N. 700 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 maggio 1994

                                N. 700
 Ordinanza emessa il 27 maggio 1994 dal Consiglio  di  Stato,  sezione
 quinta  giurisdizionale  sul ricorso proposto da Maio Giovanni contro
 Ministero dell'interno ed altri
 Elezioni - Elezione diretta del sindaco, del presidente della
    provincia, del consiglio comunale e del  consiglio  provinciale  -
    Previsione  (anteriormente  all'entrata  in  vigore della legge n.
    415/1993 che ha modificato la norma impugnata) che nelle liste dei
    candidati nessuno dei  due  sessi  puo'  essere  rappresentato  in
    misura  superiore ai due terzi (del numero dei candidati di lista)
    - Incidenza sui principi di eguaglianza formale dinanzi alla legge
    e di parita' nell'accesso  alle  cariche  elettive  nonche'  della
    liberta'   di   costituzione  dei  partiti  politici  che  non  e'
    suscettibile di limitazioni in base al sesso.
 (Legge 25 marzo 1993, n. 81, art. 5, secondo comma, ult. prop.).
 (Cost., artt. 3, 49 e 51).
(GU n.49 del 30-11-1994 )
                         IL CONSIGLIO DI STATO
    Ha pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  in  appello
 proposto   dal   sig.   Giovanni   Maio,   residente   in  Baranello,
 rappresentato e difeso dagli avvocati Eolo  Ruta  e  Mario  Sanino  e
 domiciliato  presso il secondo in Roma, viale Parioli, 180, contro il
 Ministero  dell'interno,  rappresentato  e   difeso   dall'avvocatura
 generale  dello Stato e domiciliato presso la stessa in Roma, via dei
 Portoghesi, 12; il  comune  di  Baranello,  in  persona  del  sindaco
 autorizzato  a  stare in giudizio con deliberazione 11 novembre 1993,
 n.  306,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Vincenzo  Colalillo  e
 domiciliato  in  Roma,  via  Giovanni  Sgambati,  15, presso il dott.
 Francesco Gaddi, e nei confronti dei signori Tonino Tomaro,  Vincenzo
 Cutillo,  Giuseppe  Muttillo,  Michele Manocchio, Francesco Di Biase,
 Rosario Paolo Tamburro, Antonio  Palazzo,  Giovanni  Discenza,  Mario
 Liberato  Di  Chiro,  Angelo  Colaneri,  Giovanni  Di  Biase, Ruggero
 Giovannitti,  Franco  D'Aveta,  tutti  residenti  in  Baranello,  non
 costituiti in giudizio, per l'annullamento della sentenza 6-8 ottobre
 1993,  n. 183, con la quale il tribunale amministrativo per il Molise
 ha respinto il ricorso contro le operazioni svoltesi il 6 giugno 1993
 per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale di  Baranello,  e
 la proclamazione dei relativi risultati effettuata il 7 giugno 1993;
    Visto  il  ricorso  in  appello,  notificato  il 29 ottobre e il 3
 novembre 1993 e depositato l'11 novembre 1993;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio del comune di  Baranello,
 depositato il 10 dicembre 1993;
    Viste  le  memorie prodotte dal comune di Baranello l'11 gennaio e
 il 20 maggio 1994;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Udita alla pubblica udienza del 27 maggio 1994  la  relazione  del
 consigliere  Raffaele  Carboni  e  uditi  altresi'  gli  avvocati  G.
 Morbidelli, per delega di M. Sanino, e Vincenzo Colalillo;
    Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue;
                               F A T T O
    Con ricorso depositato al tribunale amministrativo  regionale  per
 il  Molise  il  7 luglio 1993 e notificato, insieme con il decreto di
 fissazione di udienza, tra il  12  e  il  14  luglio  1993,  il  sig.
 Giovanni   Maio,  iscritto  nelle  liste  elettorali  del  comune  di
 Baranello, avente popolazione non superiore  a  15.000  abitanti,  ha
 impugnato  le  operazioni  per l'elezione del sindaco e del consiglio
 comunale  di  Baranello  svoltasi  il  6  giugno   1993,   deducendo,
 articolata in due motivi e sotto vari profili, essenzialmente l'unica
 censura  di  violazione  dell'art.  5,  secondo comma, della legge 25
 marzo 1993, n. 81, in quanto, tra i trentasei candidati al  consiglio
 comunale   complessivamente   presentatisi   nelle   tre   liste   in
 competizione, vi era una sola donna.
    Il tribunale amministrativo regionale per il Molise ha respinto il
 ricorso, interpretando la disposizione dell'art.  5,  secondo  comma,
 secondo  cui  "Nelle  liste  dei candidati nessuno dei due sessi puo'
 essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi", come
 una proposizione legislativa priva di  valore  precettivo;  il  primo
 giudice  ha  posto  in  luce  che  una diversa interpretazione, di un
 precetto  suscettibile  di  una  disapplicazione  ("di  norma")   non
 ancorata  a  nessun  criterio  prefissato, introdurrebbe, sul mancato
 rispetto della proporzione, un controllo della commissione elettorale
 circoscrizionale,   di   dubbia   legittimita'   costituzionale    in
 riferimento  agli  artt.  48, 51 e 97 della Costituzione, dal momento
 che esso si risolverebbe in definitiva  in  un  controllo  del  tutto
 discrezionale sui programmi elettorali e sulle ragioni per le quali i
 terzi hanno ritenuto di aderire o non aderire ai programmi stessi.
    Appella   il   sig.   Maio,   sostenendo   invece  la  tesi  della
 precettivita' della disposizione.
    Resiste  l'amministrazione  comunale,  la  quale  rappresenta   le
 difficolta'  incontrate  dai  presentatori  delle liste nell'ottenere
 l'accettazione di  candidature  da  parte  di  elettrici,  e  produce
 ventidue  dichiarazioni  di  altrettanti  elettrici  che,  invitate a
 candidarsi, hanno preferito astenersene  e  non  hanno  accettato  la
 candidatura.   La  difesa  del  comune  argomenta  altresi'  che  una
 applicazione rigida della disposizione  di  legge  in  questione  non
 consentirebbe,  stante  la  realta'  culturale  e socio-economica dei
 piccoli comuni, la  formazione  di  liste  conformi  alla  previsione
 legislativa   e   paralizzerebbe  la  vita  politica  comunale  e  la
 partecipazione dei cittadini alla vita del comune; sostiene  pertanto
 che  la  disposizione  ha  un  valore  programmatico  e facoltativo e
 prospetta, genericamente, profili  di  illegittimita'  costituzionale
 della diversa interpretazione.
                             D I R I T T O
    Si  controverte  sull'interpretazione  dell'art. 5, secondo comma,
 seconda proposizione, della legge 25 marzo 1993,  n.  81,  intitolata
 "Elezione  diretta  del  sindaco, del presidente della provincia, del
 consiglio comunale e del  consiglio  provinciale";  la  disposizione,
 relativa alle modalita' di elezione del consiglio comunale nei comuni
 con  popolazione  sino  a  15.000  abitanti, recita: "Nelle liste dei
 candidati nessuno dei due sessi puo' essere di norma rappresentato in
 misura superiore ai due terzi" (del numero dei candidati  in  lista).
 La   legge   15  ottobre  1993,  n.  415,  intitolata  "Modifiche  ed
 integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81,  sull'elezione  diretta
 del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e
 del  consiglio  provinciale",  successiva  all'elezione  per  cui  e'
 processo, ha poi sostituito la disposizione con la  seguente:  "Nelle
 liste  dei  candidati nessuno dei due sessi puo' essere rappresentato
 in misura superiore ai tre quarti dei consiglieri assegnati".
    Sulla questione, sia pure a proposito della identica  disposizione
 contenuta  nell'art. 7 della legge n. 81/1993, relativa ai comuni con
 popolazione superiore a  15.000  abitanti,  la  sezione  si  e'  gia'
 pronunciata  con le decisioni 15 febbraio 1994, nn. 91 e 92. Con ambo
 le decisioni, la sezione ha respinto la tesi  che  la  locuzione  "di
 norma"  sia idonea ad elidere il valore precettivo della disposizione
 legislativa,  ed  ha  affermato  che  la  sua   violazione   comporta
 l'invalida  presentazione della lista, salvo che sussistano motivi di
 deroga, che e' onere dei presentatori della lista di  dimostrare.  La
 sezione  in  ambo i casi ha avvertito che l'elezione - che in un caso
 veniva annullata  nell'altro  era  stata  sospesa  dal  prefetto  per
 mancanza  di  liste  regolari  - sarebbe dovuta avvenire in base alla
 nuova disposizione, che non ammette deroghe.
    Ai  fini  della  rilevanza   della   questione   di   legittimita'
 costituzionale  di cui appresso, la sezione prende dunque atto che la
 disposizione, nel testo anteriore alla modificazione apportata con la
 legge n.  415/1993,  e'  gia'  stata  interpretata  nel  senso  della
 precettivita'  della  norma  sulla  rappresentanza  dei  sessi, salvo
 deroghe da motivare in sede di presentazione delle liste, e  che  nel
 caso  di  specie non e' stata addotta, in sede di presentazione delle
 liste, nessuna circostanza che giustificasse la  deroga.  La  sezione
 osserva  altresi'  che  la  modificazione della disposizione, operata
 dalla legge n. 415/1993 mediante la soppressione della locuzione  "di
 norma"  e  l'attribuzione  di  inequivocabile  valore precettivo alla
 proposizione, non puo'  non  riflettersi  sull'interpretazione  della
 formulazione  originaria,  sia  pure  considerando  che la successiva
 legge ha trovato altrimenti il  modo  di  eludere  la  necessita'  di
 rappresentanza  dei sessi proclamata nella legge di pochi mesi prima:
 mentre infatti la legge n. 81/1993, con la dizione "nessuno  dei  due
 sessi  puo' essere .. rappresentato in misura superiore ai due terzi"
 faceva implicito riferimento al  numero  dei  candidati  in  lista  e
 quindi   imponeva  la  presenza  di  candidati  d'ambo  i  sessi,  la
 successiva dizione, "nessuno dei due sessi puo' essere  rappresentato
 in misura superiore ai tre quarti dei consiglieri assegnati", facendo
 riferimento  al numero di consiglieri comunali da eleggere, e facendo
 coincidere la presenza massima dei  candidati  di  un  sesso  con  il
 numero   minimo   dei  candidati  da  porre  in  lista,  consente  la
 presentazione di liste con candidati di un solo sesso.
    Premesso  dunque  il  valore  precettivo della disposizione, anche
 prima della modificazione  apportata  dalla  legge  n.  415/1993,  il
 collegio  dubita,  per  piu'  versi,  della  conformita'  ai principi
 costituzionali della disposizione dell'art. 5 della legge n. 81/1993,
 la  quale  ha  per  la  prima  volta  introdotto  nella  legislazione
 elettorale la nozione di "rappresentanza dei sessi".
    Il  dubbio  di  legittimita' costituzionale si pone in primo luogo
 con riferimento al principio di eguaglianza, sancito in via  generale
 dall'art.  3, primo comma, della Costituzione, e ribadito, in materia
 elettorale, dall'art. 51, primo comma. Il principio  di  uguaglianza,
 secondo  cui  appunto "tutti .. sono uguali davanti alla legge, senza
 distinzione di sesso ..", si pone infatti prima di tutto come  regola
 di   irrilevanza   giuridica  del  sesso  e  delle  altre  diversita'
 contemplate dall'art. 3.   D'altra parte, escluso  che  nel  caso  in
 esame    il   sesso   costituisca   una   situazione   obiettivamente
 giustificante la  sua  assunzione  ad  elemento  di  una  fattispecie
 normativa,  non  sembra neppure che si possa dare rilievo al sesso in
 base alla regola cosiddetta di "uguaglianza sostanziale", di  cui  al
 secondo   comma   dell'art.   3,   come,   verosimilmente,  e'  stato
 intendimento del legislatore. La regola secondo cui e' compito  della
 Repubblica  rimuovere  gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando
 di fatto l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il  pieno  sviluppo
 della   persona   umana  e  l'effettiva  partecipazione  di  tutti  i
 lavoratori  all'organizzazione  politica  del  Paese,  si  riferisce,
 evidentemente,  agli  ostacoli  di ordine materiale, la cui esistenza
 vanifica o limita, per taluni, i diritti  astrattamente  garantiti  a
 tutti;  non  sembra  invece che la disposizione costituzionale sia da
 interpretare nel senso che il legislatore possa o debba farsi  carico
 di  rimuovere  i  pregiudizi  e gli atteggiamenti di disfavore da cui
 taluni o molti  possano  essere  affetti  nei  confronti  di  persone
 appartenenti  a un sesso o ad una data razza, religione, madrelingua,
 condizione fisica, morale, lavorativa e via  dicendo,  e  neppure  le
 disuguaglianze  di fatto costituenti retaggio di pregresse situazioni
 di  inferiorita'  giuridica,  perche'  non  e'  fra  i   poteri   del
 legislatore  quello  di  comandare  sentimenti  ed  opinioni.  Sembra
 inoltre che il principio di uguaglianza davanti alla legge, ossia  di
 uguaglianza  formale,  sarebbe  vanificato se, in nome di una pretesa
 uguaglianza sostanziale, il legislatore potesse assumere disposizioni
 di favore in ragione delle diverse condizioni personali elencate  nel
 primo  comma,  o  in  ogni  caso  assumere  quelle diverse condizioni
 personali come elemento di discriminazione fine a  se  stessa.  Sotto
 questo   profilo,  del  significato  fondamentale  del  principio  di
 uguaglianza, non sembra esservi nessuna  differenza  tra  l'escludere
 uno  dei  due  sessi da determinati uffici o cariche, e il prevederne
 obbligatoriamente la  presenza,  ove  questa  non  sia  richiesta  da
 esigenze oggettive.
    Analoghe   considerazioni   valgono   per  quanto  riguarda,  piu'
 particolarmente, l'uguaglianza  nell'accesso  alle  cariche  elettive
 proclamata  dall'art. 51, primo comma; al riguardo, il costituente ha
 ritenuto opportuno, con riferimento alla  situazione  di  allora,  di
 esclusione  delle  donne dalle cariche elettive e dalla maggior parte
 degli uffici pubblici, precisare  che  il  diritto  di  accesso  alle
 cariche e agli uffici si riferiva ai cittadini "dell'uno o dell'altro
 sesso";  ma,  acquisito  cio', non pare che l'uguaglianza tra i sessi
 nelle cariche elettive possa significare qualcosa  di  diverso  dalla
 indifferenza   del  sesso  ai  fini  considerati  dalla  disposizione
 costituzionale, e in particolare che  essa  sia  qualcosa  che  debba
 essere  "attuato"  mediante  la  positiva  previsione  del sesso come
 condizione di accesso alle cariche elettive.
    L'art. 51, primo comma, viene in considerazione anche sotto  altro
 profilo.  Il  diritto, ivi sancito, di accesso alle cariche elettive,
 sembra  comportare  il  divieto  di  stabilire  titoli  o  condizioni
 positive  per  l'accesso  alle  cariche stesse, diversi dai requisiti
 previsti in via generale per il  godimento  dei  diritti  politici  e
 dall'assenza di cause di ineleggibilita'; una volta stabilite, cioe',
 le  cause di ineleggibilita', non sembra che il legislatore possa poi
 contemplare, fra le condizioni per la assunzione di cariche  elettive
 e per la partecipazione alle relative competizioni, l'appartenenza ad
 uno  od  altro  dei  due  sessi,  ad  una  razza,  religione,  gruppo
 linguistico o il possesso  di  determinate  altre  caratteristiche  o
 condizioni personali.
    La  disposizione  elettorale in esame introduce poi un concetto di
 "rappresentanza dei sessi" che, se fosse legittimo,  dovrebbe  essere
 applicato,  non  tanto alla composizione delle liste di candidati nei
 sistemi plurinominali, quanto  piuttosto,  piu'  coerentemente,  alla
 composizione  degli organi elettivi: di cio' ci si e' resi ben conto,
 dal momento che nei lavori preparatori (Camera  dei  deputati,  prima
 commisione  permanente,  resoconto  della  seduta  del 18 marzo 1950,
 bollettino n. 150) e' stato enunciato che la rappresentanza dei sessi
 nelle  liste  ha  una  portata  limitata  rispetto  alla  (auspicata)
 espressione  di  preferenze  separate  per candidati dei due sessi o,
 comunque, alla presenza dei  due  sessi  tra  gli  eletti.  Ora,  una
 rappresentanza  collettiva, cioe' di un gruppo linguistico, razziale,
 religioso, negli organi elettivi, deve trovare fondamento  nel  patto
 costituzionale  e  in  regole  di  rango  costituzionale  (vedasi, da
 ultima, Corte costituzionale 6-10 giugno 1994, n.  233),  costituendo
 essa  appunto  una  deroga,  in  presenza  di particolari esigenze di
 convivenza di una determinata comunita'  politica,  al  principio  di
 uguaglianza  dei cittadini; e pare superfluo dovere osservare che una
 regola costituzionale di rappresentanza politica dei  sessi,  ammesso
 che essa sia mai concepibile, non esiste nell'attuale ordinamento.
    Infine,  la  disposizione  sembra  in  contrasto  con la regola di
 liberta'  politica  sancito  dall'art.  49  della  Costituzione:   la
 liberta'  dei cittadini di costituire partiti politici per concorrere
 a determinare la vita politica sembra infatti implicare, che soltanto
 i  cittadini  siano  arbitri  di   determinare   gli   interessi   da
 rappresentare in sede politica, e quindi anche di costituire gruppi e
 movimenti  che  si prefiggano di esaltare gli interessi di coloro che
 si trovino in  determinate  condizioni  personali,  ivi  comprese  il
 sesso,  la  razza,  la  religione,  e via dicendo. Posto che le liste
 elettorali presentate dagli elettori sono null'altro  che  i  partiti
 politici  nel  momento  elettorale  -  se  per  partiti  politici  si
 intendono  le  aggregazioni,  piu'  o  meno  contingenti  o  stabili,
 mediante  le  quali  i  cittadini concorrono alla vita politica - non
 sembra che il legislatore possa limitare le scelte  dei  presentatori
 delle  liste elettorali, e imporre che le liste stesse contengano, in
 tutto  o  in  parte,  candidati  di  un  determinato  sesso,   razza,
 madrelingua,  religione, opinione, condizione lavorativa o sociale, o
 aventi  qualsiasi  altra  caratteristica,  fisica,  intellettuale   o
 morale,  diversa  dal possesso dei requisiti, positivi o negativi, di
 eleggibilita'.
                               P. Q. M.
    Ordina la trasmissione degli atti alla  Corte  costituzionale  per
 l'esame  della  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5,
 secondo comma, ultima proposizione, della legge 25 marzo 1993, n. 81,
 in riferimento agli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della
 Costituzione della Repubblica;
    Sospende il giudizio;
    Ordina alla segreteria di notificare la  presente  ordinanza  alle
 parti  in  causa  e  al  presidente  del Consiglio dei Ministri, e di
 comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Cosi' deciso in Roma, addi' 27 maggio 1994.
                       Il presidente: NAPOLITANO
                                     Il consigliere estensore: CARBONI
 94C1247