N. 399 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 marzo 1994
N. 399 Ordinanza emessa il 23 marzo 1994 dal tribunale di Napoli nel procedimento civile vertente tra Licoli Antonio e Palmentieri Giovanni Revocazione (giudizio per) - Convalida di sfratto per morosita' - Revocabilita' per dolo di una parte e per prove false (nella specie: provvedimento emesso in assenza dell'intimato e su dichiarazioni mendaci dell'intimante) - Inammissibilita' - Disparita' di trattamento rispetto ad analoghe situazioni - Compressione del diritto di difesa. (C.P.C., art. 395, primo comma, nn. 1 e 2). (Cost., artt. 3 e 24).(GU n.28 del 6-7-1994 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza nella causa in grado di appello iscritta al n. 8968 del ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 1992, avente ad oggetto: revocazione di ordinanza di convalida di sfratto, tra Licoli Antonio, elettivamente domiciliato in Napoli alla via Carlo De Marco, 69F, presso lo studio dell'avv. Vittorio Rocco dal quale e' rappresentato e difeso in virtu' di procura a margine della citazione, appellante, e Palmentieri Giovanni, elettivamente domiciliato in Napoli alla via Duomo, 348, presso lo studio dell'avv. Salvatore Vetromile, dal quale e' rappresentato e difeso in virtu' di procura a margine della comparsa di risposta, appellato. PREMESSE IN FATTO Con atto notificato in data 27 marzo 1992 Licoli Antonio proponeva appello avverso la sentenza n. 6017/91 del pretore di Napoli in data 23 dicembre 1991 con la quale era stata rigettata la sua domanda per la revocazione dell'ordinanza di convalida dello sfratto per morosita' emessa dallo stesso pretore in data 25 gennaio 1991, sulla base della semplice attestazione del procuratore dell'attore, in assenza dell'intimato o del suo procuratore, nonostante l'avvenuto pagamento dei canoni di locazione scaduti nel termine di sessanta giorni previsto nell'ordinanza resa ai sensi dell'art. 55 della legge n. 392/1978. Allegava l'appellante che: 1) avendo il Licoli pagato la somma ritenuta dovuta in nessun caso il pretore avrebbe potuto far discendere effetti negativi dall'assenza all'udienza della verifica del pagamento, essendo stato l'intimato indotto dal comportamento dei procuratori dell'intimante a ritenere definita la lite; 2) malamente il giudicante di prime cure aveva omesso di considerare le presunzioni che assistivano il contegno del Licoli, anche in base al comportamento dei procuratori di controparte; ed allegava che erroneamente erano state valutate le risultanze dell'interrogatorio formale del Palmentieri, relativamente al computo degli interessi dovuti; 3) apoditticamente il pretore aveva ritenuto ininfluente il richiesto giuramento suppletorio; instando in definitiva, previa sospensione dell'ordinanza di convalida, per la totale riforma della sentenza impugnata, con revoca dell'ordinanza di convalida dello sfratto, essendo la domanda fondata: A) sul dolo dell'attore, che dopo aver quantificato gli interessi, dapprima rilascio' quietanza liberatoria senza riserve e poi sorprendentemente attesto' dinanzi al pretore che il debitore si era rifiutato di pagare tutta la somma dovuta; B) sull'errore di fatto indotto dalla falsa attestazione di un inesistente rifiuto di esso Licoli di pagare l'importo realmente dovuto; richiedendo la condanna dell'appellato alle spese. Si costituiva il convenuto contestando genericamente le eccezioni attoree, facendo pero' rilevare che il Licoli non aveva pagato il canone di locazione per ben sette anni, e conseguentemente avrebbe dovuto senz'altro pagare i corrispondenti e proporzionali interessi legali all'atto della sanatoria della morosita'. Reietta l'istanza di sospensione della ordinanza ed acquisito il fascicolo di primo grado, precisate le conclusioni, la causa, senz'altra attivita' istruttoria e' stata posta in decisione all'udienza del 9 marzo 1994. PREMESSE IN DIRITTO Va premesso che, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, non e' affatto pacifica l'ammissibilita' del rimedio della revocazione avverso l'ordinanza di convalida dello sfratto per morosita' emessa dal pretore. Invero, a seguito della sentenza 20 dicembre 1989, n. 558 (in Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 1989, n. 52), nell'attuale assetto normativo, deve ritenersi consentita soltanto la revocazione per errore di fatto avverso le ordinanze di convalida dello sfratto o di licenza per finita locazione nonche' avverso le ordinanze di convalida dello sfratto per morosita', emesse in assenza o per mancata opposizione dell'intimato, mentre la Corte costituzionale non ha ritenuto di estendere (ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87) la portata del giudizio di illegittimita' alle altre ipotesi di cui all'art. 395 del c.p.c. che tutt'oggi contemplano la possibilita' dell'impugnazione soltanto avverso "sentenze". La conferma dell'inestensibilita' della dichiarazione della Corte ai restanti casi dell'art. 395 si rinviene nella successiva ordinanza n. 96/1990, nella parte in cui anzicche' dichiarare la manifesta inammissibilita' della questione proposta in relazione al numero 5 dell'art. 395 relativamente alle ordinanze di convalida, come sarebbe stato nel caso di condivisa estensibilita' del rimedio, ha invece ritenuto pronunziarsi nel merito della questione proposta. A fronte di tale anomala situazione processuale (cosi' sostanzialmente definita dalla prevalente dottrina che si e' interessata del problema dopo la cennata dichiarazione di incostituzionalita') si verifica quindi nel nostro sistema che mentre e' gia' stato esteso il rimedio dell'opposizione - ordinaria e revocatoria - di terzo avverso le ordinanze di convalida dello sfratto per finita locazione (v. sent. Corte costituzionale n. 167/1984) e per morosita' (v. sentenza Corte costituzionale n. 237/1985) ed il rimedio della revocazione per errore di fatto (v. sentenza n. 558/1989), inspiegabilmente rimane precluso all'intimato il rimedio della revocazione nelle altre ipotesi di cui all'art. 395 del c.p.c., con grave disparita' di trattamento a fronte di situazioni del tutto omogenee ed in contrasto col disposto degli artt. 3 e 24 della Costituzione. E tale situazione e' rimasta tutt'oggi inalterata pur a fronte del chiaro invito diretto al legislatore nella prefata sentenza n. 558/1989 di provvedere ad una organica rivisitazione della materia delle impugnazioni dei provvedimenti di convalida. L'anomalia di tale sistema risulta altresi' enfatizzata a fronte della sostanziale indisponibilita' di altri idonei ed appagati rimedi offerti dal legislatore all'intimato che sia stato condannato al rilascio. Invero, condivisa la dominante opinione giurisprudenziale - di diretta applicazione della legge - circa l'inimpugnabilita' dell'ordinanza di convalida dello sfratto emessa in presenza delle condizioni di legge, al condannato al rilascio non resta alcun rimedio processuale avverso il provvedimento emesso in base a dolo accertato dell'intimante o, comunque, in base a prove false; viceversa al condannato per le vie ordinarie, nelle stesse circostanze, viene garantita la possibilita' dell'appello ed, infine, della revocazione. Nemmeno sul punto appare condivisibile l'isolato orientamento di Cass. 21 gennaio 1987, n. 525 (in F. it. 87, I, 2168) secondo cui in tali circostanze le ragioni dell'intimato potrebbero unicamente essere fatte valere con l'azione risarcitoria di cui all'art. 2043 del c.c.: invero - a presciendere dalla opinabilita' sul piano sistematico di tale tesi, che non interessa questa sede - non si comprende per quale motivo mentre in ipotesi del tutto analoghe, ma susseguenti ad una sentenza, debbano garantirsi sistemi di tutela adeguati e conseguenziali nell'ambito dello stesso strumento processuale, a fronte della comparabile ipotesi predetta debba farsi ricorso ad un'azione (lunga, difficile ed astrattamente nemmeno del tutto satisfativa quando si debba compensare la concreta perdita dell'appartamento goduto) a tutela dell'illecito extracontrattuale. Invero, come opportunamente precisato da Corte costituzionale n. 558/1989, "se e' razionale che il procedimento per convalida si atteggi come tutela differenziata in quanto appaga l'esigenza di evitare che il conduttore possa protrarre il godimento del bene locato attraverso l'abuso del diritto di difesa, non altrettanto giustificabile appare il regime di stabilita' di cui gode il provvedimento", che, concludendo il giudizio "ha il contenuto di decisione definitiva" (v. id. e sentenza n. 185/1980). La stessa Corte costituzionale aveva gia' evidenziato a chiare lettere (v. sentenza n. 167/1984) che la ritenuta decisorieta' della convalida portava, in assenza di altri rimedi tipizzati, intrinsecamente il rischio di ingiustizie ben maggiori di quelle possibili dalla sentenza passata in giudicato; e cio', inspiegabilmente, a fronte di uno speciale modulo procedimentale tendenzialmente meno garantista di quello ordinario, che pero' conduce analogamente alla emanazione di un provvedimento che costituisce "giudicato". Peraltro la valorizzazione degli strumenti di garanzia e' stata punto consacrata a livello di sistema nelle modifiche al codice di procedura civile di cui alla legge n. 353/1990 e succ. mod. nella parte in cui sono stati tipizzati i rimedi processuali esperibili avverso i provvedimenti cautelari, a dimostrazione che le esigenze di celerita' dei procedimenti speciali non possono comprimere i rispettivi diritti delle parti oltre ragionevoli limiti di tollerabilita' ( ex art. 24 della Costituzione). La stessa Corte ritenne sin dal lontano 1972 dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 668 del c.p.c. nella parte in cui non consentiva l'opposizione tardiva dell'intimato che, per avendo avuto conoscenza della citazione per la convalida, non era potuto comparire all'udienza per caso fortuito o forza maggiore, cosi' gettando solide basi per i successivi pronunziamenti di incostituzionalita' innanzi citati. Posta negli oramai indiscutibili termini evidenziati la questione deve essere esaminata in termini consequenziali, non potendo ancora trovare ragione d'essere quelle acute critiche sollevate dalla dottrina piu' avvertita, nella parte in cui aveva denunziato l'intima contraddizione giurisprudenziale laddove considera soltanto l'ordinanza emessa al di fuori dei limiti oggettivi ex artt. 657 e 658 del c.p.c., ovvero in assenza delle condizioni formali previste dall'art. 663 del c.p.c., suscettibile di appello per rimuovere la situazione non conforme al diritto, per poi ricredersi - per la mancanza nel procedimento per convalida di una disposizione simile all'art. 656 del c.p.c. - rispetto alla revocazione, pur in presenza di un provvedimento con analogo tangibile "sintomo di ingiustizia" (v. Corte costituzionale 21 maggio 1988, n. 76, in F. It. 88, I, 3663). La rivisitazione in termini garantistici della questione ad opera delle opportune sentenze citate ha comunque fatto giustizia delle questioni sollevate, ma ha di fatto lasciato prive di tutela situazioni - se possibile - di maggiore gravita' di quelle gia' sottoposte a censura, restando escluso dal rimedio della revocazione delle ordinanze di convalida le ipotesi di dolo, di frode processuale e di forza maggiore derivante dalla impossibilita' di utilizzazione o dalla falsificazione di documenti decisivi per fatto dell'altra parte. E non vi e' dubbio che nel caso in esame debba farsi piuttosto applicazione del disposto del n. 1 del citato articolo, anzicche' del pur invocato n. 4; invero, come posto in luce dalla precedente dottrina e dalla stessa sentenza n. 558/1989, per errore di fatto deve intendersi quello inerente ad una circostanza pacifica, che inoppugnabilmente emerga o meno dagli atti processuali, ponendosi alla stessa stregua di un errore materiale, per la cui correzione e' invece previsto uno speciale procedimento. Piu' dettagliatamente l'errore di fatto viene descritto come una svista di carattere materiale che abbia indotto il giudice a supporre l'esistenza di un fatto la cui verita' era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un dato accertato in modo parimenti indiscutibile, purche' il suddetto fatto sia pacifico e abbia costituito presupposto essenziale della decisione. Nel caso in esame invece l'ordinanza di rilascio e' stata emessa, in conformita' della specialita' del rito e della particolare struttura del subprocedimento previsto dall'art. 55 della legge dell'equo canone, sulla base di una semplice attestazione del locatore in ordine al mancato rispetto del termine di grazia assegnato dal pretore per far fronte alla riconosciuta morosita' - attestazione che si assume (apertamente) mendace (tanto da richiamare la sussistenza del reato di cui all'art. 483 del c.p.) in quanto il conduttore aveva pagato, entro il termine concesso, nelle mani del procuratore del locatore, la somma ritenuta e riconosciuta esatta, corrispondentemente ricevendosi finale quietanza - che lo aveva indotto a non comparire nella successiva udienza di verifica ex art. 55 della legge n. 392/1978. Orbene, premesso che dalla mancata comparizione del conduttore all'udienza di verifica non e' legittimo trarre autonomamente giudizi negativi, giacche', come anche accade nel procedimento contumaciale, all'assenza non e' possibile riconnettere l'ammissione dei fatti allegati dall'attore, non c'e' chi non veda come altro, se non con la revocazione ex n. 1 dell'art. 395 del c.p.c., possa far valere il conduttore le sue ragioni avverso il provvedimento di convalida emesso dal pretore in presenza di dichiarazioni del locatore che si assumono mendaci o, comunque, non veritiere. La questione e' fondata ed appare rilevante nel caso di specie, condizionando il successivo esame di merito, giacche' l'istante chiede appunto l'annullamento della citata ordinanza sull'assunto che essa e' stata emessa in base ad una dichiarazione del locatore non rispondente a verita'; ed, allo stato del diritto, il pretore, e, conseguentemente, questo Tribunale in grado di appello, dovrebbe dichiarare l'inammissibilita' della domanda qualora la Corte non dovesse ritenere illegittimo l'art. 395 del c.p.c. nella parte in cui non consente altre impugnazioni delle ordinanze di convalida dello sfratto al di fuori dei casi di errore di fatto (per identica questione proposta all'esame della Corte (v. pret. Milano ord. 9 maggio 1985 in F. It. 85, I, 2108). Ne' la domanda appare prima facie infondata, si' da condurre ad una prodromica dichiarazione di irrilevanza. In realta' pur essendo la domanda di revocazione principalmente fondata, come allega lo stesso appellante, su presunzioni, come anticipato, egli sostiene di essersi recato nel termine previsto nell'ordinanza pretorile presso lo studio del procuratore dell'intimante per adempiere all'ordine di sanare la dedotta morosita' di L. 6.580.000 oltre interessi legali e spese, liquidate in L. 400.000, e di avere susseguentemente versato nelle mani di questi, che ne aveva anche quantificato l'importo, la somma di L. 7.173.670 a mezzo di assegno di c.c., ricevendosi una quietanza senz'altra riserva che quella per il buon fine dell'assegno. Di non essersi quindi recato alla c.d. udienza di rinvio per la verifica del pagamento nella perfetta consapevolezza dell'avvenuta cessazione della materia del contendere. Allega dunque l'appellante di essere stato indotto in errore dal contegno dell'appellato, o del suo procuratore, che giammai avevano prima precisato l'entita' della somma dovuta, pur essendo specifico dovere del creditore di collaborare nella esatta esecuzione della prestazione ( ex art. 1175 del c.c.), soltanto nelle successive fasi peritandosi di precisare l'importo degli interessi pretesi, contraddittoriamente, dapprima in L. 800.000 e poi in L. 1.200.000, cosi' ulteriormente dimostrando la mala fede. La presunzione principale risiede dunque nella dimostrazione che verosimilmente alcun contrasto sorse tra le parti quando si tratto' di definire la somma a pagare, tant'e' che nemmeno nel successivo giudizio di revocazione il creditore seppe correttamente indicare in prima battuta l'entita' della somma reclamata. Posta nei termini che precedono il comportamento del locatore (o del suo procuratore) appare del tutto idoneo a provocare il comportamento (assenteistico) del conduttore all'udienza di verifica. Invero sotto il profilo meramente naturalistico appare immediatamente nella logica delle cose che il debitore abbia voluto adempiere alla propria obbligazione al fine di non vedere emessa ordinanza di convalida dello sfratto per morosita' e non certo per assolvere ad un generico impegno di pagamento verso il creditore. L'adempimento e' pertanto posto in correlazione con l'incombente pericolo di risoluzione del contratto e, quindi, con lo sfratto: se il debitore non avesse voluto adempiere non avrebbe fatto istanza di concessione del termine di grazia o, quantomeno, non si sarebbe recato presso il creditore (o presso il di lui procuratore) nel termine fissato dal pretore per pagare un importo non indifferente, senza trarne alcun beneficio. Insomma, se avesse soltanto voluto adempiere alla propria obbligazione scaduta di pagamento dei canoni, senz'altro interesse per le sorti della locazione, ben difficilmente si sarebbe comportato nel modo evidenziato. Per quanto interessa il giudizio di ammissibilita' della domanda, secondo un giudizio riferibile a quello dell'uomo medio, sembra del tutto conseguenziale che il debitore non avrebbe avuto alcuna difficolta' ad adempiere (totalmente) alla obbligazione accessoria degli interessi una volta adempiuto integralmente al pagamento della sensibile sorta capitale e delle spese. Ma vi e' di piu': la quietanza rilasciata senza riserve se gia' quando proveniente dal c.d. uomo medio appare normalmente circostanza significativa della completa definizione degli interessi delle parti, allorquando proviene da uno specialista della materia giuridica non puo' non assumere connotati particolari, tanto dal punto di vista subiettivo che da quello oggettivo. Sotto il primo profilo e' infatti evidente che legittimamente il Licoli, vedendosi rilasciare una quietanza da un avvocato, sia stato indotto in errore ritenendosi completamente liberato da ogni impegno, tanto da non presentarsi alla successiva udienza di verifica. Dal punto di vista obiettivo poi e' altrettanto evidente che un professionista in buona fede avrebbe dovuto quantomeno specificare che l'assegno veniva trattenuto in acconto della maggior somma dovuta, che, come opportunamente fatto rilevare dal procuratore dell'appellante, sicuramente non era nemmeno conosciuta dal locatore al momento della consegna dell'assegno, o, comunque, non era stata specificamente richiesta, altrimenti non si comprenderebbe per quale motivo sia stata indicata a fatica nel successivo giudizio di revocazione. In sintesi, senza per questo stare ad indagare in questo momento su chi doveva compiutamente determinare ed imputare gli interessi, e' del tutto palese che alla data del 20 marzo 1991 nessuna delle parti dovette dubitare dell'esatto importo della somma che il conduttore doveva pagare: infatti da un lato il debitore ha comunque versato una somma maggiore del capitale e delle spese legali, dall'altra il creditore, pur ricevendosi incondizionatamente la somma versata, ha soltanto nelle successive fasi del giudizio, e contraddicendosi, precisato l'entita' delle somme dovute. E' pur vero che la giurisprudenza e la dottrina prevalenti interpretano correntemente il disposto dell'art. 1199 del c.c. nel senso che la quietanza ha valore di atto unilaterale non negoziale recettizio a contenuto semplicemente ricognitivo di quanto versato - senza cioe' implicazione della volonta' liberatoria (di rinunzia o transazione) del debitore in ordine a quanto eventualmente ancora da versare - ma e' altrettanto vero che, nel caso di specie, ai fini che interessano, la prestazione deve essere riguardata nella complessiva dimensione del rapporto e non avulsa dalla concretezza della vicenda. Appare pertanto allo stato verosimile che effettivamente il creditore abbia rilasciato quietanza al debitore con funzione liberatoria; che, pertanto, in mala fede, ed all'evidente scopo di liberarsi del non gradito conduttore, sia successivamente comparso davanti al Pretore attestando non solo l'inesatto adempimento, ma anche lo specifico rifiuto dell'intimato di pagare gli interessi legali dalle singole scadenze dei canoni anzicche' quelli maturati dalla notifica della intimazione. Sotto tali aspetti l'ordinanza pretorile puo' allora apparire come frutto del dolo di una parte nei confronti dell'altra piuttosto che di un errore di fatto del pretore, sia pure indotto dall'altra parte. Invero l'ordinanza non e' in se' frutto di una "svista" del giudice, che giustifichi, secondo l'interpretazione corrente, il rimedio revocatorio: il pretore, sulla scorta della verosimile dichiarazione di parte, ha formalmente e legittimamente emesso l'anzidetto provvedimento, che, appunto, nell'esame odierno, non puo' considerarsi erroneo. Il giudice in sostanza non conosceva la situazione sottostante e, processualmente, doveva fidarsi della dichiarazione del locatore, appunto oggi denunziata come dolosa, che, in quanto tale, giustifica il dubbio di incostituzionalita' denunziato (per un caso analogo di dolo ritenuto (v. pretura Roma 25 gennaio 1983, Foro it. 1983, I, 2034). Alla stregua delle suddette considerazioni l'inesperibilita' della revocazione di cui ai nn. 1 e 2 dell'art. 395 del c.p.c. si atteggia come intollerabile compressione del diritto di difesa previsto dall'art. 24 della Costituzione nella parte in cui non consente alcuna forma di tutela di un diritto (obbligatorio e connesso a quello all'abitazione, peraltro costituzionalmente garantito e difficilmente risarcibile per equivalente) avverso l'ordinanza di sfratto per morosita' emessa in assenza del conduttore, dopo che la parte sia stata indotta a non comparire in udienza a causa del comportamento dell'altra parte, in violazione dei principi informatori del sistema che impongono l'espletamento di un processo "giusto", con una tendenziale identita' degli strumenti per attuare i diritti di difesa in situazioni simili. Si atteggia inoltre come violazione dell'art. 3 della Costituzione nella parte in cui a fronte di una situazione perfettamente identica, pur derivata da un titolo, la sentenza - ad identico contenuto decisorio (v. Corte costituzionale 7 giugno 1984, n. 167) - che pur si forma attraverso un modulo procedimentale piu' garantista e progressivo, non appresta nel caso di ritenuto dolo dell'istante (cui puo' ricondursi il caso di dichiarazione ideologicamente falsa o della prova falsa), analoghi rimedi processuali, in assenza di qualsivoglia fondamento di ragionevolezza. Apparendo pertanto la questione non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione del caso concreto, anche in ordine alla eventuale ammissione delle pur richieste ulteriori prove finalizzate a corroborare la dimostrazione del dolo della parte, la prospettata questione di costituzionalita' va rimessa, d'ufficio, prima di ogni altra indagine all'esame della Corte costituzionale.
P. Q. M. Visti gli artt. 1 della legge 9 febbraio 1948 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 395 del c.p.c. nella parte in cui non prevede la revocazione delle ordinanze di convalida dello sfratto per morosita' emesse sulla base di dichiarazione di persistenza della morosita' non rispondente alla situazione obiettiva, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione; Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento. In Napoli nella camera di consiglio del 23 marzo 1994. Il presidente: SANGIUOLO L'estensore: FORGILLO 94C0751