N. 322 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 novembre 1996- 15 maggio 1997

                                N. 322
  Ordinanza   emessa   il  15  novembre  1996  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il 15 maggio 1997) dalla Corte  d'appello  di  Palermo
 nel procedimento penale a carico di Riina Salvatore ed altri
 Processo  penale  -  Mezzi di prova - Esame di persona imputata in un
    procedimento connesso - Facolta' di non rispondere -  Possibilita'
    di  avvalersi di detta facolta' da parte di persone condannate con
    sentenza passata in giudicato o ammesse a programma di  protezione
    -  Irragionevolezza  con incidenza sul diritto di difesa - Lesione
    del principio di buon andamento della pubblica  amministrazione  -
    Questione,  nella  specie,  sollevata nel corso di un procedimento
    per misura di prevenzione.
 (C.P.P. 1988, art. 210, comma 4).
 (Cost., artt. 3, 24 e 97).
(GU n.24 del 11-6-1997 )
                          LA CORTE DI APPELLO
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel procedimento per misura di
 prevenzione contro:
     1) Riina Salvatore nato a Corleone il  6  novembre  1930,  difeso
 dagli avv.ti Cristoforo Fileccia e Mario Grillo, proposto appellante;
     2)  Simonetti  Giovanni,  difeso dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio
 Campo, interveniente appellante/ appellato;
     3) Todaro Giuseppa, difesa  dagli  avv.ti  Vito  Ganci  e  Orazio
 Campo, interveniente appellante/appellata;
     4)  Simonetti  Giovanna,  difesa dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio
 Campo, interveniente appellante/ appellata;
     5) Simonetti Giovanni e F.lli s.n.c., difesa  dagli  avv.ti  Vito
 Ganci e Orazio Campo, interveniente  appellante;
     6)  Simonetti  Giuseppe,  difeso dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio
 Campo, interveniente appellante;
     7) Miceli Giuseppe, difeso dagli avv.ti Guido Geraci e  Salvatore
 Riela, interveniente appellato;
     8)  Caiola Vincenza, difesa dagli avv.ti Guido Geraci e Salvatore
 Riela, interveniente appellata;
     9)  Miceli  Elisabetta,  difesa  dagli  avv.ti  Guido  Geraci   e
 Salvatore Riela, interveniente appellata;
     10) Grizzaffi Giovanni, interveniente appellato;
     11) Provenzano Giovanna Maria, interveniente appellata;
     12)  Scamardo  Salvatore,  difeso  dagli avv.ti Roberto Tricoli e
 Vincenzo Giambruno, interveniente  appellato;
     13) Scannaliato Palma, difesa  dagli  avv.ti  Roberto  Tricoli  e
 Vincenzo Giambruno, interveniente  appellata;
     14)  Grippi  Elisabetta,  difesa  dagli  avv.ti Roberto Tricoli e
 Vincenzo Giambruno, interveniente appellata;
     15)  associazione  temporanea  di  imprese  Miceli   Giuseppe   e
 Salvatore;
     16)  associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe e Pioggia
 Giovanni;
     17) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe  e  Giovia
 Gioacchino;
     18)   associazione   temporanea  di  imprese  Miceli  Giuseppe  e
 Salvatore;
     19) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe  e  Marzia
 s.a.s.;
 difese dall'avv. Guido Geraci, cointeressati;
 20)  Riina Arcangela, difesa dagli avv.ti Cristoforo Fileccia e Mario
 Grillo interveniente appellante; 21)  Rizzo  Maria  Concetta,  difesa
 dagli  avv.ti  Cristoforo  Fileccia  e  Mario  Grillo,  interveniente
 appellante; 22) Barbaro Salvatore, difeso dall'avv. Alberto  Polizzi,
 intervenien        te appellante; 23) Calo' Lorenza, difesa dall'avv.
 Alberto Polizzi, interveniente  appellante;  24)  Banco  di  Sicilia,
 difeso dall'avv. Francesco Punzo, intervenient    e.
   Letti gli atti e sentite le parti in camera di consiglio, la Corte,
                            O s s e r v a:
   Salvatore Riina e stato sottoposto alla misura di prevenzione della
 sorveglianza  speciale  di  p.s. con obbligo di soggiorno con decreto
 del 7 luglio 1969, non eseguita per il lungo periodo di latitanza del
 Riina durato fino al 1993.
   Nei confronti del Riina,  risultato  impossidente  all'esito  delle
 indagini  patrimoniali  espletate,  sono  state avanzate due distinte
 proposte di adozione di provvedimenti  patrimoniali  ai  sensi  della
 legge  n. 575/1965 in relazione a beni formalmente intestati a terzi,
 ma di cui si assume la disponibilita' in capo al proposto:
     1)  una dal questore, riguardante beni intestati a suoi familiari
 o stretti parenti, fondata sul presupposto del  divario  fra  redditi
 disponibili  in  capo  al presunto fittizio intestatario e valore dei
 beni acquistati;
     2)  una  dal  procuratore  della  Repubblica,  riguardante  terze
 persone,  fondata  sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
 Baldassare Di Maggio in merito a situazioni di fittizia  intestazione
 di beni appartenenti al proposto, calate in un quadro di sproporzione
 fra  redditi  dei  presunti prestanome ed acquisti. In questi casi il
 proponente non si  e'  limitato  a  chiedere  la  confisca  dei  beni
 indicati dal collaborante, ma la richiesta e' stata estesa all'intero
 patrimonio  del  terzo, sul presupposto della frammentaria cognizione
 della situazione da parte del collaborante e della disponibilita' del
 terzo all'assunzione della veste di prestanome.
   Con due distinti decreti resi in data 13 gennaio e 20  giugno  1995
 nel  procedimento  n. 135/1993 m.p. il tribunale di Palermo, vagliata
 l'attendibilita' piena del collaboratore Di Maggio, per quel  che  in
 questa  sede  rileva, disponeva la confisca di alcuni beni e revocava
 il sequestro di altri.
   Avverso tali decreti hanno  proposto  impugnazione  il  procuratore
 della  Repubblica ed i difensori degli intervenienti, articolando una
 ampia serie di censure.
   Una rilevante parte delle censure mosse dagli appellanti riguardava
 l'attendibilita'  delle  fonti  di  prova  utilizzate   e   la   loro
 conducenza.
   La   Corte,   in   accoglimento   delle   istanze  di  rinnovazione
 dell'istruzione formulate dal p.g. e dai difensori, acquisiti diversi
 documenti,   ha   disposto   l'audizione   per   teleconferenza   dei
 collaboratori  di  giustizia  Di  Maggio,  La  Barbera,  Di  Matteo e
 Monticciolo, la cui audizione era assolutamente indispensabile per la
 verifica delle dichiarazioni contenute nei verbali  acquisiti  e  per
 necessari chiarimenti in fatto.
   Se  l'acquisizione  documentale ha in qualche modo contribuito alla
 ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento, del  tutto  inutile
 e'  stato il ricorso  all'audizione degli imputati di reato connesso,
 i  quali  hanno  sistematicamente  fatto  ricorso  alla  facolta'  di
 astenersi  dal  deporre prevista dall' art. 210.4 c.p.p. (l'audizione
 riguardava fatti che i collaboratori potevano  (conoscere  e  quindi)
 rivelare   solamente   ammettendo  la  loro  partecipazione  a  "Cosa
 Nostra"), cosi' precludendo ogni possibilita' di approfondimento.
   Cio' posto dubita la Corte della legittimita' costituzionale  della
 facolta' esercitata - per violazione delle norme di cui agli artt.  3
 e  24  della  Costituzione  -  allorche'  sia  chiamata a deporre una
 persona ammessa a programma di protezione ai  sensi  della  legge  n.
 82/1991, specie se gia' condannata con sentenza passata in giudicato.
   Ed  invero,  il  principio nemo tenetur se detegere costituisce uno
 dei principi  fondamentali  su  cui  e'  fondato  il  nostro  sistema
 processuale,   che,   ispirandosi   al   modello  accusatorio,  tende
 all'accertamento   della   verita'   prescindendo   dalle   eventuali
 conoscenze dell'imputato.
   Il  principio  trova  tutela  nell'art.  24,  secondo  comma, della
 Costituzione laddove garantisce il diritto di difesa in ogni stato  e
 grado  del  procedimento  e,  quindi,  anche quel particolare aspetto
 costituito dalla facolta' di non fornire elementi in proprio danno ed
 e' esplicitamente consacrato dall'art. 14 n. 3  lett.  g)  del  patto
 internazionale sui diritti civili e politic.
   Esso, secondo la definizione della migliore dottrina, si estrinseca
 nel  diritto  a  non  essere interrogato dal giudice (right not to be
 questioned), il diritto a  non  autoincriminarsi  (privilege  against
 self incrimination) ed il diritto al silenzio.
   Nel  vigente  sistema processuale, prima dell'esercizio dell'azione
 penale, l'indagato puo'  esercitare  il  solo  diritto  al  silenzio,
 mentre   nelle   fasi   processuali,   in  aggiunta  ad  esso,  viene
 riconosciuto all'imputato anche il diritto a non essere  interrogato.
 A  seguito dell'esercizio dell'azione penale, "l'imputato gode dunque
 di una garanzia piu' ampia rispetto al diritto di stare  in  silenzio
 che implica pur sempre l'obbligo di presentarsi di fronte al giudice:
 egli ha il diritto di non sedersi la' dove si siedono i testimoni".
   Diversamente  si atteggia la disciplina del codice di rito rispetto
 alla posizione dell'imputato di reato connesso,  chiamato  a  deporre
 sulle  altrui  responsabilita';  due  distinte esigenze meritevoli di
 tutela i contrappongono:
     da una parte il diritto dell'imputato di  reato  connesso  a  non
 rivelare le proprie responsabilita', con dichiarazioni che potrebbero
 negativamente refluire nel procedimento a suo carico;
     dall'altra  il  diritto dell'imputato alla verifica scrupolosa ed
 attenta della fonte tradizionalmente considerata sospetta.
   Nel  sistema  delineato  nell'originario  codice  di  rito  le  due
 esigenze  erano  state  contemperate  con  l'adozione  di  un sistema
 accusatorio puro, attribuendosi all'imputato  di  reato  connesso  la
 facolta'  di non rispondere e vietandosi l'ingresso dibattimentale di
 dichiarazioni rese nella precedente fase del procedimento o in  altri
 procedimenti.
   La  rinuncia  alla utilizzazione dibattimentale delle dichiarazioni
 in precedenza rese si e' rivelata, pero', presto come un costo troppo
 alto  per  il  nostro  ordinamento,  afflitto   dalla   piaga   della
 criminalita' organizzata.
   La  Corte  costituzionale,  quindi,  dando  prevalenza al principio
 della  non  dispersione  degli  elementi  raccolti,  con  la  storica
 sentenza  del 18 maggio 1992, n. 254, ha dichiarato la illegittimita'
 costituzionale dell'art. 513, comma secondo c.p.p. nella parte in cui
 non prevede che il giudice, sentite le parti, disponga la lettura dei
 verbali delle dichiarazioni  di  cui  al  primo  comma  del  medesimo
 articolo,  rese  dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora
 queste ultime si avvalgano della facolta' di non rispondere.
   A questa sentenza e' seguita una legislazione che  ha  recepito  le
 istanze  di "non dispersione"; si segnalano  in tal senso le norme di
 cui agli  artt.  238  e  190-bis  c.p.p.,  che  hanno  avuto  effetti
 dirompenti  nel  sistema  del    codice  di  rito, tanto da indurre i
 commentatori a  parlare  di  "svuotamento  di  contenuto  e  funzioni
 dell'esame  ex art. 210 c.p.p.".
   In  particolare si e' rilevato come nel sistema delineato a seguito
 della  riforma  "bastera'  che  il  narrante,    pur  comparendo   al
 dibattimento, si rifiuti di rispondere per consentire a dichiarazioni
 rese  nel  segreto delle indagini di confluire fra le fonti decisorie
 senza   neppure   il   vaglio   del   contraddittorio  delle  parti",
 evidenziandosi la "materializzazione dello spettro dell'antica prassi
 delle conferme".  Ed ancora si e' rilevato che solo in  apparenza  il
 nuovo    assetto    procedimentale    salvaguarda   il   diritto   al
 contraddittorio, essendo "la scelta circa i modi di assunzione  della
 prova  rimessa  alla  volonta'  dell'accusatore, il quale di volta in
 volta decidera' se sia piu' proficuo esporre
  il coimputato alle domande delle parti oppure indurlo a tacere".   E
 si  e'  sottolineato  come una simile possibilita'  di influire sulle
 scelte del collaboratore scaturisca dalla disciplina posta  dall'art.
 11,  terzo comma, della legge  15 marzo 1991, n. 82, che, richiedendo
 il parere procuratore della Repubblica sull'importanza del contributo
 offerto o che puo' essere offerto dall'interessato  per  lo  sviluppo
 delle  indagini  o  per  il  giudizio penale, implica   uno status di
 inevitabile dipendenza del collaboratore, che lo porta ad un naturale
 "adeguamento forzoso alle aspettative dell'investigatore".
   In definitiva si e' sostenuto che "il diritto al silenzio  previsto
 a  salvaguardia  dei  soggetti di cui all'art. 210 si trasforma in un
 ostacolo per la difesa ed in un serio  intralcio  alla  ricostruzione
 del  fatto.  Lo svuotamento dello jus tacendi, piegato a strumento di
 recupero  degli  atti  investigativi  non  solo  rende  inutile,  ma,
 addirittura,   nociva   l'estensione   ai   coimputati   in   diverso
 procedimento delle garanzie dettate per l'imputato".
   Di  fronte  a  simili  costi,  appare  legittimo  riflettere  sulla
 necessita'  di  contemperamento fra il diritto al silenzio, quando si
 controverta  sulla  altrui  responsabilita',  e  le  esigenze   dell'
 assicurazione  del  contraddittorio  e  della completa verifica delle
 fonti di prova.
   Si e',  pero'  rilevato  che  e'  estremamente  difficile,  se  non
 impossibile,  nella deposizione sull'altrui responsabilita', scindere
 in maniera netta i fatti oggetto di accertamento, facendo in modo  di
 non investire la responsabilita' del narrante.
   Di  talche' si pone un problema di bilanciamento degli interessi in
 gioco, all'esito del quale, senza dubbio, il principio  nemo  tenetur
 se  detegere si pone come diritto costituzionale di maggior rilevanza
 di fronte al quale gli altri debbono soccombere; anche se il  giudice
 nella  formazione  del suo convincimento dovra' tener conto del fatto
 che la prova si e' formata al di fuori del contraddittorio.
   Tuttavia, possono in pratica  prospettarsi  situazioni  in  cui  il
 diritto  al  silenzio  perde  ogni  sua concreta giustificazione, per
 debordare nel campo dell'irrazionale privilegio: e' il caso in cui la
 responsabilita' del soggetto chiamato a  deporre  a  norma  dell'art.
 210 c.p.p. sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.
   In  questa  ipotesi  svanisce l'esigenza di tutelare lo jus tacendi
 secondo   l'ampiezza   che   esigono   i   principi   costituzionali,
 sottomettendosi   la   salvaguardia   della   persona  sottoposta  al
 procedimento  penale  alle  prospettive  del  collaborante   in   una
 improbabile eventualita' di richiesta di revisione del procedimento.
   Allo  stesso  modo  ritiene  la  Corte che accordare lo jus tacendi
 anche ai collaboratori di giustizia su argomenti in ordine a i  quali
 essi  hanno ammesso le proprie responsabilita' equivale ad assicurare
 l'interesse, solamente teorico, a non veder ritorcere contro  di  se'
 le   proprie   dichiarazioni,  sacrificandosi,  invece,  il  concreto
 interesse  dell'imputato alla verifica delle dichiarazioni utilizzate
 nei suoi confronti.
   La categoria di "coloro che collaborano  con  la  giustizia",  alla
 luce  della  legislazione  premiale  piu' recente   (cfr. artt. 7 e 8
 d.-l. 13 maggio 1991, n. 152; artt. 9 e 16 d.-l. 15 gennaio 1991,  n.
 8;  d.  lgs.  29  marzo 1993 e   d.m. 24 novembre 1994, n. 687) e' un
 concetto giuridico facilmente enucleabile.
   Le persone esposte a grave e attuale  pericolo  per  effetto  della
 loro  collaborazione  o  delle  dichiarazioni  rese  nel  corso delle
 indagini  preliminari  o  del  giudizio  su  fatti  di   criminalita'
 organizzata,  in  forza  del  riconoscimento  di speciale commissione
 emesso sulla  scorta  di  parere  del  procuratore  della  Repubblica
 competente  acquisiscono  uno  speciale  status  giuridico in base al
 quale:
     essi ed i loro familiari possono fruire di misure e programmi  di
 protezione (artt. 9 e 16 d.-l. 15 gennaio 191, n. 8);
     possono  usufruire in forza di tali programmi (la cui definizione
 e' preceduta da  una  valutazione    dell'importanza  del  contributo
 offerto  dal  "pentito")  di  aiuti  economici, del cambiamento delle
 generalita'
  d. lgs. 29 marzo 1993, n. 119), del trasferimento in luoghi protetti
 e qualsiasi altra misura anche in deroga alle vigenti disposizioni in
 materia carceraria;
     possono usufruire  di  benefici  penitenziari  (permessi  premio,
 assegnazione  al  lavoro  esterno, liberazione anticipata, detenzione
 domiciliare, semiliberta' ...) in deroga  a  qualsiasi  limite  anche
 temporale  per  essi  ordinariamente  fissato  (artt. 4-bis, 58-ter e
 58-quater legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato  dagli  artt.
 14 e 15  d.-l. 8 giugno 1992. n. 306);
     possono essere custoditi in luoghi diversi da quelli penitenziari
 (artt.  13  e 13-bis d.-l. 8 gennaio 1991) quando ricorrono motivi di
 sicurezza e per il tempo necessario alla definizione del programma;
     possono essere esaminati  a  dibattimento  con  apposite  cautele
 volte  alla  tutela  del  collaboratore  medesimo  ovvero,  quando e'
 possibile, mediante ricorso a strumenti tecnici idonei  a  consentire
 il collegamento audiovisivo (art. 147-bis disp. att. al c.p.p.);
      possono  ottenere un notevole abbattimento della pena usufruendo
 di speciali attenuanti (art. 8 d.-l.  13 maggio 1991, n. 152).
   Questo  oneroso  trattamento  che  si  addossa  la   comunita'   e'
 giustificato   dal   notevole   contributo   alle  investigazioni  ed
 all'accertamento della verita' fornito dai collaboranti.
   Orbene, per quella inscindibilita'  fattuale  della  narrazione  di
 fatti  attinenti  la responsabilita' dei correi rispetto alla propria
 sopra evidenziata,  il  contributo  offerto  dal  collaboratore  deve
 necessariamente    passare   per   la   confessione   di   specifiche
 responsabilita' in ordine a gravi reati.
   In questi  casi  facilmente  delimitabili  sulla  scorta  del  dato
 formale  dell'ammissione  al programma di protezione (come accade per
 l'accesso ai benefici penitenziari), ed in relazione  ai  fatti  gia'
 oggetto  di  specifica confessione, l'assicurazione dello jus tacendi
 e' un formale riconoscimento di un vuoto principio a fronte del quale
 si sacrifica il diritto dell'imputato a processo giusto, che  implica
 il   diritto  a  "difendersi  provando"  costituzionalmente  tutelato
 dall'art.    24,  secondo  comma  della  Costituzione,  e  che  trova
 completamento,  con espresso riguardo alla testimonianza, negli artt.
 6, terzo comma,  lett.  d)  della  Convenzione  europea  dei  diritti
 dell'uomo  e  14,  terzo comma, lett. e) del Patto internazionale sui
 diritti civili e politici.
   Per  altro  e'  bene  a  questo  punto  evidenziare  che  l'attuale
 procedimento  assicura  degli  strumenti  per  evitare l'"usura delle
 fonti di prova, limitando l'introduzione della prova  orale  ai  soli
 casi di effettiva necessita'".
   L'art.  190-bis c.p.p. infatti consente di limitare l'audizione dei
 collaboranti ai soli casi di assoluta necessita'; al di fuori da tali
 ipotesi e' consentita la lettura dei verbali di dichiarazioni rese in
 altri procedimenti.
   E' pero' evidente che in una razionale sistemazione  della  materia
 una  siffatta  valutazione  di  necessita' dovrebbe essere rimessa al
 prudente  apprezzamento  del  giudice  e   non   al   capriccio   del
 collaboratore o a calcoli processuali delle parti.
   Quanto fin qui esposto con riferimento alle norme che riguardano il
 giudizio  vale anche nel procedimento di prevenzione, nel quale - per
 pacifica giurisprudenza, che trae spunto dall'art. 185 disp.  att. al
 c.p.p. - possono essere assunti i mezzi di  prova  previsti  dal  III
 libro della prima parte del c.p.p.
   Anzi  la mancanza di un fascicolo del p.m. aggrava ulteriormente la
 posizione  del  proposto   e   rende   comunque   piu'   difficoltoso
 l'accertamento   del   fatto,   essendo  rimessa  all'iniziativa  del
 proponente o  del  p.m.    l'individuazione  delle  dichiarazioni  da
 utilizzare, puntualmente ricche di omississ.
   Si e' obiettato che l'eliminazione della facolta' di non rispondere
 costituisce  un  modesto  passo di fronte alla mancanza di sanzioni a
 presidio del precetto.
   E' pero'  facile  rilevare  che  nel  sistema  attuale  la  mancata
 risposta   costituisce   l'esercizio   di   facolta'   legittima  non
 censurabile dall'organismo preposto al controllo dell'attuazione  del
 programma di protezione.
   Diverso  sarebbe,  invece,  il  caso  di  arbitrario  diniego,  che
 esporrebbe il collaborante al pericolo della revoca del programma  di
 protezione.
   E',  quindi,  evidente  come  l'attuale norma posta dall'art. 210.4
 c.p.p. violi il principio di razionalita' previsto dall'art. 3  della
 Costituzione,  nonche'  il  diritto  di difesa garantito dall'art. 24
 della Costituzione, sacrificato senza alcuna valida ragione allorche'
 siano chiamati a  deporre,  quali  soggetti  indicati  nell'art.  210
 c.p.p.,  persone  condannate  con  sentenza  passata  in  giudicato o
 ammesse  a  programma   di   protezione,   rispettivamente   per   la
 ricostruzione  di fatti in ordine ai quali la loro responsabilita' e'
 accertata con sentenza  passata  in  giudicato  o  e'  stata  ammessa
 nell'ambito   della   collaborazione  e  positivamente  valutata  con
 l'ammissione al programma.
   Speculare, ma non sovrapponibile al profilo di illegittimita' sopra
 rassegnato, e' la manifesta irrazionalita'  del sistema - e quindi la
 violazione del principio di  buon  andamento  della  ammninistrazione
 posto  dall'art.  97  della  Costituzione  -  anche in relazione alle
 esigenze dell'ordinamento dello Stato,  che,  dopo  avere  provveduto
 alla   assicurazione  di  tutte  le  cautele  sopra  dettagliatamente
 rassegnate, volte a consentire al collaborante di fornire il  proprio
 apporto  conoscitivo,  vede  frustrate le legittime aspettative di un
 adeguato contributo alla formazione della prova.
   Anche in questo caso valgono le considerazioni sulla natura formale
 e non sostanziale della facolta' di  non  rispondere  esercitata  dal
 collaboratore di giustizia.
   La   questione,   che   si   solleva  di  ufficio,  oltre  che  non
 manifestamente infondata, e', poi, di tutta evidenza,  rilevante  per
 la  decisione,  ricollegandosi  con  la necessita' rilevata da questa
 Corte di approfondire la ricostruzione  del  fatto  con  l'esame  dei
 collaboranti ammessi a programma di protezione.
                               P. Q. M.
   Visti  gli  artt.  1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.
 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenuta  rilevante  e  non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 di cui in motivazione, sospende il giudizio in corso  ed  ordina  che
 gli atti siano trasmessi immediatamente alla Corte costituzionale;
   Ordina  che,  a  cura  della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata agli appellanti e al Procuratore  Generale  presso  questa
 Corte  di appello, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e
 che la stessa sia comunicata ai Presidenti delle due Camere.
     Palermo, addi' 15 novembre 1996
                       Il Presidente: Tessitore
                              Il consigliere est.: (firma illeggibile)
 97C0573