 menzionati   provvedimenti   amministrativi,    disciplinati    dalle
 disposizioni  che  precedono,  e  cosi' subordinato alla legittimita'
 costituzionale di queste: in riferimento agli artt.  2;  3,  primo  e
 secondo comma; 9, primo e secondo comma; 10, primo comma; 11, secondo
 inciso;  32,  primo  comma;  30,  primo  comma;  33, primo comma; 41,
 secondo e terzo comma; 42,  secondo  comma;  44,  primo  comma;  101,
 secondo comma, della Costituzione;
                             O S S E R V A
    1.  -  Forte  Carlo,  De Marchi Gilberto e Forte Andrea sono stati
 citati a giudizio per rispondere della imputazione di cui agli  artt.
 110,  cpv., del c.p. e 30, lett. h), della legge 11 febbraio 1992, n.
 157, in relazione all'art. 12, lett.  a),  punto  1,  della  l.r.  11
 agosto  1989,  n.  31, per avere, in concorso tra loro, materialmente
 agendo Forte Carlo e De Marchi Gilberto, abbattuto con tre  colpi  di
 fucile,  un giovane di capriolo (cucciolo di eta' inferiore all'anno)
 e,  percio',  mammifero,  nei  cui  confronti  la  caccia   non   era
 consentita.  Sebbene il fatto contestato sia anteriore all'entrata in
 vigore della legge statale indicata, il capo d'imputazione  e'  stato
 redatto   nell'evidente   presupposto   che  la  legge  stessa  rechi
 disposizioni  piu'  favorevoli  agli  imputati,   e   percio'   trovi
 applicazione  retroattiva in forza dell'art. 2, terzo comma, del c.p.
 Piu' radicalmente la difesa, nella memoria depositata, esclude che il
 fatto sia soggetto ad alcuna  sanzione  penale:  perche'  la  regione
 Veneto,  introducendo,  con  l'art. 12 della l.r. cit., il divieto di
 caccia ai caprioli giovani dell'anno, avrebbe ecceduto i  limiti  del
 potere  conferitole  dall'art.  12  della  legge  statale previgente,
 esercitabile mediante l'esclusione della caccia a determinate specie,
 e non gia' all'uno o all'altro sesso di una specie.  Analoghi  limiti
 sarebbero  imposti  dall'art. 19 della recente legge dello Stato. Non
 avendo  la  regione   ottemperato   all'adeguamento   della   propria
 legislazione  ai  principi  e  alle  norme della nuova legge entro il
 termine perentorio stabilito dall'art. 36, sesto  comma,  di  questa,
 l'art.  12  della l.r. cit. sarebbe stato abrogato dall'art. 37 della
 legge stessa: cosicche' il fatto contestato non sarebbe (attualmente)
 preveduto dalla legge come reato. Il pretore  non  ravvisa  contrasto
 della disposizione regionale con la legge statale previgente, ne' con
 quella  sopravvenuta.  Nel  quadro della normazione di principio, che
 non ha subi'to, per questa  parte,  significative  modifiche,  spetta
 alle  regioni  il  potere  non  soltanto  di  escludere talune specie
 dall'elenco  di  quelle  cacciabili,  ma  anche   di   limitare   gli
 abbattimenti  di  esemplari  di  una  data  specie,  in  relazione  a
 particolari situazioni ambientali oppure a caratteristiche di  sesso,
 eta'  e  simili: la deroga del secondo tipo e', palesemente, compresa
 nella prima, perche' piu'  limitata.  D'altronde,  codesta  corte  ha
 osservato  che  le  regioni,  anche  quelle  speciali,  e le province
 autonome  potranno  apportare  variazioni  all'elenco  delle   specie
 cacciabili,  come  definito dalla legge statale e dai successivi atti
 governativi,  ma  solo  "nel  senso  di  un  rafforzamento  del  fine
 protezionistico  affermato  dalle  norme  fondamentali della legge n.
 968"; e, quindi, "al fine di limitare e non  di  ampliare  il  numero
 delle  eccezioni  al  divieto  generale  di caccia espresso dal primo
 comma .." dell'art. 11. Ne' giova replicare che l'elenco delle specie
 cacciabili, contenuto nell'art. 12 della l.r. cit., avesse  vigore  a
 tempo determinato, esauritosi, appunto, con l'entrata in vigore della
 legge  statale  che  ha riformato la materia: infatti, in presenza di
 leggi temporanee, quale la disposizione  in  esame,  vige  la  deroga
 disposta  dal  quarto comma dell'art. 2 del c.p. rispetto ai principi
 enunciati nei commi precedenti.
    Cio' posto,  esaurita  l'istruzione  dibattimentale,  e  salva  la
 possibilita'  di  integrarla successivamente con l'esame dei testi di
 riferimento, ai sensi dell'art. 195, primo comma, del c.p.p., il pre-
 tore ritiene non manifestamente infondata e rilevante ai  fini  della
 decisione   la   questione   di   legittimita'  costituzionale  delle
 disposizioni   di   legge   statale,   previgenti   e   sopravvenute,
 astrattamente  applicabili alla fattispecie concreta, e rispetto alle
 quali   la   legislazione   regionale   svolge   una   mera  funzione
 integratrice.
    2. - Il pretore e' indotto a riproporre la  questione  in  termini
 sostanzialmente  analoghi a quelli dell'ordinanza emessa il 10 aprile
 1992 nel procedimento penale a carico di Gabrieli Leopoldo  (iscritta
 al  n.  350  del  registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 28,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1992);  tenendo conto, peraltro, delle indicazioni che hanno motivato
 la pronuncia, da parte  di  codesta  ecc.ma  Corte,  della  manifesta
 inammissibilita'   della   precedente   questione  (ordinanza  n.  93
 dell'8-15 marzo 1993 (Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 13
 del  24  marzo  1993):  "Considerato  che  le  questioni   sottoposte
 all'esame  della  Corte  non  appaiono  rilevanti, dal momento che il
 giudizio a quo verte sull'applicazione all'imputato  della  normativa
 penale  sopravvenuta, a lui piu' favorevole, di cui all'art. 30 della
 legge 11 febbraio 1992, n. 157  -  che  ha  previsto  nuove  sanzioni
 penali   per   l'ipotesi   criminosa   di   abbattimento  di  animale
 appartenente a specie protetta,  escludendo  per  questa  fattispecie
 l'applicabilita'  della  sanzioni  previste per il furto - e che tale
 disposizione di favore non risulta impugnata nel  presente  giudizio;
 che  l'invocata  declaratoria  di illegittimita' costituzionale della
 disciplina autorizzatoria dell'esercizio dell'attivita' venatoria non
 potrebbe, comunque, nella specie, influire sulla legittimita' di tale
 esercizio effettuato sulla  base  della  licenza  di  caccia  di  cui
 risultava in possesso l'imputato all'epoca del fatto contestato".
    In  conseguenza  del  primo  rilievo,  l'attuale  questione  viene
 prospettata con  riguardo  esplicito,  oltre  che  alle  disposizioni
 precedentemente  impugnate, anche all'art. 30 della legge vigente; e,
 tuttavia, limitatamente non gia' al primo comma -  che,  isolatamente
 considerato,  reca  apposite  sanzioni  penali  per le violazioni ivi
 elencate - bensi' al terzo comma, che, in relazione alle  fattispecie
 descritte  nei precedenti, introduce la deroga all'applicazione delle
 pene stabilite per il furto.
    Per  definire  l'esatta  portata  della   censura,   torna   utile
 rammentare  che  gli  artt. 30 e 31 della recente legge, introducendo
 sanzioni penali e, rispettivamente, amministrative per una  serie  di
 illeciti  connessi  alla  tutela  della  fauna, e disponendo che, nei
 corrispondenti casi, non si applicano i sopra ricordati articoli  del
 codice  penale,  non  comprendendo,  fra  le  attivita'  vietate,  la
 condotta di chi  esercita  la  caccia  in  assenza  di  provvedimento
 autorizzativo  -  ora  definito  di "concessione" dall'art. 12, primo
 comma - ovvero di licenza di porto  di  fucile  per  uso  di  caccia,
 oppure   di   previa  abilitazione  regionale  (artt.  12,  ottavo  e
 dodicesimo comma; 22, primo e secondo comma): a differenza di  quanto
 prevedeva  l'art.  31,  lett.  a) e, rispettivamente, lett. g), della
 legge abrogata. A meno di sostenere che il legislatore del 1992 abbia
 considerato lecito il solo fatto di praticare la  caccia  in  assenza
 dei  cennati  provvedimenti,  pare  desumersi,  al  contrario, la sua
 univoca volonta' che tale condotta resti soggetta, appunto, alle pene
 stabilite  per   il   furto:   in   adesione   ad   un   orientamento
 giurisprudenziale   che   -   anche  in  riferimento  alle  ulteriori
 violazioni descritte nelle citate disposizioni della legge previgente
 - si avviava a divenire consolidato (fra le piu' recenti:  Cass.,  24
 febbraio  1989,  Beggini;  17  aprile 1989, Maschio; 24 gennaio 1989,
 Giacomozzi;  28 giugno 1989, Valluzzo; 6 febbraio 1989, Bernacchi; 20
 dicembre 1989, Pini; 16 gennaio 1990, Frau; 26 aprile  1990,  Foddis;
 contra: 17 gennaio 1989, Lepri).
    Percio',   e'  alla  titolarita'  di  siffatti  provvedimenti  che
 consegue la prevalenza, sulle pene stabilite per il furto, di  quelle
 introdotte dal primo comma dell'art. 30 della legge vigente: le une e
 le  altre,  non essendo legate da rapporto di specialita', dovrebbero
 sottostare - in mancanza del terzo comma -  al  regime  del  concorso
 formale  di reati e di pene, disciplinato dagli artt. da 73 ad 80 del
 c.p., ovvero - piu'  correttamente  -  della  unificazione  ai  sensi
 dell'art. 81, primo comma, del c.p. Del resto, nel vigore della legge
 n.   968/1977,  era  stato  autorevolmente  dimostrato  che,  tra  le
 violazioni amministrative da  essa  previste  e  la  fattispecie  del
 furto,  non  intercorreva  il  rapporto  di  specialita' disciplinato
 dall'art. 9, primo comma, della legge 24 novembre  1981,  n.  689,  e
 che,  di  conseguenza,  le rispettive sanzioni trovavano applicazione
 congiunta  (Corte  costituzionale,  sentenza  n.  97/1987;  Cass.,  6
 febbraio 1989, Bernacchi; 3 marzo 1989, Giana; 16 gennaio 1990, Frau;
 26 aprile 1990, Foddis, cit.).
    Incisivamente  e'  stato  osservato  che, in presenza dei principi
 stabiliti dagli artt. 1,  primo  comma,  e  12,  primo  comma,  legge
 vigente, l'esclusione delle sanzioni previste per il furto non poteva
 conseguire   che  a  una  deroga  espressa  (P.  Trento,  sez.  Borgo
 Valsugana, sentenza 3 giugno 1992, Rampellotto, Giur.  merito,  1993,
 II, 113).
    E'  dato, coerentemente, argomentare che, nel vigore della recente
 legge, qualora non fosse stata dettata  la  disposizione  di  deroga,
 tutti  gli  atti  di  abbattimento della fauna selvatica, sia perche'
 compiuti da soggetto privo ci concessione - la quale, per inciso, non
 sembra configurare un provvedimento autonomo e distinto da quelli  di
 porto  d'arma  per  uso  di  caccia e di abilitazione regionale - sia
 perche', pur in presenza della stessa, siano commessi  in  violazione
 di  altre  disposizioni della legge, sarebbero astrattamente soggetti
 alle sanzioni previste per il furto, concorrenti, nel  secondo  caso,
 con quelle introdotte dagli artt. 30 e 31.
    Nel  sistema  della  legge,  dunque,  le  violazioni  compiute dai
 soggetti abilitati, elencate nel primo comma  di  ciascuno  di  detti
 articoli,  rimangono  sottoposte  al  solo,  e piu' mite, trattamento
 sanzionatorio ivi previsto.
    Ad avviso del pretore, l'ipotetico accoglimento della questione di
 legittimita'  delle  disposizioni,  gia'  contenute  nella  legge  n.
 968/1977,  e riformate dalla legge n. 157/1992, recanti la disciplina
 dei presupposti e delle formalita' di rilascio dei menzionati  titoli
 abilitativi  o, attualmente, concessori dell'esercizio venatorio, non
 potrebbe che riverberare gli effetti  sull'esistenza  dei  poteri  di
 accordare tali provvedimenti. Venendo preclusa la stessa possibilita'
 di  rilasciare  la  concessione o l'abilitazione, sarebbe caducata la
 disposizione derogatrice che, nell'esistenza di questi provvedimenti,
 trova gli unici, attuali significato e ragion d'essere.
    Fra la riproposta questione di legittimita' delle disposizioni che
 disciplinano i cennati provvedimenti, e quella incentrata  sul  terzo
 comma dell'art. 30 della legge vigente, non sembra improprio scorgere
 una   relazione   di  pregiudizialita',  che  fonda  la  rilevanza  -
 presupposta dall'art. 23, secondo comma, della legge 11  marzo  1953,
 n. 87 - sia, mediamente, dell'una che, direttamente, dell'altra.
   Alla  natura  stessa  della  sentenza di accoglimento appartiene la
 produzione di effetti piu'  ampi  di  quelli  strettamente  postulati
 dall'ordinanza   di  rimessione,  siccome  aderenti  all'oggetto  del
 giudizio a quo: restando, in ipotesi, preclusa  -  al  di  la'  della
 eliminazione    del   differente   regime   sanzionatorio   collegato
 all'esistenza  o  non,  nell'agente,  del  titolo   autorizzativo   o
 concessorio  - la possibilita' di autorizzare e, quindi, di praticare
 lecitamente la caccia, intesa nel  senso  tradizionale  di  attivita'
 svolta  per  iniziativa  del privato e per fini estranei all'utilita'
 sociale, residuando unicamente gli  interventi  di  competenza  delle
 amministrazioni preposte in funzione della tutela della fauna.
    In estrema sintesi: resterebbero eliminate dal sistema legislativo
 le  stesse  categorie  di provvedimenti amministrativi di cui si dis-
 cute, l'esistenza e la validita'  dei  quali,  agli  effetti  penali,
 integrano  il  presupposto,  attualmente, di un piu' mite trattamento
 sanzionatorio al confronto del furto, oppure,  nei  rispettivi  casi,
 della liceita' della condotta.
    Tutto  cio',  fermo  restando  il  divieto  - gia' ricordato nella
 precedente ordinanza  di  rimessione  -  di  fare  applicazione,  nel
 giudizio   a   quo,  del  trattamento  penale  meno  favorevole,  pur
 derivante, in astratto e per l'avvenire, dalla eventuale declaratoria
 d'illegittimita':  la  quale,  lungi  dal  ridondare  in  pregiudizio
 dell'imputato,  influirebbe solo sulla formulazione del dispositivo e
 sulle premesse argomentative della pronuncianda sentenza: come,  piu'
 avanti, incombe al remittente rammentare.
    Fin    qui,   l'esame   delle   conseguenze   di   una   pronuncia
 d'incostituzionalita' sul futuro regime  dell'attivita'  considerata,
 restando  ancora  da valutarne i riflessi sui titoli abilitativi gia'
 rilasciati, sia  nel  vigore  della  legge  abrogata  che  di  quella
 intervenuta.
    Tale   valutazione   introduce   al   secondo   profilo  emergente
 dall'ordinanza d'inammissibilita' delle precedenti questioni. Il pre-
 tore, pur nella rispettosa cautela  imposta  dall'autorita'  di  ogni
 pronuncia   di   codesta   Corte,   osserva,  sommessamente,  che  il
 riconoscimento della incostituzionalita' delle disposizioni impugnate
 non  resterebbe  senza  conseguenze  sulla   validita'   del   titolo
 concessorio  -  o,  esattamente,  abilitativo, perche' regolato dalla
 legge previgente - di cui l'imputato e' munito.
    Si vuole trascrivere (senza citarne la fonte,  in  osservanza  del
 divieto  di  cui  all'art.  118,  terzo  comma,  delle disp. att. del
 c.p.c.) solo alcune fra le opinioni dottrinali piu' accreditate:  "In
 ordine   alla   validita'  dell'atto  occorre  dunque  aver  riguardo
 unicamente alle norme vigenti e alla situazione di fatto esistente al
 momento  del  suo  venire  in  essere.  Un  fenomeno  di  invalidita'
 sopravvenuta   puo'   verificarsi   percio'  soltanto  nel  caso  del
 sopraggiungere di leggi retroattive, che  considerino  necessario  un
 qualche  requisito  non richiesto al tempo della emanazione dell'atto
 (omissis).  Non  possono  invece  esser  considerati  come  casi   di
 invalidita'  sopravvenuta  quelli  in  cui  l'invalidita'  di un atto
 amministrativo venga dichiarata in conseguenza  della  emanazione  di
 una  sentenza  (della  Corte costituzionale o del Consiglio di Stato)
 che abbia fatto venir meno, con operativita' ex  tunc,  taluna  delle
 norme  in  base alle quali l'atto era stato emanato, come pure quelli
 in  cui  l'invalidita'  di un atto amministrativo venga dichiarata in
 conseguenza della invalidazione, con effetto ex tunc, di altri  atti,
 che  abbiano  condizionato  l'emanazione  di  quello in questione. In
 entrambe le ipotesi considerate l'atto amministrativo era infatti  da
 considerare   invalido   (e   poteva  essere  percio'  legittimamente
 disapplicato) fin dal principio. E' chiaro  che,  cosi'  come  quella
 originaria,  anche la invalidita' sopravvenuta dovra' agire a partire
 dallo  stesso  momento  della   emanazione   dell'atto:   una   volta
 determinatesene    le   condizioni,   essa   quindi   necessariamente
 retroagira'".
    "Poiche' queste (le autorita' amministrative) non possono adottare
 se non quei determinati atti, tipizzati dalla  legge,  nell'esercizio
 dei  poteri  da  questa  ad  esse  specificamente  attribuiti  per il
 perseguimento dei fini di pubblico interesse cui sono preordinati, ne
 consegue che,  dichiarata  costituzionalmente  illegittima  la  norma
 sulla  quale  il  provvedimento  emesso  si  fondava, questo sara' da
 considerare (ora per allora) viziato a sua  volta  da  illegittimita'
 'derivata':  onde, logicamente, il divieto alla autorita' giudiziaria
 ordinaria di farne concreta  applicazione,  il  potere  degli  organi
 della  giurisdizione amministrativa (ove non siano decorsi termini di
 decadenza) di  annullarli,  il  dovere  (fors'anche)  della  pubblica
 amministrazione   di   procedere   comunque   al   loro  annullamento
 d'ufficio".
    Il  pretore  aderisce  alle  tesi  riportate,  salvo  che  per  la
 possibilita'  di  disapplicazione  diretta  dell'atto amministrativo,
 viziato dal contrasto della norma, che  ne  disciplina  l'emanazione,
 con  i  precetti costituzionali: disapplicazione che, all'inverso, si
 ritiene  necessariamente  mediata  dalla  pronuncia  d'illegittimita'
 della norma.
    L'opinione   riferita  e'  stata  accolta  da  codesta  Corte,  in
 particolare con la sentenza n. 124/1990,  in  sede  di  dichiarazione
 della  illegittimita'  costituzionale  di  alcune  disposizioni della
 legge regionale Friuli-Venezia Giulia  24  luglio  1969,  n.  17,  le
 quali,  in deroga agli artt. 6 e 8 della legge 5 agosto 1981, n. 503,
 che ha ratificato e dato esecuzione alla convenzione adottata a Berna
 il 19 settembre 1979 - valutati quali norme interposte per verificare
 il  rispetto  dell'invocato  parametro  costituzionale,  cioe'  dello
 statuto  regionale,  che  l'osservanza degli obblighi internazionali,
 assunti  attraverso  le  convenzioni,   postulava   -   autorizzavano
 l'uccellagione  praticata  con  appostamenti  fissi e consentivano la
 cattura di uccelli in massa con mezzi  non  selettivi.  La  decisione
 chiari' la rilevanza della questione nel giudizio a quo: " .. proprio
 perche'   obbligato   ad   applicare   in   favore  dell'imputato  la
 discriminante fornita dalla licenza, il giudice penale ha  il  potere
 di  sollevare  pregiudizialmente  la  questione  di costituzionalita'
 delle norme da cui l'atto amministrativo ripete la sua  legittimita'.
 La  questione  e'  rilevante  nel  senso  chiarito  dalla sentenza n.
 148/1983 di questa Corte, in quanto l'eventuale accoglimento verrebbe
 a incidere sulla formula di proscioglimento dell'imputato. Invero, in
 caso  di  accoglimento,   l'autorizzazione   amministrativa   sarebbe
 disapplicabile  come  discriminente  di  un  comportamento altrimenti
 sussumibile  sotto  una  fattispecie  di   reato,   e   verrebbe   in
 considerazione come ragione assolutoria di altra natura".
    Il  principio  della invalidita' derivata dall'atto amministrativo
 puo' dirsi consolidato nella giurisprudenza amministrativa. "Nel caso
 in cui venga dichiarata incostituzionale una  norma  attribuitiva  di
 potere,  l'atto che l'amministrazione ha adottato in virtu' del detto
 potere, non e' nullo, bensi' meramente  annullabile"  (T.a.r.  Lazio,
 sezione  terza,  9  giugno  1980,  n.  583,  T.a.r.  1980,  I, 2308).
 "Ancorche' gli atti amministrativi, quale manifestazione di autonomia
 del potere  esecutivo,  non  vengano  travolti  dalla  cessazione  di
 efficacia della legge, sulla quale si fondano, dovuta a dichiarazione
 di  illegittimita'  costituzionale,  il  giudice amministrativo ha il
 potere di  rilevare,  anche  d'ufficio,  i  vizi  riflessi  derivanti
 all'atto  impugnato  dalla  norma  dichiarata incostituzionale, anche
 quando l'eccezione di costituzionalita' non sia stata sollevata dalla
 parte  interessata  nel  corso  del  giudizio"  (T.a.r.  Puglia,   30
 settembre  1982, n. 410, Foro amm. 1983, I, 2455). "E' illegittimo il
 provvedimento amministrativo adottato sulla  base  di  una  norma  di
 legge   successivamente  dichiarata  costituzionalmente  illegittima"
 (Consiglio di Stato, sezione quinta, 14 maggio 1983, n. 157, ivi,  I,
 990).   "La dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della norma
 nella quale trova esclusivo fondamento  il  potere  esercitato  dalla
 p.a.  con  il provvedimento impugnato, svolge il suoi effetti ex tunc
 nei giudizi in corso, comportando l'illegittimita' del  provvedimento
 stesso,  del  quale  va  dichiarato  l'annullamento  con sentenza del
 giudice  amministrativo"  (Consiglio  di  Stato,  sezione  sesta,  20
 novembre 1986, n. 855, ivi, 1986, 2468). "Le sentenze di accoglimento
 della  Corte  costituzionale  hanno effetto retroattivo; pertanto gli
 atti amministrativi emanati in  virtu'  di  un  potere  discrezionale
 attribuito   da   una  norma  poi  dichiarata  incostituzionale  sono
 illegittimi, perche' emanati in  virtu'  di  un  potere  inesistente"
 (T.a.r.  Campania, sezione prima, 21 marzo 1988, n. 186, T.a.r. 1988,
 I,  1781).  "  ..   l'eventuale   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale  delle  norme  di  legge denunciate con l'ordinanza di
 rimessione  non  potrebbe  non  avere  effetti  sulla  validita'  dei
 provvedimenti amministrativi impugnati, che di quelle disposizioni di
 legge  hanno  fatto  applicazione"  (T.a.r.  Emilia-Romagna,  sezione
 seconda (ord.) 27 luglio 1989, n. 247, Foro it. 1990, III, 157).  "La
 Corte   dei   conti   e'   legittimata   a   sollevare  questioni  di
 costituzionalita' delle leggi che essa deve applicare  nell'esercizio
 della   sua   funzione  di  controllo  dei  decreti  governativi,  in
 riferimento ai profili di copertura finanziaria posti dall'osservanza
 dell'art. 81 della Costituzione" (Corte costituzionale,  sentenza  n.
 384/1991).    Ben  vero,  il  principio  subisce  un  temperamento in
 osservanza  del  rispetto  delle  situazioni  consolidate:  e  cosi',
 dell'assenza di interesse pubblico all'annullamento dell'atto in sede
 di  autotutela,  ovvero  in  presenza di provvedimenti divenuti ormai
 inoppugnabili (Consiglio di Stato, sezione quinta, 26 agosto 1988, n.
 502, Consiglio di Stato 1988, I, 865), oppure che abbiano esaurito  i
 loro  effetti  (Consiglio di Stato, sezione sesta, 20 aprile 1991, n.
 219,  Consiglio  di  Stato  1991,  I,  779).    Siffatti  limiti  non
 s'impongono,  tuttavia,  alla  cognizione  del giudice ordinario, pur
 sempre obbligato - al di la' di ogni preclusione propria del  diritto
 amministrativo  -  e  disapplicare  incidentalmente  il provvedimento
 affetto da illegittimita' (anche se) sopravvenuta: e, per piu'  forte
 ragione,  quando l'atto conservi l'efficacia di assentire l'esercizio
 di una attivita' altrimenti  vietata.  Tanto  ha  voluto  significare
 codesta  Corte,  nella  ricordata sentenza n. 124/1990, rilevando, in
 sede di esame dell'ammissibilita' della questione, che  "  ..  si  e'
 omesso  di  precisare  da  chi  in concreto le licenze dell'autorita'
 provinciale  avrebbero  potuto  essere  impugnate  ..".    La  stessa
 decisione  riveste  particolare significato, anche perche' afferma la
 rilevanza, nel giudizio  a  quo,  della  illegittimita'  derivata  di
 provvedimenti   amministrativi,   aventi   efficacia  scriminante  da
 responsabilita' penale perche' previsti da norme di favore, della cui
 costituzionalita' si discute. Del tutto  analogamente,  il  combinato
 delle  disposizioni  che  disciplinano  il  potere  di rilascio della
 licenza di caccia e degli artt. 30, terzo comma, e 31, quinto  comma,
 della  legge  vigente,  integra  il  contenuto  di una speciale norma
 penale di favore, perche' sottrae il titolare del  provvedimento,  in
 via  generale  e  per  atti  di  apprensione  di  selvatici,  sebbene
 altrimenti vietati, alle pene stabilite  per  il  furto;  oppure,  in
 relazione   alle  violazioni  specificamente  elencate  negli  stessi
 articoli, lo sottopone ad un trattamento sanzionatorio  minore.    Il
 rilievo  introduce  al  problema  dell'ammissibilita'  del  sindacato
 costituzionale su norme di siffatta natura.   Gia' codesta  Corte  si
 era  pronunciata  nel  merito della legittimita' dell'art. 51, quarto
 comma, del c.p. (sentenza n.  123/1972): cioe', di  una  disposizione
 che configura una causa di giustificazione generale; senza, tuttavia,
 esaminare  esplicitamente  il  profilo della rilevanza, accennato dal
 giudice remittente: " ..  assumeva tuttavia di non poter emettere  la
 sentenza  istruttoria  di  proscioglimento  degli imputati perche' il
 detto  art.  51  cod.  pen.    appariva  sospetto  di  illegittimita'
 costituzionale  ..".    Per  contro, e' stata dichiarata (sentenza n.
 146/1993)  la   manifesta   inammissibilita'   delle   questioni   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 30, terzo comma, e 31, quinto
 comma, della legge in esame, sollevate,  in  riferimento  all'art.  3
 della  Costituzione, dalla corte d'appello di Venezia e dal tribunale
 di Udine, osservando che, " .. secondo la costante giurisprudenza  di
 questa  Corte (cfr. tra le altre le sentenze nn. 108/1981 e 42/1977),
 al giudice costituzionale non e' dato di  pronunciare  una  decisione
 dalla quale possa derivare la creazione - esclusivamente riservata al
 legislatore  -  di  una nuova fattispecie penale; e cio' in forza del
 principio di legalita' sancito dall'art.  25,  secondo  comma,  della
 Costituzione;  che,  infine,  una eventuale pronuncia di accoglimento
 della  questione  prospettata  dal  giudice  remittente  -  oltre  ad
 interferire  indebitamente,  per  le  ragioni  suesposte,  in  ambiti
 rigorosamente  riservati  al  legislatore  -  risulterebbe   comunque
 irrilevante   nel   giudizio   a  quo  in  virtu'  del  principio  di
 applicazione della legge penale piu'  favorevole  ..".    Nella  meno
 recente delle decisioni richiamate, codesta Corte, negando di potere,
 nella   materia  penale,  "  ..  sottrarre  alcune  fattispecie  alla
 disciplina comune per ricondurle in una disciplina  speciale  che  si
 ritiene  piu'  congruamente  tutelare gli interessi coinvolti e tanto
 meno quando cio' comporti un aggravamento di  pena",  non  escludeva,
 tuttavia,  la  possibilita'  di " .. eliminare dall'ordinamento norme
 penali di favore allo scopo di restaurare il  vigore  generale  delle
 norme  incriminatrici  derogate,  restando  riservato  ai  giudici di
 merito valutare l'efficacia  di  una  simile  pronunzia  nei  giudizi
 penali  in corso ..".  Del pari, l'altra sentenza richiamava motivata
 l'inammissibilita' di numerose fra le lquestioni prospettate  con  la
 considerazione  che  "  .. in ogni caso la Corte non puo' pronunciare
 alcuna decisione, dalla quale derivi la  creazione  -  esclusivamente
 riservata  al  legislatore  (cfr. sentenza n. 42/1977) - di una nuova
 fattispecie penale".  Senonche', tanto le  questioni  proposte  dalla
 corte  d'appello di Venezia e dal tribunale di Udine nel piu' recente
 giudizio di costituzionalita', quanto quella odiernamente riproposta,
 non involgono affatto la  richiesta  di  una  pronuncia  additiva  in
 materia  penale:  non  viene  sollecitata  la  creazione di una nuova
 fattispecie, e neppure la sottrazione di quelle gia' configurate alla
 disciplina  comune  per  ricondurle  ad  altra  speciale,  secondo  i
 rispettivi paradigmi descritti nelle sentenze appena richiamate.  Nel
 presente  giudizio  e  (per  quanto  consta) in quelli trattati dagli
 altri  uffici  remittenti,  viene  in  considerazione  una  relazione
 normativa   esattamente  rovesciata  (e  tenuta  ben  distinta  dalla
 sentenza  n.  42/1977):  e'  la  disposizione  impugnata  che,  senza
 abrogare  fattispecie  gia'  presenti e compiutamente delineate nella
 disciplina penale comune, eccettua da quest'ultima  alcune,  determi-
 nate  e  limitate  ipotesi,  per  esimerle  radicalmente da rilevanza
 penale, talvolta lasciando residuare  meri  illeciti  amministrativi,
 oppure,  nei  rispettivi  casi,  per  sottoporle  ad  un  trattamento
 sanzionatorio penale piu' mite.  Questo regime di favore, tuttavia  -
 e  diversamente da quando, implicitamente, assumono gli altri Giudici
 remittenti - non  si  estende  indiscriminatamente  ad  ogni  atto  o
 comportamento  comunque  riconducibile alla nozione della caccia; ma,
 come notato, opera alla condizione che l'agente sia munito di tutti i
 provvedimenti  abilitativi  richiesti  dalla  legge  per  l'esercizio
 dell'attivita' venatoria, in difetto dei quali tornano applicabili le
 norme  incriminatrici  di diritto penale comune. Di qui, la rilevanza
 della questione incentrata non solo  sulle  disposizioni  recanti  la
 deroga  ma,  altresi',  su  quelle  che  disciplinano i provvedimenti
 costituenti il presupposto della stessa.  Codesta corte, riesaminando
 approfonditamente il problema della  rilevanza  delle  prospettazioni
 d'illegittimita'  di  norme penali di favore, aveva tenuto nettamente
 distinto il profilo della tassativita' delle  fattispecie  da  quello
 della  irretroattivita'  delle  conseguenti  pronunce di accoglimento
 (sentenza n. 148/1983): "  ..  la  giurisprudenza  della  corte  puo'
 considerarsi ormai consolidata, per cio' che riguarda il principio di
 legalita',  inteso nei termini gia' fissati dall'art. 1 del c.p.: nel
 senso che  sono  state  ripetutamente  dichiarate  inammissibili  (da
 ultimo,  con  la  sentenza  n.  71 del presente anno) le impugnazioni
 attraverso  le  quali  si  richiedeva,  in  sostanza,  che  la  corte
 configurasse  nuove  norme  penali,  cosi'  determinando  conseguenze
 sfavorevoli per l'imputato. Ma riesce evidente che il caso  in  esame
 non  rientra  in  questo  quadro,  poiche'  il giudice istruttore del
 tribunale di Roma non ha ipotizzato alcuna decisione di  accoglimento
 additivo;  bensi'  ha prospettato l'esigenza che il regime penale dei
 componenti il Consiglio superiore della magistratura venga ricondotto
 nell'ambito delle norme  di  diritto  comune,  mediante  una  pura  e
 semplice  dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale dell'intera
 disposizione impugnata".   Quanto  al  principio  d'irretroattivita',
 dopo  avere  ricordato  che  le precedenti pronunce si collocavano su
 versanti  opposti,  la  sentenza  avvertiva:  "Altro  infatti  e'  la
 garanzia  che  i  principi  del diritto penale-costituzionale possono
 offrire agli  imputati,  circoscrivendo  l'efficacia  spettante  alle
 dichiarazioni d'illegittimita' delle norme penali di favore; altro e'
 il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena
 di  istituire  zone  franche del tutto impreviste dalla Costituzione,
 all'interno  delle  quali  la   legislazione   ordinaria   diverrebbe
 incontrollabile".    Veniva,  quindi,  chiarita l'influenza di simili
 questioni sull'esercizio della funzione  giurisdizionale:  "In  primo
 luogo,  l'eventuale  accoglimento delle impugnative di norme siffatte
 verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno,
 sui  dispositivi  delle   sentenze   penali:   i   quali   dovrebbero
 imperniarsi,  per  effetto  della  pronuncia  emessa dalla corte, sul
 primo  comma  dell'art.  2  del  c.p.  (sorretto  dal  secondo  comma
 dell'art.  25  della  Costituzione)  e  non  sulla  sola disposizione
 annullata dalla corte stessa. E conviene aggiungere che la  pronuncia
 della  corte  non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo
 della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio  decidendi:
 poiche'  in  tal  caso  ne  risulterebbe  alterato  -  come  e' stato
 esattamente notato  in  dottrina  -  il  fondamento  normativo  della
 decisione,  pur  fermi  restando  i  pratici  effetti di essa".   "In
 secondo luogo, le norme penali di favore fanno  anch'esse  parte  del
 sistema,    al    pari   di   qualunque   altra   norma   costitutiva
 dell'ordinamento. Ma lo stabilire in quali modi il  sistema  potrebbe
 reagire  all'annullamento  di norme del genere, non e' un quesito cui
 la  corte  possa  rispondere  in  astratto,  salve  le   implicazioni
 ricavabili  dal  principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene;
 sicche', per questa parte, va confermato che si tratta di un problema
 (ovvero di una somma di  problemi)  inerente  all'interpretazione  di
 norme  diverse  da  quelle  annullate, che i singoli giudici dovranno
 dunque  affrontare  caso  per  caso,  nell'ambito  delle   rispettive
 competenze".     "In  terzo  luogo,  la  tesi  che  le  questioni  di
 legittimita' costituzionale concernenti norme penali  di  favore  non
 siano  mai  pregiudiziali  ai  fini  del giudizio a quo, muove da una
 visione troppo semplificante delle pronunce che questa corte potrebbe
 adottare, una volta affrontato il merito di tali impugnative  ..  non
 puo'  escludersi  a  priori  che il giudizio della corte su una norma
 penale di favore si  concluda  con  una  sentenza  interpretativa  di
 rigetto  (nei  sensi  di  cui  in  motivazione)  o  con una pronuncia
 comunque correttiva delle premesse esegetiche su cui si fosse fondata
 l'ordinanza di rimessione: donde una serie  di  decisioni  certamente
 suscettibili  d'influire  sugli  esiti del giudizio penale pendente".
 Possibilita' di particolare rilievo, nel caso d'impugnativa - come la
 presente - relativa ad una " ..  norma  finora  inapplicata  in  sede
 penale  ..  su  cui  non  si e' dunque formata alcuna interpretazione
 giurisprudenziale consolidata ..".  Codesta Corte aveva,  del  resto,
 gia'  avvertito che, in materia di norme penali di favore, i problemi
 derivanti  dalla  cosiddetta  retroattivita'   delle   decisioni   di
 accoglimento,  attengono all'interpretazione e devono pertanto essere
 risolti dai giudici comuni (sentenza nn. 155/1973 e  22/1975).    Nel
 merito  della  questione,  la  sentenza n. 148/1983 osservava:   "Ben
 altro e' invece il caso delle cause di non punibilita', stabilite  in
 vista   dell'esercizio   di   determinate  funzioni.  Norme  siffatte
 abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla  Costituzione
 o da altre leggi costituzionali; ma non e' indispensabile - ad avviso
 della corte - che il fondamento consista in una previsione esplicita.
 All'opposto,  il legislatore ordinario puo' bene operare in tal senso
 al   di   la'   delle  ipotesi  espressamente  previste  dalle  fonti
 sopraordinate, purche' le scriminanti cosi' stabilite siano il frutto
 di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in  gioco".
 Cio' significa - annota la dottrina - che le cause di non punibilita'
 necessitano  di  un  puntuale  fondamento  a  livello costituzionale,
 ancorche' non tradotto in una previsione  esplicita  all'interno  del
 sistema sopraindicato; e che il canone di ragionevolezza, desunto dal
 principio   di   uguaglianza   ed   eretto  a  limite  dell'attivita'
 discrezionale  del  legislatore,  richiede,  in  presenza  di   cause
 siffatte,   l'equilibrata   composizione  dei  valori  costituzionali
 confrontati.  La decisione commentata, dunque,  non  solo  impone  di
 considerare   rilevanti   le  questioni  vertenti  su  cause  di  non
 punibilita'; ma indica pure i criteri che  guidano,  in  materia,  il
 sindacato  di  codesta Corte.   In punto di rilevanza, resta chiarito
 che il principio di legalita', come non veniva posto  in  discussione
 dalla  censura  della particolare esimente, esaminata nella sentenza,
 cosi'  non  lo  sarebbe  per  effetto  della  eventuale  declaratoria
 d'illegittimita' della causa di giustificazione - del pari speciale -
 costituita  dalla licenza di caccia: il venir meno della quale, lungi
 dall'implicare  una  nuova  incriminazione  ed   una   corrispondente
 fattispecie  penali,  oppure l'inasprimento delle sanzioni previste -
 secondo  i  paradigmi  delle  sentenze  additive  non  consentite   -
 comporterebbe  soltanto  l'automatica  (e,  secono la prospettazione,
 costituzionalmente necessitata) espansione delle norme  precettive  e
 sanzionatorie   vigenti,   compiutamente  delineate  nell'ordinamento
 penale  comune.     Egualmente,   non   e'   scalfito   l'altrettanto
 fondamentale  canone  d'irretroattivita', di cui all'art. 25, secondo
 comma, della Costituzione,  poiche'  l'eventuale  accoglimento  della
 questione  non  e'  incompatibile  con il dovere di fare applicazione
 della norma piu' favorevole  nel  giudizio  a  quo;  a  tacere  della
 considerazione  che  tale  risultato,  trattandosi  di disposizione -
 nella specie - sopravvenuta al compimento del fatto da giudicare, non
 e' imposto dal precetto costituzionale, bensi' dal  principio  -  pur
 coerente  con  esso,  e  cogente  per  il  giudice  ordinario, ma non
 costituzionalizzato nella sua interezza - di cui  all'art.  2,  terzo
 comma,  del  c.p.    Coerentemente,  codesta  Corte  ha  ritenuto non
 esclusa, ne' preclusa, dal principio  di  cui  all'art.  25,  secondo
 comma,  della Costituzione la pronuncia d'illegittimita' dell'art. 2,
 quinto comma, del c.p., in quanto diretta a rendere inoperante questa
 disposizione limitatamente alla retroattivita' - da  essa  assicurata
 in  riferimento  al  secondo  e  terzo  comma - delle norme penali di
 favore  contenute  nei  decreti-legge  non   convertiti:   e   cioe',
 limitatamente  ai  fatti  commessi  anteriormente  all'emanazione dei
 decreti stessi (sentenza n.   51/1985).   Nel merito,  codesta  Corte
 puo'  essere richiesta di sindacare - sulla base dei criteri, da essa
 indicati,  della  ricerca  di  un  puntuale   fondamento   di   rango
 costituzionale,  anche  se implicito, e del ragionevole bilanciamento
 dei valori in gioco - le norme che, attraverso  il  duplice  congegno
 del   rilascio   dei   provvedimenti   abilitativi   o,  attualmente,
 concessori, e della deroga ai precetti di diritto comune, sottraggono
 il cacciatore, cosi' abilitato, alle sanzioni  stabilite  dal  codice
 penale.    Le  analogie  fra  la  sentenza  n. 148/1983 e la presente
 questione finiscono qui: in particolare, non viene in considerazione,
 per giustificare la causa di  non  punibilita'  esaminata  in  questa
 sede, il collegamento all'esercizio di "determinate funzioni", la cui
 analisi,   nella   detta  decisione,  condusse  alla  conclusione  di
 infondatezza.    All'inverso,  l'assenza  di  peculiari  attribuzioni
 istituzionali  -  quali  permisero,  nella  decisione  richiamata, di
 riconoscere l'implicito fondamento costituzionale  della  deroga  del
 regime  punitivo  comune - come pure di differenti interessi pubblici
 per l'esercizio della caccia  ad  opera  di  privati,  suggerisce  un
 rigore  ancor  maggiore  nella  ricerca  di un radicamento nei valori
 dello statuto nonche'  di  un  razionale  bilanciamento  fra  questi:
 criteri  indicati  da codesta Corte per valutare la legittimita' - e'
 dato   intendere    -    di    qualunque    causa    di    esclusione
 dell'antigiuridicita'(come  la  gia' esaminata esimente comune di cui
 all'art. 51, ultimo comma,  del  c.p.)  ovvero,  in  genere,  di  non
 punibilita'.    Di  recente, codesta Corte ha ripreso e consolidato -
 salvo nelle ricordate ordinanza n. 93 e sentenza  n.  146  del  1993,
 entrambe  in  materia di caccia - le conclusioni raggiunte in tema di
 rilevanza.  "Come piu' volte affermato da questa Corte (sentenze  nn.
 148/1983,   826/1988   e   124/1990),   le  pronunce  concernenti  la
 legittimita' delle norme penali di favore o comunque piu'  favorevoli
 all'imputato   possono   influire  sul  conseguente  esercizio  della
 funzione   giurisdizionale.    Invero,    l'eventuale    accoglimento
 dell'impugnativa viene ad incidere sulle formule di proscioglimento o
 quanto  meno  sul  dispositivo della sentenza penale".  "La pronuncia
 della Corte potrebbe riflettersi  sullo  schema  argomentativo  della
 sentenza  penale assolutoria modificandone la ratio decidenti. In tal
 caso ne risulterebbe alterato il fondamento normativo.    L'eventuale
 sentenza  interpretativa  di rigetto che la Corte puo' emettere oltre
 le sentenze di accoglimento  o  di  rigetto,  influirebbe  certamente
 sugli esiti del giudizio penale. Il che puo' avvenire nella specie in
 quanto   la   norma   impugnata   non  e'  stata  finora  oggetto  di
 interpretazione  da  parte  del  giudice  ordinario"   (sentenza   n.
 167/1993).    "Si  ribadisce  che  (sentenze nn. 146/1983, 826/1988 e
 124/1990) le pronunce di legittimita' delle norme penali di favore  o
 comunque  piu' favorevoli all'imputato influiscono o possono influire
 sul  conseguente  esercizio  della  funzione  giurisdizionale  e  che
 l'eventuale accoglimento delle impugnative di siffatte norme viene ad
 incidere  sulle  formule  di  proscioglimento  o,  quanto  meno,  sul
 disposivito delle sentenze penali".    Inoltre,  la  pronuncia  della
 Corte  potrebbe riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza
 penale assolutoria modificandone la  ratio  decidendi.  In  tal  caso
 risulterebbe   alterato   il  fondamento  normativo  della  decisione
 (sentenza n. 194/1993).   La questione  non  diviene  meno  rilevante
 nella piu' limitata angolazione della richiesta di una pronuncia che,
 senza  abolire  il  regime  della  licenza  o  concessione di caccia,
 dichiari illegittime le disposizioni che ne disciplinano il rilascio,
 nella  parte  in  cui  non   vincolano   il   corrispondente   potere
 all'accertamento  di  un  numero  chiuso  dei  soggetti abilitati, in
 ambito nazionale ne' regionale o, comunque, locale: infatti, come, in
 tema   di   invalidita'   derivata,   la   ricordata   giurisprudenza
 amministrativa   non   annette   alla   pronuncia  di  illegittimita'
 conseguenze diverse a seconda che si tratti  di  norme  che  regolano
 l'emanazione  di provvedimenti vincolati oppure discrezionali; cosi',
 l'annullamento parziale delle disposizioni in questione,  modificando
 i  presupposti  dell'atto  amministrativo  da  esse  disciplinato,  e
 riducendo   la   discrezionalita'   del  relativo  potere  attraverso
 l'esigenza di accertare il non superamento di un numero  chiuso,  non
 potrebbe  che  inficiare  la  validita'  dei provvedimenti rilasciati
 sulla base delle norme stesse.  Nei termini delineati,  la  rilevanza
 della questione si estende, dalle disposizioni della legge previgente
 che  disciplinavano  i  presupposti  del  rilascio  dei provvedimenti
 abilitativi, e quelle che,  nella  legge  sopravvenuta,  li  regolano
 attualmente.        Diversamente,        l'eventuale        pronuncia
 d'incostituzionalita'   soltanto   delle   prime,   pur   comunicando
 l'invalidita'  derivata  al  provvedimento  rilasciato  sulla base di
 queste, non impedirebbe  di  ritenere  avvenuta,  per  effetto  delle
 seconde, la convalida in via legislativa dell'abilitazione stessa: se
 non altro, ancora una volta, in forza del principio di retroattivita'
 delle   norme   piu'   favorevoli.   All'opposto,   la  dichiarazione
 d'illegittimita'  costituzionale  delle  sole  disposizioni  vigenti,
 resterebbe    ininfluente    sulla    validita'   dei   provvedimenti
 precedentemente  rilasciati,  la  quale,  per  regola  generale,   va
 confrontata   esclusivamente   con   le  norme  in  vigore  all'epoca
 dell'emanazione  dell'atto  amministrativo.  Percio',   soltanto   la
 caducazione  delle  une  e  delle altre, nonche' di quella recante la
 deroga  del  regime  penale  ordinario,  rendendo  il   provvedimento
 abilitativo   "   ..   disapplicabile   come   discriminante   di  un
 comportamento altrimenti sussumibile sotto una fattispecie  di  reato
 .."  (sentenza  n.  124/1990),  e'  idonea  ad alterare il fondamento
 normativo  della   emandata   sentenza,   modificandone   lo   schema
 argomentativo ed incidendo sulla formula di proscioglimento o, quanto
 meno,   sul   dispositivo.   Nella   materia   considerata,  infatti,
 tornerebbero applicabili, beninteso soltanto  in  astratto,  e  senza
 possibilita'  di  irrogazione  nel presente giudizio - in aderenza ai
 principi ricordati, ed assolutamente consolidati  nella  giusprudenza
 di  codesta  Corte - le sanzioni di diritto penale comune.  Del pari,
 un'eventuale sentenza interpretativa di  rigetto  sarebbe  certamente
 influente  sugli  esiti  del  giudizio penale, in quanto vertente sia
 sulla disciplina pregressa che su  quella  sopravvenuta,  non  ancora
 sottoposta  all'esegesi  del giudice ordinario: e cosi' giustifica la
 duplice prospettazione della presente questione.   Le  considerazioni
 precedenti  presuppongono  che,  fra la disciplina anteriore e quella
 sopravvenuta, intercorra la relazione  prevista  dall'art.  2,  terzo
 comma,  del  c.p.,  con  la  conseguente  applicazione della seconda,
 ritenuta piu' favorevole  in  quanto  recante  deroga  alle  sanzioni
 previste per il furto, in favore delle pene da essa introdotte.
    Tale  premessa  risulta  pero' avversata da recenti sentenze della
 suprema  Corte.  Prescindendo,  per  il  momento,  da  una  pronuncia
 sicuramente  riferibile  all'ipotesi  del tentativo di furto (sezione
 quinta, 12 marzo 1992, Placenti), altra decisione (sezione quinta, 12
 novembre 1992, Reghin) argomenta, in tema di uccellagione, che questa
 pratica  costituisse,  prima  della  recente  riforma,  un   semplice
 illecito amministrativo. Percio', l'art. 30 della legge sopravvenuta,
 prevedendo per la corrispondente condotta apposite sanzioni penali ed
 escludendo  quelle  comminate  per  il  furto, implicherebbe fenomeni
 separati di abrogazione di una disposizione  penale  anteriore  e  di
 introduzione  di  una  nuova  figura  di reato: cosicche', per questa
 seconda parte,  la  sua  applicazione  retroattiva  incontrerebbe  il
 divieto di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
    La   sentenza   accenna   ai   diversi  criteri  utilizzabili  per
 individuare il fenomeno della successione di  leggi  penali  diverse:
 quali  la  "continuita'  del  tipo  di  illecito"  e  il "rapporto di
 continenenza", cui va aggiunto quello c.d. del "fatto  concreto".  Di
 questi, una parte della dottrina,, valutati insoddisfacenti il primo,
 perche'  di scarsa utilita' pratica, e il terzo in quanto non mediato
 da un confronto tra norme,  propende  per  il  secondo:  che  ritiene
 verificato quando la nuova norma incrimini una condotta che rientrava
 gia'  nella  previgente, e cioe' quando si presenti speciale rispetto
 all'altra; ravvisando, pero', analoga  successione  se,  all'inverso,
 sia  di portata generale la norma sopravvenuta. Il detto criterio non
 sarebbe soddisfatto dal confronto del precetto sul furto con la nuova
 legge venatoria, perche' ne emerge - non diversamente da  quello  con
 la  legge  previgente in materia (cfr. Corte costituzionale, sentenza
 n. 97/1987) - un rapporto di specialita'  bilaterale  o  reciproca  o
 d'interferenza,  non  assimilabile alla specialita' in senso tecnico:
 la tesi della Cassazione ne risulterebbe, quindi convalidata.
    Ma  il  problema  va  impostato  diversamente.   Non   e'   esatta
 l'affermazione   che   le   violazioni  della  previgente  legge  non
 costituissero, per  se',  reato,  salva  l'applicazione  della  norma
 incrimatrice  del  furto.  In  realta',  per  effetto  del  principio
 fondamentale dettato dall'art. 1  di  detta  legge,  le  disposizioni
 recanti   successivi   divieti   rivestivano   funzione  integratrice
 dell'art. 624 c.p.: il precetto recato da  questo  risultava  percio'
 costituito,  nella  specifica  materia,  sia  dalla  disposizione  di
 diritto  comune  che  da  quelle  della   legge   speciale,   recanti
 l'enunciazione del principio e, rispettivamente, dei singoli divieti.
 Si  obiettera'  che  tale  integrazione  fosse  frutto  di un'opzione
 interpretativa;  ma  e'  dato   replicare   che   essa,   una   volta
 consolidatasi  nella  giurisprudenza di legittimita', immedesimava il
 diritto vivente. Consegue che, al fine di  accertare  se  ricorra  il
 fenomeno della successione di leggi penali (entrambe incriminatrici),
 il  confronto  non  va  effettuato  fra  la legge speciale anteriore,
 ovvero  fra  la  norma   incriminatrice   del   furto,   isolatamente
 considerati, da una parte, e la legge sopravvenuta dall'altra; bensi'
 fra  il  combinato  delle  prime  due  e  la terza. Risultera' che il
 rapporto fra le  disposizioni  precettive  dei  rispettivi  complessi
 normativi non e' di specialita', ne' tecnica ne' bilaterale: perche',
 tra  la combinazione di ciascun divieto recato dalla legge previgente
 con  l'incriminazione  del  furto,  ed  ogni   altra   corrispondente
 violazione  della  nuova  legge  -  nella  parte  in  cui aderisce ad
 un'attivita' gia' vietata dalla precedente - e'  ravvisabile  non  la
 presenza  di  elementi  specializzanti,  ma  la completa identita' di
 contenuto precettivo.
    Risulta,  con  cio',   verificata   l'esatta   coincidenza   delle
 fattispecie  astratte,  corrispondenti alle disposizioni confrontate:
 la quale soddisfa il presupposto per l'applicazione del regime  della
 successione  di  leggi penali, previsto dall'art. 2, terzo comma, del
 c.p., in misura ancor piu' rigorosa di quella postulata dal  rapporto
 di specialita' in senso tecnico.
    Pare,  d'altronde,  fuor  di  luogo  definire  norma brogatrice di
 precedente incrimazione - quale richiesta per i differenti effetti di
 cui al secondo comma dell'art. 2 del c.p. - l'art. 30,  terzo  comma,
 della  recente  legge,  il  quale  introduce soltanto una deroga agli
 artt.  624, 625 e 626 del c.p.: deroga, per giunta, limitata ai "casi
 di cui  al  comma  primo",  cosi'  da  autorizzare  l'opinione  della
 sopravvivenza  del regime del furto anche nella specifica materia, in
 particolare - come notato in precedenza - nei confronti  di  chi  sia
 sprovvisto della licenza o concessione. Un'attenta dottrina considera
 compreso   nel   fenomeno   della   concessione   di  leggi  il  caso
 dell'abrogazione di norma incrimatrice, non accompagnata da un  nuovo
 precetto,   la  quale,  tuttavia,  comporti  la  ricaduta  dei  fatti
 incriminati dalla norma abrogata nell'ambito di applicazione  di  una
 norma  generale  gia'  vigente  nell'ordinamento.  Rispetto alla vera
 abrogazione, l'introduzione  di  una  deroga  rappresenta  un  evento
 legislativo  minore:  e  cosi'  rientra pur essa, a pieno titolo, nel
 fenomeno della successione di leggi penali.
    Se ne arguisce riprova dell'utilita', ed anzi della necessita' che
 la deroga in questione risultasse formulata  in  modo  espresso,  per
 realizzare  il  chiaro  intento  del  legislatore  di escludere dalla
 materia - peraltro, limitatamente ad alcune violazioni  -  il  regime
 del  furto,  Infatti, il terzo comma dell'art. 30 della legge vigente
 non puo' riguardarsi come semplice applicazione della regola  dettata
 dall'art.  15  del  c.p.,  nel  quale caso risulterebbe perfettamente
 inutile; bensi' come implicante  eccezione  al  regime  del  concorso
 formale  di reati, il quale e' applicabile quando con una sola azione
 od omissione sono violate diverse disposizioni  di  legge  (art.  81,
 primo  comma,  del  c.p.). Tanto riconosce anche la Corte regolatrice
 (12 novembre 1992, Reghin, cit.), quando nota che  l'art.  30,  terzo
 comma, della legge citata e' dettato "nel presupposto, a quanto pare,
 che le fattispecie del primo comma e quelle del furto siano diverse e
 che  per  evitare  il  concorso  di  norme  occorra appunto escludere
 espressamente l'applicabilita' di quelle sul furto".
    Ma,  se  e'  questa  la  relazione  fra  vecchia  e  nuove   norme
 incrimatrici,  rispetto  a  fatti commessi nella vigenza di entrambe:
 essa non puo' risultare differente in  relazione  a  fatti  anteriori
 alle  seconde;  e  se,  rispetto  agli  uni,  avrebbe comportato - in
 assenza di deroga espressa - un'ipotesi di concorso formale di reati,
 non  puo'  che  implicare,  riguardo  agli  altri,  identita'   delle
 fattispecie  incriminate  e  conseguente  applicazione  del principio
 dettato dal terzo comma dell'art. 2 del c.p. Si vuol dire che, se  il
 fatto  concreto ricade sotto entrambi i precetti, fra questi non puo'
 che essere ravvisata  la  successione  di  leggi.    La  conferma  e'
 nell'art.  1  della legge vigente: il quale, in aderenza all'opinione
 giurisprudenziale   prevalsa   anteriormente,   avrebbe    egualmente
 comportato l'applicazione del precetto sul furto, in concorso formale
 con  le  nuove  figure  di reato se, in relazione a queste, non fosse
 stata dettata la deroga; e tuttora la comporta per altre  violazioni,
 quale  l'esercizio  della caccia in assenza di licenza o concessione.
 Cio' rivela  che  l'operazione  ermeneutica  compiuta  dalla  suprema
 Corte,  in  quanto  mediata dallo scorporo del principio fondamentale
 contenuto nell'art. 1  sia  della  legge  previgente  che  di  quella
 sopravvenuta,   non   convalida  la  tesi  dell'abrogazione  e  della
 separata, nuova incriminazione.  Diviene, a questo  punto,  possibile
 sciogliere  il  dubbio  riguardo  al  tentativo  di  furto.  Non pare
 conclusivo osservare (Cass.,  12  marzo  1992,  Placenti,  cit.)  che
 "risulta   inapplicabile   al  fatto  contestato  la  disciplina  del
 tentativo,  perche'  non  estensibile, in base a quanto espressamente
 disposto dall'art. 56 del c.p., alle contravvenzioni ..".  Non  tutte
 le  violazioni  previste dalla legge vigente riguardano, diversamente
 da quanto sostiene la  sentenza,  "l'avvenuta  cattura  o  l'avvenuto
 abbattimento  di uno o piu' esemplari della fauna selvatica protetta,
 e, quindi, interdetta alla caccia".  Al contrario, l'art.  30,  primo
 comma,  non  diversamente  dalla  legge  previgente,  sanziona  anche
 condotte  quali  "l'esercizio"  della  caccia   o   dell'uccellagione
 (lettere  a),  d),  f),  h),  i)  e rispettivamente, e). Poiche' tali
 pratiche implicano il compimento non solo ne' necessariamente di atti
 di apprensione o di abbattimento, ma anche  di  quelli  semplicemente
 diretti  a  tale  scopo,  in adesione alle nozioni di esercizio della
 caccia contenute nell'art. 12, secondo e  terzo  comma,  della  legge
 vigente (che, di piu', comprendono perfino il vagare o il soffermarsi
 con   mezzi  atti  allo  scopo),  se  ne  deduce  che  alcuni  fra  i
 comportamenti vietati sono idonei ad integrare anche il tentativo  di
 furto:  per  concludere  che  violazioni materialmente identiche sono
 previste come reato tanto dalla legge vigente quanto dagli artt. 56 e
 624 del c.p. in combinato con le  corrispondenti  disposizioni  della
 legge  abrogata.    In ogni caso, anche aderendo alla tesi criticata,
 non  ne  risulterebbe  scalfita  la  rilevanza  della  questione   di
 costituzionalita':  l'art.  30,  terzo  comma,  della  legge vigente,
 operando per l'avvenire come presupposto del  piu'  mite  trattamento
 penale  introdotto  dal primo comma, fungerebbe, secondo questa tesi,
 come radicale causa di esclusione della  perseguibilita'  penale  dei
 fatti  pregressi;  e,  quindi,  non si sottrae, al pari di ogni altra
 disposizione regolatrice di cause di non punibilita', al sindacato di
 costituzionalita'.  A  sua  volta,  l'efficacia  esimente   di   tale
 disposizione  con  riguardo  ai fatti anteriori, postula, a monte, la
 titolarita'  nell'agente  della  licenza  di   caccia:   neppure   si
 sottraggono,  percio', al detto sindacato le disposizioni regolatrici
 del rilascio del provvedimento abilitativo, in quanto comportano  una
 causa generale di non punibilita' per atti di esercizio venatorio non
 altrimenti vietati.  La pronuncia d'inammissibilita' della precedente
 questione autorizza il pretore a riprodurre pressocche' letteralmente
 -   salvo   marginali   aggiornamenti   del  quadro  normativo  -  le
 considerazioni di merito esposte nell'ordinanza di rimessione del  10
 aprile  1992:    ritenendo  che  queste,  sebbene  svolte in riguardo
 espresso alle disposizioni  che  disciplinavano  e,  rispettivamente,
 disciplinano  i  titoli  abilitativi piu' volte menzionati, implicano
 censura conseguenziale della norma di cui all'art. 30,  terzo  comma,
 della  legge vigente. Se e' vero - come si e' cercato di dimostrare -
 che la disposizione appena indicata  esplica  la  funzione  di  norma
 penale  di  favore  solo  se  letta  in combinazione con quelle sopra
 richiamate, e cioe' solo in presenza di agente munito  della  licenza
 di  caccia  e  dell'abilitazione  regionale,  in mancanza delle quali
 tornano  applicabili  le  sanzioni  stabilite  per  il  furto,  anche
 prescindendo dalla sussistenza di taluna fra le specifiche violazioni
 elencate  nell'art. 30, primo comma, della legge citata: consegue che
 l'impugnativa della  disciplina  della  licenza  e  dell'abilitazione
 predette  inevitabilmente  si estende alla disposizione di deroga del
 diritto  penale  comune,  la  cui  applicazione  trova  l'attuale  ed
 essenziale  presupposto, appunto, nell'esistenza e nella legittimita'
 di  quei  provvedimenti,  esposti  da   un'eventuale   pronuncia   di
 accoglimento  al rilievo della invalidita' derivata.  In sostanza, la
 norma penale di favore risulta dall'inscindibile collegamento fra  le
 une  e  l'altra  disposizione  della  recente  legge,  in  quanto  la
 scriminante  o,  nei  rispettivi  casi,  il  piu'  mite   trattamento
 sanzionatorio   introdotti   dalla  seconda  operano  alla  esclusiva
 condizione  dell'avvenuto  rilascio  dei  provvedimenti  disciplinati
 dalle  prime:  sicche',  la  pronuncia  d'illegittimita'  di  queste,
 quand'anche non comportasse la caducazione  automatica  dell'altra  -
 ove  non  direttamente  coinvolta  nella  impugnativa - implicherebbe
 comunque, ad  avviso  del  pretore,  quella  conseguenziale  prevista
 dall'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    3.  -  Nel  sistema  della legge abrogata, riconosciuta recare una
 riforma economico  sociale  (sentenza  n.  1002/1988),  alle  solenni
 affermazioni  dell'appartenenza  della  fauna selvatica al patrimonio
 indisponibile   dello   Stato,   dell'apprestamento   della    tutela
 nell'interesse   della  comunita'  nazionale  e  dell'estensione  del
 relativo oggetto, del divieto di  uccellagione  (artt.  1,  2  e  3),
 seguiva  una  serie di disposizioni - segnatamente quelle impugnate -
 che   contraddicevano   o,   almeno,   non   presentavano    rigorosa
 corrispondenza (sentenza n. 63/1990) nelle regole generali.  A tacere
 dell'esuberanza   dell'elenco  delle  specie  cacciabili,  le  regole
 predette e le esigenze rappresentate, in via di principio,  dall'art.
 8,  primo  comma, venivano frustrate dal numero aperto di coloro che,
 avendo compiuto il diciottesimo  anno  di  eta',  fossero  muniti  di
 licenza  e  di  un'assicurazione  per la responsabilita' civile verso
 terzi (art. 8, sesto comma), nonche' di un tesserino rilasciato dalla
 regione (nono comma)  a  seguito  di  abilitazione  (art.  21)  e  di
 apposito   esame  (art.  22),  dai  quali  derivava  la  facolta'  di
 esercitare la caccia in tutto il territorio nazionale (art. 8, ottavo
 comma) e, correlativamente,  l'appartenenza  della  fauna  selvatica,
 abbattuta  nel  rispetto  delle  norme,  a colui che l'aveva cacciata
 (art. 8,  quinto  comma).    La  nuova  legge  reca  affermazioni  di
 principio  non dissimili (art.  1, comma primo, 2, comma primo, e 3);
 tuttavia, l'impianto generale non si discosta  nella  sostanza  dalla
 disciplina  previgente. In particolare, la pianificazione faunistico-
 venatoria, di cui agli artt. 9 e  10,  comportante  una  destinazione
 differenziata  del  territorio,  non  rappresenta  una  reale novita'
 rispetto ai piani regionali disciplinati dalla legge abrogata;  salvo
 introdurre  la  predeterminazione di criteri, ad opera dell'autorita'
 statale,  perche'  la  programmazione  sia   basata   "anche"   sulla
 conoscenza   delle   risorse   e  della  consistenza  faunistica,  da
 conseguirsi "anche" mediante modalita' omogenee di rilevazione  e  di
 censimento (art. 10, undicesimo comma).  Ma, soltanto a partire dalla
 stagione  venatoria  1995-96,  e'  previsto  che i calendari venatori
 delle province indichino le zone  dove  l'attivita'  di  prelievo  e'
 consentita in forma programmata (art.  14, sedicesimo comma), in base
 alla  ripartizione  che  sara' operata dalle regioni (primo comma); e
 solo nella stagione 1994-95 l'art. 36, quinto comma, prevede la piena
 attuazione della legge, previa  adozione  degli  atti  di  rispettiva
 competenza  da  parte  dei  soggetti  partecipanti al procedimento di
 programmazione, entro i termini  che  saranno  fissati  dal  Ministro
 dell'agricoltura  (in  concreto,  con  d.m.    12  agosto 1992).   Il
 complesso di  queste  disposizioni  (in  particolare,  gli  art.  10,
 undicesimo   comma,  e  14  undicesimo  comma)  implica  l'ammissione
 dell'insufficienza delle conoscenze faunistiche per l'Italia, e della
 mancanza  di  dati  di  censimento  accurato  e completo della grande
 maggioranza   delle   specie   di   selvatici    (Annuario    europeo
 dell'ambiente, Varese 1986, p. 288 e 297).  Nondimento, rimane aperto
 il  numero  di  coloro che possono conseguire la "concessione" per lo
 svolgimento dell'attivita'  venatoria  (art.  12,  primo  comma),  ed
 estesa al territorio nazionale la validita' della licenza (undicesimo
 comma);  viene  fatta  salva  la possibilita' di accedere ad ambiti o
 comprensori ulteriori a quello  determinato  in  base  alle  emanande
 norme  regionali,  anche compresi in una regione diversa da quella di
 residenza (art. 14, quinto comma), nonostante  la  prevista  opzione,
 entro  il  30  novembre  1993  (sesto  comma), per una delle forme di
 caccia indicate nell'art. 12, quinto comma.   Ne' l'opzione  comporta
 un  numero chiuso, sia pure in ambito locale. Infatti, sulla base dei
 dati  censuari  e  scaduto  il   termine   predetto,   il   Ministero
 comunichera'  (entro  il  1›  marzo  1994)  gli  indici  di  densita'
 venatoria minima (non massima) per ogni ambito territoriale di caccia
 (art. 14, settimo comma), dei quali non potranno risultare  inferiori
 quelli  previsti  dal piano faunistico-venatorio e dal regolamento di
 attuazione, approvandi dalle  regioni;  restando  in  facolta'  degli
 organi  direttivi degli ambiti territoriali di ammettere un numero di
 cacciatori superiore a quello fissato dal regolamento (ottavo comma).
 All'impossibilita' di apprestare  piani  di  intervento  tecnicamente
 corretti,   in  mancanza  delle  cennate  conoscenze  del  patrimonio
 faunistico, si  aggiunge  cosi'  quella  di  assicurarne  la  pratica
 attuazione,   a   causa  dell'inesistenza  di  un  numero  chiuso  di
 cacciatori, in ambito sia nazionale che locale: atteso che  la  nuova
 disciplina  prevede  la  fissazione  di  indici di densita' venatoria
 minimi, e superabili, per di  piu',  ad  opera  della  programmazione
 regionale   e,  ulteriormente,  degli  organi  di  gestione,  ma  non
 riducibili. E' lecito paventare che l'attuale normativa,  ancor  piu'
 della  previgente,  conduca a dilapidare il capitale costituito dalla
 fauna selvatica, ben al di la' della fruizione dei soli interessi.
    4. - Essendo assicurato dall'art. 11 della legge abrogata - e  dal
 parallelo  art.  18  di  quella  sopravvenuta - " .. l'oggetto minimo
 inderogabile della protezione dello Stato, anche  in  adempimento  di
 obblighi assunti in sede internazionale e comunitaria, ha ritenuto di
 dover   offrire   al  proprio  patrimonio  faunistico"  (sentenze  n.
 1002/1988 e 577/1990), il pretore prospetta il dubbio che appunto  il
 carattere  minimale  di  questa  tutela  ne riveli l'inadeguatezza al
 rispetto dei principi costituzionali stabiliti negli artt.  9  e  32.
 Invero,  la  fauna  " .. rientra fra i beni la cui tutela costituisce
 elemento essenziale di un sistema istituzionale di  protezione  della
 natura  .." (sentenza n. 1029/1988); comprendendo il bene ambientale,
 tra l'altro, " .. la esistenza e la preservazione .. di tutte le spe-
 cie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale  ed  in
 definitiva  la  persona  umana  in tutte le sue estrinsecazioni .. Ne
 deriva la repressione del  danno  ambientale  cioe'  del  pregiudizio
 arrecato  da  qualsiasi attivita' volontaria o colposa, alla persona,
 agli animali, alle piante  e  alle  risorse  naturali  (acqua,  aria,
 suolo,  mare),  che  costituisce  offesa  al  diritto  che vanta ogni
 cittadino individualmente e collettivamente", in funzione della "  ..
 salvaguardia  dell'ambiente come diritto fondamentale della persona e
 interesse fondamentale della collettivita'" (sentenza  n.  210/1987):
 in  una  prospettiva  non  lontana  dal riconoscimento di un "diritto
 all'ambiente salubre" (Cass., sez.  un.  civ.,  6  ottobre  1979,  n.
 5172).    Il  pretore  rammenta  che  fu  riconosciuta  infondata  la
 questione di legittimita' dell'art. 842, primo comma,  del  c.c.,  in
 riferimento  all'art.  42,  secondo e terzo comma, della Costituzione
 (sentenza n.  57/1976): venne allora in esame  il  conflitto  fra  il
 diritto  di  proprieta'  e  l'esercizio  della  caccia,  il  quale fu
 definito "non privo di positivo rilievo"; senonche', a differenza dei
 precetti ivi considerati, l'art. 9, secondo comma, della Costituzione
 " .. erige il valore estetico-culturale riferito (anche)  alla  forma
 del  territorio  a valore primario dell'ordinamento .. (cfr. sentenze
 di questa Corte n. 94/1985 e n. 359/1985), cioe' come insuscettivo di
 essere subordinato a qualsiasi altro" (sentenza n. 151/1986).  Sembra
 al  pretore  che  tanto  la  precedente   quanto   la   nuova   legge
 compromettano  la  tutela di detto valore con interessi di natura ben
 differente, di rango inferiore e,  comunque,  non  costituzionalmente
 garantiti:  e  cio' per il solo fatto che, attraverso le disposizioni
 impugnate, prevedono la possibilita' per qualunque soggetto  privato,
 sia  pure  subordinatamente  all'esistenza  di requisiti soggettivi e
 all'accertamento di doti attitudinali, di esercitare la caccia.  Tale
 situazione  rimane  sospetta  di illegittimita' anche nell'ipotesi di
 conoscenze  faunistiche  adeguate  -  e   tuttora   mancanti   -   la
 disponibilita' delle quali non consentirebbe, ad ogni modo, una seria
 programmazione,  fino a tanto che chiunque possa chiedere ed ottenere
 la concessione gia'  menzionata.    Solo  per  inciso,  l'assenza  di
 siffatte  conoscenze  rivela  che  l'inclusione dell'una o dell'altra
 specie di selvatici nell'elenco di  quelle  cacciabili,  gia'  recato
 dall'art.  11,  secondo  comma, legge previgente, ed ora dall'art. 18
 della sopravvenuta, non  risponde  ad  alcuna  rigorosa  ponderazione
 scientifica  ne', tanto meno, di pubblico interesse: il che supera ed
 assorbe la questione di legittimita' del solo terzo  comma  dell'art.
 11  della  legge citata, esaminata, in una differente prospettazione,
 da codesta Corte (sentenza n. 278/1988).  Pare agevole concludere che
 ne' l'una ne' l'altra legge apprestano " .. una tutela del  paesaggio
 improntata  a  integrita'  e  globalita'  ..",  quale  ritenuta  " ..
 aderente al precetto dell'art. 9  della  Costituzione"  (sentenza  n.
 151/1986).    La  compromissione  degli  equilibri  ambientali, quale
 prevedibile effetto dell'una e dell'altra disciplina, e'  foriera  di
 risultati  nocivi alla salute dell'uomo, in quanto parte inscindibile
 dell'assetto della natura: la relativa, precisa prognosi si  presenta
 difficile  proprio  in  mancanza di cognizioni adeguate, la quale per
 se' dovrebbe indurre alla piu'  attenta  conservazione  di  tutto  il
 patrimonio    faunistico   esistente,   salvo   limitati   interventi
 riequilibratori.  E' certo, frattanto, che l'esercizio venatorio,  da
 parte  di un numero sempre piu' esteso di persone, comporta una grave
 limitazione delle possibilita' ricreative della maggioranza: la quale
 vede impedita, o grandemente limitata, la fruizione dell'ambiente, in
 termini di godimento delle componenti naturali, dal massiccio impiego
 di armi di notevole  potenzialita'  offensiva  (art.  9  della  legge
 abrogata  e  13  della  legge  vigente)  nelle  zone  del  territorio
 nazionale  non  urbanizzate,  e  percio'  aperte  al   soggiorno   ed
 intrattenimento   per   svago   o   riposo:   impiego  che,  prima  e
 indipendentemente dalla conseguenza dell'alterazione degli  equilibri
 naturali,  costituisce  attentato alla tranquillita' e alla serenita'
 degli  altri  utenti  dei  luoghi  meno antropizzati; e, per se solo,
 comprime il bene della salute, intesa non nel superato significato di
 assenza di stati patologici oggettivamente diagnosticabili, ma  nella
 moderna  dimensione  positiva  di  completo,  generale ed equilibrato
 benessere fisico e psichico. Questo bene richiede la preservazione  "
 ..  delle  condizioni indispensabili o anche soltanto propizie .."; e
 la sua difesa " .. puo' e deve avvenire  anche  indipendentemente  da
 ogni  intervento  dell'autorita'  amministrativa  e persino contro di
 essa" (Cass., sez. un., cit.).
    5.  -  La  descritta  disciplina  dell'abilitazione  all'esercizio
 venatorio  lede  il  diritto  alla  sicurezza, garantito dall'art. 5,
 primo comma,  della  convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
 dell'uomo,  adottata  a Roma il 4 novembre 1950, della quale e' stata
 autorizzata la ratifica con legge 4 agosto 1955, n. 848,  e  compreso
 nel novero di cui all'art. 2 della Costituzione. Non pare dubbio che,
 prevedendo  l'uso  di armi da fuoco, in luoghi pubblici e privati, da
 parte di una pluralita' indeterminata e,  di  fatto,  esorbitante  di
 persone  -  anche  prescindendo  dalle  negative implicazioni sociali
 della diffusione della detenzione e del porto relativi (cfr. art. 37,
 secondo comma, della legge vigente) - la normativa  sopravvenuta,  al
 pari   di   quella   precedente,   ponga  a  repentaglio  la  vita  e
 l'incolumita' dei terzi. Circa la pericolosita'  di  tale  esercizio,
 codesta   Corte   si   e'  ripetutamente  pronunciata,  giustificando
 l'accentuata pubblicizzazione del settore  (sentenza  n.  69/1962)  e
 l'onere   dell'assicurazione  (sentenza  n.  124/1969),  sicche'  non
 occorre diffondersi.    Rinviando  l'esame  del  valore  della  norma
 pattizia  nell'ordinamento interno, " .. non si tratta di dischiudere
 la sfera dell'art. 2 della Costituzione a situazioni  soggettive  che
 il  testo fondamentale manca di prevedere" (sentenza n. 132/1985). In
 realta',  "Nel  nostro  ordinamento  la   integrita'   personale   e'
 configurabile  come  fondamentale  diritto  dell'individuo",  con  la
 prescrizione del dovere della Repubblica di tutelarlo (cfr.  art.  32
 della   Costituzione),   nonche'   col   riconoscimento   della   sua
 "inviolabilita'"  ai  sensi  dell'art.  2  della  Costituzione  (cfr.
 sentenza   n.   132/1985)   (sentenza  n.  319/1989).  La  sicurezza,
 identificata nella integrita' della  persona,  riceve  protezione  da
 ulteriori  precetti  costituzionali,  quale l'art. 41, secondo comma,
 che ne annovera la lesione  fra  i  limiti  all'iniziativa  economica
 privata,  ai  quali  corrispondono  altrettanti  diritti fondamentali
 (ordinamento n. 105/1989).  Diversamente da taluna decisione di segno
 dubitativo (per es., sentenza n. 226/1983), il  riconoscimento  della
 inviolabilita' assicura una tutela costituzionale rafforzata rispetto
 ad  altre  situazioni  soggettive,  pur  esse  considerate  nel testo
 fondamentale:    "Il  trasparente  riferimento   all'art.   2   della
 Costituzione ..  esplicita ancor meglio peraltro sia il contenuto che
 il  tipo  della protezione" (Cass., sez. un., cit.). Percio', codesta
 Corte, pur riconoscendo l'utilita' sociale dell'iniziativa  economica
 connessa con il traffico aereo, concluse che la mancata copertura del
 ristoro integrale del danno alla persona " .. lede la garanzia eretta
 dall'art.  2 della Costituzione a presidio inviolabile della persona"
 (sentenza n. 132/1985).  Senonche', ricordando che la caccia " .. non
 e' piu' un mezzo per soddisfare necessita' alimentari, e  nemmeno  di
 regola  un'attivita' professionale, ma un puro esercizio sportivo .."
 (sentenza  n.      93/1973),   cosi'   da   esulare   dalla   nozione
 dell'iniziativa  economica:    e' lecito chiedersi se il contrasto di
 tale attivita' con l'utilita' sociale, e la sua attitudine  a  recare
 danno  alla  sicurezza,  siano neutralizzati dalla semplice copertura
 assicurativa,  oppure  debbano  condurre  al  radicale  divieto   del
 relativo  svolgimento,  in  ottemperanza  all'art. 41, secondo comma,
 della Costituzione.  Anche la congiunzione della tutela del paesaggio
 con quella  del  territorio,  per  un  verso,  e  di  questa  con  la
 protezione   della   salute   per  l'altro,  gia'  individuata  dalla
 Cassazione (sez. un., cit.; sez.  sesta pen., ordinanze 9 marzo  1977
 e  6 giugno 1977), e' stata affermata da codesta Corte: "La normativa
 impugnata,  invero,  proprio  per  l'estensione  e   la   correlativa
 intensita'  dell'intervento  protettivo  ..  introduce una tutela del
 paesaggio  improntata  a  integrita'  e  globalita',  vale   a   dire
 implicante   una   riconsiderazione  assidua  dell'intero  territorio
 nazionale alla luce e in attuazione  del  valore  estetico-culturale"
 (sentenza   n.  151/1986).  "L'ambiente  e'  protetto  come  elemento
 determinativo della  qualita'  della  vita.  La  sua  protezione  non
 persegue astratte finalita' naturalistiche o estetizzanti, ma esprime
 l'esigenza  di  un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e
 che e' necessario alla  collettivita'  e,  per  essa,  ai  cittadini,
 secondo  valori  largamento sentiti; e' imposta anzitutto la precetti
 costituzionali (artt. 9  e  32  della  Costituzione),  per  cui  esso
 assurge  a  valore  primario  ed  assoluto"  (sentenza  n. 641/1987).
 Essendo ricompreso nell'utilita' sociale  il  fine  di  tutela  delle
 bellezze  naturali  (sentenza  n.  9/1973), non assumono - da opposta
 angolazione  -  rilievo  costituzionale  le  conseguenze  che,  dalla
 soppressione  della  caccia,  possano  derivare  sulla  occupazione e
 sull'indotto,  segnatamente  legati  alla  fabbricazione  di  armi  e
 munizioni:  atteso  che  il  diritto  al  lavoro  non  identifica  un
 interesse, pure costituzionalmente  protetto,  all'intangibilita'  di
 ogni  situazione che sia presupposto della conservazione del posto di
 lavoro  (sentenze  nn.  45/1965,  194/1970,   174/1971   e   9/1973).
 Peraltro,  la  questione non e' prospettabile in riferimento limitato
 agli ambiti sottoposti a vincolo  nell'interesse  paesaggistico,  per
 effetto  di  provvedimenti  amministrativi  ovvero  dell'art. 1 della
 legge 8 agosto 1985, n. 431; sebbene, dal carattere di grande riforma
 economico-sociale   di   quest'ultima,   emerga    una    valutazione
 d'infondatezza  ancor  meno  manifesta  che  con riguardo al restante
 territorio nazionale. Ma i diritti  inviolabili  non  possono  venire
 confinati  a  detti  ambiti,  perche' spetta allo Stato il compito di
 dettare  le  norme  che  assicurino  l'uniformita'  delle  condizioni
 igieniche  e  le  garanzie di salute nell'intero territorio nazionale
 (sentenze nn. 305, 306 e 800 del 1988).
    6. - Le disposizioni impugnate non sembrano informate al principio
 di eguaglianza sostanziale dei cittadini, in quanto consentono ad una
 minoranza  -  sebbene   numerosa   -   selezionata   dalla   maggiore
 disponibilita'  finanziaria  (quale rivelano la destinazione di mezzi
 all'acquisto  degli  strumenti  di  caccia  ed   al   pagamento   dei
 corrispettivi  per  l'esercizio  di  questa  -  non  assimilabili  ad
 imposizioni tributarie in  senso  proprio:  sentenza  n.  148/1979  -
 nonche'  la  possibilita'  dei  dedicarvi  fino  a tre giornate della
 settimana lavorativa in periodo non feriale: art. 18,  quinto  comma,
 della  legge  vigente),  di  sottrarre  al  territorio,  in  vista di
 un'attivita' meramente lucida o asseritamente  sportiva,  le  risorse
 faunistiche,  con pregiudizio per l'interesse economico alla relativa
 gestione  da  parte  della  collettivita'.    Per  questa  via,  pare
 frustrata   l'aspettativa  della  rimozione  di  ostacoli  di  ordine
 economico  e  sociale,  che,  limitando  di  fatto  la   liberta'   e
 l'eguaglianza  dei  cittadini,  impediscono  il  pieno sviluppo della
 persona umana e l'effettiva  partecipazione  di  tutti  i  lavoratori
 all'organizzazione  economica e sociale del Paese: in una fase, quale
 la programmazione dell'uso delle risorse ambientali, certo  non  meno
 importante, ad esempio, della soddisfazione dell'esigenza di alloggio
 per i meno abbienti (esaminata da sentenza n. 193/1976).
    7.   -   Le   norme  in  discussione  paiono  ostacolare  -  lungi
 dall'assicurare - la promozione dello sviluppo della cultura e  della
 ricerca   scientifica   e  tecnica,  quale  compito  attribuito  alla
 Repubblica dal primo comma  dell'art.  9  della  Costituzione:  della
 cultura,  alla  quale appartiene la insopprimibile affermazione della
 tutela dell'ambiente, anche nella  dimensione  sovranazionale;  della
 ricerca  scientifica  che,  a  causa della caccia, vede rapidamente e
 inesorabilmente annientare uno degli oggetti non secondari: la  fauna
 selvatica.    E'  appena  il  caso di notare che non si discute della
 legittimita' del divieto - desumibile dall'art. 842, primo comma, del
 c.c. - di accedere a fondi di proprieta' privata anche non recintati,
 e pure per  svolgersi  attivita'  artistico  culturali  (sentenza  n.
 57/1976).    Con  la  ricerca  scientifica  sul  campo, legittimabile
 attraverso il consenso del proprietario del fondo, o compatibile  con
 l'uso   pubblico  dell'area,  entra  in  conflitto,  ostacolandola  o
 precludendola,  direttamente   la   pratica   venatoria:   in   prima
 approssimazione,  mediante  l'imponente disturbo recato ai selvatici;
 in seconda, e definitiva, rischiando di provocare  la  rarefazione  o
 l'estinzione di specie, dalle quali risulteranno falsati o impediti i
 risultati della ricerca.
    8. - In ragione dell'ammissione di un numero non predeterminato di
 soggetti   privati   all'esercizio   della  caccia,  le  disposizioni
 impugnate sono sospette di  non  conformare  l'ordinamento  giuridico
 alle  norme  di  diritto  internazionale  generalmente  riconosciute.
 Dichiarando l'ammissibilita' del referendum  abrogativo  di  numerose
 disposizioni  della  legge previgente, nonche' dell'art. 842, primo e
 secondo comma, del c.c., codesta Corte aveva gia'  fugato  il  dubbio
 che   l'eventuale   abrogazione  implicasse  violazione  di  obblighi
 internazionalmente  assunti;  chiarendo,  anzi,  che   la   richiesta
 referendaria  si  muoveva  nella  stessa  direzione  della  normativa
 internazionale e comunitaria (sentenza n. 63/1990). In tale decisione
 potrebbe, quindi, gia' rinvenirsi la  risposta  negativa  al  quesito
 della  compatibilita' della vigente legislazione in materia venatoria
 con norme recepite dall'art. 10, primo comma, della Costituzione.  E'
 pur vero che "l'art. 10,  primo  comma,  della  Costituzione  prevede
 l'adattamento automatico del nostro ordinamento solo per le norme del
 diritto  internazionale  consuetudinarie  materiali  ed esclude dalla
 sfera della sua applicazione i trattati .." (da  ult.,  sentenze  nn.
 323/1989   e   496/1991).   Nondimeno,   la  regola  della  immunita'
 dell'agente  diplomatico  dalla  giurisdizione  civile  dello   stato
 accreditatario,  e'  stata  riconosciuta  appartenere  al primo tipo,
 cosicche'  le  norme  pattizie,  che  pure   la   prevedono,   devono
 considerarsi    meramente    ricognitive   di   quella   generalmente
 riconosciuta (sentenza n. 48/1979).  Sembra, in  questa  prospettiva,
 non  appagante escludere dalla previsione del precetto costituzionale
 una determinata  regola,  perche'  -  o  solo  perche'  (sentenza  n.
 48/1967)  - recepita in uno o piu' trattati: senza verificare se, nei
 singoli casi, la funzione della norma pattizia sia ricognitiva di una
 regola  internazionale  consuetudinaria,  e  risponda  al   fine   di
 obbligare  alla  relativa  osservanza  gli  Stati  firmatari privi, a
 differenza  del  nostro,  di   una   previsione   costituzionale   di
 adattamento  automatico.  Per altro verso, il secondo comma dell'art.
 10, in forza del quale la condizione  giuridica  dello  straniero  e'
 regolata  dalla  legge  in  conformita'  delle  norme  e dei trattati
 internazionali, non pare rivelatore della volonta' del Costituente di
 sottrarre  il  legislatore  all'osservanza  delle  stesse   norme   e
 trattati,   in  sede  di  disciplina  dei  diritti  fondamentali  del
 cittadino.  Ove neppure presentassero  funzione  ricognitiva,  talune
 norme  pattizie  potrebbero  assumere il piu' limitato significato di
 regole costituenti espressione di civilta' giuridica,  accolte  negli
 ordinamenti  democratici  fondati sulla sovranita' popolare (sentenza
 n. 50/1989, in riferimento all'art. 6 della citata convenzione per la
 salvaguardia dei diritti dell'uomo);  ovvero  idonee  a  definire  il
 contenuto  e  la  tutela dei diritti inviolabili protetti dall'art. 2
 della Costituzione (sentenza n. 404/1988, in riferimento all'art.  25
 della  dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata a New
 York il 10 dicembre 1948).   Il  diritto  alla  sicurezza,  garantito
 dall'art.   5   della   ricordata   convenzione,  e,  peraltro,  gia'
 identificato nel fondamentale diritto  previsto  dall'art.  32  della
 Costituzione,  oltre che connotato dalla inviolabilita' (sentenze nn.
 132/1985 e 319/1989), segnatamente intesa  come  immunita'  ad  opera
 dell'iniziativa  economica  privata,  in  forza dell'art. 41, secondo
 comma, della Costituzione - che annovera diritti fondamentali  a  sua
 volta   (ordinanza   n.   105/1989)   -   proprio  dalle  convenzioni
 internazionali in materia di tutela dell'ambiente, attesa la  stretta
 interdipendenza  di questo valore con la salute, riceve significative
 definizioni di contenuto.
    Assumono particolare rilievo le seguenti enunciazioni:
      1) il patrimonio culturale e naturale va conservato (convenzione
 sulla  protezione  del  patrimonio  culturale  e  naturale  mondiale,
 firmata  a Parigi il 23 novembre 1972, dichiarata esecutiva con legge
 6 aprile 1977, n. 184, preambolo);
      2) la flora e la  fauna  selvatiche  costituiscono  un  elemento
 insostituibile  dei sistemi naturali (convenzione sulla conservazione
 delle specie migratorie appartenenti alla fauna selvatica, adottata a
 Bonn il 23 giugno 1979, dichiarata esecutiva  con  legge  25  gennaio
 1983,  n.  42,  preambolo;  convenzione  sul commercio internazionale
 delle specie animali e vegetali  in  via  di  estinzione,  firmata  a
 Washingtono  il  3  marzo  1973,  dichiarata  esecutiva  con legge 19
 dicembre 1975, n. 874, preambolo); e, di conseguenza,  vanno  a  loro
 conservate   (convenzione  relativa  alla  conservazione  della  vita
 selvatica e dell'ambiente naturale in Europa, adottata a Berna il  19
 settembre 1979, art. 1, primo comma, dichiarata esecutiva con legge 5
 agosto  1981,  n. 503; convenzione Washington, cit.); in particolare,
 tutti gli uccelli  devono,  in  linea  di  massima,  essere  protetti
 (convenzione per la protezione degli uccelli, adottata a Parigi il 18
 ottobre 1950, dichiarata esecutiva con legge 24 novembre 1978 n. 812,
 preambolo);  parallelamente,  gli  Stati membri della Cee adottano le
 misure  necessarie per instaurare un regime generale di protezione di
 tutte le specie di uccelli viventi allo  stato  selvatico  (direttiva
 Cee del Consiglio, n. 79.409 del 2 aprile 1979, art. 5);
     3)  in  funzione  della  conservazione, incombente in primo luogo
 allo Stato contraente, ma che richiede la cooperazione internazionale
 (convenzione di  Parigi  del  1972,  cit.,  art.  4),  devono  essere
 promossi programmi di informazione e di educazione, per rafforzare il
 rispetto  e  il  legame  dei  popoli  verso il patrimonio culturale e
 naturale (ivi, art. 27), nonche' per persuadere della  necessita'  di
 conservare  le  specie di flora e fauna selvatiche ed i loro habitats
 (convenzione di Berna, cit., art. 3);  in  particolare,  va  promossa
 l'educazione  dei  bambini  e  dell'opinione  pubblica per convicerli
 della necessita' di preservare e proteggere gli uccelli  (convenzione
 di Parigi del 1950, cit., art. 10).
    A   siffatte   regole   sono   sicuramente  rimaste  indifferenti,
 nell'impianto  generale  e  nelle  singole  disposizioni,  le   leggi
 commentate:  delle  quali la recentissima, pur affermando di recepire
 la citata direttiva e le  successive  in  materia,  nonche'  di  dare
 attuazione alle convenzioni di Parigi, da ult. cit., e di Berna (art.
 1,  quarto  comma),  non  instaura  affatto  un  regime  generale  di
 protezione  dell'avifauna,  ne',  tanto  meno,  introduce   programmi
 educativi  nei  sensi  indicati.    Seppure  estranee  all'ambito  di
 recepimento previsto dall'art. 10 della Costituzione, le dette regole
 contribuiscono a definire l'"oggetto minimo inderogabile" indicato da
 codesta Corte, appunto in riferimento alle convenzioni di Berna e  di
 Bonn,  "  ..  nella  consapevolezza  che  'flora  e  fauna  selvatica
 costituiscono un patrimonio naturale di valore estetico, scientifico,
 culturale, ricreativo, economico e intrinseco  che  va  preservato  e
 trasmesso alle generazioni future', dato 'il ruolo fondamentale della
 flora  e  della  fauna selvatiche per il mantenimento degli equilibri
 biologici'"  (sentenza  n.  1002/1988).      Si   ritiene,   percio',
 necessitato  l'esame  di compatibilita' delle norme impugnate, se non
 con il precetto di cui all'art. 10, ancora, e per altro profilo,  con
 il  principio della inviolabilita' del diritto alla salute, in quanto
 assicurato (fra l'altro)  dalla  tutela  del  patrimonio  faunistico,
 voluta dalle regole internazionali; cui non si oppongono disposizioni
 derogatorie,  contenute nelle convenzioni stesse le quali autorizzano
 addirittura  una  piu'  rigorosa  disciplina  (sentenza  n.  63/1990;
 direttiva Cee, cit., art. 14; convenzione Berna, art. 12; convenzione
 Bonn,  art. XII, terzo comma, convenzione Washington, art. XIV, primo
 comma).
    9. - Ricorre  il  dubbio  di  legittimita'  anche  in  riferimento
 all'art.  11  della  Costituzione.  La  protezione  ambientale  "  ..
 costituisce uno degli scopi essenziali  della  Comunita'"  (Corte  di
 giustizia Cee, sentenza 7 febbraio 1985, causa 240/43, Raccolta 1985,
 p.  539).  Inoltre,  gli  artt.  13OR,  13OS  e  13OT dell'Atto unico
 europeo, recante modifiche ai tre trattati istitutivi delle Comunita'
 europee, aperto alla firme a Lussemburgo il  17  febbraio  1986,  del
 quale e' stata autorizzata la ratifica con legge 23 dicembre 1986, n.
 909,  riguardano  -  come  nota  autorevole dottrina - specificamente
 l'ambiente considerato come  essenziale  componente  delle  politiche
 comunitarie, che va trattato in modo globale al fine di garantire uno
 sviluppo  armonico  dei  Paesi  membri.    Cio'  posto,  la  Corte di
 giustizia dichiaro' che alcune disposizioni della legge  n.  968/1977
 non  rispettavano  la  direttiva dianzi richiamata (sentenza 8 luglio
 1987, causa 262/85).  Ma  vengono  in  considerazione,  altresi',  le
 convenzioni  di  Washington, di Bonn e di Berna, negoziate in proprio
 dalla Cee, essendo stata la prima trasfusa nel reg. 3 dicembre  1982,
 n.  3626,  e le altre accolte nelle dec. 82/972 del 3 dicembre 1981 e
 827/461 del 24 giugno 1982, con  la  conseguente  entrata  in  vigore
 nelle  date  rispettive  del 31 dicembre 1979, 1› settembre 1982 e 1›
 novembre  1983.    A  seguito  del  loro  ingresso   nell'ordinamento
 comunitario,  vengono,  precipuamente,  in  considerazione l'allegato
 terzo della convenzione di Berna,  comprendente,  fra  le  specie  di
 uccelli  protette,  tutte quelle non contemplate nel secondo ("specie
 rigorosamente protette"), ad eccezione di sole  undici  espressamente
 indicate; l'art. 7, che impone alle parti contraenti di regolamentare
 lo  sfruttamento  di  dette  specie  in  modo da non compromettere la
 sopravvivenza; l'art.  2,  che  obbliga  all'adozione  delle  "misure
 necessarie  a  mantenere  o  portare  le presenza della flora e della
 fauna selvatiche ad un livello che corrisponda  in  particolare  alle
 esigenze  ecologiche,  scientifiche  e  culturali, tenuto conto delle
 esigenze economiche  e  ricreative  nonche'  delle  necessita'  delle
 sottospecie, varieta' o forme minacciate sul piano locale"; l'art. 8,
 che prescrive di vietare "il ricorso a mezzi non selettivi di cattura
 e  di uccisione, nonche' il ricorso a mezzi suscettibili di provocare
 localmente la scomparsa, o di compromettere  la  tranquillita'  degli
 esemplari  di  una data specie, e in particolare ai mezzi contemplati
 nell'allegato quarto".  L'art. II della convenzione di  Bonn  prevede
 l'impegno  ad  adottare, in relazione " .. alle specie migratrici che
 si trovano in stato di conservazione sfavorevole, .. singolarmente  o
 in cooperazione, le misure necessarie per la conservazione delle spe-
 cie  e  del  loro  habitat", e quelle " .. per evitare che una specie
 migratrice possa  divenire  una  specie  minacciata");  altresi',  lo
 sforzo " .. di concludere 'Accordi' sulla conservazione e la gestione
 delle  specie  migratrici  elencate  nell'allegato II". Tali accordi,
 secondo  l'art.    V,  quinto  comma,  lett.   j),   dovrebbero,   in
 particolare,  prevedere  "misure,  basate  su  principi ecologici ben
 fondati, miranti ad esercitare un'azione di controllo e gestione  dei
 prelievi effettuati sulla specie migratrice interessata". D'altronde,
 non trovano riscontro nella situazione nazionale " .. i fabbisogni di
 coloro  che  utilizzano .." una specie compresa nell'allegato I, " ..
 nel quadro di una economia tradizionale di sussistenza",  considerati
 nell'art.  III, quinto comma, lett. c).  E' poi vero che l'art. 7, n.
 1), della direttiva piu' volte citata consente che le specie elencate
 nell'allegato  II  siano  oggetto  di   caccia   nel   quadro   della
 legislazione  nazionale;  ma  impegna pure gli Stati membri a fare in
 modo che la caccia di queste specie  non  pregiudichi  le  azioni  di
 conservazione intraprese nella loro area di distribuzione; nonche' ad
 accertarsi  (n.  4)  che l'attivita' venatoria rispetti i principi di
 una  saggia  utilizzazione  e  di  una   regolazione   ecologicamente
 equilibrata  delle  specie di uccelli interessate, e sia compatibile,
 per quanto riguarda il contingente  numerico  delle  medesime  e,  in
 particolare,  delle  specie migratrici, con le disposizioni derivanti
 dall'art. 2.
    Sono misure,  impegni  e  principi  che,  seppure,  all'apparenza,
 considerati  in  taluna  delle  disposizioni delle leggi in commento,
 vengono  traditi  in  blocco  dal  criterio  del  numero  aperto   di
 cacciatori,  al  quale  sono  informate entrambe; e cio', soprattutto
 nella  perdurante  insufficienza  -  piu'  volte sottolineata - delle
 conoscenze faunistiche, e nell'assenza di dati di censimento  per  la
 quasi  totalita'  delle  specie cacciabili: situazione della quale il
 legislatore del 1992 si mostra consapevole, al punto da prevedere una
 sorta di moratoria, in vista dell'esercizio dell'attivita'  venatoria
 in  forma  programmata,  e  cosi' della piena attuazione della legge,
 nella stagione 1994-95 (art. 36, quinto comma) o  1995-96  (art.  14,
 sedicesimo  comma).  E'  certo, pero', che la programmazione seria di
 qualunque attivita' esige che sia definito, o almeno  preventivabile,
 il  numero  di coloro che saranno ammessi a praticarla, sia a livello
 nazionale che nei singoli ambiti territoriali.
    Solo di  passaggio,  la  nuova  legge  -  non  diversamente  dalla
 precedente - si pone anche per altri profili in vistoso contrasto con
 le norme comunitarie che dichiara di attuare: considerando cacciabili
 quarantasei specie di uccelli (art. 18), a fronte delle trentatre in-
 dicate,  per  l'Italia,  dall'allegato  II della direttiva 79.409; ed
 elencando,  dello  stesso  ordine,  come   particolarmente   protette
 settantasette  specie  (art.  2),  di contro alle centosettantacinque
 incluse nell'allegato I  della  stessa  direttiva,  come  sostituito,
 prima,  dalla direttiva della commissione 85.411 e, quindi, da quella
 91.244 dello stesso organo (si confronti la sentenza della Corte  Cee
 17  gennaio  1991,  causa C-334/89).   E' appena il caso di avvertire
 che,  fra  le  esigenze  ricreative,  richiamate  dall'art.  2  della
 convenzione  di  Berna,  e  -  in  un contesto pressocche' identico -
 dall'art. 2 della direttiva piu' volte citata, non e' annoverabile il
 puro e semplice esercizio della caccia: sia  perche'  la  seconda  di
 dette disposizioni non costituisce " .. una deroga autonoma al regime
 generale  di  protezione  .." (Corte di giustizia Cee, 8 luglio 1987,
 cit.); sia considerando che " .. la deroga deve basarsi su almeno uno
 dei motivi elencati in modo limitativo all'art. 9, n. 1, lettere  a),
 b),  e  c)  "  (idem),  fra  i  quali  non  e'  compresa  la generica
 "ricreazione", ne', specificamente, la caccia, bensi' il fine di " ..
 consentire in determinate condizioni e  sotto  stretto  controllo  la
 cattura, la detenzione e l'impiego misurato di determinati uccelli in
 piccole  quantita'"  (art.    cit., lett. c)). Tant'e' che il Governo
 italiano, nella ricordata causa, neppure addusse  la  giustificazione
 di  presunte  esigenze  ricreative,  ma  soltanto  della nocivita' di
 alcune  specie,  peraltro  ritenuta  infondata  dalla  Corte.    Alla
 prevedibile  obiezionie  che le direttive e le convenzioni commentate
 non  rechino  regole  puntuali,  contrastanti  con  le   disposizioni
 impugnate,   e'   dato   replicare   che  "  ..  anche  gli  obblighi
 internazionali dello Stato, per la cui operativita' e' necessario  il
 complemento  di una normazione interna, sono parametri di valutazione
 della legittimita' costituzionale delle leggi emanate  dalle  regioni
 nelle  materie in cui tali obblighi incidono" (sentenze nn. 124/1990,
 30/1959, 49/1963, 21/1968 e 182/1976): e, dunque, delle stesse  leggi
 quadro  nazionali,  particolarmente  in  quanto  assunti  nell'ordine
 comunitario e concorrenti a definire  l'oggetto  minimo  inderogabile
 piu' volte richiamato.
    Viene in considerazione il potere dovere del giudice di assicurare
 la  piena  e  continua  osservanza  dei regolamenti comunitari, senza
 tenere  conto  delle  leggi  nazionali,   anteriori   o   successive,
 eventualmente   confliggenti  (sentenze  nn.  47  e  48  del  1985  e
 170/1984);  e lo stesso principio vale per le sentenze interpretative
 della Corte di giustizia  (sentenza  n.  113/1985),  ovvero  rese  in
 giudizio   di   condanna  (sentenza  n.  389/1989),  nonche'  per  le
 direttive, nei rapporti fra gli Stati  membri  e  i  privati,  quando
 contengano  disposizioni  precettive (sentenza n. 182/1976). La Corte
 della Cee ha chiarito  che  le  direttive  possono  essere  utilmente
 invocate  dai  privati  a  sostegno  di  pretese,  quando il relativo
 contenuto  si  presenti  incondizionato  e  sufficientemente  preciso
 (sentenza  26  febbraio  1986, causa 152/84; 22 settembre 1983, causa
 271/82; 19 gennaio 1982, causa 8/81); ben potendo, allo scopo, essere
 fatte valere quelle disposizioni che, tenuto conto del loro specifico
 oggetto, sono atte ad essere isolate dal contesto ed  applicate  come
 tali  (19 gennaio 1982, cit.), pure nel caso che siano state recepite
 in modo inadeguato, con conseguente obbligo dell'a.g. e della p.a. di
 disapplicare  le  norme  interne  (sentenza  22  giugno  1989,  causa
 103/88).   L'ultimo   principio,  in  riferimento  alle  disposizioni
 comunitarie aventi efficacia  diretta,  e'  stato  accolto  anche  da
 codesta  Corte  (sentenza  n.  389/1989); la quale aveva, d'altronde,
 chiarito che la responsabilita' dello Stato per l'adempimento di  una
 direttiva   "  ..  molto  specifica  e  dettagliata,  in  gran  parte
 precettiva ..", ne  giustifica  l'interesse  "  ..  all'emanazione  e
 all'attuazione delle norme di diritto interno onde la operativita' di
 uno   dei  limiti  all'autonomia  delle  regioni  e  delle  province"
 (sentenza n. 210/1987).
    Senonche', la Corte di giustizia ha avvertito  che  una  direttiva
 non puo' creare obblighi a carico di un singolo, ne' nei confronti di
 altri  privati  ne',  a maggior ragione, nei confronti dello Stato; e
 neppure puo' avere l'efficacia, di per se' e indipendentemente da una
 legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione,  di
 determinare  o  di  aggravare la responsabilita' penale di coloro che
 agiscono in violazione delle sue  disposizioni  (sentenza  11  giugno
 1987,  causa  14/86);  ma  la  Corte  stessa,  d'altra  parte, non e'
 competente, nell'ambito dell'applicazione dell'art. 177 del  trattato
 Cee,  a  statuire  sulla compatibilita' di una disposizione nazionale
 con il diritto comunitario (sezione terza, 22 settembre  1988,  causa
 228/87; 26 febbraio 1986, cit.).
    Attesa    l'incidenza    della   direttiva   nella   sfera   della
 perseguibilita' penale,  non  resterebbe  al  giudice  nazionale  che
 prendere   atto   dell'irriducibile   contrasto   delle  disposizioni
 sufficientemente precise, in essa contenute, con norme  interne,  non
 disponendo del potere di investire del quesito la Corte di giustizia:
 se  non  soccorresse,  nell'ordinamento  italiano,  l'intervento  del
 giudice delle leggi, non cotrastato ed anzi necessitato dall'art.  11
 della  Costituzione,  per sopperire all'inadempienza del legislatore,
 mediante una pronuncia che assicuri l'attuazione  delle  disposizioni
 suddette.    Per inciso, anche la disapplicazione di norme nazionali,
 in presenza di  disposizioni  comunitarie  direttamente  applicabili,
 lascia  salva  "  ..  l'esigenza  che  gli  Stati membri apportino le
 necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al
 fine di depurarlo da eventuali incompatibilita' o disarmonie  con  le
 prevalenti  norme  comunitarie" (sentenza n. 389/1989).  L'intervento
 di codesta Corte e' reso tanto piu'  pressante  dal  rilievo  che  le
 direttive in materia di protezione della fauna selvatica non figurano
 negli  elenchi  allegati alle leggi 9 febbraio 1982, n. 42, 16 aprile
 1987, n. 183, 29 dicembre 1990, n. 428 e 19 febbraio 1992, n. 142,  e
 percio'  non sono comprese tra quelle di cui e' prevista l'attuazione
 nell'ordinamento interno; mentre, per le ragioni esposte, la  recente
 legge, recante le disposizioni impugnate, nonostante la dichiarazione
 d'intenti  contenuta nell'art. 1, quarto comma, contraddice, piu' che
 assicurare,  ancorche'  in  modo  inadeguato,  il  recepimento  delle
 direttive  ricordate.  A tale risultato non si rinvengono ostacoli di
 principio.   All'ingresso delle regole  comunitarie  nella  normativa
 sulla  caccia, non si oppone la riserva di legge (statale) in materia
 penale.  Difatti, con il venir meno del regime della concessione  per
 l'esercizio  della  caccia  da  parte  di  privati,  ovvero  con  una
 pronuncia  che  dichiari  l'illegittimita'  del  numero  aperto   dei
 cacciatori,   riprenderebbe   la   massima  estensione  il  principio
 dell'appartenenza della fauna selvatica al  patrimonio  indisponibile
 dello  Stato,  dal  quale  la giurisprudenza prevalente della suprema
 Corte  deduce  la  configurabilita'  della  fattispecie  del   furto:
 indirizzo  al quale il pretore, confortato da codesta Corte (sentenza
 n. 97/1987), incondizionatamente aderisce.  Continuerebbe, cioe',  ad
 applicarsi,  nei  confronti  dell'agente  privo  di  concessione o di
 abilitazione  regionale,  un  precetto  penale   gia'   esistente   e
 compiutamente  delineato  nel  diritto  comune:  non  diversamente da
 quanto avveniva, in forza dell'art. 11,  ultimo  comma,  della  legge
 abrogata,  per effetto di modifiche, riduttive dell'elenco delle spe-
 cie cacciabili, apportate con decreto governativo; mentre l'esercizio
 del potere previsto dall'art. 18,  terzo  comma,  della  nuova  legge
 provoca l'estensione del precetto introdotto dall'art.  30, lett. h),
 di questa; parallelamente, la sfera di punibilita' per il primo reato
 poteva  venire  ampliata  mediante  provvedimento  regionale, in base
 all'art.  12,  primo  comma,  della  legge  previgente   (in   quanto
 giustificato  solo  "  ..  nel  senso  di  un  rafforzamento del fine
 protezionistico ..": sentenza n. 1002/1988), e  quella  del  secondo,
 attualmente,  per  effetto  della  previsione contenuta nell'art. 19,
 primo comma, della legge in vigore;  cosi'  come  puo'  avvenire,  in
 altri  settori normativi, con legge regionale (sentenza n. 210/1972).
 Una eventuale pronuncia di  accoglimento  non  esula  dai  poteri  di
 codesta  Corte  (sentenze nn. 140/1983 e 124/1990), come ricordato in
 tema di rilevanza.
    10. - Considerando  che  le  direttive  comunitarie  di  contenuto
 puntuale  e  incondizionato  possono  farsi valere giudizialmente dal
 privato, ove la pubblica amministrazione si sottragga  al  dovere  di
 disapplicare  le  norme  interne  confliggenti  (Corte  della Cee, 22
 giugno 1989; Corte costituzionale, sentenza n. 389/1989);  e  che  le
 direttive  in  materia  hanno  inteso  ampliare la tutela dei cennati
 valori primari, la quale dall'ordinamento interno e'  stata  affidata
 allo  Stato,  conferendogli la legittimazione ad agire per il ristoro
 del danno ambientale (art. 18 della legge 8  luglio  1986,  n.  349):
 deriva  l'indebita  compressione  del  potere  di  agire in giudizio,
 riconosciuto   allo   Stato    amministrazione,    dal    prospettato
 inadempimento  dell'obbligo di attuare le regole comunitarie da parte
 dello Stato legislazione; e cosi', la  sospetta  lesione  sia  -  per
 ulteriore profilo - dei precetti corrispondenti a tali valori, sia di
 quello  dettato  dall'art.  24,  primo comma, della Costituzione.  Si
 realizza una situazione inversa, ma parallela, a quella che  comporta
 l'intervento   di   codesta  Corte,  secondo  la  sua  giurisprudenza
 (sentenza n. 183/1973): in luogo dell'accertamento  della  perdurante
 compatibilita'  del trattato di Roma con i diritti inalienabili della
 persona, questi ultimi  vengono  posti  in  discussione  dal  mancato
 adeguamento   dell'ordinamento   interno  a  regole  comunitarie  che
 tutelano valori primari, identificabili nel  diritto  alla  salute  e
 alla  sicurezza,  spettante  al  singolo, e nella pretesa alla tutela
 dell'ambiente,  attribuita  allo   Stato;   cosi'   da   impedire   o
 pregiudicare  la  perdurante  osservanza  del  sistema  o  del nucleo
 essenziale dei principi contenuti nel trattato,  come  puo'  avvenire
 per  effetto  di  statuizioni  della  legge  statale  a  cio' dirette
 (sentenza n. 170/1984).
    11. - Le ricordate regole internazionali e comunitarie  aderiscono
 a principi costituzionali ulteriori, contenuti nel commentato art. 9,
 primo  comma (promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca
 scientifica), negli artt. 33, primo comma, e 30,  primo  comma.    La
 liberta' della scienza e del relativo insegnamento si risolverebbe in
 una lustra, se l'ordinamento non conducesse ad effettivita' la tutela
 dei  rispettivi  campi  di  attivita':  e,  quindi, essenzialmente la
 protezione  della  natura,  quale   oggetto   basilare   dell'uno   e
 dell'altro. Si e' gia' osservato quanto la caccia ostacoli la ricerca
 scientifica,  sia  nei possibili risultati, attraverso la progressiva
 rarefazione,  fino  alla  paventata  estinzione,  di  specie,  e   la
 conseguente   compromissione   di   equilibri  ecologici,  altrimenti
 suscettibili di venire chiariti; sia  nella  fase  dello  studio  sul
 campo,  posto  che  il  disturbo  recato dal cacciatore alla fauna e'
 d'intralcio  al  ricercatore,  il  quale  sia  munito,  a  differenza
 dell'altro,   e  in  stretta  osservanza  della  garanzia  assicurata
 dall'art. 42, secondo comma, della  Costituzione,  del  consenso  del
 proprietario  per  l'ingresso  in fondi non chiusi nei modi stabiliti
 dalla legge sulla caccia.
    12. - L'attivita' venatoria e' sospetta di ostacolare il diritto e
 il dovere di educazione  dei  figli,  previsti  dall'art.  30,  primo
 comma,  della  Costituzione. Se si conviene che l'educazione non puo'
 volgersi ad impartire principi e insegnamenti  di  qualsiasi  genere,
 bensi'  soltanto quelli che sono condivisi o, almeno, non contrastati
 in  un  certo  momento  storico  dalla  collettivita'  nazionale   ed
 internazionale  (perche', altrimenti, si risolverebbe in un'attivita'
 antisociale e nella violazione stessa di quel dovere); e' giuocoforza
 constatare che la caccia si pone in  conflitto  con  alcuni  di  quei
 principi   generalmente   condivisi,   recando  l'implicito,  ma  non
 equivocabile, insegnamento che - non per necessita' alimentare  o  di
 altra  natura,  ma  -  per  sport,  per  gioco o per "ricreazione" e'
 lecito, quando non meritorio, uccidere esseri  viventi.    La  regola
 opposta,  cui  l'educazione  si  ispira, emergera' dal commento delle
 disposizioni in materia di protezione degli animali.
    13. - La caccia, che non  costituisce  esercizio  del  diritto  di
 proprieta',  ne' espressione di facolta' in questo comprese (sentenze
 nn.  59/1965  e  153/1971),  e  neppure  di  un  differente   diritto
 soggettivo  (sentenza  n.  212/1972),  tanto meno, costituzionalmente
 garantito  (sentenze  nn.   50/1967,   93/1973   e   219/1974),   non
 qualificabile  esattamente  come  liberta' (sentenza n. 148/1979), in
 difetto di una riserva di legge in materia  (sentenza  n.  134/1963),
 identifica  un'attivita'  che  e'  lecita  sol perche' il legislatore
 ordinario non reputa di vietarla.  Sembra, percio', corretto desumere
 un  ulteriore  parametro  di  legittimita'  dalla  considerazione che
 neppure un diritto  soggettivo  costituzionalmente  garantito,  quale
 quello  di  proprieta'  privata,  puo'  essere regolamentato senza la
 previsione di limiti, che ne assicurino la funzione sociale (art. 42,
 secondo comma, della Costituzione). La stessa funzione  sociale  pare
 criterio  idoneo  a  discernere  le  attivita', ricadenti nell'ambito
 delle generiche liberta' individuali,  che  possono  dal  legislatore
 venire  consentite, da quelle che viceversa vanno vietate in vista di
 valori costituzionali, riassumibili  nel  superiore  interesse  della
 collettiva.  Il pretore prospetta l'ipotesi che l'esercizio venatorio
 non solo sia privo di qualunque funzione sociale; ma, addirittura, si
 ponga  in  contrasto  con  gli obiettivi perseguibili da una societa'
 moderna.   Ripudiate da  codesta  Corte  le  vetuste  giustificazioni
 giusnaturalistiche   del   diritto  civico  di  caccia  (sentenza  n.
 93/1973), tale attivita'  non  puo'  neppure  riguardarsi  come  puro
 esercizio  sportivo.    Codesta Corte dubito', incidentalmente, della
 legittimita'  costituzionale  di  un  ente   pubblico   a   struttura
 associativa,  come  la Feredazione italiana della caccia, soprattutto
 in  considerazione  che  essa  -  sebbene  munita   di   personalita'
 giuridica,  a  differenza di altre federazioni appartenenti al Coni -
 non svolgeva attivita' agonistica, demandata invece alle  Federazioni
 del  tiro a segno e del tiro a volo, la quale, a differenza di quella
 solo  sportiva,   avrebbe   potuto   giustificare   l'obbligatorieta'
 dell'iscrizione   (sentenza  n.    69/1962).    Ma,  riconosciuta  la
 legittimita', per un verso, della perdita - disposta  con  d.P.R.  23
 dicembre  1978  -  della  personalita'  giuridica di diritto di detta
 Federazione, ormai priva della titolarita' di funzioni  pubbliche  in
 relazione  al d.m. 22 dicembre 1978 (T.a.r.  Lazio, sezione prima, 1›
 ottobre 1986, n. 1376); e, per l'altro, delle disposizioni  di  legge
 regionale  che  hanno  stabilito un divieto di carattere generale per
 l'attivita'  di  tiro  a  volo  su  ogni  specie  di  animali   vivi,
 assimilabile  "  ..  a quella venatoria in senso proprio, cui risulta
 altresi'   solitamente   collegata   in   funzione   propedeutica   o
 strumentale" (sentenza n. 578/1990): e' rivelato estraneo alla caccia
 sia  un  ruolo agonistico, perche' puo' non esserne lecita, in ambito
 regionale, l'attivita' propedeutica suddetta; sia meramente sportivo,
 alle  cui  peculiari  doti  della  lealta',  dell'impegno  fisico  ed
 intellettuale,  del  rispetto e della parita' con il competitore, del
 rispetto  dell'ambiente  ove  la  competizione  si  svolge,   ripugna
 l'uccisione di esseri viventi con mezzi tecnologici soverchianti.
    14.  -  Pur essendo stata vagliata da codesta Corte l'assenza, per
 la caccia, di  garanzie  costituzionali,  in  particolare  di  quella
 assicurata  all'iniziativa  economica privata - essendo attivita' non
 qualificabile, almeno di regola, professionale (sentenza n.  93/1973)
 -  non  viene  meno  -  ed anzi, risulta valorizzata - l'esigenza del
 confronto con i limiti stabiliti dall'art. 41,  secondo  comma  della
 Costituzione:  dei quali, essendo gia' stati prospettati il contrasto
 con l'utilita'  sociale  e  il  danno  per  la  sicurezza,  resta  da
 esaminare  il  pregiudizio  alla  dignita'  umana. Con il rispetto di
 quest'ultimo valore, oltre  a  ritenere  contrastanti  attivita'  che
 comportino  umiliazione  o  sfruttamento  dei lavoratori (sentenza n.
 78/1958), codesta Corte ha reputato non del tutto  compatibili  "  ..
 situazioni  o  comportamenti (perdita di tempo e di denaro, dedizione
 all'ozio,  vita in comune con persone disponibili anche per attivita'
 moralmente e socialmente riprovevoli, ecc.) ..", suscettibili di " ..
 determinare o comunque agevolare tendenze antisociali"  (sentenza  n.
 8/1970).    Si crede appartenere alla dignita' umana il sentimento di
 riprovazione per l'uccisione  o  la  sofferenza  inflitta,  per  puro
 divertimento e, dunque, in assenza di necessita', ad esseri provvisti
 di  sensibilita':  comportamenti  che, oltre a costituire indici - in
 taluni casi - di abitudini dissipate, paiono, ad ogni modo, idonei  a
 determinare   od   agevolare   tendenze   antisociali   di  soggetti,
 soprattutto in giovane eta', non sufficientemente maturi.  In  simile
 prospettiva,  il  cennato  valore costituzionale si rivela tutt'altro
 che estraneo agli ideali ed ai principi che costituiscono il  "comune
 patrimonio"  dei  membri  del  Consiglio  d'Europa,  "  ..  mossi dal
 desiderio di evitare, per  quanto  possibile,  ogni  sofferenza  agli
 animali  trasportati"  (preambolo  della  convenzione  europea  sulla
 protezione degli animali nei  trasporti  internazionali,  adottata  a
 Parigi  il 13 dicembre 1968, resa esecutiva con legge 12 aprile 1973,
 n. 222, ed alla quale la  Cee  e'  stata  abilitata  ad  aderire  con
 protocollo addizionale approvato a Strasburgo il 10 maggio 1979, reso
 esecutivo  con  legge  28  aprile 1982, n. 244).  In attuazione della
 direttiva Cee n. 77.489 del 18 luglio 1977, concernente la protezione
 degli animali nei  trasporti  internazionali,  e  nell'esercizio  dei
 poteri  delegati  con  la  legge  n. 42/1982 cit., il d.P.R. 5 giugno
 1982,  n.  624  ha  dettato  norme  dirette  a  proteggere  da  gravi
 pregiudizi  lo  stato  di  benessere  degli  animali  (art.  5),  e a
 risparmiare o ridurre al minimo qualsiasi sofferenza  di  essi  (art.
 6),  anche - per quanto rileva ai fini che ne occupano - in relazione
 a specie non domestiche (cap. IV dell'allegato). La citata  direttiva
 e' stata sostituita da quella del consiglio n. 91/628 del 19 novembre
 1991,  analogamente  ispirata  allo  scopo  di  evitare agli animali,
 durante  il  trasporto,   "sofferenze   inutili"   o   "indebite"   o
 maltrattamenti,  e ad assicurarne il benessere.  Con legge 14 ottobre
 1985, n. 263 sono state rese esecutive le convenzioni  europee  sulla
 protezione  degli  animali negli allevamenti e sulla protezione degli
 animali da macello, adottate a Strasburgo nelle date  rispettive  del
 10  marzo  1976 e 10 maggio 1979: della prima, mirando gli art. 4 e 6
 ad evitare  all'animale  sofferente  o  danni  inutili,  e  l'art.  7
 all'adozione  di  misure  temporanee  necessarie  per  preservare  il
 benessere degli animali; della seconda, essendo gli artt. 4, 13, 16 e
 17 analogamente ispirati al fine  di  impedire  dolori  o  sofferenze
 evitabili,   ed  escludendo  l'art.  2,  secondo  comma,  che  alcuna
 disposizione  della  convenzione  limiti  la  facolta'  delle   parti
 contraenti  di adottare misure piu' severe che mirino alla protezione
 degli animali.    Anche  la  prima  di  dette  convenzioni  e'  stata
 approvata,  con dec.   78/923, dalla CEE, che ha emanato le direttive
 91/629 e 91/630  del  19  novembre  1991,  recanti  norme  minime  da
 rispettare negli allevamenti intensivi di talune specie.
    Nel  settore venatorio, il Consiglio della CEE ha adottato il reg.
 n. 3254/91 del 4 novembre 1991, che prevede il  divieto  dell'uso  di
 tagliole, in relazione allo sviluppo di metodi di cattura non crudeli
 mediante trappole.
    Il  legislatore  nazionale  ha,  di  recente,  riconosciuto che la
 promozione e la disciplina della tutela degli animali  di  affezione,
 la   condanna   degli   atti   di   crudelta'  contro  di  essi,  dei
 maltrattamenti e del loro abbandono, rispondono al fine  di  favorire
 la  corretta  convivenza  tra  uomo e animale e di tutelare la salute
 pubblica e l'ambiente (art. 1 della legge 14 agosto 1991, n. 281);  e
 ha  dettato  norme  di  protezione che si aggiungono a quelle, pur di
 vario inserimento, connotate da  finalita'  analoghe  (art.  727  del
 c.p.;  1 e 9 della legge 12 giugno 1913, n. 611; 1, 2 e 3 della legge
 12 giugno 1931, n. 924; 70 del testo unico di  p.s.;  129  regol.  di
 p.s.; 9 r.d. 20 dicembre 1928, n. 3298).
    L'art.  6  della  legge  7 febbraio 1992, n. 150, ha introdotto il
 divieto di detenere e commerciare esemplari di specie, fra le  altre,
 che  subiscono  un  elevato tasso di mortalita' durante il trasporo o
 durante la cattura nei luoghi di origine.
    Infine, il d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 116, emanato  in  attuazione
 della  direttiva  del  consiglio  CEE 86/609 del 24 novembre 1986, in
 base alla delega conferita con legge  n.  428/1990  cit.,  detta,  in
 materia  di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o
 ad altri fini scientifici, una disciplina complessivamente mirante  a
 limitare  rigorosamente  gli  esperimenti stessi (art. 4), nonche' ad
 evitare che questi cagionino angoscia e sofferenza o  dolore  inutili
 agli  animali  (artt.  6,  9  e 12), e che siano ripetuti inutilmente
 (art. 16); abrogando  la  citata  legge  n.  924/1931,  ad  eccezione
 dell'art. 1, primo e terzo comma (art. 20).
    Anche se non si ritenga di aderire all'autorevole tesi (Cass. sez.
 terza  pen.,  14  marzo  1990,  Foro it. 1990, II, 478), per la quale
 l'ordinamento " ... tutela gli  animali  in  quanto  autonomi  esseri
 viventi, dotati di sensibilita' psico-fisica e capaci di reagire agli
 stimoli   del  dolore,  ove  essi  superino  una  soglia  di  normale
 tollerabilita'", in luogo dell'opinione tradizionale  che  identifica
 l'oggetto  della  tutela,  apprestata  dall'ar.  727  del  c.p.,  nel
 sentimento di pieta' dell'uomo verso l'animale; sembra  arduo  negare
 che, dalle richiamate convenzioni, norme comunitarie e nazionali, sia
 ricavabile il principio del doveroso risparmio di ogni inutile dolore
 o sofferenza agli esseri senzienti.
    Tali  disposizioni,  seppure non fossero ricognitive di una regola
 appartenente alla categoria indicata nell'art. 10, primo comma  della
 Costituzione, immedesimano - se sono corrette le notazioni precedenti
 (n.  8)  -  criteri idonei a definire precetti costituzionali, sia in
 relazione al contenuto e alla tutela di diritti inviolabili (sentenza
 n. 404/1988); che alla portata di regole costituenti  espressione  di
 civilta'  giuridica  (sentenze  n.  212/1986 e 50/1989); che, infine,
 alla individuazione di principi generali  dell'ordinamento  giuridico
 (sentenza  n.  103/1989);  in  quanto  valgono  a determinare, per un
 verso, il contenuto della dignita' umana, quale diritto  fondamentale
 (ordinanza  n.  105/1989)  e limite imposto all'iniziativa economica;
 per l'altro, del diritto alla salute -  salvaguardato  (anche)  dalla
 tutela degli animali (art. 1 della legge n. 281/1991) - e, da ultimo,
 della  stessa  caccia,  "  ..  congiuntamente diretta alla protezione
 dell'ambiente  naturale  e  di  ogni  forma  di  vita,  a  cui  viene
 subordinata  qualsiasi attivita' sportiva" (sentenza n. 63/1990).  La
 liberta' di caccia,  configurata  nella  disciplina  vigente,  ed  in
 quella   abrogata  come  attivita'  esercitabile  ad  iniziativa  del
 privato,  non  necessitata  ed  anzi  in  potenziale  contrasto   con
 l'utilita'    collettiva,   non   pare   conciliabile   -   prima   e
 indipendentemente dall'esistenza di un numero  chiuso  delle  persone
 abilitate a praticarla - con i cennati principi.
    15.  -  Le valutazioni esposte autorizzano a prospettare il dubbio
 di legittimita' delle disposizioni impugnate anche in riferimento  al
 primo  comma  dell'art.  3  della Costituzione. Se finanche attivita'
 utili o  necessarie  -  riconducibili  effettivamente  all'iniziativa
 economica  -  quali  il trasporto, l'allevamento e la macellazione di
 animali, sono sottoposte a rigorose disposizioni,  volte  ad  evitare
 inutili   dolori   o  sofferenze  agli  animali;  se  la  vivisezine,
 considerata - a torto o a ragione - utile se  non  indispensabile  al
 progresso  della ricerca scientifica s'imbatte in limitazioni dettate
 dal legislatore comunitario e da quello nazionale, soggiacendo alcune
 delle rispettive violazioni a sanzione penale (art. 3, quinto  comma;
 4,  terzo,  ottavo  e  decimo  comma;  14, primo comma, del d.lgs. n.
 116/1992): non e' dato intuire i motivi - necessari per dare  riprova
 della   razionalita'   del  sistema  normativo  complessivo  -  della
 impunita' di analoghi,  se  non  piu'  gravi,  atti  di  crudelta'  o
 sevizie,  sistematicamente compiuti nell'esercizio venatorio, perche'
 intrinsechi e connaturati alle  sue  stesse  modalita':  l'estenuante
 inseguimento dei selvatici, la cattura od uccisione con l'ausilio dei
 cani,  la  lunga agonia che segue alla cattura mediante reti o simili
 strumenti di uccellagione,  ovvero  con  l'impiego  di  trappole,  il
 ferimento,   specie   quando   non   seguito   dall'apprensione   ne'
 dall'uccisione.    In  buona  sostanza,  le   dispozioni   impugnate,
 disciplinando  il  rilascio  dei titoli di licenza, o concessione, al
 detto  esercizio,  fungono  da  discriminante  della  responsabilita'
 penale   per   atti  altrimenti  passibili  delle  sanzioni  previste
 dall'art. 727 del c.p.  Accertata la disparita'  di  trattamento,  il
 pretore,  in  sede  di  doverosa  deliberazione  della  questione, ha
 indagato se la stessa trovi una razionale  giustificazione  (sentenza
 n.  103/1976);  ma  con  esito  negativo.  Infatti,  la  non completa
 omogeneita' delle situazioni poste a confronto, lungi  dal  dissipare
 il  dubbio  di  legittimita', lo alimenta.  Posto che sono le cennate
 attivita' di trasporto,  allevamento  e  macellazione  di  animali  a
 rivestire  indubbia  utilita' sociale, l'esenzione da responsabilita'
 penale  per  atti  di  crudelta'   potrebbe   trovare   una   qualche
 giustificazione - pur non condividibile - in relazione ad esse; e non
 certo  alla  caccia  la  quale,  con  riguardo  ai  valori e precetti
 commentati, sembra presentare unicamente profili di disvalore.  Resta
 da valutare se l'impunita' del cacciatore per il compimento  di  atti
 di  crudelta',  discenda  dall'esimente  prevista dall'art. 51, primo
 comma,  del  c.p.,  e  quindi,  sia  riconducibile  ad  un  principio
 fondamentale   dell'ordinamento   giuridico;)   ma,   essendo   stata
 ripetutamente esclusa da codesta Corte la ricognizione di un  diritto
 soggettivo  di  caccia,  si  rivela  insostenibile,  anche per questo
 profilo, la ragionevolezza della disparita'.  Ed anche se mancasse il
 raffronto con  situazioni  omogenee,  la  prospettata  diversita'  di
 trattamento   merita  attenzione  alla  stregua  della  piu'  recente
 giurisprudenza di codesta Corte, che - autorevolmente si osserva -  a
 di   la'   di  una  concezione  meramente  formale  del  giudizio  di
 eguaglianza, fa riferimento alla "non irragionevolezza" delle  scelte
 legislative,  intesa  nel  senso  di  un  "equo  bilanciamento  degli
 interessi contrapposti" (sentenza n.  468/1990), o al  "principio  di
 razionalita'"  del  legislatore  (sentenze nn. 32, 155, 314 e 341 del
 1990), non conseguente, nemmeno, indirettamene,  ad  un  comparazione
 tra discipline diverse.
    16.  -  L'esercizio  venatorio  esclusivamente sportivo - ove tale
 possa definirsi quello non giustificato da esigenze collettive - reso
 possibile dalla disciplina  della  licenza  o  concessione,  comporta
 obblighi  e  vincoli che non sembrano rientrare fra quelli imponibili
 in attuazione dell'art. 44, primo comma, della Costituzione,  perche'
 non  giustificati  dal  fine  di stabilire equi rapporti sociali; ne'
 conciliabili  con  l'impegno  di  aiutare  la  piccola  e  la   media
 proprieta'; rappresentando la caccia un elemento di rottura di quegli
 equilibri  sui  quali  lo  sfruttamento  della  terra  si  fonda, per
 condurre ad utili risultati produttivi.
    17. - Conseguenziale e' la  denuncia  di  costituzionalita'  delle
 disposizioni  in  commento,  per  violazione  dell'art.  101, secondo
 comma, della Costituzione; se queste sono illegittime in  riferimento
 ai  parametri  prima  indicati,  lo  sono,  per ragione piu' forte, i
 provvedimenti amministrativi di licenza, concessione  o  abilitazione
 regionale  rilasciati  in  attuazione  di  esse:  dai  quali  ultimi,
 mediatamente,  risulterebbe  vulnerata  l'indipendenza  del  giudice,
 intesa  nel  significato  di  soggezione soltando alla legge e, ancor
 prima, ai precetti costituzionali (sentenza n. 18/1989).
    18.  -  Non  puo'  sfuggire  la  parziale   coincidenza   tra   le
 disposizioni  impugnate  e  quelle  oggetto  di recente consultazione
 referendaria. Ebbene, decidendo  dell'ammissibilita'  della  proposta
 abrogativa,  codesta  Corte  ha gia' chiarito che il venir meno delle
 norme  in  questione  non  era  suscettibile  di  ledere  l'autonomia
 regionale;  in  particolare,  rilevando  che  " .. su alcune forme di
 caccia,  intesa  in  senso  tradizionale,  la  potesta'   legislativa
 regionale sopravviverebbe comunque (ad es. in materia di caccia detta
 'di  selezione'  e  di  quella  ai c.d. 'ungulati') .."; e neppure ha
 ravvisato il limite costituito dal divieto di  abrogazione  di  leggi
 tributarie (sentenza n. 63/1990).  Va, comunque, ribadito che " .. il
 rispetto  degli  obblighi  internazionali  dello  Stato  e',  per  la
 competenza regionale, un limite  indefettibile,  pur  se  il  singolo
 statuto  non  lo  segnali  in  modo  espresso  (sentenze nn. 30/1959,
 49/1963, 21/1968 e 182/1976), ed  anche  se  l'operativita'  di  tali
 obblighi  richieda il complemento di una normazione interna (sentenza
 n. 124/1990); ed ancor piu' - sembra coerente aggiungere - quando  la
 legislazione regionale si sia conformata a norme statali di principio
 contrastanti con detti obblighi.
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara   necessaria  per  la  definizione  del  giudizio  e  non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 delle  disposizioni elencate in premessa in riferimento agli articoli
 della Costituzione ivi indicati;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina  che  a  cura  della  cancelleria la presente ordinanza sia
 notificata al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e  che  sia
 comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Asiago, addi' 7 luglio 1993
                      Il pretore: MONTINI TROTTI

 93C0955