N. 357 SENTENZA 19 - 27 luglio 1994

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Ordinamento  penitenziario  -  Condannati  per  taluni  gravi delitti
 (nella specie: associazione  per  delinquere  di  stampo  mafioso)  -
 Divieto  di concessione di benefici (affidamento al servizio sociale,
 semiliberta' ecc.) - Eccezioni - Possibilita' che  i  benefici  siano
 concessi,  oltre  che nei casi di collaborazione con la giustizia, ai
 detenuti o internati ai quali, anche  se  la  collaborazione  offerta
 risulti  oggettivamente  irrilevante,  sia  stata applicata una delle
 circostanze attenuanti previste dagli artt. 62, n. 6, o  114,  ovvero
 la  disposizione  dell'art.  116  codice  penale, purche' siano stati
 acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualita' di
 collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata  -  Esclusione   dai
 benefici,  invece, nell'ipotesi, sostanzialmente equivalente, in cui,
 ricorrendo quest'ultima condizione, pur non essendo  stata  applicata
 nessuna delle su indicate disposizioni, la limitata partecipazione al
 fatto,  come  accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile
 un'utile collaborazione la giustizia - Violazione  del  principio  di
 eguaglianza  -  Illegittimita' costituzionale parziale - Assorbimento
 di altri profili.
 
 (Legge 26 luglio 1975, n.  354,  art.  4-bis,  primo  comma,  secondo
 periodo,  come sostituito dal d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito
 in legge 7 agosto 1992, n. 356, art. 15, primo comma, lett. a)).
 
 (Cost., artt. 3, 24, 25 e 27).
 
 Ordinamento penitenziario  -  Condannati  per  taluni  gravi  delitti
 (nella  specie:  associazione  per  delinquere  di  stampo mafioso) -
 Esclusione dai benefici  se  non  ricorrono  le  condizioni  previste
 dall'art.  58-ter  ordinamento  penitenziario  (collaborazione con la
 giustizia) - Lamentata irragionevole discriminazione tra condannati -
 Denunciato contrasto con  il  principio  della  funzione  rieducativa
 della  pena  con  incidenza  sul diritto di difesa e sul principio di
 irretroattivita' della legge penale - Sopravvenuta superfluita' della
 questione a seguito della decisione di  illegittimita'  costituzinale
 sopra indicata - Inammissibilita'.
 
 (Legge  26  luglio  1975,  n.  354,  art.  4-bis,  primo comma, primo
 periodo, come sostituito dal d.-l. 8 giugno 1992, n. 306,  convertito
 in legge 7 agosto 1992, n.  356, art. 15, primo comma, lett. a)).
 
 (Cost., artt. 3, 24, 25 e 27).
 
(GU n.32 del 3-8-1994 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo
    CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo
    CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Cesare
    MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv.  Massimo  VARI,  dott.
    Cesare RUPERTO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, primo
 comma, della legge 26 luglio 1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
 penitenziario  e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
 della liberta'), come modificato dall'art. 15, primo  comma,  lettera
 a)  del  decreto-legge  8  giugno  1992, n. 306 (Modifiche urgenti al
 nuovo codice di procedura penale e provvedimenti  in  contrasto  alla
 criminalita'  mafiosa), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356,
 promosso con ordinanza emessa il 24 gennaio  1994  dal  Tribunale  di
 sorveglianza  di  Bari nel procedimento di sorveglianza nei confronti
 di Favia Matteo iscritta al n. 220  del  registro  ordinanze  1994  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 17, prima
 serie speciale, dell'anno 1994;
    Visti l'atto di costituzione di Favia  Matteo  nonche'  l'atto  di
 intervento del Presidente del consiglio dei ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  dell'8 giugno 1994 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
   1. - In un procedimento promosso  per  l'ammissione  al  regime  di
 affidamento  in prova al servizio sociale o, in alternativa, a quello
 di semiliberta' da un condannato alla pena di due anni e sei mesi  di
 reclusione  per  i  reati  di  associazione  per delinquere mafiosa e
 detenzione di sostanze stupefacenti, il Tribunale di sorveglianza  di
 Bari,  rilevato che, pur dovendosi escludere che l'istante mantenesse
 collegamenti  con  la   criminalita'   organizzata,   ostavano   alla
 concessione dei benefici la condanna per il primo dei predetti reati,
 in  mancanza  del  presupposto  della collaborazione con la giustizia
 previsto dal primo comma, primo periodo, dell'art. 4- bis della legge
 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla
 esecuzione  delle misure privative e limitative della liberta'), come
 sostituito dall'art. 15, primo comma, lettera a), del decreto-legge 8
 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356,  o
 di quello del riconoscimento delle circostanze attenuanti considerate
 dal primo comma, secondo periodo del predetto articolo, ha sollevato,
 in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  25  e  27  Cost., questione di
 legittimita'    delle    riferite    disposizioni    dell'ordinamento
 penitenziario.
    In  particolare,  a  parere  del  giudice a quo, la previsione del
 secondo periodo del primo comma dell'art.  4-bis,  che  subordina  la
 concedibilita'  dei  benefici  carcerari ai condannati per taluno dei
 reati "ostativi" di cui al primo  periodo  del  medesimo  comma  alla
 condizione che a tali soggetti, pur in presenza di una collaborazione
 oggettivamente irrilevante, sia stata applicata una delle circostanze
 attenuanti  di cui agli artt. 62, n. 6, 114 o 116, secondo comma, del
 codice penale, contrasta con  il  principio  di  uguaglianza  sancito
 dall'art.  3 Cost., in quanto opera una irragionevole discriminazione
 tra  condannati  che  abbiano  ugualmente  avuto  una  partecipazione
 all'attivita'   delittuosa   del  tutto  secondaria  (come  nel  caso
 dell'istante, significativamente condannato a  una  pena  modesta  in
 relazione  al  titolo del reato), tale da non consentire una concreta
 possibilita'  di  utile  collaborazione  con la giustizia; e cio' sia
 perche' il riconoscimento  delle  specifiche  attenuanti  considerate
 dalla  norma  non  esaurisce  l'area delle situazioni di marginalita'
 della partecipazione a sodalizi criminosi sia perche' una di  esse  -
 quella   del   risarcimento  del  danno  -  introduce  una  ulteriore
 discriminazione  tra  soggetti  a  seconda   delle   loro   capacita'
 economiche,  senza peraltro rivestire alcun significato ai fini della
 valutazione del grado di  pericolosita'  sociale  del  condannato  e,
 quindi,  della  giustificabilita'  della  irrilevanza del suo apporto
 collaborativo.
    La disposizione del primo periodo del primo comma sarebbe  poi  in
 contrasto,  in  primo  luogo,  sia  con il diritto di difesa tutelato
 dall'art.  24  Cost.  sia  con   i   princi'pi   di   uguaglianza   e
 ragionevolezza   implicati   dall'art.   3  Cost.:  quanto  al  primo
 parametro, perche' la concedibilita' dei benefici  solo  ai  soggetti
 collaboranti  potrebbe  indurre  l'imputato,  anche  se  innocente, a
 dichiarare falsamente la  sua  colpevolezza,  cosi'  tra  l'altro  da
 intralciare il retto cammino della giustizia e il perseguimento delle
 reali  responsabilita'  penali;  quanto  al principio di uguaglianza,
 perche' il condannato innocente impossibilitato a  collaborare  viene
 ad  essere  discriminato  rispetto  a chi, realmente criminale, e' in
 grado  di  tenere  questo  atteggiamento;  quanto  al  principio   di
 ragionevolezza, perche' la previsione condiziona irragionevolmente le
 scelte   difensive,  nella  fase  della  cognizione,  al  trattamento
 penitenziario.
    Secondo  il  remittente,  inoltre,   la   medesima   disposizione,
 estendendo  la  sua  portata applicativa al passato, e in particolare
 anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore  (come  nel
 caso  di  specie,  trattandosi di reato consumato nel 1989) contrasta
 con il  divieto  di  retroattivita'  della  legge  penale,  stabilito
 dall'art. 25 Cost., dovendosi riconoscere alle norme dell'ordinamento
 penitenziario  natura sostanziale, atteso che la pena viene ad essere
 specificata nel suo contenuto  e  nella  sua  concreta  afflittivita'
 proprio  dalle disposizioni che regolano il trattamento esecutivo, in
 genere, e da quelle relative alle misure alternative alla detenzione,
 in specie. Nel caso di  specie,  si  osserva,  all'istante  e'  stata
 sottratta  la possibilita' di prevedere le conseguenze, in termini di
 accesso  ai  benefici  penitenziari,  derivanti  dalla  sua  condotta
 processuale.
    Infine,  ad  avviso del Tribunale, la previsione del primo periodo
 del primo comma puo' ritenersi ledere il  principio  della  finalita'
 rieducativa  della  pena  di  cui  all'art.  27 Cost.. Essa, infatti,
 vanifica, in mancanza  del  presupposto  della  collaborazione,  ogni
 prospettiva  di  reinserimento  del  condannato  nel  tessuto sociale
 durante la espiazione  della  pena,  rendendo  cosi'  irrilevante  la
 partecipazione  al  processo  di  rieducazione  che  il medesimo puo'
 compiere dopo la condanna.
    2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, che ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate.
    Circa l'osservazione del remittente, secondo cui la disciplina  in
 esame  non da' rilievo alla collaborazione oggettivamente irrilevante
 al  di  fuori  delle  circostanze  specificamente   individuate   dal
 legislatore,  l'Avvocatura  sostiene  che  tale  limitazione  non  e'
 irragionevole,  considerata  anche l'assimilazione a tale presupposto
 della   "collaborazione   impossibile"    affermata    dalla    Corte
 costituzionale con la sentenza n. 306 del 1993.
    Sarebbero  infondati  anche i dubbi di costituzionalita' sollevati
 con riferimento agli altri parametri.
    Secondo la difesa  del  Governo,  e'  contraddittorio  fondare  la
 lesione    dell'art.   24   Cost.   sull'ipotesi   di   un   imputato
 impossibilitato a  collaborare  in  quanto  innocente,  poiche'  tale
 situazione  e'  coperta dal giudicato di condanna, salvi gli istituti
 previsti dall'ordinamento per rimediare all'errore giudiziario.
    Non verrebbe in causa nemmeno  il  principio  di  irretroattivita'
 della  legge  penale,  perche',  come sarebbe desumibile dalla citata
 sentenza della Corte, in sede di ammissione ai benefici il giudice si
 limita a valutare il comportamento del  condannato  alla  stregua  di
 indici di pericolosita' legalmente prefissati.
    Infine,  conclude  l'Avvocatura,  la  questione e' infondata anche
 sotto il profilo dell'art. 27 Cost., in quanto, sempre  alla  stregua
 dei   princi'pi   affermati  dalla  sentenza  n.  306,  la  finalita'
 rieducativa della pena va coordinata con la considerazione del  grado
 di  pericolosita'  del  condannato,  sicche'  e'  ragionevole  che il
 legislatore riduca o circoscriva l'ambito di  applicazione  di  certi
 benefici subordinandoli al verificarsi di determinati presupposti.
    3.  -  La  parte  privata  ha  depositato  fuori  termine  atto di
 costituzione nel giudizio, a sostegno  della  tesi  della  natura  di
 legge penale sostanziale delle norme disciplinanti le misure alterna-
 tive alla detenzione.
                        Considerato in diritto
   1. - Il Tribunale di sorveglianza di Bari dubita della legittimita'
 costituzionale  dell'art.  4-bis, primo comma, secondo periodo, della
 legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
 sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
 come  sostituito  dall'art. 15, primo comma, lettera a), del decreto-
 legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti  al  nuovo  codice  di
 procedura  penale  e  provvedimenti  di  contrasto  alla criminalita'
 mafiosa), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che subordina
 la concedibilita' dei benefici carcerari ai condannati per taluno dei
 delitti "ostativi" indicati nel primo periodo del medesimo comma alla
 condizione che a tali soggetti, pur in presenza di una collaborazione
 oggettivamente irrilevante, sia stata applicata una delle circostanze
 attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6, 114 o 116, secondo comma,  del
 codice  penale.  Piu'  precisamente,  l'organo  remittente  rileva il
 contrasto di tale previsione con il principio di uguaglianza  sancito
 dall'art. 3 Cost., per l'irragionevole discriminazione tra condannati
 che   abbiano   ugualmente  avuto  una  partecipazione  all'attivita'
 delittuosa del tutto secondaria, tale da non consentire una  concreta
 possibilita'  di  utile  collaborazione  con la giustizia; e cio' sia
 perche' il riconoscimento  delle  specifiche  attenuanti  considerate
 dalla  norma  non  esaurisce  l'area delle situazioni di marginalita'
 della partecipazione a sodalizi criminosi sia perche' una di  esse  -
 quella   del   risarcimento  del  danno  -  introduce  una  ulteriore
 discriminazione  tra  soggetti  a  seconda   delle   loro   capacita'
 economiche,  senza peraltro rivestire alcun significato ai fini della
 valutazione del grado di  pericolosita'  sociale  del  condannato  e,
 quindi,  della  giustificabilita'  della  irrilevanza del suo apporto
 collaborativo.
    Il Tribunale sottopone altresi' a scrutinio  di  costituzionalita'
 la  previsione di cui al primo periodo del medesimo art. 4-bis, primo
 comma, della legge n. 354 del 1975, che, relativamente ai  condannati
 per  taluno dei delitti ivi indicati, subordina la concedibilita' dei
 benefici carcerari  alla  collaborazione  con  la  giustizia.  E'  al
 riguardo  dedotto  il  contrasto  con  l'art.  24  Cost.,  perche' la
 concedibilita' dei benefici solo ai  soggetti  collaboranti  potrebbe
 indurre  l'imputato,  anche  se innocente, a dichiarare falsamente la
 sua colpevolezza; con l'art. 3 Cost.,  sotto  il  profilo  sia  della
 disparita'   di   trattamento,   perche'   il   condannato  innocente
 impossibilitato a collaborare viene ad essere discriminato rispetto a
 chi, realmente criminale, e' in grado di tenere questo atteggiamento,
 sia della irragionevolezza, perche' condiziona le  scelte  difensive,
 nella fase della cognizione, al trattamento penitenziario; con l'art.
 25  Cost.,  perche',  estende  la sua portata applicativa al passato,
 dovendosi  riconoscere  alle  norme  dell'ordinamento   penitenziario
 natura  penale  sostanziale;  e, infine, con l'art. 27 Cost., perche'
 vanifica, in mancanza  del  presupposto  della  collaborazione,  ogni
 prospettiva  di  reinserimento  del  condannato  nel  tessuto sociale
 durante la espiazione della pena.
    2. - La questione relativa al  secondo  periodo  del  primo  comma
 dell'art. 4- bis dell'ordinamento penitenziario e' fondata.
    Nell'illustrare  per  il  Senato le finalita' della disciplina sul
 divieto  di  concessione  dei  benefici  contenuta  nel  nuovo  testo
 dell'art.  4-bis,  modificato  dal  decreto-legge n. 306 del 1992, il
 Relatore (atto n. 328) osservava che non era "solo il contributo piu'
 o  meno  significativo  alle  indagini   a   costituire   il   fulcro
 dell'intervento  governativo";  e che cio' "che le norme hanno inteso
 esprimere e' che, attraverso la collaborazione, chi si e'  posto  nel
 circuito  della  criminalita'  organizzata  puo' dimostrare per facta
 concludentia di esserne uscito". Cio' doveva considerarsi in  armonia
 con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena
 "perche'  e'  solo  la scelta collaborativa ad esprimere con certezza
 quella volonta'  di  emenda  che  l'intero  ordinamento  penale  deve
 tendere  a  realizzare". Si aveva d'altro canto cura di precisare che
 la "via del ravvedimento operoso ( ..) e' aperta a tutti", purche' si
 tratti di scelta inequivoca: "o continuare a percorrere le vie  della
 criminalita'   organizzata  o  scegliere  la  strada  della  societa'
 civile".
    Quanto alla  disposizione  impugnata,  essa  trae  origine  da  un
 emendamento,  apportato  al  testo  del  decreto-legge  n.  306 dalla
 Commissione Giustizia del Senato, avente  la  finalita',  sempre  per
 usare   le  parole  del  relatore,  "di  contemperare  l'esigenza  di
 severita' cui si ispira il decreto-legge con quella  di  non  dettare
 disposizioni     criticabili    sul    piano    della    legittimita'
 costituzionale".
    Con questa previsione sono stati normativamente definiti i casi in
 cui la rottura dei collegamenti con la criminalita' organizzata  puo'
 essere    accertata    anche   prescindendo   dal   requisito   della
 collaborazione rilevante (come definita dall'art. 58- ter ord. pen.).
 Seppure non chiaramente esplicitato dai lavori preparatori, e' lecito
 ritenere che la ratio della non  preclusivita'  della  collaborazione
 irrilevante  sia  legata  a  due  ordini  di particolari ed obiettive
 situazioni. Una parte di esse  si  collega  alla  marginalita'  della
 partecipazione  del  soggetto  nel  contesto del sodalizio criminoso,
 tale  da   non   rendere   concretamente   possibile   una   condotta
 collaborativa   significativa.   E'   questo  il  caso  dell'avvenuta
 applicazione dell'art. 114 cod.  pen.  (riconoscimento  della  minima
 importanza  causale  della  condotta) ovvero, seppure con meno sicura
 pertinenza,  dell'art.  116,  secondo  comma,  del  medesimo   codice
 (diminuzione  di  pena  per  il concorrente che abbia voluto un reato
 meno grave rispetto  a  quello  poi  commesso).  Sfugge  invece  alla
 dimensione del livello di partecipazione al fatto del soggetto agente
 il riferimento al requisito alternativo del risarcimento del danno ex
 art.   62,   n.  6,  cod.  pen.  (anche  successivo  alla  condanna):
 verosimilmente in questo caso il legislatore ha  ritenuto  un  simile
 comportamento  post delictum presuntivamente incompatibile, per altra
 via,  con  la  sussistenza  di  collegamenti  con   la   criminalita'
 organizzata.
    Il regime scaturito dalla modifiche apportate all'art. 4- bis ord.
 pen.  dal  decreto-legge n. 306 del 1992, come modificato dalla legge
 di conversione n. 356 del 1992, e' quindi compendiabile, ai fini  che
 qui  interessano,  nelle  seguenti  proposizioni: a) i condannati per
 determinati  delitti   ricollegabili   all'area   della   delinquenza
 organizzata,  individuati nel primo periodo del primo comma dell'art.
 4-bis, non  possono  ottenere  i  benefici  penitenziari  se  non  e'
 raggiunta  la  prova  certa della rottura dei collegamenti tra essi e
 l'ambiente criminale di cui facevano parte; b) tale  prova  non  puo'
 considerarsi  raggiunta  se l'interessato non collabori efficacemente
 con la giustizia a norma dell'art.  58-ter;  c)  proprio  perche'  la
 collaborazione,  a  prescindere  dai risultati che essa puo' produrre
 nella lotta contro il crimine, e' presa in considerazione dalla norma
 quale dimostrazione del  distacco  del  condannato  dal  mondo  della
 criminalita'  organizzata, essa puo' valere ai fini della concessione
 dei benefici anche se oggettivamente irrilevante, qualora cio'  trovi
 giustificazione  o  nella marginalita' della partecipazione criminosa
 (artt. 114 e 116, secondo comma, cod. pen.) o in altri indici  legali
 (art. 62, n. 6, cod. pen.).
    A questo quadro va aggiunto che, in forza della sentenza di questa
 Corte n. 306 del 1993, alla collaborazione oggettivamente irrilevante
 e'  equiparata  la  collaborazione  impossibile,  perche' (ricorrendo
 sempre  i  requisiti  legali  di  cui   si   e'   detto)   "fatti   e
 responsabilita'  sono gia' stati completamente acclarati o perche' la
 posizione marginale nell'organizzazione  non  consente  di  conoscere
 fatti e compartecipi pertinenti al livello superiore".
    3.  -  Il giudice a quo deduce appunto che anche altre situazioni,
 diverse da  quelle  nominativamente  individuate  dalla  disposizione
 impugnata,  avrebbero  dovuto  essere  considerate  dal  legislatore,
 seguendo la medesima ratio,  come  meritevoli  di  considerazione  in
 presenza di collaborazione oggettivamente irrilevante.
    Secondo   l'apprezzamento   dell'organo   rimettente,   l'istante,
 condannato alla pena complessiva di due anni e sei mesi di reclusione
 per il reato (ostativo, ex art. 4- bis primo comma, primo periodo) di
 associazione per  delinquere  di  stampo  mafioso  e  per  quello  di
 detenzione  illecita  di  sostanza stupefacente, non manterrebbe piu'
 collegamenti con la criminalita' organizzata; e  l'impossibilita'  di
 collaborare con la giustizia deriverebbe dalla marginalita' della sua
 partecipazione  all'associazione criminosa, come si ricaverebbe anche
 dalla mite pena irrogatagli.
    Ora, nel giudizio di  costituzionalita'  definito  con  la  citata
 sentenza  n.  306  del  1993,  questa Corte, nell'esaminare questioni
 riguardanti   la    medesima    disposizione,    pur    dichiarandone
 l'inammissibilita'  per difetto di motivazione sulla rilevanza, aveva
 osservato che quelle di cui agli artt. 62, n.  6,  114  e  116,  cod.
 pen.,  erano  "fattispecie  normativamente  assai  ristrette",  e che
 potevano "darsi ipotesi ad esse cosi' prossime sul piano fattuale, da
 poterne sostenere ragionevolmente l'assimilazione".
    Questa valutazione non puo' qui che essere confermata.
    Tralasciando il riferimento normativo all'art. 116 cod. pen.,  che
 integra  una fattispecie del tutto particolare, e quello all'art. 62,
 n. 6, del medesimo codice, che, come  si  e'  gia'  sottolineato,  e'
 estraneo  al  profilo  del  livello  di  partecipazione criminosa del
 soggetto agente, va in primo luogo osservato che l'attenuante di  cui
 all'art.  114 non puo' essere riconosciuta, a norma del secondo comma
 di tale articolo, "nei casi  indicati  nell'art.  112",  tra  cui  e'
 quello  del  numero dei concorrenti (cinque o piu'), elemento che, se
 puo'  rilevare  ai  fini  della  non  concedibilita'  dell'attenuante
 (trattandosi  in sostanza di una valutazione legale di plusvalenza di
 una aggravante), non esprime alcun particolare  significato  ai  fini
 della  individuazione del grado di coinvolgimento nel fatto criminoso
 di questo o quel  concorrente.  Inoltre,  trattandosi  di  attenuante
 facoltativa,   essa  puo'  non  essere  applicata,  come  afferma  la
 giurisprudenza, per motivi del tutto diversi dal dato obiettivo della
 minima partecipazione, ad esempio per la gravita' del reato ai  sensi
 dell'art.  133  cod.  pen.  Secondo  l'orientamento giurisprudenziale
 prevalente,  poi,  l'attenuante  in  questione  non  potrebbe  essere
 applicata  nell'ambito  delle fattispecie plurisoggettive necessarie,
 quali sono buona parte di quelle considerate dall'art. 4- bis,  primo
 comma, primo periodo.
    Se  ne  ricava innanzi tutto che, nell'economia della disposizione
 impugnata, l'art. 114 (non diversamente dagli artt. 116 e 62,  n.  6)
 costituisce   un   termine  di  riferimento  disomogeneo  e  comunque
 inappagante. Infatti, partendo dal dato del minimo contributo causale
 rispetto al fatto-reato, altro e' valutare, in sede di cognizione, se
 l'imputato sia meritevole, anche sotto il profilo soggettivo, di  una
 diminuzione  di  pena, altro e' stabilire, nel quadro delle finalita'
 della esecuzione penale, se, obiettivamente, al  condannato  non  sia
 possibile  offrire  una  collaborazione  che  superi  la soglia della
 irrilevanza.
   Ma,  piu'  in  generale,  deve  ritenersi  che  una  collaborazione
 rilevante  a  termini  dell'art.  58- ter ord. pen. possa essere resa
 impossibile da una partecipazione al  fatto  secondaria,  o  comunque
 limitata,  ma  non  tale da corrispondere a quella "minima importanza
 nella  preparazione  o  nell'esecuzione   del   reato")   considerata
 dall'art.  114  cod.  pen. Giova al riguardo sottolineare che, stando
 alla giurisprudenza (che ha fatto una applicazione molto  restrittiva
 della  fattispecie in esame), non basta ai fini del riconoscimento di
 tale attenuante la "minore" efficienza causale dell'attivita'  di  un
 concorrente  rispetto  a  quella  degli  altri, occorrendo invece una
 "minima"  efficienza  causale,  tale  da  configurare  l'apporto  del
 concorrente    come    sostanzialmente    trascurabile   nel   quadro
 dell'economia generale del reato.
    Se, dunque, la ratio della non preclusivita' della  collaborazione
 irrilevante   si   collega   tra   l'altro  alla  marginalita'  della
 partecipazione del soggetto nel  contesto  del  sodalizio  criminoso,
 tale  appunto  da  non  rendere  concretamente possibile una condotta
 collaborativa  significativa,  consegue  che   la   norma   impugnata
 irragionevolmente  discrimina,  ai  fini  dell'ammissione ai benefici
 penitenziari, il condannato che, per il suo  limitato  patrimonio  di
 conoscenze  di  fatti  o  persone, al di la' dei casi di applicazione
 degli artt. 62, n. 6, 114 e 116, secondo comma, cod. pen., non sia in
 grado di prestare un'utile collaborazione con la giustizia  ai  sensi
 dell'art. 58- ter ord. pen.
    Resta   fermo   che,  trattandosi  di  apprezzamento  che  attiene
 all'accertamento della responsabilita' definita con  la  sentenza  di
 condanna,  e' solo a questa che occorre fare riferimento per valutare
 se ricorrano le condizioni sopra  indicate,  essendo  inevitabilmente
 preclusa,   per   l'intangibilita'   del   giudicato,   ogni  diversa
 valutazione degli organi che presiedono alla fase esecutiva.
    4. - Va pertanto dichiarata, per contrasto  con  l'art.  3  Cost.,
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, secondo
 periodo,  della  legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non
 prevede che i benefici di cui al primo  periodo  del  medesimo  comma
 possano   essere   concessi   anche  nel  caso  in  cui  la  limitata
 partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella  sentenza  di
 condanna, renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia,
 sempre  che  siano  stati  acquisiti  elementi  tali  da escludere in
 maniera  certa  l'attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'
 organizzata.
    5.  -  Una  volta  dichiarata  l'illegittimita' costituzionale del
 secondo periodo del primo comma dell'art. 4-bis,  nei  termini  sopra
 precisati,  si  rende  superflua  la  questione  riguardante il primo
 periodo del medesimo comma, che va pertanto dichiarata inammissibile.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,  primo
 comma, secondo periodo, della legge 26 luglio 1975,
 n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
 misure  privative  e  limitative  della  liberta'),  come  sostituito
 dall'art. 15, primo comma, lettera a),  del  decreto-legge  8  giugno
 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
 provvedimenti  di  contrasto  alla  criminalita' mafiosa), convertito
 nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui non prevede che
 i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possano  essere
 concessi  anche  nel  caso in cui la limitata partecipazione al fatto
 criminoso,  come  accertata  nella  sentenza   di   condanna,   renda
 impossibile  un'utile  collaborazione  con  la  giustizia, sempre che
 siano stati acquisiti elementi tali da  escludere  in  maniera  certa
 l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata;
    Dichiara inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 del primo periodo del medesimo art. 4-bis, primo comma, sollevata, in
 riferimento  agli  artt.  24,  3,  25  e  27  della Costituzione, dal
 Tribunale  di  sorveglianza  di  Bari  con  l'ordinanza  indicata  in
 epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, 19 luglio 1994.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: SPAGNOLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 27 luglio 1994.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 94C0900