N. 887 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 aprile - 11 dicembre 1997
N. 887 Ordinanza emessa il 21 aprile 1997 (pervenuta alla Corte costituzionale l'11 dicembre 1997) dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Strippoli Savino contro il Ministero dell'universita' e della ricerca scientifica e tecnologica ed altra Impiego pubblico - Dipendente condannato in sede penale - Possibilita' di destituzione all'esito di procedimento disciplinare - Termine perentorio di novanta giorni per la conclusione di detto procedimento - Asserita impossibilita' per la pubblica amministrazione di porre in essere tutti gli atti endoprocedimentali previsti a difesa dell'incolpato - Dedotta inadeguata valutazione dei fatti - Irragionevolezza - Lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. (Legge 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.2 del 14-1-1998 )
IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello proposto dal dott. Savino Strippoli, rappresentato e difeso dall'avv. Ugo Sgueglia, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via Ottorino Lazzarini n. 19; contro il Ministero dell'universita' e della ricerca scientifica e tecnologica, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e la commissione di disciplina del Ministero dell'universita' e della ricerca scientifica e tecnologica, non costituita; per l'annullamento della sentenza del tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. III, 3 luglio 1996, n. 1288; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione; Vista la memoria prodotta dall'amministrazione a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Vista l'ordinanza 18 febbraio 1997, n. 295, con la quale l'affare e' stato rimesso all'adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali; Relatore, alla pubblica udienza del 21 aprile 1997, il consigliere Filippo Patroni Griffi; Uditi l'avv. Sgueglia e l'avv. dello Stato Sica; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F a t t o Con decreto del 16 ottobre 1995 il Ministro dell'universita' e della ricerca scientifica inflisse al ricorrente, dirigente superiore, la sanzione disciplinare della destituzione a decorrere dall'11 maggio 1993 per fatti attinenti al servizio prestato quale direttore amininistrativo dell'Universita' "La Sapienza" di Roma. La contestazione degli addebiti, formulata il 17 maggio 1995, era pervenuta all'interessato il 24 maggio 1995; le giustificazioni erano state prodotte il 7 giugno 1995 e la commissione di disciplina si era riunita il 29 agosto 1995. Avverso tale provvedimento l'interessato ha proposto ricorso al tribunale amministrativo regionale per il Lazio, il quale, con sentenza 3 luglio 1996, n. 1288, lo ha respinto. Propone appello lo Strippoli. Resiste l'amministrazione. Con ordinanza 18 febbraio 1997, n. 295, la sezione sesta ha deferito l'affare all'adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. All'udienza del 21 aprile 1997, la causa e' stata trattenuta in decisione. D i r i t t o 1. - La questione di diritto sulla quale l'affare e' stato devoluto a questa adunanza plenaria concerne la portata dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale nei confronti del pubblico dipendente, condannato in sede penale, "la destituzione puo' sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile e concluso nei successivi novanta giorni". 2. - Come e' stato posto in evidenza nell'ordinanza di rimessione, tale norma ha dato luogo a notevoli difficolta' di ordine interpretativo. 2.1. - In sede di prima applicazione, alcune sentenze dei tribunali ammistrativi regionali hanno ritenuto che e' senz'altro viziato da violazione di legge il provvedimento di destituzione adottato dopo la scadenza del termine di novanta giorni, previsto per la conclusione del procedimento. Tale tesi si fonda sul testo della norma, che ha adoperato un'espressione ("deve essere ... concluso") da cui si evince la volonta' del legislatore di delimitare l'esercizio del potere disciplinare, sotto il profilo temporale. Si e' pertanto qualificato come "perentorio" il termine di conclusione del procedimento disciplinare. Altre sentenze dei tribunali amministrativi regionali hanno invece attribuito carattere "ordinatorio" al medesimo termine, rilevando che la previgente normativa sul procedimento disciplinare (e in particolare le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957) prevede varie ipotesi procedimentali, che mirano ad equilibrare i poteri dell'amministrazione con le esigenze della difesa del dipendente: non puo' ritenersi che il rispetto dei distinti termini previsti per tali fasi renda illegittimo il provvedimento disciplinare, pur adottato dopo novanta giorni dalla contestazione degli addebiti. 2.2. - Questo Consiglio, sia in sede consultiva che giurisdizionale, ha costantemente ritenuto che non sia di per se' viziato il provvedimento disciplinare adottato dopo la scadenza del termine di novanta giorni. La commissione speciale del pubblico impiego, con parere 11 novembre 1991, n. 275, ha rilevato le manifeste incongruita' derivanti dalla previsione di tale termine, poiche' l'art. 9, comma 2, - introdotto per dare attuazione ai principi espressi dalla pronuncia della Corte costituzionale 14 ottobre 1988, n. 971, che dichiarava illegittima la destituzione automatica - non ha previsto alcuna norma di coordinamento con la legislazione precedente. La commissione, sul presupposto che in sede di esame dei quesiti proposti al Consiglio di Stato in sede consultiva non possono essere sollevate questioni di costituzionalita' innanzi alla Corte costituzionale, ha rilevato che: l'amministrazione deve comunque rispettare il termine di novanta giorni concludendo il procedimento, essendovi il pubblico interesse alla corretta e rapida definizione della situazione conseguente alla condanna penale dell'impiegato; il superamento del termine non comporta sempre l'estinzione del procedimento disciplinare, poiche' si deve accertare se esso risulti giustificato, nel singolo caso di specie, dal documentato svolgimento delle fasi endoprocedimentali fissate dal testo unico n. 3 del 1957, purche' queste ultime siano state espletate nel rigoroso rispetto dei termini specificatamente previsti dalla legge. 2.3. - La successiva giurisprudenza di questo Consiglio, in sede giurisdizionale, ha per lo piu' condiviso le conclusioni cui e' giunta la commissione speciale, verificando di volta in volta se risultassero sussistenti "adeguate ragioni giustificatrici" della conslusione del procedimento disciplinare oltre il prescritto termine di novanta giorni. La sentenza impugnata si e' adeguata a tale giurisprudenza, rilevando che, in concreto, nessuna particolare ragione giustificava l'adozione del provvedimento di destituzione dopo il superamento del termine di novanta giorni, decorrente dalla comunicazione degli addebiti. Altre volte, questo Consiglio ha qualificato come "ordinatorio" il medesimo termine, ritenendo di per se' irrilevante il suo superamento. 3. - Rileva l'adunanza plenaria che, a distanza di oltre sette anni dall'entrata in vigore della legge n. 19 del 1990, non si e' ancora formato un "diritto vivente" sull'effettivo ambito di operativita' dell'art. 9, secondo comma. Cio' e' dovuto al fatto che il suo tenore letterale, malgrado la sua sintetica linearita', non e' apparso coerente (alla commissione speciale e alle singole sezioni di questo Consiglio) con la precedente normativa sul procedimento disciplinare e, in particolare, con le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957 e negli altri ordinamenti di settore. Tali disposizioni, che sviluppano i principi garantistici tradizionalmente enunciati in materia fin dal secolo scorso dal Consiglio di Stato, ha previsto alcune "fasi endoprocedimentali", delimitando i poteri istruttori e punitivi dell'amministrazione e contemperandoli con le esigenze di difesa dell'incolpato. L'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, nel prevedere che il procedimento disciplinare deve essere iniziato entro centottanta giorni dalla condanna e concluso nei successivi novanta giorni, si puo' dunque prestare a una duplice interpretazione: a) o si ritiene che il legislatore abbia disposto l'indefettibile conclusione del procedimento disciplinare entro il medesimo termine, potendo l'amministrazione comunque adottare l'atto punitivo prescindendo dalle regole procedimentali sancite in primis dal testo unico n. 3 del 1957: e allora si devono ritenere abrogate per incompatibilita' tutte le norme che hanno articolatamente previsto le verie fasi endoprocedimentali, poste a difesa dell'incolpato e che non possono svolgersi durante i novanta giorni; b) o si ritiene che il legislatore, come ha osservato la commissione speciale nel richiamato parere, ha fissato un termine la cui violazione non comporta di per se' l'illegittimita' dell'atto punitivo, potendo il giudice amministrativo di volta in volta, in presenza di specifiche censure dell'interessato, valutare se siano o meno sussistenti "adeguate ragioni giustificatrici" che possono spiegare il superamento del termine. 4. - L'adunanza plenaria ritiene che questa seconda linea interpretativa debba essere esclusa, per le seguenti ragioni: a) il dato letterale dell'art. 9, secondo comma, e' chiaro nel disporre che la conclusione del procedimento disciplinare debba aver luogo senza deroghe entro il termine di novanta giorni dal suo inizio (in tal senso, v. anche il punto 3 della motivazione della sentenza della Corte costituzionale 6 novembre 1991, n. 415); b) la sua ratio e' stata per il legislatore l'esigenza che sia prontamente definita la particolare situazione in cui versa il pubblico dipendente, a tutela di questi quanto dell'amministrazione; c) non puo' ammettersi che, in una materia tanto delicata, nella quale sono in discussione aspetti attinenti alla personalita' del dipendente e alla prosecuzione della sua attivita' lavorativa (art. Corte costituzionale, sentenza n. 971 del 1988), non vi sia una regola certa, univoca, di facile applicazione sulla durata del procedimento disciplinare. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, ritiene l'adunanza plenaria che anche per l'illecito disciplinare debba applicarsi il principio di chiarezza o di determinatezza della disciplina che consente la sua punizione. In base ad un principio generale, applicabile non solo nel diritto penale, ma piu' in generale nel diritto punitivo, devono essere predeterminate dall'ordinamento le possibili conseguenze della commissione di un illecito. Per quanto riguarda l'illecito disciplinare, tale principio si applica sul piano sostanziale (potendo la legge attribuire all'amministrazione il potere disciplinare in presenza di una condanna penale o di altri preindividuati presupposti) e sul piano procedimentale (potendo l'amministrazione adottate l'atto punitivo entro termini stabiliti e mediante gli atti individuati dal legislatore). Il secondo comma dell'art. 9 in esame non ha espressamente previsto che l'amministrazione possa concludere il procedimento oltre il termine di novanta giorni dal suo inizio "in presenza di adeguate ragioni giustificatrici", ne' queste possono porre nel nulla la norma ed essere in concreto ravvisate dal giudice amministrativo, con una indagine ex post non basata su alcun obiettivo canone interpretativo: la legge non ha previsto alcuna eccezione alla regola per cui l'amministrazione puo' irrogare la sanzione disciplinare solo entro il termine fissato, ne' ha previsto che la "scusabilita'" del superamento del termine possa essere ravvisata dal giudice amministrativo. 5. - L'unica possibile interpretazione del secondo comma dell'art. 9 in esame risulta essere quella conforme al suo tenore letterale. Il legislatore ha delimitato una parentesi temporale entro la quale puo' essere esercitato il potere disciplinare a seguito di una condanna penale, il cui termine iniziale e' quello centottanta giorni dalla condanna e il cui termine finale e' quello di novanta giorni, decorrente dall'inizio del procedimento: il superamento del medesimo termine comporta l'illegittimita' del provvedimento punitivo per violazione di legge. 6. - Va a questo punto rilevato che l'art. 9, secondo comma, per la parte in cui ha disposto che il potere punitivo possa essere esercitato indefettibilmente entro il termine di novanta giorni, potrebbe porsi in contrasto con vari principi costituzionali: l'adunanza plenaria ritiene d'ufficio che risultino non manifestamente infondate le relative questioni. Necessariamente, l'amministrazione pubblica puo' rispettare tale termine solo non applicando le norme garantistiche, i cui principi essenziali sono stati enunciati nel testo unico n. 3 del 1957. La riconosciuta natura "perentoria" del termine di novanta giorni, in altri termini, comporta che non possono che intendersi abrogate le precedenti norme garantistiche, riguardanti le diverse fasi endoprocedimentali. Il secondo comma dell'art. 9 (pur essendo interpretabile nel senso che l'atto punitivo deve essere quanto meno preceduto dalla fissazione di un termine per le controdeduzioni dell'incolpato) non consente alla pubblica amministrazione, che intenda rispettare il termine di novanta giorni, di porre in essere tutti gli altri atti endoprocedimentali, previsti a tutela della difesa dell'incolpato gia' del testo unico n. 3 del 1957. Pertanto, il secondo comma dell'art. 9 della legge n. 19 del 1990 potrebbe porsi in contrasto con i seguenti principi costituzionali, in quanto non si sono tenute in adeguata considerazione le esigenze di difesa dell'incolpato e gli interessi di cui e' portatrice l'amministrazione. In primo luogo, appare manifestamente illogica - e quindi in possibile contrasto con l'art. 3 della Costituzione - la scelta del legislatore di fissare il contenuto termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, abrogando per incompatibilita' la precedente normativa, posta a difesa della posizione dell'incolpato e mirante all'accertamento ed alla adeguata valutazione dei fatti sulla base di un articolato procedimento, caratterizzato dalle fasi endoprocedimentali di cui al testo unico n. 3 del 1957. In secondo luogo, appare violato il principio del buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione, poiche' la ristrettezza del termine di novanta giorni puo' in concreto non consentire l'adeguata valutazione dei fatti, in una materia tanto delicata, in cui l'ordinamento mira al giusto contemperamento delle esigenze dell'amministrazione con la posizione dell'incolpato, la cui prosecuzione dell'attivita' lavorativa e' tutelata dall'art. 4 della Costituzione (Corte cost., sentenza n. 971 del 1988). In definitiva, rileva l'adunanza plenaria che a un sistema normativo coerente e razionale, recante la disciplina procedimentale dell'irrogazione delle sanzioni disciplinari, si e' sovrapposta una normativa che, nella sua scheletricita', non puo' trovare pratica applicazione che confliggendo con principi di natura costituzionale. Deve essere pertanto disposta la rimessione di tali questioni all'esame della Corte costituzionale. La rilevanza delle questioni discende dal carattere logicamente preliminare della relativa censura, che pone in discussione in radice l'esercizio del potere esercitato.
P. Q. M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria) sospende il giudizio e rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in relazione agli artt. 3 e 97 della Costituzione; Manda alla segreteria per gli adempimenti di legge. Cosi' deciso in Roma, addi' 21 aprile 1997 Il presidente: de Roberto L'estensore: Patroni Griffi 97C1488