N. 664 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 giugno 1993

                                N. 664
    Ordinanza emessa il 30 giugno 1993 dal tribunale di Lucera sul
   ricorso per la dichiarazione di fallimento proposto dalla S.p.a.
   Finanziari a Adriatica nei confronti della S.n.c. Italmarket di
   D'Errico Giuseppe
 Fallimento - Piccolo imprenditore - Nozione - Operativita' del
    concetto solo nel campo delle imprese individuali - Impossibilita'
    di  considerare  "piccolo imprenditore" la piccola impresa gestita
    in societa' - Conseguente obbligatorieta' della  dichiarazione  di
    fallimento  esclusa  solo per le piccole imprese individuali e per
    le societa' artigiane - Ingiustificata disparita'  di  trattamento
    con incidenza sul diritto di difesa.
 (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, ultima parte).
 (Cost., artt. 2, 3 e 24).
(GU n.46 del 10-11-1993 )
                             IL TRIBUNALE
    Ha  emesso  la seguente ordinanza nel procedimento prefallimentare
 n. 239/1991 a carico  di  Italmarket  di  D'Errico  Giuseppe  S.n.c.,
 instaurato  a  seguito  di ricorso per la dichiarazione di fallimento
 proposto dalla Finanziaria Adriatica S.p.a.
    Il collegio, letti gli atti, sentito il giudice relatore;
                             O S S E R V A
    1. - La procedura e'  stata  intrapresa  dalla  ricorrente  S.p.a.
 Finanziaria  Adriatica,  in persona del legale rappresentante, vanta,
 nei confronti della societa' debitrice, un credito,  come  dichiarato
 in  ricorso,  di  L.  9.147.395,  oltre interessi dal 1 agosto 1991 e
 spese, portato da decreto ingiuntivo esecutivo.
    Il creditore non  ha  agito  in  executivis,  stante  l'intevenuta
 cessazione  dell'attivita'  imprenditoriale della debitrice, titolare
 di un esercizio commerciale di tipo supermarket.
    La  societa', formalmente sciolta anticipatamente, era composta da
 due soli soci, D'Errico Giuseppe, amministratore unico, e Princigallo
 Antonietta, coniuge del predetto D'Errico.
    E' certa l'insolvenza della debitrice, dimostrata, oltre che dalla
 risalenza  temporale  del  debito,  non  contestato,  proprio   dalla
 cessazione dell'attivita', che non consente in alcun modo il recupero
 del credito relativo alla normale attivita' commerciale (pagamento di
 canoni di leasing).
    Il legale rappresentante della societa' debitrice ha dichiarato di
 aver svolto attivita' commerciale, a carattere prettamente familiare,
 con  esclusivo  lavoro  proprio e della consorte, in un locale non di
 proprieta'.
    Tanto  e'  rimasto  comprovato  dalla  documentazione  esibita  e,
 segnatamente, a) dalla copia del contratto di locazione reg. 14 marzo
 1988;  b)  dalla  copia  delle dichiarazioni dei redditi per gli anni
 1988 e 1989 del legale rappresentante della societa',  dai  quali  si
 evince  che per la partecipazione azionaria alla societa' della quale
 e' stato chiesto il fallimento, gli introiti  sono  commisurati,  per
 ciascuno  dei  soci  (D'Errico  Giuseppe  e  la  consorte Princigallo
 Antonietta), all'importo di L. 10.082.000, per l'anno 1988, e  di  L.
 10.579.000,  per  l'anno  1989; c) dalla dichiarazione sostitutiva di
 atto  di  notorieta',  circa  la  mancanza  di  personale  dipendente
 dall'impresa  societaria,  fondata  pertanto  unicamente sull'apporto
 lavorativo dei coniugi d'Errico.
    L'impresa in esame, alla stregua delle emergenze in atti, potrebbe
 essere con tranquillante certezza essere ritenuta "piccola  impresa",
 se  non vi ostasse il diposto dell'ultima parte dell'art. 1, del r.d.
 16 marzo 1942, n. 267  ("in  nessun  caso  sono  considerati  piccoli
 imprenditori le societa' commerciali").
    2.  -  Ritiene il collegio, sulla scorta di quanto esposto sub 1),
 che debba essere sollevata questione di  legittimita'  costituzionale
 del  predetto art. 1 l.f., nella parte in cui dispone che non possano
 essere considerati piccoli imprenditori in nessun  caso  le  societa'
 commerciali, per violazione del combinato disposto degli artt. 2, 3 e
 24 della Costituzione.
    Non  ignora  il  tribunale  che  la  Corte  ha  gia' avuto modo di
 pronunciarsi, recentemente, sul punto, con sentenza  del  6  febbraio
 1991, n. 54.
    Nondimeno  ritiene  il  collegio  che  la  questione  possa essere
 riesaminata sulla scorta dei rilievi che seguono.
    3. - La nozione di piccolo  imprenditore  attualmente  enucleabile
 dall'ordinamento vigente non ha piu' un riferimento individuabile con
 precisione in una norma di legge, a seguito delle reiterate pronunce,
 rese  dalla Corte, di illegittimita' costituzionale del predetto art.
 1 l.f., nella parte in  cui  appunto  ne  era  data  una  definizione
 normativa   con   riguardo  al  reddito  imponibile  ed  al  capitale
 investito.
    Attualmente, la definizione del piccolo imprenditore  e'  alquanto
 piu' disagevole, dovendosi aver riguardo ad un complesso di elementi,
 tra  i  quali  hanno certamento rilievo lo stesso capitale investito,
 come indice dell'estensione dell'impresa, cosi'  come  le  dimensioni
 dell'azienda,  sul  piano  oggettivo  e  soggettivo,  il  numero  dei
 lavoratori occupati, la proprieta' dei mezzi di  produzione  e  delle
 strutture d'impresa, il ricorso al finanziamento bancario e l'entita'
 dello stesso.
    Orbene,   la  ratio  della  mancata  comprensione  delle  societa'
 commerciali nel concetto di "piccolo imprenditore", indipendentemente
 dalle dimensioni reali dell'impresa, risiederebbe  nella  presunzione
 di    finalita'   lucrative,   a   base   della   natura   societaria
 dell'organizzazione   d'impresa,   e   quindi   in   una   sorta   di
 contraddittorieta' logica tra struttura societaria e piccola impresa,
 che  presuppone,  al  contrario, la prevalenza del lavoro proprio, lo
 scarso ricorso al capitale, le  dimensioni  oggettivamente  limitate,
 tutti elementi difficilmente conciliabili con la nozione normativa di
 societa' commerciale.
    Non puo' sfuggire ad un giudice attento ai mutamenti della realta'
 sociale,  e  alla  corrispondente  necessita' di adeguare a questa la
 realta' normativa, che tale teorica scissione, su base normativa, tra
 imprenditore individuale e organizzazione societaria non  corrisponde
 (o,  meglio,  non  corrisponde  piu'), a quanto e' dato constatare in
 concreto, presentando il  mondo  economico  una  varieta'  pressoche'
 illimitata    di    forme    imprenditoriali,    qualitativamente   e
 quantitativamente diverse,  in  relazione  alle  quali  lo  strumento
 normativo fornito dalla legge fallimentare e' sempre meno idoneo, per
 quanto  attiene  specificamente  al  caso  in  esame,  a regolarne le
 ipotesi di decozione e di liquidazione concorsuale.
    In particolare, considerare presuntivamente  (iuris  et  de  iure)
 vincolante  la  definizione  normativa  (nel senso che in nessun caso
 puo' considerarsi  piccolo  imprenditore  una  societa'  commerciale)
 potrebbe,  da  un canto, rende indefinibile una posizione sostanziale
 quale in esame (piccola societa' commerciale), sicuramente votata  al
 fallimento   (con   violazione   dell'art.  24  della  Costituzione),
 dall'altro  costituire  un'illegittima  disparita'   di   trattamento
 (rispetto  agli  imprenditori individuali, che in analoghe situazioni
 non potrebbero essere dichiarati falliti, con violazione dell'art.  3
 della  Costituzione),  ed  infine cagionare una indebita compressione
 dello stesso istituto societario, quale formazione ove si  svolge  la
 personalita'  dei  singoli,  non  adeguatamente  garantito  sul piano
 sostanziale e processuale dalla presenza nell'ordinamento della norma
 impugnata  (con  violazione,  in  questo  caso,  dell'art.  2   della
 Costituzione).
    4.  -  La  problematica in questa sede sollevata non e' certamente
 nuova.  In  particolare,  la  sentenza  23  luglio  1991,  n.  368  e
 l'ordinanza  31  ottobre  1991, n. 395 della Corte adita sancivano la
 sostanziale  omologazione  delle  piccole  societa'  artigiane   agli
 artigiani  in  forma  individuale,  mostrando  di riconoscere valenza
 sostanziale,  piuttosto  che   formale,   all'effettiva   consistenza
 dell'impresa,   indipendentemente   dalla  struttura,  individuale  o
 societaria, della stessa  (secondo  la  Corte,  non  e'  soggetta  al
 fallimento "la piccola societa' artigiana, di modeste dimensioni, non
 assimilabile ad una vera e propria impresa commerciale o industriale.
 Tale  e'  da  considerarsi  se  manca  l'intento speculativo e il suo
 gaudagno non assume i connotati del profitto proprio per la  modestia
 dei  mezzi  e  del  capitale  investito", a termini della sentenza n.
 368/1991).
    Analogo rilievo  puo'  essere  mosso  con  riguardo  alle  piccole
 societa' commerciali.
    Invero,  qualora venga meno, per le emergenze risultanti, come nel
 caso, la  presenzione  di  speculazione  e  di  profitto  che  ne  ha
 determinato  la costituzione, presunzione che giustifica, a monte per
 quanto sopra detto, la  differenziazione  normativa  tra  societa'  e
 imprenditore individuale, e' irragionevole (in violazione dell'art. 3
 della Costituzione) sottoporre a fallimento una societa' (e cioe' una
 formazione  sociale  espressione  della  personalita'  dei singoli, a
 termini dell'art. 2 della Costituzione) che opera a tutti gli effetti
 come "piccola impresa", in rapporto all'entita' dell'impresa  stessa,
 alle  dimensioni della sua organizzazione e dei mezzi impiegati, agli
 effetti ed alle  ripercussioni  di  dissesto  nell'economia  generale
 individuale, all'utilita' del ricorso alla procedura fallimentare per
 gli  stessi  creditori specie in relazione all'eseguita' dell'attivo,
 con  il  conseguente  rischio  della  mancata   realizzazione   delle
 finalita'   di   tutela   degli   interessi   dei   creditori  (Corte
 costituzionale n. 579/1989).
    5. - Del resto  la  stessa  Corte  riconosceva  alla  disposizione
 impugnata  una ratio ispirata sostanzialmente (e forse unicamente) da
 una scelta discrezionale del legislatore  che  poneva  a  base  della
 differenziazione  normativa  la "presunzione della speculazione e del
 profitto", che hanno determinato la costituzione dell'ente sociale.
    Non puo' sfuggire alla Corte che il porre una presunzione iuris et
 de iure di speculazione e profitto dell'ente  societario,  nel  senso
 sopra  precisato  comporta un'inammissibile violazione del diritto di
 difesa (ex art. 24 della Costituzione),  laddove  non  consente  alla
 societa'  debitrice  di  dimostrare la sua sostanziale (e comprovata)
 natura di piccola impresa commerciale, i cui proventi non  potrebbero
 giammai  assimilarsi  a  profitti,  ma unicamente a remunerazione del
 lavoro dei soci e  a  corrispettivo  delle  spese  sostenute  per  la
 conservazione dell'assetto e dell'organizzazione societaria.
    6.  - L'impresa esercitata in forma collettiva non puo' che essere
 ritenuta una diversa modalita' di esercizio dell'impresa individuale,
 alla quale, in  quanto  espressione  dell'individuo  deve  accordarsi
 tutela  (inviolabile)  e  pari  dignita'  a termini dell'art. 2 della
 Costituzione, risultando irragionevole una disparita' di trattamento,
 che significherebbe, nel caso in esame, assoluta mancanza di  tutela,
 per quanto sopra esposto.
    7. - Le motivazioni che precedono inducono il collegio a rimettere
 gli   atti   alla   Corte   costituzionale  per  la  declaratoria  di
 illegittimita' costituzionale della norma impugnata, nei limiti sopra
 precisati.
                               P. Q. M.
    Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale, impugnando di illegittimita' costituzionale l'art. 1,
 ultima  parte,  l.f., nella parte in cui dispone "in nessun caso sono
 considerati piccoli imprenditori le  societa'  commerciali",  per  le
 considerazioni che in motivazione sono sviluppate, per violazione:
      del combinato disposto degli artt. 2 e 3 della Costituzione, per
 disparita'   di   trattamento   e  irragionevolezza,  tra  i  piccoli
 imprenditori  individuali  e   piccole   societa'   commerciali,   da
 considerarsi  a  tutti  gli  effetti  formazioni  sociali,  con  pari
 dignita' e tutela, in caso di parita' di condizioni;
      dell'art.  3  della  Costituzione, per disparita' di trattamento
 tra  piccole  societa'  commerciali  e  piccole  societa'   artigiane
 (escluse dal fallimento), a parita' di condizioni (comprovata assenza
 di profitto);
      dell'art.  24  della Costituzione, per violazione del diritto di
 difesa, laddove si ritenga presunzione iuris et de iure  la  ritenuta
 non  assimilabilita'  delle  piccole  societa' commerciali ai piccoli
 imprenditori;
    Sospende il procedimento n. 239/1991 fino all'esito  del  giudizio
 della Corte adita;
    Si  notifichi,  a  cura  della cancelleria, ai sensi dell'art. 23,
 ultimo comma, della legge n. 87/1953.
      Lucera, addi' 30 giugno 1993
                       Il presidente: CALDERESI
    Il giudice: PECORIELLO
                                       Il giudice relatore: ABBRUZZESE
 93C1106