N. 399 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 marzo 1994

                                N. 399
 Ordinanza  emessa  il  23  marzo  1994  dal  tribunale  di Napoli nel
 procedimento  civile  vertente  tra  Licoli  Antonio  e   Palmentieri
 Giovanni
 Revocazione (giudizio per) - Convalida di sfratto per morosita' -
    Revocabilita'  per  dolo  di  una  parte  e per prove false (nella
    specie:  provvedimento  emesso  in  assenza  dell'intimato  e   su
    dichiarazioni   mendaci   dell'intimante)   -  Inammissibilita'  -
    Disparita'  di  trattamento  rispetto  ad  analoghe  situazioni  -
    Compressione del diritto di difesa.
 (C.P.C., art. 395, primo comma, nn. 1 e 2).
 (Cost., artt. 3 e 24).
(GU n.28 del 6-7-1994 )
                             IL TRIBUNALE
    Ha  emesso  la  seguente ordinanza nella causa in grado di appello
 iscritta al n. 8968  del  ruolo  generale  degli  affari  contenziosi
 dell'anno  1992,  avente  ad  oggetto:  revocazione  di  ordinanza di
 convalida di sfratto, tra Licoli Antonio,  elettivamente  domiciliato
 in  Napoli  alla  via Carlo De Marco, 69F, presso lo studio dell'avv.
 Vittorio Rocco dal quale e'  rappresentato  e  difeso  in  virtu'  di
 procura   a   margine  della  citazione,  appellante,  e  Palmentieri
 Giovanni, elettivamente domiciliato in Napoli alla  via  Duomo,  348,
 presso   lo  studio  dell'avv.  Salvatore  Vetromile,  dal  quale  e'
 rappresentato e difeso in virtu' di procura a margine della  comparsa
 di risposta, appellato.
                           PREMESSE IN FATTO
    Con atto notificato in data 27 marzo 1992 Licoli Antonio proponeva
 appello  avverso la sentenza n. 6017/91 del pretore di Napoli in data
 23 dicembre 1991 con la quale era stata rigettata la sua domanda  per
 la   revocazione   dell'ordinanza  di  convalida  dello  sfratto  per
 morosita' emessa dallo stesso pretore in data 25 gennaio 1991,  sulla
 base  della  semplice  attestazione  del  procuratore dell'attore, in
 assenza dell'intimato o del suo  procuratore,  nonostante  l'avvenuto
 pagamento  dei  canoni  di  locazione scaduti nel termine di sessanta
 giorni previsto nell'ordinanza resa ai sensi dell'art. 55 della legge
 n. 392/1978.
    Allegava l'appellante che:
      1)  avendo  il  Licoli pagato la somma ritenuta dovuta in nessun
 caso il  pretore  avrebbe  potuto  far  discendere  effetti  negativi
 dall'assenza  all'udienza della verifica del pagamento, essendo stato
 l'intimato indotto dal comportamento dei procuratori dell'intimante a
 ritenere definita la lite;
      2) malamente  il  giudicante  di  prime  cure  aveva  omesso  di
 considerare  le  presunzioni  che assistivano il contegno del Licoli,
 anche in base al comportamento dei  procuratori  di  controparte;  ed
 allegava   che   erroneamente  erano  state  valutate  le  risultanze
 dell'interrogatorio formale del Palmentieri, relativamente al computo
 degli interessi dovuti;
      3) apoditticamente il  pretore  aveva  ritenuto  ininfluente  il
 richiesto giuramento suppletorio;
 instando   in   definitiva,   previa  sospensione  dell'ordinanza  di
 convalida, per la totale riforma della sentenza impugnata, con revoca
 dell'ordinanza  di  convalida  dello  sfratto,  essendo  la   domanda
 fondata:
       A)  sul  dolo  dell'attore,  che  dopo  aver  quantificato  gli
 interessi, dapprima rilascio' quietanza liberatoria senza  riserve  e
 poi  sorprendentemente attesto' dinanzi al pretore che il debitore si
 era rifiutato di pagare tutta la somma dovuta;
       B) sull'errore di fatto indotto dalla falsa attestazione di  un
 inesistente  rifiuto  di  esso  Licoli  di pagare l'importo realmente
 dovuto;
 richiedendo la condanna dell'appellato alle spese.
    Si costituiva il convenuto contestando genericamente le  eccezioni
 attoree,  facendo  pero'  rilevare  che il Licoli non aveva pagato il
 canone di locazione per ben sette anni,  e  conseguentemente  avrebbe
 dovuto  senz'altro  pagare i corrispondenti e proporzionali interessi
 legali all'atto della sanatoria della morosita'.
    Reietta l'istanza di sospensione della ordinanza ed  acquisito  il
 fascicolo  di  primo  grado,  precisate  le  conclusioni,  la  causa,
 senz'altra  attivita'  istruttoria  e'  stata  posta   in   decisione
 all'udienza del 9 marzo 1994.
                          PREMESSE IN DIRITTO
    Va  premesso che, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza
 impugnata, non e' affatto pacifica l'ammissibilita' del rimedio della
 revocazione  avverso  l'ordinanza  di  convalida  dello  sfratto  per
 morosita'  emessa  dal  pretore.  Invero, a seguito della sentenza 20
 dicembre 1989, n. 558 (in Gazzetta Ufficiale  27  dicembre  1989,  n.
 52),   nell'attuale  assetto  normativo,  deve  ritenersi  consentita
 soltanto la revocazione per errore di fatto avverso le  ordinanze  di
 convalida  dello  sfratto  o  di licenza per finita locazione nonche'
 avverso le ordinanze di convalida dello sfratto per morosita', emesse
 in assenza o per mancata opposizione dell'intimato, mentre  la  Corte
 costituzionale  non  ha  ritenuto di estendere (ai sensi dell'art. 27
 della legge 11  marzo  1953,  n.  87)  la  portata  del  giudizio  di
 illegittimita'  alle altre ipotesi di cui all'art. 395 del c.p.c. che
 tutt'oggi  contemplano  la  possibilita'  dell'impugnazione  soltanto
 avverso "sentenze".
    La  conferma dell'inestensibilita' della dichiarazione della Corte
 ai restanti casi dell'art. 395 si rinviene nella successiva ordinanza
 n. 96/1990, nella parte in  cui  anzicche'  dichiarare  la  manifesta
 inammissibilita'  della  questione  proposta in relazione al numero 5
 dell'art. 395 relativamente alle ordinanze di convalida, come sarebbe
 stato  nel  caso  di  condivisa estensibilita' del rimedio, ha invece
 ritenuto pronunziarsi nel merito della questione proposta.
    A  fronte  di   tale   anomala   situazione   processuale   (cosi'
 sostanzialmente   definita   dalla  prevalente  dottrina  che  si  e'
 interessata  del  problema   dopo   la   cennata   dichiarazione   di
 incostituzionalita') si verifica quindi nel nostro sistema che mentre
 e'  gia'  stato  esteso  il  rimedio  dell'opposizione  - ordinaria e
 revocatoria - di  terzo  avverso  le  ordinanze  di  convalida  dello
 sfratto  per  finita  locazione  (v.  sent.  Corte  costituzionale n.
 167/1984) e  per  morosita'  (v.  sentenza  Corte  costituzionale  n.
 237/1985)  ed  il  rimedio  della revocazione per errore di fatto (v.
 sentenza n. 558/1989), inspiegabilmente rimane precluso  all'intimato
 il  rimedio della revocazione nelle altre ipotesi di cui all'art. 395
 del  c.p.c.,  con  grave  disparita'  di  trattamento  a  fronte   di
 situazioni  del  tutto  omogenee  ed  in contrasto col disposto degli
 artt. 3 e  24  della  Costituzione.  E  tale  situazione  e'  rimasta
 tutt'oggi  inalterata  pur  a  fronte  del  chiaro  invito diretto al
 legislatore nella prefata sentenza n. 558/1989 di provvedere  ad  una
 organica   rivisitazione   della   materia   delle  impugnazioni  dei
 provvedimenti di convalida.
    L'anomalia di tale sistema risulta altresi' enfatizzata  a  fronte
 della sostanziale indisponibilita' di altri idonei ed appagati rimedi
 offerti  dal  legislatore  all'intimato  che  sia stato condannato al
 rilascio. Invero, condivisa la dominante opinione giurisprudenziale -
 di  diretta  applicazione  della  legge  -  circa  l'inimpugnabilita'
 dell'ordinanza  di  convalida  dello sfratto emessa in presenza delle
 condizioni di legge,  al  condannato  al  rilascio  non  resta  alcun
 rimedio  processuale  avverso  il provvedimento emesso in base a dolo
 accertato  dell'intimante  o,  comunque,  in  base  a  prove   false;
 viceversa   al   condannato   per  le  vie  ordinarie,  nelle  stesse
 circostanze, viene garantita la possibilita' dell'appello ed, infine,
 della revocazione.
    Nemmeno sul punto appare condivisibile l'isolato  orientamento  di
 Cass.  21 gennaio 1987, n. 525 (in F. it. 87, I, 2168) secondo cui in
 tali  circostanze  le  ragioni  dell'intimato  potrebbero  unicamente
 essere  fatte  valere  con l'azione risarcitoria di cui all'art. 2043
 del c.c.: invero  -  a  presciendere  dalla  opinabilita'  sul  piano
 sistematico  di  tale  tesi,  che  non interessa questa sede - non si
 comprende per quale motivo mentre in ipotesi del tutto  analoghe,  ma
 susseguenti  ad  una  sentenza,  debbano garantirsi sistemi di tutela
 adeguati  e  conseguenziali  nell'ambito   dello   stesso   strumento
 processuale,  a fronte della comparabile ipotesi predetta debba farsi
 ricorso ad un'azione (lunga, difficile ed astrattamente  nemmeno  del
 tutto  satisfativa  quando  si  debba  compensare la concreta perdita
 dell'appartamento goduto) a tutela dell'illecito extracontrattuale.
    Invero, come opportunamente precisato da Corte  costituzionale  n.
 558/1989,  "se  e'  razionale  che  il  procedimento per convalida si
 atteggi come tutela differenziata  in  quanto  appaga  l'esigenza  di
 evitare  che  il  conduttore  possa  protrarre  il godimento del bene
 locato attraverso l'abuso del  diritto  di  difesa,  non  altrettanto
 giustificabile  appare  il  regime  di  stabilita'  di  cui  gode  il
 provvedimento", che, concludendo il  giudizio  "ha  il  contenuto  di
 decisione  definitiva"  (v.  id.  e  sentenza n. 185/1980). La stessa
 Corte costituzionale aveva gia'  evidenziato  a  chiare  lettere  (v.
 sentenza  n.  167/1984)  che la ritenuta decisorieta' della convalida
 portava, in assenza di altri  rimedi  tipizzati,  intrinsecamente  il
 rischio  di  ingiustizie  ben  maggiori  di  quelle  possibili  dalla
 sentenza passata in giudicato; e cio', inspiegabilmente, a fronte  di
 uno speciale modulo procedimentale tendenzialmente meno garantista di
 quello  ordinario,  che pero' conduce analogamente alla emanazione di
 un provvedimento che costituisce "giudicato".
    Peraltro la valorizzazione degli strumenti di  garanzia  e'  stata
 punto  consacrata  a  livello di sistema nelle modifiche al codice di
 procedura civile di cui alla legge n. 353/1990  e  succ.  mod.  nella
 parte  in  cui  sono  stati tipizzati i rimedi processuali esperibili
 avverso i provvedimenti cautelari, a dimostrazione che le esigenze di
 celerita'  dei  procedimenti  speciali  non  possono   comprimere   i
 rispettivi   diritti   delle   parti   oltre  ragionevoli  limiti  di
 tollerabilita' ( ex art. 24  della  Costituzione).  La  stessa  Corte
 ritenne    sin   dal   lontano   1972   dichiarare   l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 668  del  c.p.c.  nella  parte  in  cui  non
 consentiva  l'opposizione tardiva dell'intimato che, per avendo avuto
 conoscenza della citazione per la convalida, non era potuto comparire
 all'udienza per caso fortuito o forza maggiore, cosi' gettando solide
 basi per i successivi pronunziamenti di  incostituzionalita'  innanzi
 citati.
    Posta  negli oramai indiscutibili termini evidenziati la questione
 deve essere esaminata in termini consequenziali, non  potendo  ancora
 trovare  ragione  d'essere  quelle  acute  critiche  sollevate  dalla
 dottrina piu' avvertita, nella parte in cui aveva denunziato l'intima
 contraddizione   giurisprudenziale   laddove    considera    soltanto
 l'ordinanza  emessa  al  di fuori dei limiti oggettivi ex artt. 657 e
 658 del c.p.c., ovvero in assenza delle condizioni  formali  previste
 dall'art.  663  del  c.p.c., suscettibile di appello per rimuovere la
 situazione non conforme al diritto,  per  poi  ricredersi  -  per  la
 mancanza  nel  procedimento  per convalida di una disposizione simile
 all'art. 656 del c.p.c. - rispetto alla revocazione, pur in  presenza
 di  un  provvedimento  con analogo tangibile "sintomo di ingiustizia"
 (v. Corte costituzionale 21 maggio 1988, n. 76,  in  F.  It.  88,  I,
 3663).
    La  rivisitazione in termini garantistici della questione ad opera
 delle opportune sentenze citate ha  comunque  fatto  giustizia  delle
 questioni  sollevate,  ma  ha  di  fatto  lasciato  prive  di  tutela
 situazioni - se possibile -  di  maggiore  gravita'  di  quelle  gia'
 sottoposte  a censura, restando escluso dal rimedio della revocazione
 delle ordinanze di convalida le ipotesi di dolo, di frode processuale
 e di forza maggiore derivante dalla impossibilita' di utilizzazione o
 dalla falsificazione  di  documenti  decisivi  per  fatto  dell'altra
 parte.
    E  non  vi  e'  dubbio che nel caso in esame debba farsi piuttosto
 applicazione del disposto del n. 1 del citato articolo, anzicche' del
 pur invocato n. 4;  invero,  come  posto  in  luce  dalla  precedente
 dottrina  e  dalla  stessa  sentenza n. 558/1989, per errore di fatto
 deve intendersi quello inerente  ad  una  circostanza  pacifica,  che
 inoppugnabilmente  emerga  o  meno  dagli atti processuali, ponendosi
 alla stessa stregua di un errore materiale, per la cui correzione  e'
 invece  previsto  uno  speciale  procedimento.  Piu' dettagliatamente
 l'errore di fatto  viene  descritto  come  una  svista  di  carattere
 materiale  che  abbia indotto il giudice a supporre l'esistenza di un
 fatto la cui verita' era esclusa in modo incontrovertibile, oppure  a
 considerare   inesistente   un   dato  accertato  in  modo  parimenti
 indiscutibile,  purche'  il  suddetto  fatto  sia  pacifico  e  abbia
 costituito presupposto essenziale della decisione.
    Nel  caso in esame invece l'ordinanza di rilascio e' stata emessa,
 in  conformita'  della  specialita'  del  rito  e  della  particolare
 struttura  del  subprocedimento  previsto  dall'art.  55  della legge
 dell'equo  canone,  sulla  base  di  una  semplice  attestazione  del
 locatore  in  ordine  al  mancato  rispetto  del  termine  di  grazia
 assegnato dal pretore per far fronte alla  riconosciuta  morosita'  -
 attestazione che si assume (apertamente) mendace (tanto da richiamare
 la  sussistenza  del reato di cui all'art. 483 del c.p.) in quanto il
 conduttore aveva pagato, entro il termine concesso,  nelle  mani  del
 procuratore  del  locatore,  la somma ritenuta e riconosciuta esatta,
 corrispondentemente ricevendosi  finale  quietanza  -  che  lo  aveva
 indotto  a non comparire nella successiva udienza di verifica ex art.
 55 della legge  n.  392/1978.  Orbene,  premesso  che  dalla  mancata
 comparizione  del conduttore all'udienza di verifica non e' legittimo
 trarre autonomamente giudizi negativi, giacche',  come  anche  accade
 nel   procedimento   contumaciale,   all'assenza   non  e'  possibile
 riconnettere l'ammissione dei fatti allegati  dall'attore,  non  c'e'
 chi  non veda come altro, se non con la revocazione ex n. 1 dell'art.
 395 del c.p.c., possa far valere il conduttore le sue ragioni avverso
 il provvedimento di convalida  emesso  dal  pretore  in  presenza  di
 dichiarazioni  del  locatore che si assumono mendaci o, comunque, non
 veritiere.
    La questione e' fondata ed appare rilevante nel  caso  di  specie,
 condizionando  il  successivo  esame  di  merito,  giacche' l'istante
 chiede appunto l'annullamento della citata ordinanza sull'assunto che
 essa e' stata emessa in base ad una dichiarazione  del  locatore  non
 rispondente  a  verita';  ed,  allo stato del diritto, il pretore, e,
 conseguentemente, questo Tribunale  in  grado  di  appello,  dovrebbe
 dichiarare  l'inammissibilita'  della  domanda  qualora  la Corte non
 dovesse ritenere illegittimo l'art. 395 del c.p.c. nella parte in cui
 non consente altre impugnazioni delle ordinanze  di  convalida  dello
 sfratto  al  di  fuori  dei  casi  di  errore  di fatto (per identica
 questione proposta all'esame della Corte  (v.  pret.  Milano  ord.  9
 maggio 1985 in F. It. 85, I, 2108).
    Ne'  la  domanda  appare prima facie infondata, si' da condurre ad
 una prodromica dichiarazione di irrilevanza. In realta'  pur  essendo
 la  domanda  di  revocazione  principalmente  fondata, come allega lo
 stesso appellante, su presunzioni, come anticipato, egli sostiene  di
 essersi  recato  nel termine previsto nell'ordinanza pretorile presso
 lo studio del procuratore dell'intimante per adempiere all'ordine  di
 sanare  la dedotta morosita' di L. 6.580.000 oltre interessi legali e
 spese, liquidate in L. 400.000, e di avere  susseguentemente  versato
 nelle  mani  di questi, che ne aveva anche quantificato l'importo, la
 somma di L. 7.173.670 a mezzo di assegno  di  c.c.,  ricevendosi  una
 quietanza   senz'altra   riserva   che   quella   per  il  buon  fine
 dell'assegno. Di non essersi  quindi  recato  alla  c.d.  udienza  di
 rinvio  per  la  verifica del pagamento nella perfetta consapevolezza
 dell'avvenuta cessazione della materia del contendere.  Allega dunque
 l'appellante   di   essere  stato  indotto  in  errore  dal  contegno
 dell'appellato, o del suo  procuratore,  che  giammai  avevano  prima
 precisato  l'entita' della somma dovuta, pur essendo specifico dovere
 del  creditore  di  collaborare   nella   esatta   esecuzione   della
 prestazione  ( ex art. 1175 del c.c.), soltanto nelle successive fasi
 peritandosi  di  precisare   l'importo   degli   interessi   pretesi,
 contraddittoriamente,  dapprima  in L. 800.000 e poi in L. 1.200.000,
 cosi'  ulteriormente  dimostrando  la  mala  fede.   La   presunzione
 principale  risiede  dunque  nella  dimostrazione  che verosimilmente
 alcun contrasto sorse tra le parti quando si tratto' di  definire  la
 somma  a  pagare,  tant'e'  che  nemmeno  nel  successivo giudizio di
 revocazione  il  creditore  seppe  correttamente  indicare  in  prima
 battuta  l'entita'  della  somma  reclamata.  Posta  nei  termini che
 precedono il comportamento  del  locatore  (o  del  suo  procuratore)
 appare  del tutto idoneo a provocare il comportamento (assenteistico)
 del conduttore all'udienza di verifica.    Invero  sotto  il  profilo
 meramente naturalistico appare immediatamente nella logica delle cose
 che  il  debitore abbia voluto adempiere alla propria obbligazione al
 fine di non vedere emessa ordinanza di convalida  dello  sfratto  per
 morosita'  e  non  certo  per  assolvere  ad  un  generico impegno di
 pagamento verso il creditore.   L'adempimento e'  pertanto  posto  in
 correlazione  con  l'incombente pericolo di risoluzione del contratto
 e, quindi, con lo sfratto: se il debitore non avesse voluto adempiere
 non avrebbe fatto istanza di concessione del  termine  di  grazia  o,
 quantomeno, non si sarebbe recato presso il creditore (o presso il di
 lui  procuratore)  nel  termine  fissato  dal  pretore  per pagare un
 importo non indifferente, senza trarne alcun beneficio.  Insomma,  se
 avesse soltanto voluto adempiere alla propria obbligazione scaduta di
 pagamento  dei  canoni,  senz'altro  interesse  per  le  sorti  della
 locazione,  ben  difficilmente  si  sarebbe   comportato   nel   modo
 evidenziato.    Per  quanto  interessa  il giudizio di ammissibilita'
 della domanda, secondo un  giudizio  riferibile  a  quello  dell'uomo
 medio,  sembra  del  tutto conseguenziale che il debitore non avrebbe
 avuto alcuna difficolta' ad adempiere (totalmente) alla  obbligazione
 accessoria  degli  interessi  una  volta  adempiuto  integralmente al
 pagamento della sensibile sorta capitale e delle spese.  Ma vi e'  di
 piu':   la   quietanza   rilasciata  senza  riserve  se  gia'  quando
 proveniente  dal  c.d.  uomo  medio  appare  normalmente  circostanza
 significativa della completa definizione degli interessi delle parti,
 allorquando  proviene  da uno specialista della materia giuridica non
 puo' non assumere connotati particolari, tanto  dal  punto  di  vista
 subiettivo che da quello oggettivo. Sotto il primo profilo e' infatti
 evidente  che  legittimamente  il  Licoli,  vedendosi  rilasciare una
 quietanza da un avvocato, sia stato  indotto  in  errore  ritenendosi
 completamente liberato da ogni impegno, tanto da non presentarsi alla
 successiva  udienza  di verifica. Dal punto di vista obiettivo poi e'
 altrettanto evidente che un  professionista  in  buona  fede  avrebbe
 dovuto  quantomeno  specificare  che  l'assegno  veniva trattenuto in
 acconto della maggior somma dovuta, che,  come  opportunamente  fatto
 rilevare dal procuratore dell'appellante, sicuramente non era nemmeno
 conosciuta  dal  locatore  al momento della consegna dell'assegno, o,
 comunque, non era stata specificamente richiesta, altrimenti  non  si
 comprenderebbe  per  quale  motivo  sia  stata  indicata a fatica nel
 successivo  giudizio  di  revocazione.  In  sintesi, senza per questo
 stare ad indagare in  questo  momento  su  chi  doveva  compiutamente
 determinare  ed  imputare gli interessi, e' del tutto palese che alla
 data  del  20  marzo  1991  nessuna  delle  parti  dovette   dubitare
 dell'esatto  importo  della  somma  che  il conduttore doveva pagare:
 infatti da un lato il debitore ha comunque versato una somma maggiore
 del capitale e delle  spese  legali,  dall'altra  il  creditore,  pur
 ricevendosi  incondizionatamente  la somma versata, ha soltanto nelle
 successive fasi del giudizio, e contraddicendosi, precisato l'entita'
 delle somme dovute.
    E' pur  vero  che  la  giurisprudenza  e  la  dottrina  prevalenti
 interpretano  correntemente  il  disposto dell'art. 1199 del c.c. nel
 senso che la quietanza ha valore di atto  unilaterale  non  negoziale
 recettizio  a contenuto semplicemente ricognitivo di quanto versato -
 senza cioe' implicazione della volonta' liberatoria  (di  rinunzia  o
 transazione)  del debitore in ordine a quanto eventualmente ancora da
 versare - ma e' altrettanto vero che, nel caso di specie, ai fini che
 interessano, la prestazione deve essere riguardata nella  complessiva
 dimensione del rapporto e non avulsa dalla concretezza della vicenda.
    Appare  pertanto  allo  stato  verosimile  che  effettivamente  il
 creditore  abbia  rilasciato  quietanza  al  debitore  con   funzione
 liberatoria;  che,  pertanto,  in mala fede, ed all'evidente scopo di
 liberarsi del non gradito conduttore,  sia  successivamente  comparso
 davanti  al  Pretore  attestando  non solo l'inesatto adempimento, ma
 anche lo specifico rifiuto  dell'intimato  di  pagare  gli  interessi
 legali  dalle  singole  scadenze dei canoni anzicche' quelli maturati
 dalla notifica della intimazione.
    Sotto tali aspetti l'ordinanza pretorile puo' allora apparire come
 frutto del dolo di una parte nei confronti dell'altra  piuttosto  che
 di un errore di fatto del pretore, sia pure indotto dall'altra parte.
 Invero  l'ordinanza non e' in se' frutto di una "svista" del giudice,
 che  giustifichi,  secondo  l'interpretazione  corrente,  il  rimedio
 revocatorio:  il pretore, sulla scorta della verosimile dichiarazione
 di  parte,  ha  formalmente  e  legittimamente   emesso   l'anzidetto
 provvedimento,   che,   appunto,   nell'esame   odierno,   non   puo'
 considerarsi  erroneo.  Il  giudice  in  sostanza  non  conosceva  la
 situazione  sottostante  e,  processualmente,  doveva  fidarsi  della
 dichiarazione del locatore, appunto oggi denunziata come dolosa, che,
 in  quanto  tale,  giustifica  il   dubbio   di   incostituzionalita'
 denunziato  (per un caso analogo di dolo ritenuto (v. pretura Roma 25
 gennaio 1983, Foro it. 1983, I, 2034).  Alla stregua  delle  suddette
 considerazioni  l'inesperibilita' della revocazione di cui ai nn. 1 e
 2  dell'art.  395  del  c.p.c.   si   atteggia   come   intollerabile
 compressione  del  diritto  di  difesa  previsto  dall'art.  24 della
 Costituzione nella parte in cui non consente alcuna forma  di  tutela
 di  un  diritto  (obbligatorio  e  connesso  a quello all'abitazione,
 peraltro costituzionalmente garantito e difficilmente risarcibile per
 equivalente) avverso l'ordinanza di sfratto per morosita'  emessa  in
 assenza  del  conduttore,  dopo  che la parte sia stata indotta a non
 comparire in udienza a causa del comportamento dell'altra  parte,  in
 violazione   dei  principi  informatori  del  sistema  che  impongono
 l'espletamento di un processo "giusto", con una tendenziale identita'
 degli strumenti per attuare i diritti di difesa in situazioni simili.
 Si atteggia inoltre come violazione dell'art.  3  della  Costituzione
 nella parte in cui a fronte di una situazione perfettamente identica,
 pur  derivata  da  un  titolo,  la  sentenza  - ad identico contenuto
 decisorio (v. Corte costituzionale 7 giugno 1984, n. 167) -  che  pur
 si  forma  attraverso  un  modulo  procedimentale  piu'  garantista e
 progressivo, non appresta nel caso di ritenuto dolo dell'istante (cui
 puo' ricondursi il caso  di  dichiarazione  ideologicamente  falsa  o
 della  prova  falsa),  analoghi  rimedi  processuali,  in  assenza di
 qualsivoglia fondamento di ragionevolezza.    Apparendo  pertanto  la
 questione  non  manifestamente  infondata  e  rilevante ai fini della
 decisione  del  caso  concreto,  anche  in  ordine   alla   eventuale
 ammissione   delle   pur  richieste  ulteriori  prove  finalizzate  a
 corroborare la dimostrazione del dolo  della  parte,  la  prospettata
 questione  di  costituzionalita' va rimessa, d'ufficio, prima di ogni
 altra indagine all'esame della Corte costituzionale.
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 1 della legge 9 febbraio 1948 e 23 della legge  11
 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 395 del c.p.c. nella  parte  in
 cui  non  prevede  la  revocazione delle ordinanze di convalida dello
 sfratto  per  morosita'  emesse  sulla  base  di   dichiarazione   di
 persistenza   della   morosita'   non   rispondente  alla  situazione
 obiettiva, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e  secondo  comma,
 della Costituzione;
    Sospende  il  giudizio in corso e dispone l'immediata trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina che a cura della  cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  alle  parti  in  causa ed al Presidente del Consiglio dei
 Ministri  e  sia  comunicata  ai  presidenti  delle  due  Camere  del
 Parlamento.
    In Napoli nella camera di consiglio del 23 marzo 1994.
                       Il presidente: SANGIUOLO
                                                 L'estensore: FORGILLO
 94C0751