N. 81 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 dicembre 1997
N. 81 Ordinanza emessa il 15 dicembre 1997 dal tribunale di Bergamo nel procedimento penale a carico di Bonfanti Claudio Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Conseguente irripetibilita' delle dichiarazioni indizianti rese al pubblico ministero - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizioanle e di obbligatorieta' dell'azione penale - Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 254 e 255 del 1992, 11 del 1993 e 179 del 1994. Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese da detta persona nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo che la parte non vi consenta - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' della azione penale. (C.P.P. 1988, artt. 210, comma 4, e 513; c.p.p. 1988, art. 513, comma 2 sostituito dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1). (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 101, 102, primo comma, 111 e 112).(GU n.8 del 25-2-1998 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 11/1996 r.g. trib. nei confronti di Bonfanti Claudio, imputato del reato di cui agli artt. 110 e 319 cod. pen.; Pronunciando sulla richiesta, avanzata dal pubblico ministero nell'udienza del 28 novembre 1997, di acquisizione al fascicolo per il dibattimento - a norma degli artt. 513 c.p.p. e 6 legge n. 267/1997 - dei verbali relativi alle dichiarazioni rese dall'imputato di reato connesso, Massi Franco, al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari; Sentiti i difensori di parte civile, nonche' la difesa dell'imputato la quale si e' opposta alla suddetta richiesta; O s s e r va 1. - All'udienza del 28 novembre 1997 il tribunale ammetteva le prove, orali e documentali, richieste dalle parti ed in particolare l'esame degli imputati in procedimento connesso (ex art. 12 c.p.p.) Massi Franco e Glanzer Roberto, nei confronti dei quali si era proceduto separatamente, avendo gli stessi chiesto ed ottenuto la definizione del processo mediante ricorso al rito speciale di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p. Si introduceva, quindi, per l'esame Massi Franco, il quale si avvaleva della facolta' di non rispondere (riconosciutagli dagli artt. 210 e 513 cp.p.). Il pubblico ministero chiedeva pertanto procedersi, a mente dell'art. 513 c.p.p. cosi' come modificato dall'art. 1 legge n. 267/97, alla lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dal suddetto Massi nel corso delle indagini preliminari. Le parti civili si associavano alla richiesta del pubblico ministero, mentre la difesa dell'imputato Bonfanti non acconsentiva alla lettura. Il pubblico ministero reiterava allora la richiesta di acquisizione dei suddetti verbali ai sensi, peraltro, non gia' dell'art. 513 c.p.p. bensi' dell'art. 6 legge n. 267/1997. Le parti interloquivano sul punto ed il tribunale si riservava di decidere all'odierna udienza. 2. - Interpretazione dell'art. 513 c.pp. come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 dell'8 agosto 1997 e dell'art. 6, commi 2 e 5, della stessa legge. La norma transitoria di cui all'art. 6, comma 2, legge n. 267 del 1997 prevede: "Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata disposta la lettura, nei confronti di altri senza il loro consenso, dei verbali delle dichiarazioni, rese dalle persone indicate nell'art. 513 del codice di procedura penale al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, ove le parti lo richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame". Al comma 5 del medesimo articolo la disciplina e' completata con la previsione che, ove le persone indicate nell'art. 513 c.p.p., a seguito della citazione per il nuovo esame, si siano ulteriormente avvalse della facolta' di non rispondere o non si siano presentate "... le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilita' sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata e al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 del codice di procedura penale, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della legge". Le disposizioni contenute nell'art. 6 sono rivolte a disciplinare l'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali - rese da imputati o da imputati in procedimento connesso - di cui, al momento di entrata in vigore della legge, sia gia' stata disposta la lettura ai sensi dell'art. 513 nella formulazione previgente. Nel caso posto all'esame di questo Collegio non esistono, tuttavia, i presupposti per l'applicazione di tali disposizioni, sia perche' non si tratta di un giudizio - inteso nel senso di dibattimento - in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 267/1997 (che ha novellato l'art. 513 c.p.p.) sia perche' non e' ancora intervenuta, nel presente processo, la lettura dei verbali delle dichiarazioni predibattimentali rese dal Massi Franco. Ne' puo' accogliersi la tesi propugnata dal pubblico ministero, sulla scorta di una ordinanza del tribunale di Milano in data 8 ottobre 1997, secondo cui una lettura costituzionalmente orientata della norma transitoria di cui all'art. 6 porterebbe a concludere per la sua applicabilita' (onde evitare un trattamento diverso per situazioni identiche) anche nel caso in cui, ricorrendo l'ipotesi di giudizio gia' in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 267/97, l'imputato in procedimento connesso o collegato si presenti in dibattimento e venga sottoposto ad esame in epoca successiva all'entrata in vigore della novella. Orbene, a parte il fatto che, come si e' gia' evidenziato sopra, il presente giudizio non era ancora in corso alla data del 12 agosto 1997 (giorno di entrata in vigore della legge n. 267/1997), risulta, con tutta evidenza, dal chiaro tenore della disposizione transitoria che un presupposto indefettibile per la sua applicazione e' costituito dalla gia' disposta lettura (nei confronti di altri senza il loro consenso) dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 513 c.p.p. Qualora, come nel caso che ci occupa, nessuna lettura di tali verbali sia ancora stata disposta alla data di entrata in vigore della legge, non potra' dunque venire in considerazione la norma transitoria, bensi' trovera' applicazione l'art. 513 c.p.p. novellato (in virtu' del principio tempus regit actum). Chiarito quanto sopra, rileva il tribunale che l'art. 513 c.p.p., cosi' come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, dispone: "1. Il giudice, se l'imputato e contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso. 2. Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell'art. 210, il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame a domicilio o la rogatoria internazionale ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non e' possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell'art. 512 qualora la impossibilita' dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti. 3. Se le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo sono state assunte ai sensi dell'art. 392, si applicano le disposizioni di cui all'art. 511". La norma prevede dunque che, qualora una delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. (imputato in procedimento connesso) si avvalga della facolta' di non rispondere, si puo' dare lettura (con conseguente acquisizione al fascicolo per il dibattimento) delle sue dichiarazioni predibattimentali, indicate nel comma 1 dell'art. 513, soltanto se sussista l'accordo di tutte le parti del processo. A ciascuna delle parti processuali viene, pertanto, conferito il potere di vietare la lettura e l'utilizzabilita' a fini probatori delle dichiarazioni in questione. Siffatta disciplina legislativa si appalesa, ad avviso di questo Collegio, in contrasto con alcuni principii di rango costituzionale, di talche' va sollevata, d'ufficio, la questione di legittimita' costituzionale a norma dell'art. 23 legge n. 87/1953. Ritiene, peraltro, questo tribunale che si ponga altresi' preliminarmente una questione di conformita' al dettato costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p nella parte in cui attribuiscono, alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello stesso art. 210 c.p.p., la facolta' di non rispondere alle domande loro rivolte in dibattimento. Tale questione e' rilevante nel presente processo poiche' il Massi Franco si e' avvalso di tale facolta'. Per motivi di comodita' espositiva e' preferibile affrontare dapprima la questione concernente la nuova disciplina introdotta dall'art. 1 della legge n. 267/1997, sebbene quella riguardante il combinato disposto di cui agli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p. sia logicamente preliminare. 3. - Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997. Appare evidente, nel caso di specie, la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale del disposto di cui al vigente art. 513, comma 2, c.p.p., poiche' l'esame ex art. 210 c.p.p. del Massi e' stato ammesso dal tribunale, che ha ritenuto rilevante detto mezzo di prova; va, poi, osservato che la norma in questione subordina la lettura e l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal sunnominato - che si e' avvalso della facolta' di non rispondere - al consenso delle parti e che la difesa dell'imputato si e' opposta a tale lettura. Tali dichiarazioni, in applicazione della impugnata norma, non possono quindi trovare ingresso nel dibattimento. 4. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere. Contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111 primo comma e 112 della Costituzione. 4.1. - Irragionevolezza della norma. La legge n. 267/1997 ha, in buona sostanza, reintrodotto un vizio di manifesta irragionevolezza analogo a quello gia' censurato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 254 del 1992, con la quale era stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 comma 2, c.p.p. (nella formulazione all'epoca vigente) nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., ove queste si fossero avvalse della facolta' di non rispondere. La nuova formulazione dell'art. 513, comma 2, c.p.p. prevede, infatti, una diversa utilizzabilita' degli atti a seconda che si tratti di dichiaranti in relazione ai quali non e' possibile ottenere la presenza o procedere all'esame (in uno dei modi indicati nel comma medesimo della citata disposizione) per fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni, ovvero che si tratti di dichiaranti che si presentano al dibattimento, ma che si avvalgono della facolta' di non rispondere. Ed, invero, mentre nel primo caso e' consentito al giudice dare senz'altro lettura (ex art. 512 c.p.p.) delle dichiarazioni predibattimentali rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., tale possibilita' e' preclusa nella seconda ipotesi, allorquando anche una sola delle parti non vi acconsenta. E' innegabile, tuttavia, che nella categoria degli atti divenuti imprevedibilmente irripetibili sono sicuramente ricompresi anche i verbali contenenti le suddette dichiarazioni predibattimentali di persone, indicate nell'art. 210 c.p.p., che si avvalgano in dibattimento della facolta' di non rispondere. Che l'irripetibilita' dell'atto sia imprevedibile (soprattutto nel momento delle precedenti dichiarazioni) e' evidente, ove si consideri che essa dipende da una scelta rimessa al mero arbitrio del soggetto (giova rammentare a tale proposito che la Corte costituzionale ha ritenuto che determini un oggettiva ed imprevedibile irripetibilita' dell'atto il tardivo esercizio della facolta' di astensione da parte di prossimo congiunto dell'imputato: sentenza n. 179/1994). Trattandosi di situazioni identiche, la diversita' di disciplina e', dunque, sfornita di qualunque ragionevole giustificazione, poiche' in entrambi i casi l'atto e' divenuto imprevedibilmente irripetibile e tanto dovrebbe bastare perche' il giudice se ne possa avvalere ai fini di una decisione giusta. La mera eventualita' che delle dichiarazioni possa essere data lettura, ove tutte le parti lo consentano, non fa venir meno l'irragionevolezza della disciplina di cui al nuovo art. 513, comma 2, c.p.p atteso che l'ostacolo frapposto alla formazione della prova consiste in un insindacabile potere rimesso di fatto al libero volere di tutte le parti (comprese quelle che, in ipotesi, non abbiano alcun interesse processualmente rilevante in ordine alla prova stessa), di guisa che ciascuna di esse potrebbe opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla propria posizione - ma rilevanti rispetto a posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un impedimento al regolare esercizio della giurisdizione. 4.2. - Principio di non dispersione della prova. Nella pronuncia sopra citata (n. 254/1992) la Corte costituzionale osservo' che nel vigente codice processuale e' rinvenibile un fondamentale criterio tendente contemperare il rispetto del principio-guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare la "perdita" ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che in questa sede sia divenuto irripetibile. Nella successiva sentenza n. 255/1992 la Corte ha, altresi', affermato che "... l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento; cio' perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima e al di fuori del dibattimento". La Corte ha, quindi, individuato, siccome emergente da vari istituti processuali, il c.d. principio di non dispersione dei mezzi di prova, non compiutamente o non genuinamente acquisibili col metodo orale. Si pensi ad esempio al testimone (gia' sentito nella fase delle indagini preliminari) che opponga un irremovibile rifiuto a deporre; in tali casi il legislatore, posto nell'alternativa di disperdere la prova testimoniale precedentemente acquisita o rendere utilizzabile tale atto anteriormente formato, ha optato per questa seconda scelta, consentendo la lettura delle dichiarazioni gia' rese in precedenza. Se cosi' non fosse, quello dell'oralita' diverrebbe un principio fine a se stesso, sul cui altare verrebbe sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che consiste nella ricerca della verita' e nella pronuncia di una decisione giusta. Anche sotto questo profilo la norma impugnata pare quindi priva di giustificazione, ponendo in essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verita'. 4.3. - Inesistenza di un principio dispositivo. Principio di indefettibilita' della giurisdizione. Principio del libero convincimento del giudice. La Corte, nella sentenza n. 111 del 1993 ha, inoltre, affermato: "... La configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507 come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita' delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza nel nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. E' per la verita' incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita penale sia riconosciuta solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sentenza n. 313 del 1990). Ma un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Ed anche qui' la riprova si ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio e' riservato alla volonta' delle parti, e cioe' nel giudizio abbreviato, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi non puo' neppure essere iteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentenze nn. 92 del 1992 e 56 del 1993) - come assolutamente preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente necessarie, pena la sua incompatibilita' con i principi costituzionali. Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva neanche sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale.... Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova. Questa Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione... Il potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale... E' del resto evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione...; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica". In sostanza, nella predetta pronuncia la Corte ha riconosciuto incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale, un processo penale ridotto a "... tecnica di risoluzione delle controversie nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere - nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola ''verita''' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello" (cfr. senenza n. 111 del 1993). Sotto questo profilo e' innegabile che il potere insindacabile concesso alle parti (di acconsentire o meno alla lettura delle dichiarazioni predibattimentali) dalla norma impugnata e' tale da consentire alle stesse di disporre ad libitum della prova e, quindi, del processo stesso. Va, poi, sottolineato che la disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato in procedimento connesso che si sia avvalso della facolta' di non rispondere, introdotta dalla Corte con la citata sentenza n. 254 del 1992, tendeva a bilanciare due valori diversi: l'esercizio dell'azione penale, ma soprattutto, da un lato, l'esercizio della funzione giurisdizionale e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa. La nuova disciplina legislativa consente, invece, all'imputato di opporsi alla lettura di dichiarazioni accusatorie (benche' imprevedibilmente irripetibili) rese a suo carico, permettendogli cosi' di disporre a piacimento del processo, potendo financo giungere a paralizzare l'esercizio della giurisdizione - e prima ancora quello dell'azione penale - nei suoi confronti, specie allorquando non sussistano altri elementi di prova a carico. Detto ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' che essere ritenuto irragionevole. La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 111 del 1993) ha considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero (organo cui pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finlizzate esclusivamente all'applicazione della legge: cfr. sentenza n. 88 del 1991) di disporre del processo, disponendo della prova. Non si puo', allora, non considerare parimenti illegittimo l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono l'imputato e la parte civile - che, come tali, orientano i loro comportamenti secondo logiche meramente indidualistiche. Il precetto di cui all'art. 101, secondo comma, della Costituzione preclude una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo nel processo penale, in ragione della indisponibilita' degli interessi pubblici e delle posizioni soggettive che di esso costituiscono l'oggetto; la disponibilita' della prova renderebbe disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Come precisato dalla Corte nella piu' volte citata sentenza n. 111/1993 "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, precelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti ne sarebbe tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale". La Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di dichiarazioni di ricusazione fondate sui medesimi motivi - ha di recente avuto modo di ribadire (sentenza n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio di indefettibilita' della giurisdizione, ricollegabile a vari principi costituzionali fra i quali l'art. 101 della Costituzione". E la Corte, confrontando il principio suddetto con quello di uguaglianza inteso come "canone di coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...", ha aggiunto: "E qui' va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore per quanto attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si che sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa, istituti o regole quando si prestino ad un uso distorto, recando cosi' lesione dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale". Va, poi, aggiunto che la formazione di un razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 101, secondo comma, 111 della Costituzione - non e' solo parte integrante dell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma e' lo scopo stesso del processo. Ad avviso del tribunale, la normativa impugnata, introducendo il potere delle parti di disporre della prova consente di sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice, in tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si avvicini il piu' possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione. Vale anche notare che, almeno nella materia dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve a soggetti privati (quali sono gli imputati, gli imputati in procedimento connesso e la parte civile) la decisione ultima e definitiva, oltre che immotivata ed incontrollabile, sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto soltanto alla legge: per il tramite formale di una norma giuridica il giudice - nell'esercizio della funzione che gli e' propria - viene fatto soggiacere alle decisioni di altri. 4.4. - Principio della obbligatorieta' dell'azione penale. Principio di legalita'. Circa la funzione ed il ruolo del pubblico ministero, la Corte (nella sentenza n. 88 del 1991) richiamando la precedente pronuncia n. 84 del 1979, ha rammentato che: "l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale ad opera del p.m.... e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l'indipendenza del p.m. nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale; sicche' l'azione e' attribuita a tale organo senza consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio. Piu' compiutamente il principio di legalita' (art. 25, comma secondo, della Costituzione) che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita' del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale non puo' essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale. Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata dipende da altri poteri: sicche' di tali principi e' imprescindibile requisito l'indipendenza del p.m. Questi e' infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione) e si qualifica come ''un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere'', che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge (cfr. sentenze nn. 190 del 1970 e 96 del 1975). Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale e', dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talche' il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo. Di conseguenza l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito, ne' avrebbe potuto scalfirlo.... Per altro verso, l'eliminazione di ogni contaminazione funzionale tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della prova e di liberta' personale -, non comporta che, sul piano strutturale ed organico, il p.m. sia separato dalla Magistratura costituita in ordine autonomo ed indipendente. Nell'architettura della delega, infatti, il ruolo del p.m. non e' quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ''ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato'' (cfr. dir. n. 37....). Coerentemente a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che il potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa tende "nel rispetto assoluto dei principi del sistema accusatorio e del ruolo di 'parte' del p.m., ad evidenziare la natura ordinamentale, giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione" (Relazione al progetto preliminare. 91); ed ha poi confermato tale natura nel redigere il nuovo art. 190 dell'ordinamento giudiziario (art. 29 testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449). Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice: ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito favor actionis. Cio' comporta non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione penale facoltativa...; ma comporta, altresi', che in casi dubbi l'azione vada esercitata e non omessa". Occorre rammentare che gli atti compiuti dal pubblico ministero sono bensi' atti formati in assenza di con traddittorio, ma sono anche atti compiuti da un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la cui azione e' rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sentenza n. 88 del 1991). Si tratta, altresi', di atti che godono di particolari garanzie processuali quanto alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali. Proprio per questa loro particolare affidabilita', la legge conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m. nella fase delle indagini, con riferimento sia ad atti che spiegano i loro effetti all'interno di tale fase (es.: esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che incidono profondamente su diritti costituzionali primari dei cittadini (es.: emissione di decreti di perquisizione e sequestro, adozione di misure cautelari personali). Non solo, ma l'utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini - tra le quali le dichiarazioni dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa, ma e', in base all'art. 112 della Costituzione, obbligatoria. Tutto cio' premesso, ritiene questo tribunale che costituisca un irragionevole ostacolo all'esercizio dell'azione penale, oltre che una evidente contraddizione ordinamentale, disporre che atti sui quali il ubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione, quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili siano utilizzabili in dibattimento solo subordinatamente al consenso di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli stessi imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri effetti. Risulta cioe' irrazionale, da un lato, imporre al pubblico ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa il fatto, imporgli di chiedere misure cautelari, introdurre meccanismi di garanzia contro l'inerzia del pubblico ministero, e poi, quando quegli elementi siano divenuti imprevedibilmente irripetibili, conferire al soggetto controinteressato il potere di disporre a suo piacimento della loro utilizzabilita' secondo logiche che, per la natura del soggetto investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche, privatistiche e, comunque, insindacabili ed immotivate. 4.5. - Diritto di difesa (art. 24, commi primo e secondo, della Costituzione). Va rammentato che nel presente procedimento si sono costituite anche alcune parti civili (il Consorzio tra i comuni di Madone, Filago e Bottanuco, nonche' la provincia di Bergamo e la regione Lombardia), cosicche' la questione involge anche la legittimita' costituzionale della norma impugnata in relazione al diritto di difesa della parte civile (art. 24, commi primo e secondo della Costituzione), poiche' l'attribuzione all'imputato della facolta' di impedire l'utilizzo di elementi di prova divenuti imprevedibilmente irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base a quanto detto in precedenza - il diritto della parte civile di veder tutelati gli interessi privatistici di cui assume avvenuta la lesione ad opera dell'imputato mediante la commissione del reato. Basti considerare, in proposito, che la parte civile non puo', nella fase delle indagini preliminari, ne' chiedere, ne' partecipare all'incidente probatorio e, nell'udienza preliminare, puo' parteciparvi (se chiesto da altri), ma non farne richiesta. Rispetto alla parte civile, le dichiarazioni rese al p.m. dall'imputato in procedimento connesso che si avvalga della facolta' di non rispondere sono sempre irrimediabilmente irripetibili. Ma le contraddizioni della discplina impugnata emergono anche da altro e opposto angolo di visuale, quello della titolarita' in capo alla parte civile del potere di negare il proprio consenso all'utilizzo delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati in procedimento connesso che si avvalgano della facolta' di non rispondere. La parte civile, infatti, ben potrebbe, nella personale interpretazione dei suoi interessi privatistici, opporsi alla acquisizione di dichiarazioni di imputati in procedimento connesso quando esse ridondino a discarico degli imputati; in tal caso sarebbe allora evidente la lesione del principio del diritto di difesa degli imputati. 5. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p. nella parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni accusatorie a carico di soggetti non presenti all'atto di assunzione davanti al pubblico ministero, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere. Ritiene, infine, questo Collegio condivisibile l'opinione di chi afferma che le discrasie e le contraddizioni che connotano la disciplina introdotta con l'art. 1 legge n. 267 del 1997 - ed in particolare quella di cui al comma 2 dell'art. 513 c.p.p. - siano da attribuire alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in quanto tale irragionevole - tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale. Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto all'assunzione delle prove nel contraddittorio delle parti e, per altro verso il diritto degli imputati a non sottoporsi all'esame dibattimentale, entrambi espressione del piu' generale diritto di difesa - la legge finisce per sacrificare l'esercizio della giurisdizione: in nome del diritto al contraddittorio ciascuna parte puo' vietare ad libitum l'utilizzabilita' di dichiarazioni predibattimentali di un altro soggetto (imputato in procedimento connesso nei cui confronti si procede o si e' proceduto separatamente) il quale, esercitando il proprio diritto di difesa, abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo, avvalendosi della facolta' di non rispondere. Emerge, pertanto: 1) l'irragionevolezza del meccanismo poiche' gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102 e 111 della Costituzione, fondano il principio di indefettibilita' della giurisdizione penale e, in particolare, di un giudizio finalizzato ad assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, affinche' possa essere emessa una giusta decisione; 2) che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti; 3) che il conflitto in questione e' stato erroneamente risolto a tutto danno della giurisdizione. E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta' di mentire) possono essere indirettamente tutelati, in tanto in quanto non consentano di bloccare ne' l'esercizio dell'azione penale, ne' l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo ad astenersi dal collaborare con gli organi preposti alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti rivolti a risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti non possono che essere ricercati su altri piani. Il sistema processuale introdotto nel 1988 - tendenzialmente accusatorio - ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita', ossia della formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice che decide nel merito del processo. Cio', tra l'altro in armonia con il disposto dell'art. 6 comma 2, lett. d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella formazione della prova, del resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che hanno mosso l'azione del legislatore del 1997. Seppure a mezzo di meccanismi processuali irrazionali e' palese l'intenzione di costruire il contraddittorio come diritto delle parti. E' pero' evidente che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio nel dibattimento e' che il soggetto sottoposto all'esame sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede al soggetto medesimo il potere insindacabile di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. Mentre la concessione alle parti di un diritto di veto rispetto all'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali divenute irripetibili (rese in assenza di contraddittorio dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p.) finisce per ledere irreparabilmente il razionale esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del processo, l'acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce per ledere il diritto di difesa delle parti inteso come diritto l'esame ed al controesame. Cio' posto - considerando come fondamentali principi del sistema processuale quello del diritto al contraddittorio e, dall'altro, quelli di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione - appare irrazionale riconoscere all'imputato in procedimento connesso, nei cui confronti si procede o si e' proceduto separatamente, che abbia reso al pubblico ministero dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento che si celebra a carico di quei soggetti. In tali limiti non appare manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, comma 2, c.p.p. E' appena il caso di sottolineare che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme predette e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il proprio diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni - mentre non introdurrebbe ovviamente per gli imputati in procedimento connesso, nei cui confronti si procede o si e' proceduto separatamente, l'obbligo di dire la verita', con le correlative sanzioni. In sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in questione e' quella di ritenere che, a fronte di dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa, ai quali deve essere riconosciuta la possibilita' di interrogarlo in ordine alle accuse, direttamente od indirettamente, rivolte loro. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza anche in considerazione del fatto che, quando in sede penale - indagini o dibattimento - un soggetto indagato o imputato rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso il proprio diritto di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti del caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria (art. 112 della Costituzione) di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di un tale comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da una assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame. Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto obliterato, posto che egli manterrebbe (in quanto non assume la veste di testimone) la facolta' di dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire, facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di difesa. Al legislatore rimarrebbe, comunque, sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no essere equiparato al testimone, sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovviamente opportuna poiche' costituente una forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia, avente come fattispecie obiettiva il rifiuto di rispondere a domande rivolte nel corso dell'esame ad imputati in procedimento connesso che abbiano reso dichiarazioni indizianti a carico di altri, in assenza di questi ultimi. E' chiaro, infine, che, qualora venisse ritenuta fondata la questione di legittimita' di cui qui si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina dell'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso e si determinerebbe immediatamente, in base a questo dato nuovo, la necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il potere di interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi - a questo punto illegittimamente - si rifiutasse comunque di rispondere. Ritiene il Collegio che tutti i motivi che rendono non manifestamente infondata la questione concernente l'attuale testo dell'art. 513, comma 2, c.p.p., non possano che essere ribaditi con forza anche con riferimento a questa nuova situazione. Si deve concludere, quindi, che, ove si ritenesse fondata la questione di legittimita' concernente l'art. 210 c.p.p., si proporrebbe altresi' - in quanto non manifestamente infondata - la questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p. (come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997 nella parte in cui subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. che comunque si rifiutino di rispondere nel dibattimento a carico di altri soggetti.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva d'ufficio: I) per violazione degli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p. nella parte in cui prevedono che le persone indicate nell'art. 210 c.p.p. le quali abbiano reso al pubblico ministero dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di determinati soggetti, possano avvalersi, nel dibattimento a carico di questi soggetti, della facolta' di non rispondere; II) per violazione degli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2 c.p.p., cosi' come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora esse si siano avvalse della facolta' di non rispondere o, nel caso di accoglimento della questione sub I, si siano rifiutate di rispondere; Sospende il processo; Ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica nonche' al Presidente della Camera dei deputati; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Cosrte costituzionale. Bergamo, addi' 15 dicembre 1997 Il presidente: Grasso I giudici: De Bortoli - Nava 98C0142