N. 76 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 novembre 1997

                                 N. 76
  Ordinanza  emessa  il  27  novembre 1997 dal tribunale di Torino nel
 procedimento penale a carico di De Cillis Antonia ed altri
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento  connesso  che abbia reso dichiarazioni indizianti al
    pubblico ministero - Esercizio della facolta' di non rispondere  -
    Conseguente    inutilizzabilita'    di   dette   dichiarazioni   -
    Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa -  Disparita'
    di   trattamento   tra   le  parti  -  Lesione  del  principio  di
    indefettibilita'   della    funzione    giurisdizionale    e    di
    obbligatorieta'  dell'azione  penale  - Incidenza sulla formazione
    del convincimento del giudice.
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Lettura  dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso
    delle indagini preliminari -  Preclusione  per  il  giudice  salvo
    l'accordo delle parti - Irragionevolezza - Disparita' tra le parti
    -   Lesione  del  principio  di  indefettibilita'  della  funzione
    giurisdizionale  e  di  obbligatorieta'   dell'azione   penale   -
    Incidenza sulla formazione del convincimento del giudice.
 Processo  penale - Dibattimento - Valutazione delle prove - Modifiche
    normative - Disciplina transitoria -  Dichiarazioni  acquisite  al
    fascicolo  per il dibattimento ai sensi dell'art. 513 previgente -
    Attendibilita' confermata da dichiarazioni  dello  stesso  tipo  -
    Esclusione  -  Sottrazione  di  materiale  probatorio  ritualmente
    acquisito - Disparita' di trattamento tra imputati -  Lesione  del
    principio  di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di
    obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P. 1988, art. 513, commi 1 e 2 sostituito dal c.p.p. 1988,  art.
    514; legge 7 agosto 1997, n. 267, artt. 1, 2 e 6, comma 5).
 (Cost.,  artt.  2,  3, 24, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111,
    primo comma e 112).
(GU n.8 del 25-2-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la   seguente   ordinanza   sulla   questione   di
 legittimita'  costituzionale  sollevata dal p.m. in ordine agli artt.
 513, commi 1 e 2, e 514 c.p.p., quali modificati dagli artt.  1  e  2
 legge  7  agosto  1997,  n. 267, nonche' dell'art. 6 stessa legge per
 violazione degli artt. 2, 3, 24, 101, comma secondo, 102, 111,  comma
 primo e 112 Cost.;
   Ritenuta la rilevanza della questione, in quanto l'ipotesi d'accusa
 si  fonda  quasi  esclusivamente  sulle  dichiarazioni rese nel corso
 delle indagini da coimputati che hanno scelto riti alternativi e che,
 al dibattimento, si sono avvalsi della facolta' di non rispondere;
   Ritenuto che la questione non  e'  manifestamente  infondata  cosi'
 come   analiticamente   argomentato  nell'ordinanza  pronunciata  dal
 tribunale di Milano - III sezione penale in data 24 ottobre 1997, che
 si allega in copia alla  presente  ordinanza  come  parte  integrante
 della stessa.
                               P. Q. M.
   Visti  gli  artt. 1 della legge cost. n. 1/1948 e 23 della legge n.
 87/1953,   dichiara   rilevante   nel   presente   giudizio   e   non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 degli artt.  513, commi 1 e 2, e 514 c.p.p., quali  modificati  dagli
 artt.  1  e 2 legge 7 agosto 1997, n. 267, nonche' dell'art. 6, comma
 5, legge n. 267/1997 per violazione degli artt. 2, 3, 24, 101,  comma
 secondo, 102, 111, comma primo, e 112 della Costituzione;
   Dispone    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
   Sospende il procedimento in corso;
   Ordina che, a cura della cancelleria,  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  al  Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della  Camera
 dei deputati.
     Torino, addi' 27 novembre 1997
                   Il presidente: (firma illeggibile)
    Il  tribunale  di  Milano,  decidendo  in ordine alla questione di
 legittimita'  costituzionale  sollevata  dal  pubblico  ministero  in
 ordine all'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge 7 agosto
 1997, n. 267, ed all'art. 6, comma 5 della medesima legge, sentite le
 altre parti,
                             O s s e r v a
   1.  -  Il  23  aprile 1997 il tribunale, sentite le richieste delle
 parti, emetteva ordinanza di ammissione delle  prove,  tra  le  quali
 l'esame  degli  imputati  in  procedimento connesso Dell'Aglio Luigi,
 Ruggiero  Giuseppe,   Castiglioni   Gianfranco,   Colombo   Antonino,
 Holzmiller  Giuseppe,  Rittatore  Vonwiller Andrea, oltre a tutti gli
 imputati del presente processo che avevano definito la loro posizione
 a  mezzo  di  applicazione  di  pena  (Pepe  Pietro, Pugliatti Carlo,
 Orlandi  Maurizio,  Maiorino  Mariano,  Palummeri  Carmelo,   Cavallo
 Giulio, Bocca Piercarlo, Fusetti Antonio, Napodano Giovanni Bosco).
   Nel corso della stessa udienza si presentava per l'esame l'imputato
 in procedimento connesso Dell'Aglio che si avvaleva della facolta' di
 non  rispondere.  A  seguito  di  cio' il pubblico ministero chiedeva
 l'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dal  predetto  in
 fase  di indagini preliminari davanti al suo ufficio ed il tribunale,
 a mente dell'art. 513 c.p.p. cosi'  come  modificato  dalla  sentenza
 Corte cost. n. 254 del 1992, disponeva in conformita'.
   Entrata  in  vigore  la  legge  n. 267 del 1997, all'udienza del 14
 ottobre scorso i difensori degli imputati chiedevano la citazione del
 suindicato imputato in procedimento connesso per il nuovo esame.   Il
 Dell'Aglio  si  avvaleva nuovamente della facolta' di non rispondere;
 veniva quindi introdotto il Ruggiero, il quale pure  si  avvaleva  di
 tale facolta'.
   A  questo  punto  il  pubblico  ministero  chiedeva  la  lettura  e
 l'acquisizione  delle  dichiarazioni   del   Ruggiero   ed   eccepiva
 l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come sostituito
 dall'art. 1 legge n. 267 del 1997  e  dell'art.  6,  comma  5,  della
 stessa  legge per contrasto con gli artt. 2, 3, 25, comma 2, 101, 112
 della Costituzione.
   Le parti interloquivano nel merito dell'eccezione ed  il  tribunale
 si  riservava  di  decidere all'odierna udienza. Nelle more la difesa
 Semilia depositava memoria.
   2. - Interpretazione dell'art. 513 c.p.p. come sotituito  dall'art.
 1  della  legge  n.  267 dell'8 agosto 1997 e dell'art. 6 commi 2 e 5
 della stessa legge.
   L'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997
 dispone: "1. Il giudice, se l'imputato e' contumace o assente  ovvero
 rifiuta  di  sottoporsi  all'esame, dispone, a richiesta di parte che
 sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni  rese  dall'imputato
 al  pubblico  ministero  o  alla  polizia  giudiziaria  su delega del
 pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini  preliminari
 o  nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere
 utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso.  2.  Se  le
 dichiarazioni  sono  state rese dalle persone indicate nell'art. 210,
 il  giudice,  a  richiesta  di  parte,  dispone,  secondo   i   casi,
 l'accompagnamento  coattivo  del dichiarante o l'esame a domicilio...
 ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del
 contraddittorio.   Se non  e'  possibile  ottenere  la  presenza  del
 dichiarante,  ovvero procedere all'esame in uno dei modi suddetti, si
 applica la  disposizione  dell'art.  512  qualora  la  impossibilita'
 dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al  momento  delle
 dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga  della  facolta'  di
 non  rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti
 le suddette dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti.  3.  Se
 le  dichiarazioni  di  cui  ai commi 1 e 2 del presente articolo sono
 state assunte ai sensi dell'art.  392, si applicano  le  disposizioni
 di cui all'art. 511".
   Come   e'   evidente  la  norma,  con  riferimento  alla  posizione
 dell'imputato in procedimento connesso  -  che  e'  l'unica  che  qui
 rileva  - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento per
 poter sottoporre il medesimo ad esame e,  quando  questi  si  avvalga
 della  facolta'  di  non  rispondere,  prevede come condizione per la
 lettura  (e  la  conseguente  acquisizione  al   fascicolo   per   il
 dibattimento)  delle  dichiarazioni indicate al comma 1, l'accordo di
 tutte le parti presenti nel processo.  Indirettamente ma chiaramente,
 percio', la norma attribuisce a ciascuna delle  parti  il  potere  di
 vietare   la   lettura   e  l'acquisizione  e  l'utilizzazione  delle
 dichiarazioni sopra indicate.
   Si  tratta  percio'  di  una  disposizione  che,  nel  procedimento
 probatorio, regola la fase di acquisizione della prova.
   L'art.  6  comma  2 legge n. 267 del 1997 prevede: "Nel giudizio di
 primo grado in corso,  quando  e'  stata  disposta  la  lettura,  nei
 confronti  di  altri  senza  il  loro  consenso,  dei  verbali  delle
 dichiarazioni, rese dalle persone indicate nell'art. 513  del  codice
 di  procedura  penale al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria
 da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini  preliminari
 o  dell'udienza  preliminare,  ove le parti lo richiedano, il giudice
 dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame".
   Al comma 5 del medesimo articolo la disciplina e' completata con la
 previsione che, ove le  persone  indicate  nell'art.  513  c.p.p.,  a
 seguito  della  citazione  per il nuovo esame, si siano ulteriormente
 avvalse della facolta' di non rispondere o non  si  siano  presentate
 "... le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come
 prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilita' sia
 confermata  da  altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni
 rese al  pubblico  ministero,  alla  polizia  giudiziaria  da  questi
 delegata  e  al  giudice  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza preliminare, di cui sia  stata  data  lettura  ai  sensi
 dell'art. 513 del codice di procedura penale, nel testo vigente prima
 della data di entrata in vigore della legge".
   L'art. 6 nel suo complesso, come fatto palese anche dalla rubrica -
 "Norma  transitoria"  -,  e' rivolto a disciplinare l'utilizzabilita'
 delle dichiarazioni predibattimentali rese da imputati od imputati in
 procedimento connesso di cui, al momento di entrata in  vigore  della
 legge,  sia  gia'  stata  disposta la lettura ai sensi dell'art.  513
 previgente.
   Scopo della norma e' quello di favorire  l'instaurazione  effettiva
 del  contraddittorio  dibattimentale,  da  un  lato  verificando, con
 l'ammissione  delle  parti  ad  una  nuova  richiesta  di  citazione,
 l'interesse  concreto  che  esse  manifestino all'esercizio di quella
 facolta', e, dall'altro lato e per conseguenza,  imponendo  un  nuovo
 esame  del  soggetto  quando tale richiesta sia stata avanzata da una
 delle parti.
   Il regime adottato, ricostruito alla luce  della  lettera  e  della
 ragion  d'essere  della  norma,  e'  quindi  questo:  se le parti non
 manifestano mediante la richiesta di citazione  l'interesse  concreto
 ad  esaminare  il  soggetto,  delle dichiarazioni lette in precedenza
 permane la piena utilizzabilita'; viceversa se anche una  sola  delle
 parti  manifesta, mediante la richiesta di citazione, interesse ad un
 nuovo esame e di tale atto rimane impossibile il compimento o perche'
 il soggetto non si e'  presentato  (questa  situazione  si  riferisce
 evidentemente all'imputato) o perche' si e' avvalso della facolta' di
 non  rispondere  (situazioine  che  si riferisce sia all'imputato che
 all'imputato  in  procedimento   connesso),   muta   il   regime   di
 utilizzabilita'  delle  dichiarazioni  gia'  acquisite secondo quanto
 disposto dal comma 5 del citato art.    6  (Cass.,  sez.  I,  ud.  29
 settembre  1997, sent. n. 1213, n. 1950/1997 r.g., pres. Teresi, rel.
 Canzio, imp. Cascino ed altri).
   Quest'ultima norma introduce, all'evidenza, non gia' una regola  di
 ammissione  od  assunzione  della  prova,  che  anzi la legge suppone
 avvenute, ma una regola di valutazione della prova  (Cass.,  sez.  I,
 ud. 29 settembre 1997, sent. n. 1213, cit.) e precisamente una regola
 di  parziale  esclusione  del  valore  probatorio delle dichiarazioni
 predibattimentali  delle  persone  indicate  dall'art.   513   c.p.p.
 previgente:    esse possono fondare la dichiarazione del risultato di
 prova quando la loro credibilita' sia confermata da altri elementi di
 prova, ma non possono svolgere esse stesse la funzione  di  conferma.
 In sostanza il legislatore attribuisce efficacia generatrice di prova
 alle dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 previgente la cui
 attendibilita'  sia  confermata da elementi di prova da dichiarazioni
 della medesima natura, contemporaneamente  con  cio'  negando  valore
 probaborio   a   dichiarazioni  di  quel  genere  che  si  confermino
 reciprocamente.
   Una  questione  si  e'  posta   con   riferimento   all'ambito   di
 applicazione  della  normativa  di  cui  si  discute:  si  e' infatti
 sostenuto che i commi 2 e  5  dell'art.  6  legge  n.  267  del  1997
 sarebbero  applicabili  soltanto  ai  casi  in  cui il giudice, prima
 dell'entrata in vigore della legge, avesse, prima  di  acquisirle,  o
 materialmente  letto le dichiarazioni dei soggetti indicati dall'art.
 513 c.p.p. o le avesse indicate come utilizzabili, e cio' in ossequio
 al disposto dell'art.  511 c.p.p. In sostanza, secondo tale  teorica,
 il  regime  di  cui  alle  norme  predette sarebbe inapplicabile alle
 dichiarazioni del genere in questione che fossero state acquisite  al
 fascicolo per il dibattimento senza lettura.
   All'accoglimento  di  una  siffatta interpretazione ostano numerosi
 argomenti di diversa natura.
   Anzitutto  vale  l'argomento  sistematico  che,  se   correttamente
 utilizzato,  porta  a conseguenze opposte a quelle sopra indicate. Si
 deve precisare che, come  reso  chiaro  dal  disposto  dell'art.  515
 c.p.p.,  la  lettura  e'  strumento  per  l'acquisizione dell'atto al
 fascicolo per  il  dibattimento  e  percio'  e'  prevista  come  atto
 preliminare  ad  essa. Ne deriva che, ove l'acquisizione sia avvenuta
 senza  lettura  si  potra'  discutere   della   validita'   di   tale
 acquisizione    e   dell'utilizzabilita'   dell'atto,   eventualmente
 dell'efficacia sanante di una lettura successiva, ma  non  si  potra'
 discutere  sulla  circostanza  che  la fase propria della lettura sia
 gia' stata superata.
   Anche il  punto  della  validita'  ed  utilizzabilita'  degli  atti
 acquisiti   al   fascicolo  per  il  dibattimento  senza  lettura  od
 indicazione e' stato tuttavia  chiarito  dalla  giurisprudenza  della
 Corte  di  cassazione,  laddove  ha  correttamente affermato che tali
 omissioni  costituiscono  mera  irregolarita'   non   sanzionata   da
 inutilizzabilita'    o    nullita'    e   percio'   non   impediscono
 l'utilizzazione degli atti stessi (Cass., sez. I, 10 gennaio-1 luglio
 1994, n. 7456, Manitta).
   Ben si puo' quindi concludere che l'acquisizione di un  atto  senza
 la  prevista  lettura  od  indicazione  di  utilizzabilita' assorbe e
 ricomprende implicitamente lettura ed indicazione.  Cio'  salvo  che,
 ovviamente,  la  lettura  di  un  atto  non  sia stata esplicitamente
 richiesta da una parte, a mente dell'art. 511 comma 5 c.p.p.
   Tale ricostruzione sistematica importa per un verso che un atto - e
 cio'   vale   in   particolare   per   i   verbali  di  dichiarazioni
 predibattimentali di imputati od imputati in procedimento connesso -,
 quando e' acquisito al fascicolo per il dibattimento - senza  che  vi
 sia richiesta di lettura ne' esplicita indicazione di utilizzabilita'
 - rimane tuttavia immediatamente utilizzabile.
   E'  appena il caso di rilevare che l'art. 513 c.p.p. - tanto quello
 previgente che quello vigente - impone  la  lettura  dell'atto  prima
 della  sua  acquisizione  al  fascicolo per il dibattimento e dopo la
 richiesta che al riguardo sia formulata da una delle parti, e percio'
 nel corso dell'istruttoria dibattimentale. Risultano pertanto  quanto
 meno  irregolari  le  letture  degli  atti che vengono effettuate con
 riferimento a tuttte le precedenti acquisizioni  dibattimentali  come
 ultimo atto antecedente alla chiusura dell'istruttoria dibattimentale
 od  all'inizio della discussione, sebbene si tratti di prassi volta a
 sanare  le  altre  irregolarita'  verificatesi  in   precedenza,   in
 concomitanza  con  l'acquisizione  di ogni atto senza previa lettura.
 E' certo tuttavia che dall'esistenza di tale prassi  non  puo'  certo
 dedursi   che   il   procedimento  di  formazione  della  prova,  con
 riferimento  alle  dichiarazioni  acquisite  al  fascicolo   per   il
 dibattimento  ex  art.  513 c.p.p. senza previa lettura, non si trovi
 gia' in una fase successiva a quella riservata alla lettura.  E'  poi
 appena  il caso di rilevare che, se all'acquisizione al fascicolo per
 il dibattimento non  si  dovesse  attribuire  l'effetto  di  generare
 immediatamente  l'utilizzabilita'  dell'atto,  si  introdurrebbe  nel
 processo un germe di profonda confusione, circa l'efficacia  di  atti
 acquisiti  ma  di  cui  rimarrebbe  non  gia'  esclusa,  ma in dubbio
 l'utilizzabilita' a tempo indeterminato.  Per fare un  solo  esempio,
 seguendo   la   tesi   secondo   cui   l'acquisizione   non  comporta
 utilizzabilita' dell'atto  e  non  suppone  superata  la  fase  della
 lettura,  verrebbe  vanificato  il  principio  che  ispira  tutta  la
 normativa sull'ordine di assunzione delle prove, poiche'  la  difesa,
 al momento dell'assunzione delle sue, non saprebbe ancora nulla circa
 l'utilizzabilita'  di  importanti  elementi  introdotti  dall'accusa.
 Infine l'interpretazione qui respinta  per  un  verso  restringerebbe
 oltremodo  l'estensione  dell'applicazione della norma transitoria di
 cui si discute,  che  nella  sostanza  troverebbe  effetto  solo  con
 riferimento ai processi di primo grado in fase di discussione finale,
 e,  per  altro  verso,  finirebbe  per creare un incolmabile vuoto di
 disciplina con riferimento a tutti i casi di dichiarazioni acquisite,
 nel corso del giudizio di primo grado, ex art. 513 c.p.p.  previgente
 ma  non lette.   Per tale caso, infatti, risulta applicabile non gia'
 la disciplina ordinaria (Cass., sez. I, ud. 29 settembre 1997,  sent.
 n. 1213, cit.)  ma soltanto l'art. 6, comma 2, legge n. 267 del 1997,
 il  quale  non  prevede l'eventualita' dell'acquisizione senza previa
 lettura.    Dalle  superiori  osservazioni  deriva   che   la   norma
 transitoria  di  cui  all'art.  6  legge n. 267 del 1997 si applica a
 tutti i casi in cui, durante un giudizio di primo grado e prima della
 sua entrata in vigore, sia stata disposta la  lettura  oppure,  anche
 senza  previa  lettura,  siano  stati  acquisiti  al fascicolo per il
 dibattimento ex art. 513 c.p.p. verbali di dichiarazioni  rese  dalle
 persone  ivi indicate al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria
 su delega del pubblico ministero, al giudice nel corso delle indagini
 preliminari  o  dell'udienza  preliminare.   Viceversa, nel corso del
 giudizio di primo grado, trova applicazione la disciplina ordinaria -
 art. 513 comma 2 c.p.p. come sotituito dall'art. 1 legge n.  267  del
 1997  - in tutti i casi in cui l'esame degli imputati in procedimento
 connesso non si sia ancora svolto alla  data  di  entrata  in  vigore
 della legge predetta.
   3.  -  Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art.
 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997 e l'art.
 6 comma 5 legge n. 267 del 1997.    Risulta  evidente,  nel  caso  di
 specie,  la  rilevanza della questione di legittimita' costituzionale
 del disposto dell'art. 513 comma 2 c.p.p. come sostituito dall'art. 1
 legge n. 267 del 1997, poiche' l'esame del  Ruggiero  e'  gia'  stato
 ammesso  dal tribunale che ha ritenuto rilevante detto mezzo di prova
 - atteso che, nella prospettazione accusatoria, le dichiarazioni  del
 predetto  sono  dedotte  a  conforto  di quelle del Dell'Aglio - e la
 norma in questione  subordina  l'acquisizione  al  fascicolo  per  il
 dibattimento  delle  dichiarazioni  del  predetto - che si e' avvalso
 della facolta' di non rispondere - al consenso delle parti, cioe'  al
 verificarsi  di una condizione la cui previsione normativa e' appunto
 oggetto del sospetto di illegittimita'. Mette conto osservare che nel
 presente procedimento e' costituito parte civile il  Ministero  delle
 finanze cosicche' la questione proposta involge anche la legittimita'
 costituzionale   del   diritto   ad  esprimere  il  proprio  consenso
 riconosciuto dalla legge anche a questa parte privata.   A fronte  di
 tali  osservazioni  -  poiche'  questo tribunale ritiene la questione
 predetta non manifestamente infondata - si propone la  rilevanza,  in
 immediato  subordine,  della  questione  concernente  la legittimita'
 della disciplina prevista dall'art. 6, comma  5,  legge  n.  267  del
 1997.  Infatti  qualora  la Corte costituzionale ritenesse fondata la
 questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p.  nella parte
 in cui condiziona al  consenso  della  parti  private  l'acquisizione
 delle  dichiarazioni  degli  imputati in procedimento connesso che si
 siano avvalsi della facolta' di non rispondere,  verrebbe  riproposto
 un meccanismo di acquisizione di tali dichiarazioni identico a quello
 contemplato  dall'art.  513 previgente (come integrato dalla sentenza
 n. 254 del 1992). Ne deriverebbe, a mente dell'art. 6, comma 5, legge
 n.  267  del  1997  -  della  cui  legittimita'  pure  si  dubita  -,
 l'impossibilita'  di  utilizzare  le  dichiarazioni  del  Ruggiero  a
 conferma di quelle del Dell'Aglio. Dunque la questione, per  evidenti
 esigenze  di economia processuale e considerato il disposto dell'art.
 27 legge n. 87 del  1953,  deve  essere  sollevata  in  questa  sede.
 Ritiene  tuttavia  questo  Collegio  che,  a  fronte  delle eccezioni
 sollevate dal pubblico ministero, se ne ponga un'altra, di  carattere
 preliminare,  circa  la  conformita'  al dettato costituzionale degli
 artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p. nella parte  in  cui  attribuiscono,
 alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello stesso art. 210 c.p.p., la
 facolta'  di  non rispondere alle domande loro rivolte dalle parti in
 dibattimento con  riferimento  a  fatti  indizianti  descritti  dalle
 predette  persone  in  dichiarazioni  rese  al pubblico ministero nel
 corso delle  indagini.  Tale  questione  e'  rilevante  nel  presente
 processo poiche', come si e' detto, sia il Dell'Aglio che il Ruggiero
 si sono avvalsi di tale facolta'.
   4.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n.
 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle
 parti la lettura dei verbali  contenenti  le  dichiarazioni  rese  al
 pubblico  ministero  dalle  persone  indicate  nell'art.  210  c.p.p.
 qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere.
   4.1.  -  Giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  in  tema  di
 valutazione  della  prova  e  di  regole  di  esclusione della prova.
 Occorre preliminarmente notare  che  le  norme  di  cui  si  sospetta
 l'illegittimita' vanno ad inserirsi nel centro del processo disegnato
 dal  codice  vigente, laddove regolano da un lato i rapporti tra fase
 delle indagini e fase dibattimentale, dall'altro i poteri delle parti
 nella formazione dibattimentale  della  prova  e,  dall'altro  ancora
 impongono   limiti   alla   formazione   del   razionale  e  motivato
 convincimento giudiziale. Non v'e' dubbio che  le  norme  di  cui  si
 discorre  siano  ispirate ad un depotenziamento del valore probatorio
 delle acquisizioni avvenute in fase di  indagini  ed  in  assenza  di
 contraddittorio  mediante  il  conferimento  alle  parti di un potere
 discrezionale  circa  il  loro  ingresso   nel   fascicolo   per   il
 dibattimento  e  mediante  l'introduzione  di  una  nuova  regola  di
 esclusione della prova.  Preso atto che la scelta del legislatore  si
 e'  mossa  verso  l'accentuazione  di  alcuni aspetti particolari del
 processo accusatorio come processo  di  parti  -  in  particolare  la
 positivizzazione,  per  la  prima volta, del principio dispositivo in
 materia  di  prova  -,  occorre   verificare   se,   in   base   alla
 giurisprudenza  formatasi  nelle  materie  coinvolte dall'innovazione
 normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali che la Corte
 stessa ha individuato alla introduzione nel nostro ordinamento di  un
 processo penale conforme ad un modello meramente astratto di processo
 penale  di  parti.    Gia'  con  riferimento  al  piano metodologico,
 infatti,  la  Cotre  ha  affermato  che:   "...   la   considerazione
 dell'ordinamento    processual-penale   italiano   va   condotta,   a
 prescindere  da  astratte  modellistiche,  sulla  base  del   tessuto
 normativo  positivo,  la  cui interpretazione e comprensione non puo'
 che derivare da un'attenta lettura dei principi e  criteri  direttivi
 enunciati  dalla  legge  delega  e dei principi costituzionali di cui
 questa ... richiede l'attuazione. Non va  cioe'  dimenticato  che  il
 sistema  processuale delineato nella legge delega e poi concretamente
 attuato nel codice e' tutt'affatto originale, sato che  tende  bensi'
 (art. 2, comma 1) ad attuare ''i caratteri del sistema accusatorio'',
 ma  ''secondo i principi ed i criteri specificati nelle direttive che
 seguono'' (sentenza n. 88 del 1991); e che, poiche' la  stessa  norma
 detta   ancor   prima   l'obbligo   di  ''attuare  i  principi  della
 Costituzione'',    un'adeguata    considerazione     dell'ordinamento
 effettivamente   vigente   non   puo'  prescindere  dagli  interventi
 correttivi che  questa  Corte  si  e'  trovata  a  dover  apportare".
 Seguendo  tale  prospettiva  occorrera'  prendere  le  mosse da tutte
 quelle affermazioni e decisioni con cui in questi anni  la  Corte  ha
 esplicitato   i   caratteri   costituzionali  della  azione  e  della
 giurisdizione penale, la funzione assegnata al  processo  penale,  il
 ruolo  che  gioca  al  suo interno il valore costituito dalla ricerca
 della verita' cosidetta  "reale"  o  "materiale"  in  contrapposto  a
 quella "formale" o "processuale".  Quanto al primo aspetto la Corte -
 pronunciandosi   in   tema   di   reiterazione  di  dichiarazioni  di
 ricusazione fondate sui medesimi motivi -, ha di recente  avuto  modo
 di  ribadire (sentenza n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio
 di  indefettibilita'  della  giurisdizione,  ricollegabile   a   vari
 principi  costituzionale,  fra  i quali l'art. 101 della Costituzione
 invocato dal giudice a quo (oltre alla sentenza n.  353  del  1996  e
 l'ordinanza  n.  5 del 1997, v. le sentenze nn. 460 del 1995, 114 del
 1994, 289 del 1992, 178 del  1991)".  E  la  Corte,  confrontando  il
 principio  suddetto  a  quello  di uguaglianza inteso come "canone di
 coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure  gli
 istituti  processuali...",  ha  immediatamente  aggiunto:  "E  qui va
 riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore  per  quanto
 attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel
 rispetto   del   principio   di   ragionevolezza  perche'  non  venga
 compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si che sono  da
 censurare,  pure  alla  luce del principio di razionalita' normativa,
 istituti o regole quando si prestino  ad  un  uso  distorto,  recando
 cosi'    lesione    dell'efficiente    svolgimento   della   funzione
 giurisdizionale".   Quanto alla funzione ed  al  ruolo  del  pubblico
 ministero,  la  Corte  si  e'  espressa  in  modo  assai chiaro nella
 sentenza n. 88 del 1991:  "Va innanzi tutto ricordato, al  proposito,
 quanto  questa Corte ebbe ad affermare nella sentenza n. 84 del 1979,
 cioe' che ''l'obbligatorieta' dell'esercizio  dell'azione  penale  ad
 opera  del  p.m.  ...  e'  stata  costituzionalmente  affermata  come
 elemento che concorre a garantire, da un lato l'indipendenza del p.m.
 nell'esercizio della propria funzione  e,  dall'altro,  l'uguaglianza
 dei  cittadini  di  fronte  alla  legge penale''; sicche' l'azione e'
 attribuita  a  tale  organo  senza  consentirgli  alcun  margine   di
 discrezionalita'  nell'esercizio  di  tale  doveroso  ufficio.   Piu'
 compiutamente: il principio di legalita'  (art.  25,  comma  2),  che
 rende  doverosa  la repressione delle condotte violatrici della legge
 penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della  legalita'  del
 procedere;  e  questa,  in  un  sistema  come  il nostro, fondato sul
 principio di uguaglianza dei  cittadini  di  fronte  alla  legge  (in
 particolare,  alla  legge  penale), non puo' essere salvaguardata che
 attraverso  l'obbligatorieta'  dell'azione  penale.    Realizzare  la
 legalita'  nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile se
 l'organo cui l'azione e' demandata dipende da altri  poteri:  sicche'
 di tali principi e' imprescindibile requisito l'indipendenza del p.m.
 Questi  e' infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge
 (art. 101, comma 2,  Cost.)  e  si  qualifica  come  ''un  magistrato
 appartenente  all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione
 di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni  altro  potere'',  che
 ''non  fa  valere  interessi  particolari  ma agisce esclusivamente a
 tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge'' (sentenze
 nn. 190 del 1970 e 96 del 1975).  Il principio di obbligatorieta' e',
 dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del
 sistema costituzionale, talche' il  suo  venir  meno  ne  altererebbe
 l'assetto  complessivo.  Di  conseguenza,  l'introduzione  del  nuovo
 modello  processuale  non  lo  ha  scalfito,   ne'   avrebbe   potuto
 scalfirlo...   Per altro verso, l'eliminazione di ogni contaminazione
 funzionale tra giudice e organo  dell'accusa  -  specie  in  tema  di
 formazione  della  prova e di liberta' personale -, non comporta che,
 sul piano  strutturale  ed  organico,  il  p.m.  sia  separato  dalla
 Magistratura   costituita   in   ordine   autonomo  ed  indipendente.
 Nell'architettura della delega, infatti, il ruolo  del  p.m.  non  e'
 quello  di  mero  accusatore,  ma  pur  sempre di organo di giustizia
 obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti  per  una
 giusta    decisione,   ''ivi   compresi   gli   elementi   favorevoli
 all'imputato'' (cfr. dir. n. 37  ...).    Coerentemente  a  cio',  il
 legislatore delegato ha sottolineato che il potere-dovere del p.m. di
 estendere  le  proprie indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto
 di prova per l'accusa o la difesa tende  nel  rispetto  assoluto  dei
 principi  del  sistema accusatorio e del ruolo di ''parte del'' p.m.,
 ad  evidenziare  la  natura  ordinamentale,  giudiziaria  e  pubblica
 dell'istituto  e  della  funzione (Relazione al progetto preliminare,
 91), ed ha poi confermato tale natura nel redigere il nuovo art.  190
 dell'ordinamento  giudiziario  (art.  29  testo allegato al d.P.R. 22
 settembre 1988 n. 449).
   3. - Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale  esige  che
 nulla  venga  sottratto  al  controllo  di  legalita'  effettuato dal
 giudice:  ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene
 definito favor actionis.  Cio'  comporta  non  solo  il  rigetto  del
 contrapposto  principio  di  opportunita' che opera, in varia misura,
 nei sistemi ad azione facoltativa...; ma comporta, altresi',  che  in
 casi  dubbi  l'azione  vada  esercitata e non omessa".   Proprio come
 aspetto   della   obbligatorieta'   ed    indisponibilita'    nonche'
 dell'esercizio  imparziale nei confronti di tutti dell'azione penale,
 la  Corte  ha  evidenziato  alcuni  caratteri  che  essa  ha  assunto
 all'interno  dello  stesso  codice del 1998 proprio come applicazione
 concreta della sua configurazione costituzionale: - il  principio  di
 tendenziale  completezza  delle  indagini  (v.  anche sent. n. 92 del
 1992); - il principio di tutela della effettivita' dell'azione, volto
 a contrastare i casi di suo esercizio meramente apparente,  principio
 questo  manifestatosi  in  istituti  quali l'indicazione da parte del
 g.i.p. di ulteriori indagini ritenute necessarie (art. 409, comma  4,
 415,  554, comma 2, c.p.p., sentenze nn. 409 del 1990, 445 del 1990),
 l'opposizione dell'offeso alla richiesta di archiviazione, il  potere
 di  avocazione  del  procuratore  generale,  l'ordine di formulazione
 dell'imputazione.    E'  infine  utile  ricordare  che  le  superiori
 considerazioni  sono  state  riprese  e valorizzate dalla Corte nella
 sentenza n. 111 del 1993 (par. 6), proprio quando si e'  trattato  di
 individuare i limiti costituzionali ad un processo penale inteso come
 "...  ''processo  di  parti'', nella misura in cui evoca lo schema di
 una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano..."  o
 come   "...   tecnica  di  risoluzione  dei  conflitti".    Spostando
 l'attenzione dal tema dell'azione e  della  giurisdizione  a  quello,
 strettamente  connesso,  dello  scopo  del  processo  penale la Corte
 costituzionale, ha avuto modo di affermare che esso deve individuarsi
 nell'"accertare i fatti onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu'
 possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale"
 e che, anche dopo l'entrata in vigore del codice del 1988 ad impianto
 tendenzialmente   accusatorio,  "fine  primario  ed  ineludibile  del
 processo penale non puo' che  rimanere  quello  della  ricerca  della
 verita'"  (sentenze  n.  111  del  1993,  n. 255 del 1992, n. 258 del
 1991).    I  presupposti  costituzionali  di  tali  affermazioni   di
 rinvengono  agevolmente leggendo le summenzionate pronunce, oltre che
 la sentenza n. 88 del 1991: esse  sono  fatte  derivare  direttamente
 dalla  lettura  combinata  del principio di uguaglianza dei cittadini
 dinnanzi alla legge penale, dal principio  di  legalita'  "che  rende
 doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate" (sentenze
 nn.  111  del  1993,  88 del 1991) e di inviolabilita' della liberta'
 personale.  Ma  ad  essi  si  potrebbero  agevolmente  aggiungere  il
 principio  di  personalita'  della  responsabilita'  penale (ciascuno
 risponde solo per il fatto  commesso  che  gli  sia  psicologicamente
 imputabile, dunque sono il fatto e la sua imputabilita' l'oggetto del
 processo   e  dell'accertamento),  il  principio  di  presunzione  di
 innocenza (l'onere della prova in capo  all'accusa  e'  criterio  nel
 contempo    logico    e    garantistico    che   dimostra   l'impegno
 dell'ordinamento  nella  ricerca  della  verita'),  il  principio  di
 obbligatorieta'  dell'azione  penale  (l'azione e' obbligatoria anche
 perche' non ad altro tende se non  all'accertamento  secondo  verita'
 dell'ipotesi  contenuta  nella  notizia  di reato ed all'applicazione
 della legge, seppure in modi  diversi  da  quelli  processuali),  nel
 principio  di  difesa  (la  verita'  puo'  essere  affermata  solo se
 "garantita" dalla presenza attiva della  difesa  nel  processo),  nel
 principio   di   indipendenza   e  liberta'  morale  del  giudice  in
 particolare nel momento del giudizio (principi questi ultimi  inutili
 o  dannosi  se  il giudizio dovesse servire a qualche cosa di diverso
 che alla ricostruzione del fatto ed  all'applicazione  della  legge).
 Tanto  premesso,  la  Corte  ha riconosciuto che il legislatore aveva
 scelto,   come   metodo   migliore   per    perseguire    lo    scopo
 costituzionalmente  assegnato al processo, quello del contraddittorio
 dibattimentale che, insieme all'esigenza di accentuare  la  terzieta'
 del  giudice,  aveva "condotto ad introdurre, di massima, un criterio
 di separazione funzionale  delle  fasi  processuali,  allo  scopo  di
 privilegiare  il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come
 strumento  per  favorire  la  dialettica  del  contraddittorio  e  la
 formazione  nel  giudice  di  un  convincimento  libero  da influenze
 pregresse" (sentenza  n.  111  del  1993).    La  Corte  ha  tuttavia
 immediatamente  osservato  che, proprio perche' lo scopo del processo
 penale non puo' che individuarsi nella ricerca  della  verita',  "...
 l'oralita',  assunta  a  principio  ispiratore del nuovo sistema, non
 rappresenta, nella disciplina del codice,  il  veicolo  esclusivo  di
 formazione  della  prova  nel dibattimento ... di guisa che in taluni
 casi in cui la prova non passa, di fatto, prodursi oralmente e'  dato
 rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
 atti  formatisi  prima  ed al di fuori del dibattimento" (sentenza n.
 255 del 1992) e, per altro aspetto: "... ad un ordinamento improntato
 al principio di legalita' (art. 25, comma  secondo,  Cost.)    -  che
 rende  doverosa  la  punizione delle condotte penalmente sanzionate -
 nonche' al connesso principio di obbligatorieta'  dell'azione  penale
 (cfr.  sentenza  n.  88  del  1991,  cit.)  non sono consone norme di
 metodologia processuale  che  ostacolino  in  modo  irragionevole  il
 processo  di accertamento del fatto storico necessario a pervenire ad
 una giusta decisione (cfr. sentenza n. 255 del  1992)"  (sentenza  n.
 111 del 1993).  La Corte ha altresi' comprovato il fondamento di tali
 affermazioni  elencando  i numerosi casi di formazione della prova in
 deroga  o  al  contraddittorio  dibattimentale  o  all'altro  aspetto
 dell'oralita'  costituito  dall'immediato contatto del giudice con la
 prova nel momento della sua formazione (artt. 392, 431, 500, comma 4,
 503, commi  5  e  6,  512,  513)  (sentenza  n.  255  del  1992);  ha
 individuato  la  ragion d'essere di quelle eccezioni nella necessita'
 di non  disperdere  elementi  di  prova  "non  compiutamente  (o  non
 genuinamente)  acquisibili con il metodo orale", ha infine denominato
 tale fenomeno, considerato il numero  e  la  qualita'  della  deroghe
 previste  al metodo orale, "principio di non dispersione delle prove"
 (sentenza n. 255  del  1992).    La  Corte  ha  dunque  correttamente
 rilevato  -  qualificandolo  "principio"  a causa della sua obiettiva
 imponenza - la presenza in seno al codice un procedimento  probatorio
 alternativo   e   sussidiario  rispetto  al  principale  fondato  sul
 contraddittorio per la prova, procedimento attivabile  quando  quello
 principale    sia    o    nell'impossibilita'    di    funzionare   o
 nell'impossibilita' di  produrre  elementi  di  prova  genuini.    La
 presenza  di  tale  procedimento alternativo e sussidiario, come reso
 evidente dalla lettura combinata delle pronunce che si vanno citando,
 e'  fondata  da  un  lato  sulla  configurazione  costituzionale   ed
 istituzionale  del pubblico ministero e, dall'altro, sulla necessita'
 di affermare il principio  di  indefettibilita'  della  giurisdizione
 penale,  principio  anch'esso  strettamente  a  sua volta collegato a
 quelli di uguaglianza e di legalita'.   Proprio sviluppando  il  tema
 dell'ampiezza  degli effetti di tali affermazioni con riferimento non
 solo alla fase procedurale dell'ammissione della prova,  ma  anche  a
 quello  della valutazione degli elementi acquisiti, la Corte ha avuto
 modo di affermare non  solo  che  ad  un  ordinamento  improntato  ai
 principi  suindicati non si confanno norme di metodologia processuale
 che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento  del
 fatto  storico  necessario  per pervenire ad una giusta decisione, ma
 anche che  simili  regole  di  predeterminazione  legale  del  valore
 persuasivo  delle prove sono altresi' dissonanti rispetto ai principi
 di fondo del nuovo codice, che "fa salvo (e, in aderenza ai  principi
 costituzionali  non poteva essere altrimenti) il principio del libero
 convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la  prova
 secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto
 in  motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti (art.
 192 c.p.p.; cfr. sent. n. 255 del 1992, cit.)" (sentenza n.  111  del
 1993).    Anche  con  riferimento  al  tema del ruolo delle parti nel
 processo e dell'esistenza di  un  preteso  principio  dispositivo  in
 materia  di  prova  la  Corte,  nella  sentenza n. 111 del 1993 si e'
 pronunciata con chiarezza cristallina: "La configurazione del  potere
 istruttorio  conferito  al  giudice dell'art. 507 come eccezionale, e
 quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita'  delle  parti,
 discende,   nella   logica   presupposta   dai   giudici  remittenti,
 dall'assunzione dell'immanenza del  nuovo  codice,  come  conseguenza
 della  scelta  accusatoria, di un principio dispositivo in materia di
 prova. Si tratta, pero', di un assunto che non  trova  riscontro  ne'
 nei  principi  della  delega  ne' nel tessuto normativo concretamente
 disegnato nel codice.  E', per la verita', incontroverso che  sarebbe
 contrario    ai   principi   costituzionali   di   legalita'   e   di
 obbligatorieta' dell'azione  concepire  come  disponibile  la  tutela
 giurisdizionale   assicurata   dal  processo  penale.  Cio',  invero,
 significherebbe,  da  un  lato,  recidere  il  legame  strutturale  e
 funzionale  tra  lo  strumento  processuale e l'interesse sostanziale
 pubblico alla repressione  dei  fatti  criminosi  che  quei  principi
 intendono  garantire,  dall'altro,  contraddire all'esigenza, ad essi
 correlata, che la responsabilita' penale sia  riconosciuta  solo  per
 fatti  realmente  commessi,  nonche' al carattere indisponibile della
 liberta' personale.  Sotto questo profilo, e'  significativo  che  il
 nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle
 parti vincoli il giudice sul merito della decisione, prova ne sia che
 ad  un  simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione
 di pena su richiesta  (cfr.  sentenza  n.  313  del  1990).    Ma  un
 principio  dispositivo  non  puo'  dirsi  esistente neanche sul piano
 probatorio,  perche'  cio'   significherebbe   rendere   disponibile,
 indirettamente,  la stessa res iudicanda.  Ed anche qui la riprova si
 ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio e'  riservato  alla
 volonta'  delle  parti,  dato  che  in esso l'accordo di queste sulle
 prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed
 anzi non puo' neppure essere inteso - come ripetutamente segnalato da
 questa Corte (sentenze nn.  92  del  1992  e  56  del  1993)  -  come
 assolutamente  preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente
 necessarie,   pena   la   sua   incompatibilita'   con   i   principi
 costituzionali.    Ma  l'assunzione  di  un  principio dispositivo in
 materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva neanche
 sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione
 della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei
 fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto possibile pieno
 accertamento,  e  non  come  strumento  per  far   programmaticamente
 prevalere   una   verita'   formale  risultante  dal  mero  confronto
 dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti,  ne  sarebbe
 risultata  tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende
 dal  principio  di  legalita'  e  da  quel  suo  particolare  aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale...  Ma
 e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere
 dispositivo  delle  parti  in materia di prova.  Questa Corte ha gia'
 avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma  -
 inserita   "in   un   sistema  processuale  imperniato  su  un  ampio
 riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione  del
 materiale  probatorio  e' rimessa in primo luogo all'iniziativa della
 parti" - "conferisce  al  giudice  il  potere-dovere  d'integrazione,
 anche  d'ufficio,  delle  prove  per  l'ipotesi  in  cui la carenza o
 insufficienza, per  qualsiasi  ragione  dell'iniziativa  delle  parti
 impedisca  al  dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la
 piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo,
 onde consentirgli di pervenire ad una giusta  decisione".  Richiamata
 quindi  la  sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n.
 11227 del 6 novembre-21 novembre 1992  nonche'  la  direttiva  n.  73
 della  legge delega - che prevede il "potere del presidente ... o del
 pretore di indicare alle parti temi nuovi od  incompleti  utili  alla
 ricerca  della verita' e di rivolgere domande dirette ...; potere del
 giudice di disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova -  la  Corte
 cosi' proseguiva:  "... Il legislatore delegante ha cioe' esattamente
 considerato  -  in  armonia  con  l'obiettivo  di  eliminazione delle
 disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, comma 2, Costituzione  che
 la  "parita'  delle  armi"  delle parti normativamente enunciata puo'
 talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale,  si'
 che  il  fine  di  giustizia  della  decisione    puo'  richiedere un
 intervento riequilibratore del giudice atto a supplire  alle  carenze
 di  taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate.
 Il potere conferito al giudice dell'art. 507 e',  dunque,  un  potere
 suppletivo,  ma  non certo eccezionale .... E' del resto evidente che
 sarebbe   contraddittorio,   da   un   lato    garante    l'effettiva
 obbligatorieta'   dell'azione   penale  contro  le  negligenze  e  le
 deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al  giudice  per
 le   indagini   preliminari   il   potere   di  disporre  che  costui
 l'imputazione ...; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il
 potere  di  supplire  ad  analoghe  condotte  della  parte  pubblica"
 (sentenza  n.  111  del  1993).   In sostanza, nella pronuncia appena
 indicata la  Corte  ha  riconosciuto  incompatibile  con  i  principi
 costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione
 penale,  un  processo  penale  ridotto  a "... tecnica di risoluzione
 della controversie  nel  cui  ambito  al  giudice  sarebbe  riservato
 essenzialmente  un  ruolo  di garante dell'osservanza delle regole di
 una contesa  tra  parti  contrapposte,  ed  il  giudizio  avrebbe  la
 funzione  non  di  accertare  i  fatti  reali  onde  pervenire ad una
 decisione il piu' possibile corrispondente al  risultato  voluto  dal
 diritto   sostanziale,   ma   di   attingere  -  nel  presupposto  di
 un'accentuata  autonomia  finalistica  dle  processo  -  quella  sola
 "verita'"  processuale  che  sia  possibile  conseguire attraverso la
 logica dialettica del contraddittorio  e  nel  rispetto  di  rigorose
 regole  metodologiche  e processuali coerenti al modello".  Parimenti
 indicata  come  incompatibile  con  i  suddetti  principi  e'   stata
 considerata  l'operativita'  - propria  di un processo di parti - "di
 un principio dispositivo sotto il profilo  probatorio",  operativita'
 cui   conseguirebbe  "da  un  lato,  l'espansione    degli  spazi  di
 discrezionalita' della parte pubblica e l'accentuazione dell'oralita'
 come  strumento  della  formazione  della  prova   in   dibattimento,
 dell'altro, la configurazione del potere di intervento del giudice in
 materia  di  prova come eccezionale ...".  Giurisprudenza contraria a
 concedere rilevanza ed  effetti  sostanziali  alla  mera  espressione
 della volonta' di una parte - suppure parte pubblica cui sono proprie
 logiche  e  finalita'  esclusivamente  istituzionali  - si e' formata
 anche con riferimento alla originalita' disciplina  dell'applicazione
 della  pena  su richiesta e del giudizio abbreviato.  Con riferimento
 al  primo  tipo  di  giudizio,  infatti  la   Corte   ha   dichiarato
 l'illegittimita'  dell'art. 444 comma 2, c.p.p. in quanto "prevedendo
 che il giudice debba attenersi alla pena cosi'  come  indicata  dalle
 parti,  ... non consente di valutare la congruita' della pena ai fini
 e nei limiti di cui all'art. 27, comma terzo, Cost."    (sentenza  n.
 313  del 1990).   Con riferimento  al rito abbreviato la Corte, nella
 sentenza n.  81 del 1991, dichiarando l'illegittimita'  parziale  del
 combinato  disposto  degli  artt.  438,  439,  440,  442  c.p.p.,  ha
 affermato "E', invece, fondata la questione proposta  in  riferimento
 all'art.  3 Cost. sotto il profilo dell'irrazionale disparita' cui la
 normativa  impugnata,  vista  dall'interno  della  sua  applicazione,
 darebbe  luogo  tanto  nei  rapporti fra p.m. ed imputato, quanto nei
 rapporti tra imputato ed  imputato.    Non  risponde,  infatti,  alle
 esigenze di coerenza e ragionevolezza una disciplina che autorizza il
 p.m.  ad  apporsi  non  soltanto  a  una "determinata scelta del rito
 processuale" ..., ma anche a una consistente riduzione della pena  da
 infliggere  all'imputato  in  caso  di  condanna, senza neppure dover
 esternare  le  ragioni  di  tale  opposizione,   cosi'   sottraendola
 all'"obiettiva  ed imparziale valutazione del giuidice".  Per giunta,
 in un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio
 di "partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di  parita'  in
 ogni  stato  e grado del procedimento" (art. 2, n. 31, della legge 16
 febbraio  1987  n. 81), non dovrebbe essere consentito che i rapporti
 fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto  che  il  primo,  con  un
 semplice  atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si
 trovi in grado di  privare  il  secondo  di  un  rilevante  vantaggio
 sostanziale" (sentenza n. 81 del 1991).  Di tale sentenza e di quella
 n.  66  del  1990,  la  Corte  ha  reso interpretazione autentica nel
 momento in cui, in seno alla sentenza n. 92 del  1992,  ha  rilevato:
 "Il  nucleo  essenziale  di  tali  decisioni  sta  nel riconoscimento
 dell'incompatibilita' con in ordinamento costituzionale  fondato  sui
 principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che
 affida   (va)   a   scente  discrezionali  -  immotivate  e,  quindi,
 insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad  un
 rito  dal  quale  scaturiscno automaticamente rilevanti effetti sulla
 determinazione della pena".  Traendo le conseguenze  delle  superiori
 affermazioni  al  Corte  con  riferimento  alla fase dibattimentale e
 mediante la pronuncia di sentenze di accoglimento  od  interpretative
 di  rigetto,  ha  considerato ostacoli irragionevoli o in se stessi o
 rispetto al sistema a) il divieto di restimonianza  de  relato  dlela
 polizia   giudiziaria  (sentenza  n.    24  del  1992);  b)  l'omessa
 previsione  dell'acquisizione  delle  dichiarazioni  di  imputati  in
 procedimento  connesso,  anche  se rese   alla polizia giudiziaria su
 delega del pubblico ministero, quando  essi  si  fossero  avvalsi  in
 dibattimento  della  facolta'  di non rispondere (sentenze n. 254 del
 1992 e n. 60 del 1995); c) l'utilizzo solo ai fini della  valutazione
 di  credibilita' delle dichiarazioni predibattimentali utilizzate per
 le contestazioni ai testimoni (sentenza n. 225 del 1992). Inoltre  la
 Corte  ha:  a) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p. delle
 dichiarazioni  dei  prossimi  congiunti  che  si  siano  avvalsi   in
 dibattimento  della  facolta'  dinon  rispondere (sentenza n. 179 del
 1994); b) riconosciuto l'acquisibilita' ex art.  512  c.p.p.    delle
 dichiarazioni  predibattimetali del teste affetto da amnesia assoluta
 sui fatti di causa, dovuta ad infermita' (ordinanza n. 20 del  1995).
 Sempre  in  forza  dei  summenzionati  principi, inoltre, la Corte ha
 dichiarato legittimo l'art. 507 c.p.p solo se interpretato nel  senso
 che  esso consentisse, nell'inerzia delle parti, l'impulso giudiziale
 nella acquisizione della prova (sentenza n. 111 del 1993).
   4.2. - Profili di non manifesta  infondatezza  della  questione  di
 legittimita'.    Tracciato  il  quadro  generale della giurisprudenza
 della Corte costituzionale rilevante in materia occorre  procedere  a
 verificare  se,  rispetto  alla  disciplina  dell'art.  513, comma 2,
 c.p.p. come sostituito dall'art. 1  legge  n.  267  del  1997,  siano
 ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati.  Il
 tribunale  rinviene  varie prospettive di violazione, quanto meno non
 manifestamente infondate.
   4.2.1. - Ostacolo irragionevole alla fondazione della  prova,  alla
 funzione   conoscitiva   del   dibattimento  ed  all'esercizio  della
 giurisdizione   mediante   l'introduzione   di   un   meccanismo   di
 disposizione  della  prova:    contrasto  con  gli  artt. 3, 25 comma
 secondo, 101 comma secondo, 102 comma primo, 111, comma  primo  della
 Costituzione.    Per  apprezzare  i  vari  profili  di  dubbio  sulla
 legittimita' della norma in questione, occorre premettere che  questo
 tribunale considera le dichiarazioni rese al pubblico ministero dagli
 imputati   in   procedimento   connesso   che  si  siano  avvalsi  in
 dibattimento della facolta' di  non  rispondere  come  atti  divenuti
 imprevedibilmente  irripetibili.  Che  si tratti di atti irripetibili
 risulta evidente sol che si consideri che l'esercizio della  facolta'
 di  non rispondere da pane dei soggetti predetti impedisce in toto la
 loro  rinnovazione  dibattimentale  ed  una  nuova  acquisizione  nel
 contraddittorio  delle  parti di elementi probatori provenienti dalla
 stessa   fonte.   Percio',   a   precludere   la   possibilita'   del
 contraddittorio,  in  astratto  possibile,  e'  l'esercizio  da parte
 dell'imputato   in   procedimento   connesso    di    una    facolta'
 riconosciutagli  dalla  legge.    Che l'irripetibilita' dell'atto sia
 imprevedibile  e'  facilmente  verificabile  considerando  la  natura
 dell'atto   che   e'   causa   dell'irripetibilita'   -  la  semplice
 dichiarazione di avvalersi della facolta' di non  rispondere  -  e  i
 diversi  e contrapposti interessi che possono muovere il soggetto che
 e' titolare di quella facolta' alla decisione  di  esercitarla.    Si
 tratta,  invero, di un atto discrezionale, immotivato, insindacabile,
 frutto di una personale valutazione che  l'imputato  in  procedimento
 connesso    fa    dei   propri   interessi   processuali   ed   anche
 extraprocessuali.  D'altro canto, chi abbia reso in sede di  indagini
 dichiarazioni  a  carico di altri ben si rende conto che esse possono
 avere gravi conseguenze, sia per lui medesimo nel caso di confessione
 di delitti ovvero di falsita' (artt. 367 e seguenti c.p.), sia per il
 terzo che ne risulta coinvolto, conseguenze che vanno  dal  rinvio  a
 giudizio  all'applicazione  di  una  misura  cautelare.  Una siffitta
 pregressa assunzione di responsabilita'  indurrebbe  a  ritenere  che
 l'imputato  o  l'imputato  in  procedimento  connesso  reiterera'  le
 dichiarazioni  a  carico  degli  accusati.     In   forza   di   tali
 caratteristiche   dell'atto   di  esercizio  della  facolta'  di  non
 rispondere, del soggetto  che  lo  compie,  dei  motivi  che  possono
 spingerlo  a  cio',  ben  si  puo'  affermare  che  non  e' possibile
 prevedere, prima che l'atto  sia  compiuto,  se  la  facolta'  verra'
 esercitata  o  no  (cosi' anche trib. minorenni Bologna, pres. Longo,
 imp. Ciavardini, ord. 19 settembre 1997, proc. n. 64/92 r.g, n. 33589
 r.n.r.). Va comunque sottolineato con forza che non sarebbe razionale
 richiedere al pubblico ministero di prevedere i  comportamenti  delle
 controparti del processo o di altri processi, poiche', in tal caso ed
 in  assenza di una disciplina generalizzata dei rapporti tra pubblico
 ministero  e  collaboranti,  si  finirebbe  per  riconoscere  effetto
 giuridico  (sub  specie di eventuale inutilizzabilita' della prova) a
 possibili comportamenti ingannatori di tali  soggetti  nei  confronti
 del  pubblico ministero medesimo. Del resto la qualificazione operata
 dal tribunale  non  fa  altro  che  porsi  sulla  stessa  linea  gia'
 tracciata  dalla  Corte  nella  sentenza  n. 254 del 1992 (par. 3.1).
 Cio' premesso, il problema che si e' posto all'attenzione  di  questo
 tribunale  e'  se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di
 un sistema accusatorio, il legislatore, allo  scopo  di  tutelare  il
 contraddittorio,     introduca     meccanismi     che     impediscono
 l'utilizzabilita'  di  elementi  di  prova  raccolti   dal   pubblico
 ministero    in   assenza   di   contraddittorio   e   di   cui   sia
 imprevedibilmente sopravvenuta l'irripetibilita'.   La  soluzione  da
 dare  al  quesito  suddetto  necessita  di una ulteriore precisazione
 preliminare, e cioe' il che, nel presente processo  -  come  in  ogni
 altro  giudizio  di  primo  grado  in corso -, al pubblico ministero,
 attesa la fase processuale in cui il processo si  trova,  e'  rimasta
 del  tutto preclusa la possibilita' di chiedere, in fasi antecedenti,
 l'assunzione  della prova con incidente probatorio, i cui presupposti
 di ammissione sono stati notevolmente ampliati solo con l'entrata  in
 vigore  della  stessa  legge  n.  267  del  1997  (art.   4, comma 1,
 modificativo dell'art. 392, comma 1, lettere  c)  e  d)  c.p.p.).  Ed
 invero, nel corso della celebrazione del dibattimento, non e' nemmeno
 prospettabile  l'esigenza  di anticipare le forme di assunzione della
 prova che gli sono proprie al fine di evitare la perdita di una prova
 presumibilmente non rinnovabile in futuro. Non  mette  conto  percio'
 trattare  qui  della  situazione in cui il pubblico ministero avrebbe
 effettivamente potuto chiedere  l'incidente  probatorio  in  fase  di
 indagini  e  dell'efficacia  (invero dubbia, atteso che anche in tale
 sede i soggetti di cui all'art. 210 c.p.p.  possono  avvalersi  della
 facolta'  di  non  rispondere, che il meccanismo puo' essere attivato
 anche dalla difesa addirittura in sede di  udienza  preliminare,  che
 non  si  vede  percio' perche' i risultati della sua omessa richiesta
 debbano  ricadere  esclusivamente  sul  pubblico  ministero,  che  e'
 costituzionalmente  discutibile  che si abbandoni la formazione della
 prova a scelte di mera strategia processuale delle  parti)  che  tale
 circostanza  puo'  spiegare  sulla valutazione del superamento o meno
 dei limiti costituzionali con riferimento alla disciplina  introdotta
 con  il nuovo art. 513 c.p.p.  Ad ogni buon conto, nel caso di specie
 - irripetibilita' sopravvenuta di un atto di acquisizione  probatoria
 -,  la  regola  generale e' quella della utilizzabilita' a condizione
 che la causa dell'irripetibilita' fosse imprevedibile, regola volta a
 spingere  il  pubblico  ministero  ad  attivare  istituti  (incidente
 probatorio)  che  consentono  la  formazione  anticipata della prova.
 Occorre pero' ulteriormente considerare che, nel caso che ne  occupa,
 l'attivazione  di tali istituti non era, come si e' detto, possibile.
 Percio', anche quando, per avventura, si volesse  far  incombere  sul
 pubblico  ministero l'onere di formulare previsioni circa l'esercizio
 o no della facolta' di non rispondere  da  parte  degli  imputati  in
 procedimento  connesso  (o degli imputati) e si volesse sostenere che
 quell'onere puo' essere ragionevolmente assolto, tuttavia l'eventuale
 ritenuta prevedibilita' dell'esercizio della facolta'  di  astensione
 non  rileverebbe  comunque  perche',  in  ogni  caso, la sopravvenuta
 irripetibilita' non poteva essere  prevenuta  innescando  l'incidente
 probatorio.  Anche  se  la sopravvenuta irripetibilita' fosse stata -
 per ipotesi - prevedibile, al pubblico ministero  non  sarebbe  stato
 consentito  porre  rimedio  ad  una  siffatta  situazione anticipando
 l'acquisizione  della  prova  in  contraddittorio.   Ne   deriva   la
 necessita'  -  ex  art.  3  Cost. - di assimilare, quanto all'aspetto
 della loro utilizzabilita' dibattimentale, la disciplina  degli  atti
 divenuti  irrimediabilmente irripetibili a quella degli atti divenuti
 imprevedibilmente irripetibili.  Tanto precisato, occorre  notare  al
 quesito  sopra  indicato  era lo stesso legislatore del 1988 ad avere
 risposto negativamente, nel senso che - pressoche' in tutti i casi di
 imprevidibile  irripetibilita'  dell'atto   -   aveva   previsto   un
 meccanismo   che   consentiva   il   recupero   degli  atti  divenuti
 irripetibili.   Cio' aveva consentito alla  Corte  costituzionale  di
 armonizzare  il  sistema,  colmandone  le lacune in forza dell'art. 3
 Cost. - caso tipico, proprio quello di cui alla sentenza n.  254  del
 1992  -  ed  appianandone  le  piu'  stridenti  disarmonie.   In tali
 occasioni, tuttavia,  la  Corte  avere  enunziato  i  principi  sopra
 indicati  (par.  4.1), capaci di spiegare i loro effetti ben oltre lo
 stato della legislazione positiva al momento della loro enunciazione,
 In  particolare,  attualmente,  il  legislatore  ha  direttamente  ed
 esplicitamente introdotto un  meccanismo  di  blocco,  a  discrezione
 delle  parti,  del  regime  sussidiario  ed alternativo di formazione
 della  prova  a  fronte  della  sua  irripetibilita'  dibattimentale,
 fondato   su  due  cardini  perdurante  concessione  all'imputato  ed
 imputato  in  procedimento  connesso  che   abbia   (direttamente   o
 indirettamente)  accusa  altri  della  facolta'  di non rispondere in
 dibattimento, subordinazione al consenso di tutte le parti,  compresi
 i  soggetti  a  carico  dei quali sono stati raccolti gli elementi in
 sede  di  indagini  dell'acquisizione   degli   elementi   di   prova
 irripetibili.      Cio'   impegna,   indubbiamente,   ad  un  compito
 parzialmente nuovo cioe' non meramente ricostruttivo del  sistema  in
 base  al  principio  di  ragionevolezza,  ma alla valutazione diretta
 della sua compatibilita' con i principi costituzionali.  Tuttavia,  a
 fronte  delle  enunciazioni che la Corte costituzionale ha reso nelle
 sentenze sopra menzionate il  sospetto  di  illegittimita'  non  puo'
 ritenersi manifestamente infondato.
   Se il processo deve tendere alla ricerca della verita' reale, se il
 processo  in  generale  ed  il  dibattimento in particolare hanno una
 funzione conoscitiva del fatto che ne  e'  oggetto,  se  il  pubblico
 ministero  e'  istituzionalmente  organo di giustizia che si muove al
 fine di applicare la legge e compie validamente  atti  normativamente
 previsti  su  cui  possono  fondarsi  per  legge altri atti lesivi di
 diritti costituzionali primari, se il codice stesso prevede  numerosi
 meccanismi  di  recupero  dell'utilizzabilita'  di  atti  formati  al
 pubblico   ministero   quando   siano   divenuti    imprevedibilmente
 irripetibili  cioe'  quando  il  contraddittorio  sia  -  per ragioni
 materiali o giuridiche - divenuto impossibile, allora sembra evidente
 dover dubitare di un meccanismo  processuale  che  per  un  verso  si
 risolve  nel  precludere  l'esercizio dell'azione penale e, per altro
 verso, nel precludere l'utilizzazione da parte del  giudice  di  atti
 che  appartengono  a  quella  categoria,  in tal modo impedendogli di
 accertare il fatto e, in base a tale accertamento,  di  pervenire  ad
 una giusta decisione.
   I  diversi aspetti di tale sillogismo necessitanodi una spiegazione
 analitica.  Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina  in
 questione  al  principio  di razionalita' nell'esercizio obbligatorio
 dell'azione penale (artt. 3 e 1l2 Cost.).    A  questo  scopo  devono
 essere  pur  sommariamente chiariti la natura ed il valore degli atti
 compiuti dal pubblico  ministero.    Si  tratta  certamente  di  atti
 formati  in  assenza  di  contraddittorio ed in segreto, ma si tratta
 anche  di  atti  compiuti  da   un   organo   giudiziario   pubblico,
 indipendente,    la    cui    azione    e'   rivolta   esclusivamente
 all'applicazione imparziale della legge (sentenza n. 88 del 1991). Si
 tratta altresi' di atti che godono  di  particolari  garanzie  quanto
 alla  rispondenza  alla  realta'  del  loro contenuto, trattandosi di
 verbali.  Proprio per questa loro particolare affidabilita', la legge
 conferisce utilizzabilita' agli  elementi  raccolti  dal  p.m.  nelle
 indagini  con  riferimento  sia  ad  atti che spiegano i loro effetti
 all'interno della fase delle  indagini  (es.:  esercizio  dell'azione
 penale  nelle  sue  varie  forme),  sia  ad  atti che spiegano i loro
 effetti fuori dalla fase delle indagini (es.:  al  fine  di  emettere
 sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone il giudizio),
 sia  ad  atti  che  incidono  profondamente su diritti costituzionali
 primari dei cittadini (es.:  emissione di decreti di perquisizione  e
 sequestro,  adozione  di  misure  cautelari  personali).    Non solo,
 l'utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini  -  tra  le
 quali   le   dichiarazioni   dei   coimputati  o  degli  imputati  in
 procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa, ma  e',  in
 base all'art. 1l2 Cost., obbligatoria.
   Ne  deriva  che  costituisce un irragionevole ostacolo al razionale
 esercizio dell'azione penale, oltre che una  evidente  contraddizione
 ordinamentale,  disporre  che atti sui quali il pubblico ministero ha
 fondato il  doveroso  esercizio  della  sua  funzione,  quando  siano
 divenuti imprevedibilmente irripetibili, - con conseguente esclusione
 del  contraddittorio  non imputabile al pubblico ministero medesimo -
 siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di  tutte  le
 altre  parti processuali, tra le quali gli imputati nei confronti dei
 quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i
 propri dannosi effetti.
   Risulta cioe' irrazionale da un lato imporre al pubblico  ministero
 di  raccogliere,  in modo tendenzialmente completo, elementi di prova
 circa il fatto, imporgli di chiedere misure  cautelari  eventualmente
 ottenendole,  introdurre  meccanismi di garanzia contro l'inerzia del
 pubblico ministero, e poi,  quando  quegli  elementi  siano  divenuti
 imprevedibilmente     irripetibili,     conferire     al     soggetto
 controinteressato il potere di disporre a suo piacimento  della  loro
 utilizzabilita'  secondo  logiche  che,  per  la  natura del soggetto
 investito del potere non possono essere che strettamente  egoistiche,
 privatistiche  e comunque discrezionali, insindacabili ed immotivate.
 Riformulando, adattato al caso che  ne  occupa,  un  passaggio  della
 sentenza  n.  81  del  1991 si potrebbe dire che "non dovrebbe essere
 consentito che i rapporti  p.m. ed imputato si  sbilancino  al  punto
 che  il  secondo,  con  un  semplice  atto  di volonta' immotivato e,
 percio', incontrollabile, si trovi in  grado,  di  privare  il  primo
 degli    elementi    di    prova,   divenuti   imprevedibilmente   od
 irrimediabilmente  irripetibili,  in  base  ai  quali  ha  esercitato
 l'azione  penale".   Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un
 passaggio della sentenza n. 111  del  1993  si  potrebbe  dire:  "...
 sarebbe   contraddittorio,   da   un   lato   garantire   l'effettiva
 obbligatorieta'  dell'azione  penale  contro  le  negligenze   o   le
 deliberate  inerzie  del pubblico ministero conferendo al giudice per
 le indagini preliminari il potere  di  disporre  che  costui  formuli
 l'imputazione  ...;  e, dall'altro, consentire che l'utilizzo di atti
 delle indagini, sui  quali  si  e'  fondato  l'esercizio  dell'azione
 penale   sino   a   quel  momento  e  divenuti  imprevedibilmente  od
 irrimediabilmente irripetibili, possa essere  impedito  dallo  stesso
 pubblico  ministero  o  dalle  altre parti con una nuda ed immotivata
 manifestazione di volonta'". Non e' poi il  caso  di  approfondire  -
 perche' qui irrilevante - la situazione in cui sia lo stesso p.m.  ad
 opporsi   all'acquisizione  di  dichiarazioni  di  soggetti  indicati
 dall'art. 210 rese in sede di indagini e  divenute  imprevedibilmente
 irripetibili  per  rifiuto  di rispondere opposto dall'interessato in
 dibattimento: ci si troverebbe di fronte o ad uno stigma irreparabile
 inferto al  diritto  di  difesa  dell'imputato  -  quando  si  tratti
 dell'acquisizione   di   elementi   a  lui  favorevoli  -  o  ad  una
 criptoritrattazione dell'azione penale - quando si tratti di elementi
 d'accusa  -.  In entrambi i casi atti disciplinati dalla normativa di
 cui si discute ma costituzionalmente incompatibili con gli artt. 24 e
 112 Cost.: in un caso identico - decadenza colposa o dolosa del  p.m.
 dal  diritto  di  richiedere  le  prove  per  omessa  od intempestiva
 presentazione della lista testimoniale  -  la  Corte  ha  salvato  il
 sistema  solo  perche'  esso  prevede, mediante l'art. 507 c.p.p., il
 recupero  di  quelle  prove.  Un  recupero  pero  evidentemente   non
 consentito  dalla normativa introdotta dall'art.  11 n. 267 del 1997.
 Va altresi' data risposta negativa,  per  quanto  qui  e'  possibile,
 circa  la  compatibilita'  tra  la  disciplina di cui si discute e la
 funzione  conoscitiva,  di  tendenziale  accertamento  della  verita'
 reale,  attribuita  dalla  Costituzione al processo penale (cfr. par.
 4.1).
   E' indubbio, infatti, che la sottoposizione all'accordo delle parti
 della  lettura  e   quindi   dell'acquisizione   di   atti   divenuti
 imprevedibilmente   irripetibili   costituisca   un   ostacolo   alla
 formazione del convincimento giudiziale  e  quindi  all'approssimarsi
 del  risultato  processuale alla verita', nella parte in cui consente
 che tali  atti  siano  -  senza  alcuna  possibilita'  di  rimedio  -
 sottratti  al  convincimento  medesimo mediante una manifestazione di
 volonta' discrezionale, insindacabile ed immotivata.
   Occorre tuttavia valutare la ragionevolezza della  introduzione  di
 siffatto ostacolo.
   Certo,  rispetto a situazioni identiche, si coglie con immediatezza
 una ingiustificabile differenza.
   Invero, solo rispetto a dichiarazioni di imputati  in  procedimento
 connesso  (o  di  coimputati)  che si avvalgano della facolta' di non
 rispondere e' stato introdotto il potere delle parti di impedirne  ad
 nutum     l'utilizzo,  mentre  con  riferimento  ad  altre  identiche
 situazioni di imprevedibile  irripetibilita'  di  atti  dello  stesso
 tipo,  tale  potere  non e' riconosciuto.  Di quest'ultima situazione
 costituiscono esempi i casi di imputato in procedimento  connesso  (o
 coimputato)  di  cui  sia  sopravvenuta  l'irreperibilita' (art. 513,
 comma 2, seconda parte), il decesso, infermita' produttiva di amnesia
 sui fatti  (art.  512),  o  di  soggetto  che  decida  di  sottoporsi
 all'esame  ma  si astenga dal rispondere a singole domande (fatto che
 consente   contestazione   ed   utilizzazione   delle   dichiarazioni
 predibattimentali:    art. 503) e di testimone prossimo congiunto che
 si avvalga della facolta' di non  rispondere  (sentenza  n.  179  del
 1994).  Ne' pare che la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta
 -  naturale  (quale  il  decesso  o  l'infermita') o giuridica (quale
 l'esercizio della facolta' di non rispondere) - possa in  alcun  modo
 giustificare      la      diversificazione      delle      discipline
 dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute, poiche'  l'effetto
 dell'azione  di  tali cause sull'atto e' identico (irripetibilita') e
 perche' l'unica differenza - diritto di difesa  attuale  rispetto  al
 vivo  ma  non  rispetto  al morto - riguarda il dichiarante, ma non i
 soggetti attinti dalle sue dichiarazioni rispetto al cui  diritto  al
 contraddittorio  le diverse cause di irripetibilita' agiscono in modo
 identico, rendendolo impossibile.  Si tratta cioe' di casi identici -
 in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia imputabile al
 pubblico ministero - alcuni dei quali subiscono pero' un  trattamento
 irragionevolmente   diverso.      Esiste   un  ulteriore  profilo  di
 irragionevolezza nell'ostacolo frapposto alla rormazione della  prova
 mediante   il  procedimento  alternativo  e  sussidiario  piu'  volte
 menzionato, profilo attinente proprio alla devoluzione alle parti  in
 generale,  ed  in  particolare  agli  imputati, della decisione circa
 l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi raccolti  dal  pubblico
 ministero  in  sede  di  indagini  (elementi che possono spiegare una
 diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia
 sopravvenuta   imprevedibilmente   l'irripetibilita'.      La   Corte
 costituzionale,  come  si e' detto, ha gia' avuto modo, ragionando su
 fattispecie di decadenza colposa o  consapevolmente  determinata  del
 pubblico  ministero dalla prova, di affermare come "incontroverso che
 sarebbe  contrario  ai  principi  costituzionali  di   legalita'   ed
 obbligatorieta'  dell'azione  penale  concepire  come  disponibile la
 tutela  giurisdizionale   assicurata   dal   processo   penale";   e,
 immediatamente    dopo,    che   disporre   della   prova   equivale,
 indirettamente, a disporre della stessa res  iudicanda  (sentenza  n.
 111  del  1993).   Parimenti incontroverso, a parere del tribunale e'
 che la normativa di cui si  tratta  abbia  introdotto  il  potere  di
 ciascuna  delle  parti  di  disporre  della  prova e, indirettamente,
 dell'oggetto del processo.  Ulteriore conferma di tale conclusione si
 rinviene analizzando gli interessi tutelati dal tipo di atto  di  cui
 si  discute.    Trattandosi,  come si e' detto, del potere attribuito
 alle parti del processo, di inibire  l'uso  di  prove,  l'aspetto  di
 tutela  del  diritto di difesa appare prospettabile solo come stimolo
 per il p.m.  a chiedere l'incidente probatorio.  Nel caso  di  specie
 tuttavia  -  a  prescindere  dalla  circostanza  che sembra singolare
 attivare il potere di interdizione di una parte quando  i  motivi  di
 prevedibilita' o meno dell'esercizio della facolta' di non rispondere
 sono  gli  stessi anche per la difesa degli imputati ed anch'essa ha,
 se le interessa, il medesimo  potere  di  attivazione  dell'incidente
 probatorio  -  l'incidente  probatorio  era  precluso,  cosicche'  la
 disciplina di cui si discute non puo'  sortire  nemmeno  in  astratto
 alcun  effetto  di  tutela  del  contraddittorio ma solo l'effetto di
 sottrarre al giudizio, senza alcuna possibilita' di  recupero,  prove
 divenute imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili.
   Deve   altresi'   osservarsi   che   la   Corte  costituzionale  ha
 costantemente  afferrato  che  il  diritto  di  difesa,  per   quanto
 inviolabile,  non  puo'  non  trovare contemperamento e bilanciamento
 rispetto ad  altri  concorrenti  principi  parimenti  tutelari  della
 Costituzione  e  che,  quindi,  il  suo livello di tutela deve essere
 rapportato alle singole, e diverse situazioni processuali.
   Nel  caso  di  specie,  la  disciplina  dell'utilizzabilita'  delle
 dichiarazioni   predibattimentali   dell'imputato   in   procedimento
 connesso che si avvalga della facolta' di non  rispondere  introdotta
 dalla  stessa  Corte  costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992,
 tendeva a bilanciare  due  valori  diversi:  l'esercizio  dell'azione
 penale,  ma  soprattutto ed ancor di piu', l'esercizio della funzione
 giurisdizionale stessa, da un lato, e,  dall'altro,  l'esercizio  del
 diritto  di  difesa,  che  non  rimaneva affatto impedito ma soltanto
 limitato dall'esercizio, da  parte  del  coimputato  od  imputato  in
 procedimento  connesso,  del  suo  diritto di difesa,   sub specie di
 diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di  chi,
 direttamente  od indirettamente, aveva accusato. Impedito in tal modo
 l'esercizio del diritto di difesa nel momento di genesi della  prova,
 veniva   attivato  il  procedimento  sussidiario  ed  alternativo  di
 formazione  della  prova  che  comunque  consentiva  il  tradizionale
 esercizio del  diritto  di  difesa  sulla  prova  fornita  (oltre  ad
 introdurre,    di   fatto,   argomenti   sfavorevoli   all'intrinseca
 credibilita' del dichiarante).   Infine, quanto  all'irragionevolezza
 dell'ostacolo  frapposto  dal  nuovo  art.  513, comma 2, c.p.p. alla
 formazione della prova, non  sembra  superfluo  sottolineare  che  il
 potere  concesso  alle  parti  e'  cosi'  ampio - si parla infatti di
 accordo "delle parti" e non gia'  delle  parti  "interessate"  -  che
 ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla
 sua   posizione  -  ma  rilevanti  rispetto  a  posizioni  diverse  -
 senz'altro scopo che il porre un impedimento  al  regolare  esercizio
 della  giurisdizione.   Ma la situazione si aggrava proprio quando la
 parte - in  particolare  l'imputato  -  si  oppone  alla  lettura  di
 dichiarazioni  irripetibili  rese  direttamente a suo carico.  In tal
 caso infatti - posto che  tali  dichiarazioni  non  sono  considerate
 ontologicamente  inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non ne
 avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo anche  in  fase  di
 indagini  preliminari  ed  anche  a  fini  cautelari  - il meccanismo
 normativo risulta semplicemente paradossale:  i  veti  incrociati  di
 soggetti  privati  -  quali  sono  gli  imputati  e  gli  imputati in
 procedimento connesso - possono precludere l'esercizio  stesso  della
 giurisdizione  e prima ancora quello dell'azione penale.  Considerato
 che i soggetti predetti  agiscono,  come  si  notava,  per  interessi
 privatissimi  e  sinanco  meramente  egoistici,  l'ostacolo frapposto
 all'esercizio  della  giurisdizione  non  puo'  non  essere  ritenuto
 irrazionale.
   La  stessa  Corte  costituzionale  (sentenza  n.  111  del 1993) ha
 infatti considerato illegittimo il potere  riconosciuto  al  pubblico
 ministero  -  organo  cui  pure la Corte riconosce funzioni pubbliche
 finalizzate esclusivamente all'applicazione della legge (sentenza  n.
 88  del  1991)  -  di  disporre  del  processo disponendo della prova
 (potere riconosciutogli dai giudici di merito  remittenti  grazie  ad
 una interpretazione dell'art.  507 c.p.p. ritenuta illegittima).
   A  questo  punto  non si puo' non considerare illegittimo a maggior
 ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti  privati
 -  quali  sono  gli  imputati  e  la  parte  civile - che, come tali,
 orientano   i   loro   comportamenti   secondo   logiche    meramente
 individualistiche.
   E'  altresi  prospettabile, considerate le precedenti osservazioni,
 una diretta violazione dell'art. 25, comma  2,  nella  parte  in  cui
 prevede  che  i colpevoli debbano essere puniti. E 'invero quanto mai
 evidente che,  condizionando  l'utilizzo  da  parte  del  giudice  di
 elementi  di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le  indagini al
 consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi  spiegano  la
 loro   efficacia  probatoria,  si  consente  che  l'imputato  stesso,
 mediante  una  scelta  discrezionale,  immotivata,  insindacabile  ed
 eventualmente   ispirata   ad  interessi  non  tutelabili,  impedisca
 l'accertamento  del   fatto   e   percio'   delle   sue   (eventuali)
 responsabilita'.    In sostanza, si consente all'imputato, disponendo
 della prova a suo carico,  di  disporre  indirettamente  dell'oggetto
 stesso  del  processo,  in  violazione  - gia' riconosciuta una volta
 dalla Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  111  del  1993  con
 riferimento  all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art.
 507 c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25, comma
 secondo,  27,  comma  primo,  Cost.    Ne' puo' essere richiamato, in
 contrario avviso, il principio di presunta innocenza dell'imputato, e
 poiche' tale principio, se fosse interpretato nel senso assolutistico
 di conferimento all'imputato del  potere  di  interdire  l'assunzione
 delle  prove  a  suo  carico,  renderebbe  inutile l'esercizio stesso
 dell'azione penale e della giurisdizione  annullando  il  valore  dei
 connessi  principi.    Va  approfondito,  seguendo  prospettive  gia'
 accennate, il contrasto della disciplina di cui si  discute  con  gli
 artt. 101 e 111 della Costituzione.
   E'  banale  osservare  che  la  formazione del razionale e motivato
 convincimento giudiziale - artt. 101 comma 2, 111 della  Costituzione
 -   non   e'  solo  pane  integrante  dell'esercizio  della  funzione
 giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo stesso  del  processo  si
 invera.
   Ebbene,  a  parere  del  tribunale,  la normativa di cui si tratta,
 introducendo il potere delle parti di disporre  della  prova  -  tale
 essendo, lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento
 raccolto   in  sede  di  indagini  dal  pubblico  ministero  divenuto
 imprevedibilmente od irremediabilmente irripetibile  -,  consente  di
 sottrarla  alla  razionale e motivata valutazione del giudice, in tal
 modo impedendogli di formarsi un convincimento  che  si  avvicini  il
 piu'   possibile  alla  reale  verificazione  dei  fatti  e,  quindi,
 impedendo la pronuncia di una giusta decisione.
   Vale anche notare che, almeno  nella  materia  dell'utilizzabilita'
 delle  prove  processuali penali, quando, come nel caso di specie, la
 legge devolve a privati quali sono  gli  imputati,  gli  imputati  in
 procedimento  connesso  e  la  parte  civile,  la  decisone  ultima e
 definitiva, oltre che discrezionale,  immotivata  ed  incontrollabile
 (tali  non  sono  le  scelte  effettuate nell'ambito dei procedimenti
 speciali, che hanno sempre come alternativa  il  giudizio  ordinario)
 sull'utilizzabilita'  delle prove, allora  appare violata dalla legge
 stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla  legge:
 per   il  tramite  formale  di  una  norma  giuridica  il  giudice  -
 nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio  -
 viene  fatto  soggiacere  alle  decisioni  altrui.    Si individuano,
 infine, contrasti contrapposti della normativa in questione  rispetto
 alla  posizione  della  parte  civile.    Da  un  lato,  infatti,  la
 disciplina descritta contrasta anche con il diritto di  difesa  della
 parte  civile  (art.  24, commi 1 e 2, Cost.), poiche' la devoluzione
 agli imputati della facolta' di impedire l'utilizzo  di  elementi  di
 prova     divenuti    imprevedibilmente    irripetibili,    danneggia
 irragionevolmente - in base a quanto detto in  precedenza  -  il  suo
 diritto  di  veder  tutelati gli interessi privatistici di cui assume
 avvenuta la lesione ad opera dell'imputato  con  la  commissione  del
 reato.    Mette  conto  notare, in propostio, che la parte civile non
 puo',  nella  fase  delle  indagini  preliminari,  ne'  chiedere  ne'
 partecipare,  come  tale,  all'incidente  probatorio  e, nell'udienza
 preliminare, puo' parteciparvi se chiesto da altri ma  non  chiederlo
 (art.  392,  comma 1, c.p.p., non modificato, quanto a legittimazione
 alla richiesta della sentenza della Corte costituzionale  n.  77  del
 1994).    Percio', ammesso e non concesso che possa onerarsi la parte
 civile della previsione in ordine all'esercizio o no  della  facolta'
 di non rispondere da parte degli imputati od imputati in procedimento
 connesso,  la  parte  in  questione  non  potrebbe, anche se volesse,
 rimediare     mediante     l'anticipazione     del    contraddittorio
 all'(eventualmente) prevedibile esercizio di quella facolta'.  Cioe',
 rispetto   alla   parte   civile,   le  dichiarazioni  rese  al  p.m.
 dall'imputato in procedimento che si avvalga della  facolta'  di  non
 rispondere   sono   sempre   irrimediabilmente  irripetibili.     Per
 apprezzare le  ulteriori  contraddizioni  che  emergono  da  altro  e
 opposto  angolo  di  visuale,  quello  della titolarita' in capo alla
 parte civile del potere di negare il  proprio  consenso  all'utilizzo
 delle  dichiarazioni predibattimentali degli imputati in procedimento
 connesso che si avvalgano della facolta' di non  rispondere,  occorre
 preliminarmente  osservare che tale titolarita', in base alla lettera
 della legge, e' incontroversa.
   L'accordo  circa  l'utilizzabilita'  di  quelle  dichiarazioni   e'
 devoluto  "alle  parti",  dunque  a  tutte le parti compresa la parte
 civile, che  parte  e',  incontestabilmente,  nel  processo.  Ne'  e'
 possibile   dare  della  lettera  della  legge  interpretazione  piu'
 restrittiva - ad esempio intendere "parti" come "parti interessate" -
 non solo  perche'  la  determinazione  nel  pieno  della  istruttoria
 dibattimentale  la cui possibile evoluzione e' sconosciuta al giudice
 apparirebbe quanto mai disagevole, ma soprattutto perche' valorizzare
 l'interesse    della    singola    parte    all'utilizzo    dell'atto
 significherebbe   fatalmente   concedere  a  ciascuna  il  potere  di
 interdire l'utilizzabilita' di un atto nei suoi confronti, ma non nei
 confronti di altre parti - come esplicitamente, con diversa  formula,
 previsto   dall'art.  513,  comma  1,  c.p.p.  -.  Tale  eventualita'
 porterebbe ad una  utilizzabilita'  soggettivamente  indirizzata  per
 imputato  degli  atti  acquisiti,  con  conseguenti  ostacoli  ancora
 maggiori ed in alcuni  casi  probabilmente  insormontabili  sia  alla
 formazione di un razionale e motivabile convincimento giudiziale, sia
 alla  unitarieta'  dell'accertamento  fattuale  operato  dal giudice.
 Considerati i suesposti argomenti, appare dunque evidente  che  anche
 la parte civile risulta titolare del potere di interdizione di cui si
 va  discorrendo.    Se  cio'  e' vero, ben potrebbe la parte civile -
 nella personale interpretazione dei suoi interessi privatistici  -  o
 opporsi   alla   acquisizione   di   dichiarazioni   di  imputati  in
 procedimento connesso che si siano  avvalsi  della  facolta'  di  non
 rispondere  e  che  il pubblico ministero intenda introdurre a carico
 degli  imputati  o,   ancor   piu'   verosimilmente,   opporsi   alla
 acquisizione di dichiarazioni del genere quando ridondino a discarico
 degli  imputati  ma  il pubblico ministero si determini a prestare il
 suo consenso in  armonia  con  il  ruolo  istituzionale  che  gli  e'
 proprio.
   Nel  primo  caso  sarebbe  evidente la lesione del principio di cui
 all'art. 112 Cost., nel secondo la lesione contemporanea,  oltre  che
 del principio predetto, del diritto di difesa degli imputati.
   Ma, rispetto alla parte civile, l'irragionevolezza della disciplina
 legislativa  si  apprezza  anche  considerando che la parte medesima,
 come detto, non e' legittimata  a  chiedere  l'incidente  probatorio:
 l'irrazionalita'  si  rinviene  nella circostanza che una parte, alla
 quale e' gia'  in  astratto  preclusa  la  possibilita'  di  chiedere
 l'esame  predibattimentale  di  un  imputato  o  di  un  imputato  in
 procedimento connesso con le garanzie del contraddittorio,  abbia  il
 potere  di  interdire  l'utilizzo  di  elementi  di prova raccolti in
 assenza di un contraddittorio che comunque  non  era  legittimata  ad
 attivare.
   5.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 degli artt. 210, comma 4, e 513, c.p.p. nella parte in cui  prevedono
 che  l'imputato in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni
 direttamente od indirettamente indizianti a carico  di  soggetti  non
 presenti  all'atto di assunzione davanti al pubblico ministero, possa
 avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta'
 di non rispondere.  Ritiene questo Collegio che  le  discrasie  e  le
 contraddizioni  in cui si involge la disciplina introdotta con l'art.
 1 legge n. 267 del 1997 - ed in particolare quella di cui al comma  2
 dell'art. 513 c.p.p. -, siano dovute alla creazione legislativa di un
 vero e proprio conflitto - in quanto tale irragionevole - tra diritto
 di  difesa  ed  esercizio  della funzione giurisdizionale.   Infatti,
 tutelando sino  all'estremo  limite,  per  un  verso  il  diritto  al
 contraddittorio  degli  imputati e, per altro verso il loro diritto a
 non sottoporsi all'esame dibattimentale -  entrambi  espressione  del
 piu'  generale  diritto di difesa -, la legge finisce per sacrificare
 l'esercizio  della  giurisdizione:  in  nome  del  suo   diritto   al
 contraddittorio    ciascuna    parte    puo'    vietare    ad   nutum
 l'utilizzabilita' di dichiarazioni di un altro soggetto (imputato  in
 procedimento  connesso) che, in nome del suo diritto di difesa, abbia
 reso impossibile il contraddittorio  medesimo  avvalendosi  ad  nutum
 della  facolta'  di  non  rispondere.   Da tale pur sintetica analisi
 emerge immediatamente per un verso l'irragionevolezza del  meccanismo
 - poiche' gli artt. 2, 3, 25, comma secondo, 101, comma secondo, 102,
 111   Cost.   fondano   il   principio  di  indefettibilita'  di  una
 giurisdizione  penale,  ed  in  particolare   di   un   dibattimento,
 finalizzati  ad  assicurare  la piena conoscenza da parte del giudice
 dei fatti oggetto del processo  affinche'  possa  essere  emessa  una
 giusta decisione - per altro verso, che il conflitto reale non e' tra
 diritto  di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui
 sono titolari i diversi soggetti e, per altro verso  ancora,  che  il
 conflitto  in  questione  e' stato erroneamente risolto a danno della
 giurisdizione.  E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta'
 di menzogna) possono  essere  indirettamente  tutelati  in  tanto  in
 quanto  non  consentano  di  bloccare ne' l'esercizio dell'azione ne'
 l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto  dell'individuo
 ad  astenersi  dal  collaborare con gli organi preposti alla verifica
 della responsabilita' penale.    Quindi  i  contemperamenti  volti  a
 risolvere  il problema del conflitto degli interessi contrapposti non
 possono che essere ricercati su altri piani.
   Ed invero,  il  processo  introdotto  nel  1988  -  tendenzialmente
 accusatorio  -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine
 quello  dell'oralita'  -  id   est,   formazione   della   prova   in
 dibattimento,  cioe'  nel  contraddittorio  delle  parti di fronte al
 giudice che decide nel merito del processo -. Cio',  tra  l'altro  in
 armonia  con  il  disposto  dell'art.  6,  comma  2,  lett.  d) della
 Convenzione   per   la   salvaguardia    dei    diritti    dell'uomo.
 L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella
 formazione  della  prova,  del  resto,  e'  apparso  uno  degli scopi
 fondamentali che hanno  mosso  l'azione  del  legislatore  del  1997.
 Seppure  a  mezzo  di  meccanismi  processuali  irrazionali e' palese
 l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie  di  diritto
 all'esame  e  controesame, come diritto delle parti.  Tanto premesso,
 e'  pero'  pure  palese  che una delle condizioni per lo sviluppo del
 contraddittorio, quando esso assume forma generica della prova  cioe'
 la  forma  dell'esame  incrociato,  e'  che  il  soggetto  che  vi e'
 sottoposto sia gravato dell'obbligo di rispondere  alle  domande  che
 gli  vengono  rivolte.  Se  tale  condizione non sussiste, invero, si
 concede al soggetto in questione il  potere  di  vanificare  l'altrui
 diritto  all'esame  e controesame.  D'altra parte e' scontato, almeno
 nel nostro ordinamento processuale penale,  che  elementi  di  accusa
 possano provenire da coimputati od imputati in procedimento connesso,
 peraltro titolari, come tali, della facolta' di non rispondere.
   Ebbene,  mentre  la  concessione  alle  parti di un diritto di veto
 rispetto   all'acquisizione   delle    dichiarazioni    rese    senza
 contraddittorio  dagli  imputati  in  procedimento  connesso divenute
 irripetibili  finisce  per  ledere  irreparabilmente   il   razionale
 esercizio  dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione
 e lo scopo stesso del processo, la  acquisizione  immediata  di  tali
 dichiarazioni  finisce  per  ledere  il  diritto di azione e/o difesa
 della parti sub specie di diritto all'esame  ed  al  controesame.  Si
 privano  le  parti  del  potere  di  fare domande, ricevere risposte,
 dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito  nelle
 indagini attraverso le contestazioni.
   Cio'   posto  -  considerando  come  fondamento  della  costruzione
 ordinamentale da un lato la stessa prospettiva  del  legislatore  del
 1988   e   del   1997   e   cioe'  l'intangibilita'  del  diritto  al
 contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza,  legalita',
 obbligatorio  esercizio  dell'azione penale, funzione conoscitiva del
 processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione  -,
 diviene  irrazionale  riconoscere,  al  coimputato od all'imputato in
 procedimento  connesso  che  abbiano  reso    al  pubblico  ministero
 dichiarazioni  che  costituiscono  elemento  indiziante  a  carico di
 determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel  dibattimento
 a  carico di quei soggetti.  In tali limiti non appare manifestamente
 infondata, in relazione agli artt. 3 e 24, comma secondo,  Cost.,  la
 questione  di  legitittimita'  costituzionale  degli artt. 210, comma
 quarto, e 513, comma secondo, c.p.p.  E' superfluo  sottolineare  che
 un'eventuale declaratoria di illegittimita costituzionale delle norme
 predette  e  nei  limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di
 esercitare il proprio diritto  all'esame  -  con  le  correlative  ed
 eventuali  contestazioni -, mentre non introdurrebbe per gli imputati
 in procedimento  connesso  l'obbligo  di  dire  la  verita',  con  le
 correlative   sanzioni.   Dichiarazioni  rese  in  sede  di  esame  e
 contestazioni sarebbero ovviamente valutabili  dal  giudice  ai  fini
 della decisione.
   In  sostanza,  l'unica  via  razionale  aperta  alla  soluzione del
 problema   in   questione   -   posti   i   vincoli   di    principio
 dell'indefettibilita'    della    giurisdizione,    dell'obbligatorio
 esercizio  dell'azione  penale,  della   funzione   conoscitiva   del
 processo,  del  diritto  di difesa degli imputati e degli imputati in
 procedimento connesso - e'  quella  di  ritenere  che,  a  fronte  di
 dichiarazioni  indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri,
 il diritto di difesa del dichiarante si  affievolisca  di  fronte  al
 diritto  di  difesa  dei chiamati in causa - sub specie di diritto ad
 interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro
 -. La ragionevolezza di tale  affievolimento  si  apprezza  anche  in
 considerazione  del  fatto  che,  quando  in sede penale - indagini o
 dibattimento -, un soggetto sottoposto  ad  indagine  o  un  imputato
 rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato
 esercita  in  quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i
 benefici  e   gli   inconvenienti   del   caso,   dall'altro   impone
 all'Autorita'  giudiziaria  (art.  112  Cost.) di approfondire quelle
 affermazioni, con tutte le conseguenze in termini  sia  di  eventuale
 sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di
 dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento.
 Date  le conseguenze di un tale comportamento - universalmente note a
 qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da  una
 assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di
 rispondere  alle  domande  rivoltegli in sede di esame e controesame.
 Del resto, il diritto di difesa del  dichiarante  non  e'  del  tutto
 cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in
 testimone,  anche  se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.)  -
 la facolta' di dare versioni diverse,  ritrattare,  perfino  mentire,
 facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di
 difesa.   D'altro  canto  proprio  le  virtu'  euristiche  dell'esame
 dibattimentale - nelle quali il  legislatore  mostra  di  riporre  la
 massima  fiducia  -,  oltre  che l'intero sistema processuale nel suo
 complesso garantiscono piu' che a sufficienza  dal  pericolo  che  le
 menzogne  dibattimentali vengano recepite in sentenza o, quanto meno,
 riducono tale pericolo rispetto al livello che  esso  attinge  quando
 vengono   acquisite   dichiarazioni   assunte   da  una  parte  senza
 contraddittorio e divenute irripetibili.  Al legislatore  rimarrebbe,
 comunque,  sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no
 essere equiparato al testimone: sia, in caso contrario, la  decisione
 circa  l'introduzione  - ovviamente opportuna poiche' costituente una
 forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di  un  nuovo
 reato   contro   l'amministrazione   della   giustizia   avente  come
 fattispecie obiettiva l'omessa risposta a domande rivolte  nel  corso
 dell'esame  ad  imputati  in  procedimento  connesso che abbiano reso
 dichiarazioni indizianti a carico di altri in loro assenza.
   Occorre infine notare che la questione di legittimita'  di  cui  si
 discorre  e'  stata  trattata per ultima per comodita' espositiva dei
 complessi problemi sottostanti a quelle dianzi considerate.
   Tuttavia essa si  pone  come  preliminare  sia  rispetto  a  quella
 concernente  l'art.  513, comma 2, come modificato dall'art. 1, legge
 n. 267 del 1997, sia rispetto a quella concernente l'art. 6, comma 5,
 della citata legge.
   E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di  cui
 qui  si  discorre,  verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su
 cui  e'  costruita  l'attuale  disciplina   dell'acquisizione   delle
 dichiarazioni   degli   imputati   in   procedimento  connesso  e  si
 determinerebbe immediatamente,  in  base  a  questo  dato  nuovo,  la
 necessita'  di  verificare  la  compatibilita'  costituzionale di una
 disciplina  che  affida  alla  volonta'  delle  parti  il  potere  di
 interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi
 - a questo punto illegittimamente -, rifiuta di rispondere.
   Ritiene   il   Collegio   che   tutti  i  motivi  che  rendono  non
 manifestamente infondata la  questione  concernente  l'attuale  testo
 dell'art.  513,  comma 2, c.p.p., non possano che essere ribaditi con
 forza anche con riferimento a questa nuova situazione.
   Ed  invero  l'illegittimo  rifiuto  di rispondere puo' conferire in
 astratto alle precedenti dichiarazioni o particolare  credibilita'  -
 perche' sono acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato di
 reato  connesso  ha  rifiutato  di  rispondere  a causa di minacce od
 offerte di utilita' ovvero  "risultano  altre  situazioni  che  hanno
 compromesso  la genuinita' dell'esame" (art. 500, comma 5, c.p.p.)  -
 oppure  particolare   inaffidabilita',   potendosi   ipotizzare   che
 l'illegittimo   rifiuto   di   rispondere  sia  assimilabile  ad  una
 attendibile ritrattazione.   Orbene, un problema  del  genere  appare
 ovviamente  irresolubile  in  astratto  -  cioe'  mediante disciplina
 legislativa - e, per sua natura, non puo' che essere risolto caso per
 caso nell'ambito del singolo processo e, cioe', sottoposto  prima  al
 contraddittorio   delle   parti   e   poi  al  razionale  e  motivato
 convincimento giudiziale, affinche' sia  resa  una  giusta  decisione
 nella  situazione concreta.   Si deve concludere, quindi, che accolta
 quest'ultima eccezione, non e' manifestamente infondata la  questione
 di  legittimita'  dell'art.    513, comma 2, c.p.p. - come sostituito
 dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 - nella parte in cui subordina  al
 consenso    delle    parti    l'acquisizione    delle   dichiarazioni
 predibattimentali  degli  imputati  in  procedimento   connesso   che
 comunque si rifiutino di rispondere.
   6.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 dell'art. 6, comma 5, legge n. 267/1997 nella parte  in  cui  esclude
 che  elementi  di  prova  utili  alla conferma dell'attendibilita' di
 dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento ex art.  513
 previgente siano desumibili anche da altre dichiarazioni dello stesso
 tipo.    La  questione  sollevata  dal  pubblico  ministero  non   e'
 manifestamente  infondata, seppure per motivi parzialmente diversi da
 quelli indicati.
   6.1. - Natura delle dichiarazioni delle persone indicate  dall'art.
 513   c.p.p.   e   degli   elementi   di   prova  atti  a  confermare
 l'attendibilita'.
   Per  valutare  la  legittimita'  costituzionale  della  regola   di
 giudizio  contenuta  nell'art.  6,  comma  5,  legge  n. 267 del 1997
 occorre premettere brevi osservazioni circa  la  natura  riconosciuta
 dalla   Suprema  Corte  alle  dichiarazioni  predibattimentali  delle
 persone indicate dall'art.  513 c.p.p. - specie  quando  assumano  la
 forma  di  chiamate  in  correita' od in reita' - ed agli elementi di
 prova ritenuti idonei a confermarne l'attendibilita'.
   In proposito occorre notare che il  testo  dell'art.  6,  comma  5,
 legge  n.  167 del 1997 riproduce, salvo che per la limitazione sopra
 evidenziata, quello dell'art. 192,  comma  3,  c.p.p.,  pacificamente
 applicabile  anche  con  riferimento  alle dichiarazioni acquisite ex
 art.  513  previgente,  cosicche'  appaiono   mutuabili   in   chiave
 interpretativa  gli orientamenti giurisprudenziali gia' consolidatisi
 al riguardo.  Con riferimento alla prima questione costituisce  ormai
 dato  acquisito  l'affermazionie  secondo  la  quale  la  chiamata in
 correita', quando abbia superato il rigoroso vaglio di attendibilita'
 intrinseca (genuinita', spontaneita', disinteresse, costanza,  logica
 interna    del    racconto,   precisione,   completezza,   diffusione
 descrittiva, assenza di elementi probatori contrastanti: cfr., tra le
 tante, Cass., sez. un., 21 ottobre  1992-22  febbraio  1993,  Marino;
 Cass., sez. I, 24 giugno 1991, Agnoletto; Cass., sez. VI, 2 giugno-24
 agosto  1993,  Geido ed altri) ha natura non gia' di mero indizio, ma
 natura di prova e precisamente  di  prova  rappresentativia,  sebbene
 abbisognevole  di  elementi estrinseci di conferma (Cass., sez. I, 27
 novembre 1989, Andreini ed altri; Cass., sez. un., 3  febbraio  1990,
 Belli;  Cass.,  sez.  I, 23 agosto-19 settembre 1990, Carollo; Cass.,
 sez. II, 26 ottobre 1989-3 luglio 1990, Guzzardi; Cass., sez. un.,  6
 dicembre  1991, Scala ed altri; Cass., sez. II, 19 febbraio-26 aprile
 1993, Fedele ed altri; Cass., sez. I, 30 gennaio 1992, Abate e altri;
 Cass., sez. VI, sent. n. 2775  del  12  gennaio-16  marzo  1995).  Il
 vaglio   di   attendibilita'   delle  dichiarazioni  di  imputati  in
 procedimento  connesso  (o  coimputati=  e'  pacificamente   ritenuto
 preliminare rispetto alla verifica della sussistenza ed efficacia dei
 riscontri, pur se il giudizio finale sul raggiungimento del risultato
 di  prova  e'  indicato  come  il frutto di una operazione unitaria e
 complessiva di valutazione delle diverse  risultanze.    Quando  alla
 seconda    questione    -   natura   degli   elementi   di   conferma
 dell'attendibilita' delle  dichiarazioni  predette  -  sono  costanti
 alcune affermazioni.
   Anzitutto gli elementi probatori atti a confermare l'attendibilita'
 delle dichiarazioni in questione debbono essere "altri" rispetto alle
 dichiarazioni  stesse, cioe' avere fonte o natura diversa. In secondo
 luogo tali elementi "non sono predeterminati nella specie e  qualita'
 e,  di  conseguenza,  possono  essere,  in via generale, di qualsiasi
 specie o natura" (Cass., sez. I, 27 novembre 1989, Andreini ed altri;
 Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli; Cass., sez. un., 6  dicembre
 1991,  Scala  ed  altri;  Cass.,  sez.  I, 20 febbraio-26 marzo 1996,
 Emmanuello;  Cass.,  19  aprile-28  maggio  1991,  Riccardi).  A  tal
 proposito  la  Corte  di cassazione ha tracciato un utilissimo elenco
 esemplificativo di possibili elementi probatori idonei  a  costituire
 riscontro  delle  dichiarazioni  di  cui  si  discute:  "... In dette
 esperienze esterne e' un dato consolidato... che sono  valorizzabili,
 in  termini  di  efficaci  riscontri  della rapportabilita' del fatto
 delittuoso al soggetto accusato... le analisi  scientifiche  di  cose
 connesse con il delitto, le ammissioni dell'accusato, i comportamenti
 del  medesimo  sia  anteriori che successivi al reato tali da destare
 sospetti o inspiegabili, le contraddizioni nelle quali l'accusato sia
 incorso, le sue dichiarazioni false o menzognere,  la  fuga  dopo  il
 delitto,  la  partecipazione  dell'accusato agli atti preparatori del
 delitto, la prossimita' dell'accusato al luogo dove e' stato commesso
 il delitto accompagnata da circostanze inusuali,  l'associazione  con
 modalita' tali da suggerire la partecipazione al delitto, il possesso
 di  strumenti  probabilmente  usati per commettere il delitto, la non
 spiegabile disponibilita' dei frutti del delitto, la  deposizione  di
 altri  complici.   E se ne possono aggiungere sia in base ad una piu'
 minuziosa  rassegna  dell'esperienza  giurisprudenziale   interna   e
 comparata,   sia  procedendo  per  assimilazione  o  scorporazione  o
 sottodistinzione delle ipotesi generali in  sottoipotesi  aventi  gli
 stessi  elementi  costitutivi.    Come si puo' notare gli elementi di
 riscontro coprono un'area indefinita a vastissima"  (Cass.,  sez.  I,
 Abate,  cit.).    E'  altresi'  dato  consolidato  che  i  cosiddetti
 riscontri esterni, dovendo avere la  semplice  funzione  di  conferma
 della  credibilita'  delle  dichiarazioni accusatorie, non debbono di
 necessita' costituire di per se stessi piena prova  del  fatto  anche
 perche'  una  regola  siffatta  renderebbe sostanzialmente inutile la
 presenza  della  chiamata  in correita' ai fini della prova del fatto
 stesso (per tutte: Cass., sez. I, 21 settembre-9  novembre  1990,  n.
 14669,  Fidenza; Cass., sez.  II, 7 dicembre 1993-17 gennaio 1994, n.
 4947, Alessandrino; Cass., sez. IV, sentenza n.  9509,  11  maggio-20
 ottobre 1993, Ameglio; Cass., sez. I, 18 gennaio 1991, Liguori).
   Da  tali  affermazioni  si  sono  coerentemente  tratte  almeno due
 conseguenze, ovvero che gli elementi do conforto  dell'attendibilita'
 possano  essere  di  natura logica - cioe' concretantisi in inferenze
 concettuali che, a partire l'attendibilita' delle  dichiarazioni  del
 chiamante  in  correita'  (Cass., sez. IV, Ameglio, cit.; Cass., sez.
 II, 7 febbraio 1991, Vannini) - e la possibilita' che una chiamata in
 correita' possa essere corroborata  a  mezzo  di  altra  chiamata  in
 correita', alla tassativa condizione che entrambe siano valutate come
 intrinsecamente   attendibili  e  soprattutto  tra  loro  autonome  e
 distinte (Cass., sez. VI, sentenza n. 2775 del  12  gennaio-16  marzo
 1995;  Cass.,  sez.  VI,  sentenza n.   13316 del 29 marzo-11 ottobre
 1990, Pecorella; Cass., sez. I, 25 giugno-10 ottobre  1990,  Barbato;
 Cass., sez. II, sentenza n. 7767 del 29 novembre 1990-24 luglio 1991;
 Cass.,  sez.  I,  sentenza  n.  3744,  del  30 gennaio-27 marzo 1992,
 Arbore; Cass., sez. I, 20 febbraio-26  marzo  1996,  Emmanuello).  Da
 questa  ultima  affermazione  si  inferisce  che  l'ordinamento  come
 interpretato dalla Corte di cassazione gia' prevede  che  sia  negata
 efficacia  di reciproco riscontro a piu' chiamate in correita' quando
 non siano predicabili di reciproca autonomia.
   Occorre inoltre sottolineare con forza che la  prevista  capacita',
 in  base all'art. 6, comma 5, legge n. 167/1997, indipendentemente da
 qualsiasi consenso delle parti, delle dichiarazioni predibattimentali
 di fondare la prova, quando  corroborate  da  elementi  probatori  di
 natura  diversa,  non  fa  che  ribadire,  nel regime transitorio, la
 natura probatoria delle dichiarazioni acquisite ex art.  513,  c.p.p.
 previgente.    Orbene, all'esito delle precedenti osservazioni non si
 puo' non concludere  che  le  dichiarazioni  delle  persone  indicate
 dall'art.      513,   quando   siano   giudicate  attendibili,  hanno
 ontologicamente, oltre che normativamente (art. 192, comma 3, c.p.p.)
 un valore probatorio intrinseco ben maggiore  del  mero  elemento  di
 prova  utilizzabile in funzione di riscontro poiche' costituiscono il
 dato  principale,  il  vero  architrave,   dell'intero   procedimento
 valutativo  che porta alla dichiarazione del risultato di prova, dato
 rispetto  al  quale  l'elemento   di   riscontro   riveste   funzione
 accessoria.   Infine ed a scanso di equivoci, va ancora osservato che
 lo stesso art. 6, legge  n.  267/1997  e'  esso  stesso  espressione,
 rispetto  alle  fasi di assunzione ed acquisizione della prova, della
 esigenza di non dispersione degli elementi di prova acquisiti in fase
 di indagine in assenza di contraddittorio e che non siano  ripetibili
 in dibattimento.
   6.2.  -  Profili  di  non  manifesta  infondatezza  della questione
 sottoposta al tribunale.
   Considerato il quadro generale  della  giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale rilevante in materia (cfr. par. 4.1), si deve valutare
 se,  rispetto  alla disciplina dettata dall'art. 6, comma 5, legge n.
 267 del 1997, siano ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali
 sopra indicati.
   Il  tribunale  rinviene  anche  in questo caso varie prospettive di
 violazione, quanto meno non manifestamente infondate.
   6.2.1. - Intrinseca irrazionalita' della norma: contrasto  con  gli
 artt.  3,  101,  commi  primo e secondo, 102, comma primo, 111, commi
 primo e secondo della Costituzione.
   Occorre  premettere,  quanto  all'utilizzabilita'  del  canone   in
 questione,  che la Corte ad esso ha gia' fatto ricorso, proprio nella
 materia che ne occupa in  diverse  occasioni,  anche  se  si  possono
 distinguere   casi  riconosciuti  di  irrazionalita'  intrinseca  per
 assoluta carenza di  ragionevolezza  della  disciplina  speciale,  di
 irrazionalita'   intrinseca   per   possibile   utilizzo   arbitrario
 dell'istituto da parte del titolare  del  potere,  di  irrazionalita'
 intrinseca  per  autocontraddittorieta'  della  norma.    Alla  prima
 categoria appartengono le irrazionalita' riconosciute nella  sentenza
 n.  24  del  1992  -  "Non  si  puo' sostenere nemmeno in via di mera
 astrazione, che gli appartenenti alla polizia  giudiziaria  siano  da
 ritenersi  meno  affidabili del testimone comune; a prescindere della
 palese assurdita' di una ipotesi siffatta, essa risulterebbe  poi  in
 insanabile contrasto col ruolo e la funzione che la legge attribuisce
 alla  polizia  giudiziaria  (...).  Ne'  puo'  sostenersi che proprio
 dall'attivita' svolta nella fase delle  indagini  preliminari  derivi
 una  ragionevole  giustificazione atta a sorreggere il divieto di cui
 si discute..." - e nella sentenza n. 60 del 1995 - "La  questione  e'
 fondata sotto l'assorbente profilo della assoluta irragionevolezza di
 tale disparita' di disciplina... risulta del tutto priva di razionale
 giustificazione  una disciplina, quale quella in esame, che determina
 una  disparita'  nel  regime   di   utilizzazione   processuale   tra
 interrogatorio  diretto  ed  interrogatorio  delegato  in  deroga  al
 criterio - seguito dallo stesso codice (...) -  della  assimilazione,
 anche  sotto  tale profilo, tra atti diretti ed atti delegati".  Alla
 seconda delle categorie  illustrate  appartengono  le  irrazionalita'
 riconosciute  con  le  sentenze n. 11 del 1997 e n. 81 del 1991, piu'
 sopra  citate.     Alla  terza   categoria   -   irrazionalita'   per
 autocontraddittorieta'  della  norma  -  appartiene  invece  uno  dei
 profili in forza dei quali la Corte, con la sentenza n. 255 del 1992,
 ha  ritenuto  fondata  la   questione   propostale.      Ed   invero,
 l'enunciazione  del  summenzionato principio di non dispersione delle
 prove  sarebbe  stato  insufficiente,  di  per  se',  a  produrre  la
 declaratoria  di  illegittimita' dell'art. 500, comma 3, c.p.p. nella
 sua originaria versione. Tale norma  prevedeva  infatti  due  momenti
 preclusivi:  il  primo,  a livello di ammissione, laddove impediva di
 acquisire  al  fascicolo  per  il  dibattimento  il   verbale   delle
 dichiarazioni  predibattimentali  utilizzate per le contestazioni; il
 secondo, a livello di valutazione della prova,  laddove  impediva  di
 utilizzare  quelle  dichiarazioni  come  "prova  dei fatti in esse(a)
 affermati".
   Orbene, l'ambito di operativita' del cosiddetto  principio  di  non
 dispersione  delle  prove  -  che altro non e' se non un procedimento
 probatorio alternativo e sussidiario rispetto al  principale  fondato
 sul  contraddittorio  per la prova - e' individuabile con riferimento
 alla fase dell'acquisizione della prova (ulteriormente  suddivisibile
 nelle  fasi  di  ammissione ed assunzione della prova), ma non spiega
 nessun effetto rispetto  agli  elementi  di  prova  che  siano  stati
 legalmente  acquisiti, elementi rispetto ai quali si pongono soltanto
 problemi di valutazione.
   Che  tale  prospettiva sia corretta e' dimostrato dalla circostanza
 che la declaratoria di illegittimita' ha trovato il suo fondamento in
 profili ulteriori rispetto a quelli afferenti di  acquisizione  della
 prova  e  riguardanti  invece  il momento della sua valutazione.   Al
 paragrafo 3 della sentenza n.  255  del  1992  la  Corte  ha  infatti
 affermato:  "La  regula  iuris  posta  dalla norma impugnata presenta
 anche un duplice profilo in  intrinseca  irragionevolezza:  in  primo
 luogo...  In secondo luogo, posto che il nuovo codice fa salvo (e, in
 aderenza ai principi costituzionali non poteva essere altrimenti)  il
 principio  del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice
 di valutare la prova secondo il proprio prudente  apprezzamento,  con
 l'obbligo  di  dare  conto in motivazione dei criteri e dei risultati
 conseguiti  (art.  192),  la  norma  inesame  impone  al  giudice  di
 contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa
 decisione  -  come  rileva  il  giudice  a  quo  -  in  quanto, se la
 precedente dichiarazione e' ritenuta veritiera,  e  per  cio'  stesso
 sufficiente  a  stabilire  l'inattendibilita' del teste nella diversa
 deposizione resa in dibattimento, risulta chiaramente irrazionale che
 essa,  una  volta  introdotta  nel  giudizio,  entrata   quindi   nel
 patrimonio    di   conoscenza   del   giudice,   ed   esaminata   nel
 contraddittorio delle parti (con la presenza  del  teste  che  rimane
 comunque sottoposto all'esame incrociato), non possa essere utilmente
 acquisita  al fine della prova dei fatti in essa affermati".  Ebbene,
 ritiene il tribunale che lo stesso  modulo  di  ragionamento  che  ha
 introdotto  la Corte a ritenere illegittimo l'art. 500, comma 3 nella
 sua originaria versione,  valga,  a  maggior  ragione,  per  ritenere
 l'illegittimita'  dell'art.  6,  comma 5, legge n. 267 del 1997 nella
 parte in cui esclude  che  elementi  di  prova  utili  alla  conferma
 dell'attendibilita'  di  dichiarazioni  acquisite al fascicolo per il
 dibattimento ex art.  513 previgente siano desumibili anche da  altre
 dichiarazioni  dello  stesso tipo.  Ed invero, posto il principio che
 la decisione del processo deve  essere  il  frutto  del  razionale  e
 motivato  convincimento  del  giudice  -  principio questo facilmente
 desumibile dagli artt. 3, 101, comma secondo, 102, comma primo,  111,
 commi  primo  e  secondo  -,  la  Corte  ha affermato che non possono
 introdursi  norme  che  impongano  irrazionalmente  al   giudice   di
 contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa
 decisione.
   Ma  la  norma  di  cui  si discorre impone irrazionalmente, gia' in
 linea  astratta,  al  giudice  di  contraddire  la  propria  motivata
 convinzione nel contesto della stessa decisione.
   Ed   invero,   una   volta   prevista,   come  fa  il  legislatore,
 l'acquisizione e l'utilizzazione a fini di prova delle  dichiarazioni
 delle   persone  indicate  dall'art.  513  previgente  che  si  siano
 (ulteriormente)  avvalse  in  dibattimento  della  facolta'  di   non
 rispondere  sol che la loro attendibilita' sia confermata da un altro
 elemento di prova - elemento che, come detto, puo' essere anche  solo
 indiziante   o  di  natura  meramente  logica  -,  non  si  puo'  poi
 contemporaneamente vietare che tale elemento di conferma possa essere
 tratto da dichiarazioni della stessa natura  provenienti  da  persone
 diverse,  quando  ne sia riconosciuta l'attendibilita' e la reciproca
 autonomia (cfr. par. 4.1).   Traducendo  il  dictium  legislativo  in
 termini  logici  e'  come  se  il legislatore dicesse che 1 div X = 2
 (dove 1 rappresenta le dichiarazioni acquisite ex art.    513  c.p.p.
 previgente,  X l'insieme, comprendente 1, degli elementi utilizzabili
 a conferma di 1, e 2 il risultato di prova) ma se X = 1, allora 1 div
 1 = 2.
   Ne' e' possibile individuare la ragion d'essere di  una  esclusione
 cosi'   grave   e'   generalizzata   nell'eventuale   rischio  di  un
 inquinamento reciproco tra i dichiaranti e cio' non solo e non  tanto
 perche'  non  sussiste  l'esperienza  storica  che  possa  fondare la
 ragionevolezza di una presunzione  cosi'  astratta  e  generalizzata,
 quanto  piuttosto  perche'  tale  disciplina  contraddice la premessa
 adottata dal legislatore medesimo all'interno della stessa  norma,  e
 cioe' che il risultato di prova fondato sulle dichiarazioni acquisite
 ex  art.  513  previgente  possa  essere  dichiarato solo dopo che il
 giudice  abbia  vagliato  in  concreto,  caso  per  caso,   la   loro
 attendibilita' e che abbia concluso positivamente sul punto.
   Orbene,  considerato  che  nel  giudizio  di  attendibilita'  delle
 dichiarazioni in questione e'  incluso  per  giurisprudenza  costante
 quello  sulla loro genuinita' ed autonomia - cioe' che esse non siano
 distorte da influenze inquinanti  ad  opera  di  terzi,  tra  cui  si
 annoverano  ovviamente anche i coimputati od imputati in procedimento
 connesso -, la legge finisce per imporre al giudice la formazione del
 convincimento in punto di attendibilita' (e,  quindi,  genuinita'  ed
 autonomia)  delle  medesime  e contemporaneamente per imporgli di non
 dichiarare o smentire in decisione i risultati di tale vaglio.   Tale
 regime  normativo  non  puo'  che  predicarsi  di  contraddittorieta'
 siccome contrastante con il principio di identita' (a = a) e  con  il
 ragionamento  a  maiori:  se  dichiarazioni  acquisiti  ex  art.  513
 previgente possono, secondo il  dettato  legislativo,  costituire  il
 fondamento,  la  base,  l'architrave  del procedimento di valutazione
 probatoria, tanto che, riconosciutane  l'attendibilita',  necessitano
 solo  di  riscontri  che  per  necessita' logica possono essere anche
 minusvalenti come efficacia probatoria, ebbene allora a dichiarazioni
 della stessa natura, provenienti  da  persone  diverse,  riconosciute
 parimenti   attendibili   ed   autonome,   non   puo'  essere  negata
 l'utilizzabilita' a fini di riscontro di quelle.   Ogni qualvolta  si
 presentasse   in   un  processo  una  situazione  probatoria  in  cui
 l'esistenza di  un  fatto  rilevante  si  puo'  desumere  solo  dalla
 pluralita'   e  convergenza  di  dichiarazioni  di  persone  diverse,
 acquisite ai sensi del l'art. 513 previgente, di ciascuna delle quali
 sia  riconosciuta  l'intrinseca  attendibilita'  e  l'autonomia,   il
 giudice  sarebbe  posto  dalla legge in condizione "di contraddire la
 propria motivata convinzione nel contesto  della  stessa  decisione".
 Ne' sarebbe corretto obiettare alle argomentazioni dedotte sinora che
 la  Corte,  nella  sentenza  n. 255 del 1992 ha trattato di un caso -
 quello delle contestazioni - che prevede comunque il  contraddittorio
 tra   le  parti  (il  teste  "rimane  comunque  sottoposto  all'esame
 incrociato").  L'obiezione sembra invero  inconferente  considerando,
 lo  si  sottolinea con forza, che lo stesso legislatore ha, in questo
 caso ed in omaggio al  principio  di  non  dispersione  delle  prove,
 riconosciuto  efficacia  probatoria a dichiarazioni acquisite ex art.
 513 previgente attendibili e riscontrate.
   E' il caso di rilevare che la contraddizione cui il  giudice  viene
 irrazionalmente  obbligato  dalla  norma  di  cui si discute, oltre a
 porre un ostacolo irragionevole all'esercizio della giurisdizione  in
 se'  stessa  intesa - con violazione del disposto degli artt. 3, 101,
 comma  2, e 102 comma 1 -, finisce per minare la legittimazione delle
 decisioni giudiziarie che, come  si  evince  dal  combinato  disposto
 degli  artt.  101,  comma  1,  e  111, comma 1, riposa non solo sulla
 scrupolosa applicazione della legge (art. 101,  comma  2),  ma  anche
 sulla loro comprensibilita' ai destinatari (le parti ed il popolo) e,
 quindi,  in  primis  sulla  loro  rispondenza alla logica, condizione
 primaria della loro possibile condivisione collettiva.  Si impone, da
 ultimo una notazione circa il rapporto della disciplina de qua con il
 diritto di difesa dell'imputato. Tale rapporto sfugge, posto  che  la
 norma in questione ne' agevola alcuna forma di contraddittorio tra le
 parti  ne'  incrementa  in alcun modo i poteri della difesa in quanto
 tale nel processo,  limitandosi  (irrazionalmente)  a  dichiarare  la
 parziale   inutilizzabilita'   di   elementi  di  cui  e'  altrimenti
 riconosciuto il valorer probatorio. Ne'  e'  pensabile  che  la  mera
 reiterazione  della  citazione dell'imputato in procedimento connesso
 ai sensi dell'art.  6, comma 1, legge n.  267 del 1997 possa in alcun
 modo indurlo a smentire la scelta del silenzio  gia'  consapevolmente
 adottata  in  precedenza  e  determinarlo  a rispondere alle domande,
 situazione   che   sola   tutela   effettivamente   il   diritto   al
 contraddittorio.
   6.2.2.  -  Disparita' di trattamento tra imputati. Violazione degli
 artt. 3 e 25, comma secondo, della Costituzione.
   Proseguendo sulla stessa linea ma sotto altro profilo, si  rinviene
 una  disparita'  di  trattamento  tra  imputati  che  siano  gli  uni
 raggiunti  da  chiamate  in  correita'  attendibili  corroborate   da
 elementi di prova di natura diversa da altre chiamate in correita' ma
 di  efficacia  probatoria  minusvalente  rispetto  ad esse (es.: meri
 indizi), ed altri  che  siano  raggiunti  da  chiamate  in  correita'
 convergenti,   giudicate   pienamente  attendibili  ed  autonome.  La
 condanna dei primi e l'assoluzione dei secondi  importa  una  patente
 violazione  dei  principi  di  uguaglianza e legalita' (artt. 3 e 25,
 comma secondo, della Costituzione).    Una  violazione  dello  stesso
 genere  si ha tra imputati gli uni raggiunti da chiamate in correita'
 del genere da ultimo descritto (c.d. "incrociate") e gli  altri  solo
 da  indizi che pero' il giudice ritenga, giusta il disposto dell'art.
 192, comma 2, c.p.p., sufficienti a fargli  dichiarare  accertato  il
 fatto.      Ancora,   appare   priva  di  giustificazione  alcuna  la
 differenziazione di trattamento tra imputati a carico dei quali gravi
 una pluralita' di convergenti chiamate in correita'  formalizzate  in
 dichiarazioni  acquisite  ex art. 513 previgente ed imputati a carico
 dei quali gravino o solo dichiarazioni di coimputati e/o imputati  in
 procedimento  connesso  acquisite  ex  art.  512  c.p.p.  (ad esempio
 perche' deceduti o affetti da totale amnesia causata  da  infermita')
 oppure dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente e dichiarazioni
 di  coimputati ed imputati in procedimento connesso acquisite ex art.
 512 c.p.p. Solo nel primo caso, infatti, ma non nel secondo la  norma
 di  cui  si  discute  impedisce il riscontro reciproco, nonostante si
 tratti di  dichiarazioni  tutte  ugualmente  acquisite  dal  pubblico
 ministero  nella  fase delle indagini in assenza della difesa e tutte
 divenute irripetibili a causa di imprevedibili fatti sopravvenuti. In
 particolare  tra   questi   ultimi   deve   sicuramente   annoverarsi
 l'esercizio  da  parte  dell'imputato o dell'imputato in procedimento
 connesso della facolta' di non  rispondere,  trattandosi  di  diritto
 meramente  potestativo  il  cui azionamento e' rimesso esclusivamente
 alla valutazione che il titolare faccia di suoi particolari interessi
 di   carattere   processuale   od   extraprocessuale.       Parimenti
 ingiustificato  e'  il  differente  trattamento riservato ad imputati
 raggiunti solo da dichiarazioni acquisite ex art. 513  previgente  ed
 imputati raggiunti o soltanto da dichiarazioni acquisite a seguito di
 contestazione  ex art. 503 c.p.p. - quando l'imputato o l'imputato in
 procedimento connesso hanno accettato l'esame ma si  siano  rifiutati
 di rispondere a singole domande - o sia da dichiarazioni acquisite ex
 art.  513  previgente e da dichiarazioni acquisite ex art. 503 c.p.p.
 Infatti, mentre nel primo caso  e'  inibito  il  riscontro  reciproco
 delle  dichiarazioni,  nel secondo e nel terzo il riscontro reciproco
 e' ammissibile, nonostante si  tratti  di  dichiarazioni,  come  gia'
 detto, di identica natura.
   6.2.3. - Violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione.
   Quanto  detto in precedenza con riferimento all'apprezzamento della
 prova da parte del  giudice  puo'  essere  ripetuto  con  riferimento
 all'esercizio  dell'azione  penale  da parte del pubblico ministero -
 azione che deve essere caratterizzata da imparzialita' e razionalita'
 - poiche'  la  disciplina  in  questione  condiziona,  prima  che  la
 formazione  del  convincimento  del  giudice in sede di decisione, il
 contenuto e l'esito di almeno un  atto  che  costituisce  tipicamente
 esercizio  di  quel  potere  quale la formulazione ed i termini delle
 conclusioni  all'esito  del  dibattimento  (art.  523,  comma  primo,
 c.p.p.).    L'applicazione  della  norma  in questione costringerebbe
 infatti il pubblico ministero a chiedere assoluzione di imputati  nei
 cui confronti abbia esercitato l'azione penale ed eventualmente anche
 chiesto  ed ottenuto l'applicazione di misure cautelari coercitive in
 base a plurime autonome  e  convergenti  dichiarazioni  a  carico  di
 persone indicate nell'art. 513 c.p.p.
   6.2.4.  -  Irrazionalita' intrinseca dell'art. 6, comma 5, legge n.
 267/1997 in quanto regime transitorio: violazione degli artt.    3  e
 112   della  Costituzione:     Constatato  che  il  regime  ordinario
 introdotto con l'art. 1 legge  n.  267/1997  comportava  un  notevole
 depotenziamento   delle   armi  dell'accusa  -  poiche'  le  indagini
 antecedenti all'entrata in vigore della legge erano state compiute in
 vista di un processo  in  cui,  quando  l'imputato  o  l'imputato  in
 procedimento  connesso  si  fossero  avvalsi  della  facolta'  di non
 rispondere o si fossero comunque  sottratti  al  contraddittorio,  le
 loro dichiarazioni erano incondizionatamente acquisibili e pienamente
 utilizzabili  -  l'intenzione  del  legislatore,  quale  palesata nei
 lavori preparatori della legge, era quella di non consentire  che  il
 sopravvenuto   mutamento   normativo   danneggiasse  irreparabilmente
 l'esercizio  dell'azione  penale  in  quei  processi.    Orbene,   la
 disciplina   adottata  non  evita  tale  danno  irreparabile,  ma  al
 contrario  ne  costituisce  la  causa,  ogni  qualvolta  il  pubblico
 ministero  si  sia  determinato  ad  esercitare  l'azione  penale nei
 confronti dell'imputato ritenendo di  avere  raccolto  a  suo  carico
 elementi  sufficienti  a provarne la responsabilita' e consistenti in
 convergenti, autonome ed attendibili  dichiarazioni  suscettibili  di
 acquisizione  ex art.   513 previgente. In al caso, infatti, la norma
 di cui si discute introduce  a  sorpresa  e  senza  che  il  pubblico
 ministero  possa  porvi  rimedio  una  regola di valutazione nuova ed
 opposta alla  precedente  che  determina  l'annullamento  del  valore
 probatorio  gia'  riconosciuto  a quelle risultanze.   Si rinviene in
 cio' una lesione del  diritto  alla  prova  del  pubblico  ministero,
 diritto   che   e'   immediata   manifestazione   del   principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale.   E' inoltre appena  il  caso  di
 rilevare  che  non  sembra  possibile  giustificare  la disciplina in
 questione sul presupposto che tutte le  volte  che  le  dichiarazioni
 acquisite  ex art. 513 previgente si corroborano reciprocamente, v'e'
 il sospetto che tale effetto  sia  stato  ottenuto  mediante  manovre
 fraudolente  degli  organi inquirenti.   Tale sospetto infatti appare
 innanzi tutto istituzionalmente assurdo ed inaccettabile  ancor  piu'
 di  quelio che alcuni ipotizzavano caratterizzasse la ragion d'essere
 della  esclusione  della  testimonianza  de  relato   della   polizia
 giudiziaria;  in  secondo  luogo,  se  per  avventura  fosse ritenuto
 fondato, dovrebbe portare alla cancellazione  del  valore  probatorio
 del  mezzo  di  prova  di  cui si discute, non gia' alla affermazione
 della sua utilizzabilita', seppur parziale o disponibile.
                                P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953,  n.  87,  ritenutane  la
 rilevanza e non manifesta infondatezza, solleva:
     per  violazione  degli  artt.  3,  24,  comma  secondo, 25, comma
 secondo,  101,  102,  comma  primo,  111,  112  della   Costituzione,
 questione  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  210, comma
 quarto, e 513 c.p.p. nella parte in cui prevedono che  l'imputato  in
 procedimento   connesso   che   abbia   reso  al  pubblico  ministero
 dichiarazioni direttamente od indirettamente indiziati  a  carico  di
 determinati  soggetti,  possa avvalersi, nel dibattimento a carico di
 quei soggetti, della facolta' di non rispondere;
     per violazione degli artt. 3, 25, comma secondo, 101, 102,  comma
 primo,   111,  112  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 dell'art.  513, comma secondo, c.p.p., come  sostituito  dall'art.  1
 legge  n.    267  del  1997,  nella  parte  in cui subordina soltanto
 all'accordo  delle  parti  la  lettura  dei  verbali  contenenti   le
 dichiarazioni  rese  al  pubblico  ministero  dalle  persone indicate
 nell'art. 210 c.p.p. qualora si siano avvalse della facolta'  di  non
 rispondere  o,  nel  caso  di  accoglimento della eccezione sub I, si
 siano rifiutate di rispondere;
     per violazione degli artt. 3, 25, comma secondo, 101, 102,  comma
 primo,   111,  112  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 6, comma quinto, legge 7 agosto 1997 n.  267
 nella  parte in cui esclude che elementi di prova utili alla conferma
 dell'attendibilita' di dichiarazioni acquisite al  fascicolo  per  il
 dibattimento  ex  art.    513  nel c.p.p. previgente siano desumibili
 anche da altre dichiarazioni dello stesso tipo;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
 costituzionale;
   Sospende il processo;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  sai  notificata, a cura della
 cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della  Camera
 dei deputati.
      Milano, addi' 24 ottobre 1997
                       Il presidente: d'Antonio
                                         I giudici: Mambriani-Speretta
 98C0128