N. 210 SENTENZA 29 - 31 maggio 1995

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Sicurezza pubblica - Persone pericolose - Foglio di via  obbligatorio
 -  Invio  nel  comune  di  residenza  -  Inibizione  al ritorno senza
 autorizzazione nel comune dal quale il soggetto sia stato allontanato
 - Assicurazione della partecipazione  del  soggetto  al  procedimento
 mediante   comunicazione   -   Insussistenza  di  una  disparita'  di
 trattamento tra i destinatari di provvedimenti amministrativi  -  Non
 fondatezza nei sensi di cui in motivazione.
 
 (Legge  27  dicembre  1956,  n.  1423, art. 2, primo comma, nel testo
 sostituito dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327).
 
 (Cost., art. 3).
 
(GU n.24 del 7-6-1995 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE;
 Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi
    MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano
    VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.  Cesare  MIRABELLI,  prof.
    Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI, dott. Cesare RUPERTO,
    dott. Riccardo CHIEPPA;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma,
 della legge 27 dicembre 1956, n.  1423  (Misure  di  prevenzione  nei
 confronti  delle  persone  pericolose  per  la  sicurezza), nel testo
 sostituito dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n.  327  (Norme  in
 materia  di  misure di prevenzione personali), promosso con ordinanza
 emessa l'8 giugno 1994 dal Tribunale amministrativo regionale per  il
 Friuli-Venezia  Giulia sul ricorso proposto da Bozza Renato, iscritta
 al n. 693 del registro ordinanze 1994  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  48, prima serie speciale, dell'anno
 1994;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  22 marzo 1995 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da Bozza Renato,
 ricorso diretto all'annullamento del  provvedimento  adottato  il  13
 ottobre  1993  dal  Questore  di Udine che disponeva il rimpatrio del
 ricorrente con foglio di via obbligatorio  nel  comune  di  Concordia
 Sagittaria,  con  diffida dal fare ritorno nel comune di Latisana per
 il periodo di un anno, il Tribunale amministrativo regionale  per  il
 Friuli-Venezia Giulia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13 e
 16  della  Costituzione, questione di legittimita' dell'art. 2, primo
 comma, della  legge  27  dicembre  1956,  n.  1423,  come  modificato
 dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327.
    La   norma  denunciata,  oltre  ad  incidere  sulla  "liberta'  di
 movimento", comporterebbe una restrizione  della  liberta'  personale
 senza che "ne venga informata l'autorita' giudiziaria".
    Vulnererebbe   poi   (il  parametro  costituzionale  non  risulta,
 peraltro, esplicitamente  evocato  dal  giudice  a  quo)  l'art.  24,
 secondo  comma,  della  Costituzione,  perche'  prima dell'inflizione
 della "misura restrittiva" non sarebbe consentito all'interessato  di
 difendersi,  pur incontrando il successivo ricorso alla giurisdizione
 i limiti derivanti dall'insindacabilita' del merito amministrativo.
    Contrasterebbe, infine, con il principio di eguaglianza perche' il
 cittadino nei cui confronti viene applicata la misura di  prevenzione
 verserebbe  ingiustificatamente in una posizione deteriore rispetto a
 quella della generalita' dei soggetti i  quali,  alla  stregua  degli
 artt.  7  e  seguenti  della  legge  7  agosto 1990, n. 241, "possono
 intervenire  in  un  normale  procedimento  amministrativo,  pur   in
 presenza  di  conseguenze  molto  meno  gravi  per  la  loro sfera di
 liberta' personale".
    2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, chiedendo - riservata ogni deduzione sugli argomenti addotti -
 che la questione sia dichiarata non fondata.
    3.  -  In  prossimita'  della  data  fissata  per  l'esame   della
 questione,  l'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  depositato  una
 memoria con la quale ribadisce la richiesta di dichiarazione  di  non
 fondatezza delle censure avanzate dal giudice
 a quo.
    Richiamata  la  giurisprudenza della Corte in materia di misure di
 prevenzione e, in particolare, le decisioni n. 384 del 1987 e  n.  76
 del  1970,  l'Avvocatura  contesta  ogni violazione dell'art. 3 della
 Costituzione  anche  in  relazione  ai  princip/'  generali  relativi
 all'accesso  ai  procedimenti amministrativi; una normativa certo non
 riferibile al procedimento di prevenzione  per  l'ostacolo  derivante
 dagli artt. 7 e 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia
 Giulia dubita della legittimita' costituzionale  dell'art.  2,  primo
 comma,  della  legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione
 nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza),  nel  testo
 sostituito  dall'art.  3  della legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in
 materia di misure di  prevenzione  personali),  nella  parte  in  cui
 prevede, nei confronti dei soggetti indicati dall'art. 1 della stessa
 legge,  l'invio,  con  foglio  di  via  obbligatorio,  nel  comune di
 residenza  con  la contestuale inibizione a ritornare, senza speciale
 autorizzazione,  nel  comune  dal  quale   l'interessato   e'   stato
 allontanato.
    Piu'  in  particolare, il giudice a quo, di fronte all'impugnativa
 di un provvedimento del Questore  di  Udine  che  aveva  disposto  il
 rimpatrio del ricorrente con foglio di via obbligatorio nel comune di
 residenza  diffidandolo  dal  fare  ritorno  nel comune dal quale era
 stato rimpatriato, ha ravvisato nel precetto dell'art. 2 della  legge
 n.  1423 del 1956, come sostituito, violazione, in primo luogo, degli
 artt. 13 e 16 della Costituzione, vulnerati in  quanto,  senza  alcun
 provvedimento   dell'autorita'   giudiziaria,   si  consentirebbe  di
 incidere sulla liberta' personale e sulla  liberta'  di  circolazione
 del  privato.  Sarebbe  violato anche l'art. 24, secondo comma, della
 Costituzione (non direttamente evocato ma implicitamente chiamato  in
 causa)  perche'  la  "misura restrittiva" sarebbe adottata "senza che
 l'interessato  possa  intervenire"  nel  "procedimento  formativo"  e
 senza, quindi, che egli sia posto in condizione di difendersi "se non
 a    posteriori   ,   tramite   ricorso   all'autorita'   giudiziaria
 amministrativa", che, "in sede di giudizio di legittimita',  incontra
 il limite dell'insindacabilita' del merito amministrativo".
    Risulterebbe,  infine,  compromessa l'osservanza dell'art. 3 della
 Costituzione, in quanto il  destinatario  del  provvedimento  sarebbe
 discriminato   rispetto  ai  destinatari  degli  altri  provvedimenti
 amministrativi che, nonostante,  di  norma,  comportino  "conseguenze
 molto  meno  gravi  sulla  sfera  di  liberta'  personale"  risultano
 assoggettati al regime di garanzia dettato dagli artt. 7  e  seguenti
 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
    2.  -  Delle tre questioni sopra richiamate, le prime due non sono
 fondate,  mentre  la  terza  e'  infondata  nei  sensi  di   cui   in
 motivazione.
    Relativamente   alla   dedotta   violazione   dell'art.  13  della
 Costituzione, questa Corte non puo' che richiamare la sua  pressoche'
 costante   linea   interpretativa,   nel   senso   che   tale   norma
 costituzionale riguarda in primo luogo la liberta' della  persona  in
 senso stretto, come risulta dalle esemplificazioni del secondo comma:
 detenzione,  ispezione, perquisizione. Piu' in particolare, sin dalla
 sentenza n. 2 del 1956 - e dunque prima che venisse emanata la  norma
 ora   denunciata   -   venne  precisato  che  le  norme  relative  ai
 provvedimenti  di  rimpatrio  con  foglio  di  via  obbligatorio  non
 contrastano  con  l'art.  13  della  Costituzione,  "salvo che in due
 punti: la traduzione  del  rimpatriando  e  la  possibilita'  che  si
 potesse  provvedere in base a semplici sospetti" (cfr. sentenza n. 45
 del 1960). Con la conseguenza che, nel formulare la norma  censurata,
 il legislatore non si e' "messo in contrasto con la sentenza n. 2 del
 1956.  E  cio' perche' l'ordine di rimpatrio non consente l'esercizio
 di alcuna coercizione". Il soggetto cui tale ordine e' stato  imposto
 non  puo' essere, infatti, tradotto nel luogo di rimpatrio se non con
 la sentenza di condanna a pena  espiata,  quindi  con  una  pronuncia
 giurisdizionale.   Cosi'   da  pervenire  all'ulteriore  statuizione,
 assolutamente non considerata dal giudice  a  quo,  il  quale  sembra
 voler  sovrapporre  la  tutela  apprestata  dall'art.  13 alla tutela
 apprestata dall'art. 16 della Costituzione: che, cioe'  (v.  sentenza
 n.  419 del 1994), mentre i due precetti costituzionali ora ricordati
 "presentano una diversa sfera  di  operativita',  nel  senso  che  la
 liberta'  di circolazione e soggiorno non costituisce un mero aspetto
 della liberta' personale, ben potendo, quindi, configurarsi  istituti
 che  comportano  un sacrificio della prima ma non per cio' solo anche
 della seconda", perche' la liberta'  personale  venga  effettivamente
 incisa  deve  verificarsi una "degradazione giuridica" dell'individuo
 nel senso dell'avverarsi di "una menomazione o  mortificazione  della
 dignita'  o  del  prestigio  della  persona,  tale  da  poter  essere
 equiparata  a  quell'assoggettamento  all'altrui  potere  in  cui  si
 concreta  la  violazione  dell'habeas corpus". Una caratteristica non
 riferibile all'istituto del rimpatrio con foglio di via  obbligatorio
 "sia in quanto non suscettibile di coercitiva esecuzione, sia perche'
 l'intimato,   una  volta  raggiunta  la  nuova  sede,  e'  libero  di
 trasferirsi  altrove,  tranne  che  nel  luogo  dal  quale  e'  stato
 allontanato" (v., ancora, sentenza n. 419 del 1994).
    3. - Analogamente, in ordine alla dedotta violazione dell'art. 24,
 secondo comma, della Costituzione - una censura che solo in apparenza
 si  collega  all'altra  avente  ad  oggetto (come si vedra' tra poco)
 l'irragionevolezza della norma denunciata - deve anche qui  ripetersi
 che poiche' "il provvedimento dell'autorita' di pubblica sicurezza ha
 carattere  amministrativo,  non  comporta  violazione  dell'art.  24,
 secondo  comma,  della  Costituzione,  una  disposizione   di   legge
 ordinaria che non preveda il diritto di difesa, garantito dalla norma
 costituzionale  solo  nei riguardi dei provvedimenti giurisdizionali"
 (ordinanza  n.  146  del  1963).  La  disciplina   del   procedimento
 amministrativo,   infatti,   e'  rimessa  alla  discrezionalita'  del
 legislatore nei limiti della  ragionevolezza  e  del  rispetto  degli
 altri  princip/'  costituzionali, fra i quali non e' da ricomprendere
 "quello del 'giusto procedimento' amministrativo, dato che la  tutela
 delle   situazioni   soggettive   e'   comunque  assicurata  in  sede
 giurisdizionale"  dagli  artt.  24,  primo   comma,   e   113   della
 Costituzione" (v. da ultimo, sentenza n. 103 del 1993).
    4.1. - La questione e' pure infondata, ma nei termini che seguono,
 con riferimento alla dedotta violazione del principio di eguaglianza.
    Il  giudice  a  quo  muove  dal  presupposto,  peraltro  del tutto
 immotivato, che nei confronti del procedimento disciplinato dall'art.
 2 della legge n. 1423 del 1956, non  possa,  diversamente  da  quanto
 previsto  in  relazione  alle altre tipologie procedimentali cui pure
 non consegua una compressione di diritti costituzionalmente tutelati,
 ipotizzarsi  -  alla  stregua  della  disciplina  vigente  -   alcuna
 partecipazione  del  privato  al  procedimento  amministrativo  e non
 possa, dunque, trovare applicazione la disposizione dell'art. 7 della
 legge 7 agosto 1990, n. 241.
    Un presupposto quindi  condiviso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  la  quale  ha  dedotto  che  il diritto di partecipazione del
 privato al procedimento amministrativo e' riconosciuto  "purche'  non
 sussistano ragioni d'impedimento derivanti da particolari esigenze di
 celerita'   del   procedimento",   qui  evidentemente  ritenute,  per
 definizione, prevalenti rispetto a qualsivoglia  esigenza  di  tutela
 dell'interessato.  Ha  aggiunto  l'Avvocatura  che per i procedimenti
 dell'autorita' di pubblica sicurezza l'art. 24 della legge  7  agosto
 1990,  n.  241,  sottrae  all'accesso  degli  interessati gli atti, i
 documenti e le notizie  relativi  alla  sicurezza  pubblica  ed  alla
 prevenzione anticrimine.
    Senonche'  il  presupposto  a  fondamento  tanto dell'ordinanza di
 rimessione quanto dell'atto di  intervento  dell'Avvocatura  generale
 dello Stato e' da ritenere erroneo sulla base di una corretta lettura
 delle norme del capo II di tale legge.
    4.2.  -  Appare,  anzitutto,  necessario  ricordare che nel regime
 antecedente la "novellazione" la legge n. 1423 del 1956 prevedeva nei
 confronti  di  categorie  di  persone  piu'  o  meno   specificamente
 tipizzate  (cfr.  sentenza n. 177 del 1980) il potere del questore di
 diffidarle, ingiungendo loro "di cambiare condotta, avvertendole che,
 in caso contrario, si fara' luogo alle misure di prevenzione  di  cui
 agli articoli 3 e seguenti".
    A  sua  volta  l'art.  2 disponeva che qualora le persone indicate
 nell'articolo precedente siano pericolose per la sicurezza pubblica e
 per la pubblica moralita' e si trovino fuori dei luoghi di residenza,
 il questore puo' rimandarle con provvedimento motivato e  con  foglio
 di  via  obbligatorio,  inibendo  loro di ritornare, senza preventiva
 autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a  tre  anni,  nel
 comune dal quale sono allontanate.
    Con  l'art.  1, comma primo, della legge 3 agosto 1988, n. 327, e'
 stata cancellata la misura della diffida, ritenuta
 (v. relazione della  Commissione  parlamentare  antimafia  presentata
 alla  Presidenza della Camera dei deputati il 16 aprile 1985) non "in
 grado di raffrenare le esplosioni delittuose della mafia  .  .  e  di
 altre organizzazioni criminali" e produttiva di "effetti negativi che
 non  giovano al recupero sociale del soggetto nei confronti del quale
 il provvedimento e' disposto", cosi', nella pratica, da gravare  "sul
 diffidato   come   un  marchio  che  rende  assai  difficile  il  suo
 reinserimento nel mondo del lavoro". Al contempo  venivano  soppresse
 dal  primo  comma dell'art. 2 della legge n. 1423 del 1956, le parole
 "o per la pubblica moralita'".
    Ne e' derivato un regime nell'ambito del quale al venir meno della
 diffida  (da  taluni  ritenuto  presupposto  per  l'emissione   degli
 ulteriori provvedimenti e, quindi, anche di quello previsto dall'art.
 2  della  legge  n.  1423 del 1956), ha corrisposto l'attribuzione al
 questore del potere di adottare, nei confronti delle persone indicate
 nell'art. 1 che siano pericolose per la sicurezza pubblica e  che  si
 trovino  fuori dei luoghi di residenza, un provvedimento motivato con
 il quale le  dette  persone  vengono  rimandate  nel  luogo  di  loro
 residenza con foglio di via obbligatorio, con inibizione a ritornare,
 senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a
 tre  anni,  nel  comune  dal  quale  sono  state allontanate.   Ferma
 restando la necessita' di adottare un  provvedimento  motivato  e  la
 possibilita'  di sindacare in sede giurisdizionale la legittimita' di
 tale provvedimento pure nelle  forme  del  controllo  incidentale  da
 parte  del  giudice  ordinario  ove  venga  riscontrata  in  sede  di
 accertamento della contravvenzione all'ordine di rimpatrio  (art.  2,
 secondo  comma,  della  legge  n. 1423 del 1956) l'illegittimita' del
 provvedimento di polizia.
    4.3. - Cosi' delineato il quadro normativo attualmente vigente - e
 cio' anche per i riverberi che la  soppressione  della  diffida  puo'
 aver  provocato  relativamente  alla  preventiva  cognizione da parte
 dell'interessato    della    qualita'    soggettiva     attribuitagli
 dall'autorita'  di  pubblica  sicurezza  - va detto che l'esame della
 giurisprudenza amministrativa successiva all'entrata in vigore  della
 legge n. 241 del 1990 non lascia intravedere applicazioni (almeno con
 riguardo a decisioni edite) riferibili a provvedimenti di rimpatrio.
    Una  circostanza,  del  resto, perfettamente in linea con la certo
 non frequente chiamata in causa di  tale  giurisdizione  nel  sistema
 previgente  ove  il  sindacato sugli atti (di diffida o) di rimpatrio
 era molto piu' spesso demandato  al  giudice  ordinario  in  sede  di
 applicazione della previsione contravvenzionale derivante dal mancato
 rispetto del provvedimento di polizia.
    Una  simile  constatazione,  peraltro,  non  puo'  certo indurre a
 condividere la immotivata affermazione del giudice a  quo  in  ordine
 alla   sottrazione   al   regime  della  legge  prima  ricordata  dei
 provvedimenti di rimpatrio. Quasi che il legislatore del 1990  avesse
 avuto  di mira l'esigenza di assicurare la partecipazione del privato
 ai soli procedimenti (lato sensu) di  amministrazione  attiva  e  non
 anche  ai  procedimenti (pure qui, lato sensu) di tipo sanzionatorio.
 Rispetto ai  quali,  oltre  tutto,  l'esigenza  partecipativa  appare
 talora     iscrivibile,    piu'    specificamente,    all'area    del
 contraddittorio: si pensi ai moduli previsti, non solo  con  riguardo
 al   procedimento   disciplinare,   ma   anche   con  riferimento  al
 procedimento applicativo di sanzioni amministrative di tipo  punitivo
 secondo le prescrizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689.
    4.4.  -  Il  vero  e'  che  l'art.  7 della legge n. 241 del 1990,
 disponendo la comunicazione dell'avvio del procedimento nei confronti
 dei "soggetti, individuati o facilmente  individuabili,  diversi  dai
 suoi  diretti  destinatari",  rende  a  fortiori riferibile un simile
 principio ai diretti destinatari dei provvedimenti  di  questo  tipo,
 quale  che  sia  l'autorita'  amministrativa  da cui il provvedimento
 promana e quale ne sia il modulo procedimentale utilizzato.
    Un principio,  peraltro,  recepito  dalla  giurisprudenza  che  ha
 assegnato  alla conoscenza dell'atto di avvio del procedimento (artt.
 7 e 8 della  legge  n.  241  del  1990)  un  ruolo  condizionante  la
 validita'  dell'esito stesso della procedura e riferibile, di regola,
 a tutti i tipi procedimentali, tanto piu' quando  la  conclusione  di
 essi determini un pregiudizio per il diretto interessato.
    Anche     avendo    presente    tale    incontrastato    indirizzo
 giurisprudenziale, questa Corte ha, di recente, precisato come,  pure
 se  il  principio  del  giusto procedimento non puo', in quanto tale,
 "dirsi   un   principio   assistito   in   assoluto    da    garanzia
 giurisdizionale",  deve  ad  esso essere assegnato almeno il ruolo di
 "un criterio di orientamento,  come  per  il  legislatore  cosi'  per
 l'interprete".   Cosi'   da   pervenire   all'affermazione   che  "il
 coinvolgimento   dei   soggetti   interessati   e   il   momento   di
 partecipazione che ne deriva si pongono come fase indefettibile di un
 procedimento  che puo' concludersi" con l'applicazione di "una misura
 afflittiva", e da generalizzare, dunque, la "necessita' di comunicare
 l'avvio di una fase conoscitiva (del resto riconducibile all'art.  7,
 comma  primo,  della  legge  7 agosto 1990, n. 241), e la conseguente
 possibilita' per gli interessati di presentare memorie  e  documenti"
 (sentenza n. 57 del 1995).
    Alla  necessita' di notiziazione di un momento davvero cruciale ai
 fini partecipativi, quale l'atto di avvio del procedimento, non  puo'
 essere   certo   sottratto   il  destinatario  del  provvedimento  di
 rimpatrio, un provvedimento direttamente incidente su  una  posizione
 costituzionalmente  tutelata  come  il diritto di circolazione; salva
 l'ipotesi - espressamente disciplinata con  riferimento  a  tutte  le
 tipologie  procedimentali  - in cui particolari esigenze di celerita'
 risultino ostative a provvedere alla comunicazione di tale atto,  non
 esclusa  la possibilita' di adottare medio termine quei provvedimenti
 di natura cautelare che sono consentiti dall'art. 7,  comma  secondo,
 della legge n. 241 del 1990.
    4.5. - Resta ancora da precisare se l'attivita' "partecipativa" si
 esaurisca,   con   riferimento   al   rimpatrio  con  foglio  di  via
 obbligatorio, alla comunicazione dell'atto di avvio del  procedimento
 ovvero   comprenda  anche  l'esercizio  del  diritto  di  accesso  ai
 documenti amministrativi a norma dell'art. 24 e seguenti della  legge
 n. 241 del 1990.
    L'Avvocatura  generale  dello  Stato,  nella memoria presentata in
 prossimita'  della  discussione  del  procedimento   in   camera   di
 consiglio,  ha  dedotto  che trattandosi di atti, documenti o notizie
 relativi alla sicurezza pubblica l'esercizio del diritto risulterebbe
 "assai problematico".
    Il richiamo e' senza dubbio pertinente anche se non esaustivo.
   Va ricordato, infatti, che l'art. 24, comma secondo, della legge n.
 241 del 1990 autorizza il Governo ad  emanare,  ai  sensi  del  comma
 secondo  dell'art.  17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, "entro sei
 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu'
 decreti intesi a disciplinare le modalita' di esercizio  del  diritto
 di  accesso  in  relazione  alle  esigenze  di salvaguardare l'ordine
 pubblico e la prevenzione e repressione della criminalita'"  (lettera
 c).  A  sua  volta,  il  comma  terzo  dello stesso art. 24 prescrive
 l'obbligo per le pubbliche amministrazioni "di individuare, con uno o
 piu'  regolamenti  da  emanarsi  entro  i  sei  mesi  successivi,  le
 categorie  di  documenti  da esse formati o comunque rientranti nella
 loro disponibilita' sottratti all'accesso per le esigenze di  cui  al
 comma secondo".
    Con   d.P.R.   27  giugno  1992,  n.  352,  e'  stato  dettato  il
 "Regolamento per la disciplina delle modalita'  di  esercizio  e  dei
 casi   di   esclusione   del   diritto   di   accesso   ai  documenti
 amministrativi, in attuazione  dell'art.  24,  comma  secondo,  della
 legge  7  agosto  1990,  n.  241,  recante  nuove norme in materia di
 procedimento amministrativo e di  diritto  di  accesso  ai  documenti
 amministrativi".  L'art.  13 di tale d.P.R. prescrive che, decorso il
 termine  di  un  anno  "dalla  entrata   in   vigore   del   presente
 regolamento",  l'accesso  non  puo'  essere  negato  "se non nei casi
 previsti dalla legge". Un termine, poi, differito  di  sei  mesi  dal
 decreto-legge  14  settembre  1993, n. 358, convertito dalla legge 12
 novembre 1993, n. 448.
    E nella subiecta materia, con decreto del  Ministero  dell'interno
 10  maggio  1994,  n.  415,  e'  stato dettato il "Regolamento per la
 disciplina delle categorie  di  documenti  sottratti  al  diritto  di
 accesso,  in  attuazione  dell'art.  24,  comma quarto, della legge 7
 agosto 1990, n. 241, recante nuove norme in materia  di  procedimenti
 amministrativi e di diritto di accesso ai documenti amministrativi".
    L'art.  3,  lettera  a,  include  tra  le  categorie "di documenti
 inaccessibili per motivi di ordine e  sicurezza  pubblica  ovvero  ai
 fini  di  prevenzione e repressione della criminalita'" le "relazioni
 di servizio ed altri atti  o  documenti  presupposto  per  l'adozione
 degli  atti  o  provvedimenti  dell'autorita' nazionale e delle altre
 autorita' di pubblica sicurezza nonche' degli ufficiali o  agenti  di
 pubblica   sicurezza   ovvero   inerenti   all'attivita'   di  tutela
 dell'ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione o repressione
 della  criminalita',  salvo  che  per  disposizione  di  legge  o  di
 regolamento  debba  essere  unita  a  provvedimenti o atti soggetti a
 pubblicita'".
    Ne  consegue  che,  poiche'  il  rimpatrio  con  foglio   di   via
 obbligatorio e' da considerare, alla stregua del disposto degli artt.
 1 e 2 della legge n. 1423 del 1956, provvedimento inerente anche alla
 prevenzione  della  criminalita',  la  partecipazione al procedimento
 dovrebbe restare assicurata dalla sola comunicazione  dell'avvio  del
 procedimento stesso.
    4.6.  - Cosi' interpretato, l'art. 2 della legge n. 1423 del 1956,
 si sottrae, dunque, anche alla censura di irragionevole disparita' di
 trattamento  fra   destinatari   di   provvedimenti   amministrativi,
 sollevata dal giudice a quo.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non  fondata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 2, primo comma, della  legge  27  dicembre  1956,  n.  1423
 (Misure  di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la
 sicurezza), nel testo sostituito dall'art. 3  della  legge  3  agosto
 1988,  n.  327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali),
 sollevata, in riferimento agli artt. 13, 16 e 24 della  Costituzione,
 con l'ordinanza in epigrafe;
    Dichiara  non  fondata,  nei  sensi  di  cui  in  motivazione,  la
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  2,  primo  comma,
 della  legge  27  dicembre  1956,  n. 1423 (Misure di prevenzione nei
 confronti delle persone  pericolose  per  la  sicurezza),  nel  testo
 sostituito  dall'art.  3  della legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in
 materia  di  misure  di   prevenzione   personali),   sollevata,   in
 riferimento   all'art.  3  della  Costituzione,  con  l'ordinanza  in
 epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 29 maggio 1995.
                      Il Presidente: BALDASSARRE
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 31 maggio 1995.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 95C0686