N. 81 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 dicembre 1997

                                 N. 81
  Ordinanza emessa il 15 dicembre 1997 dal tribunale  di  Bergamo  nel
 procedimento penale a carico di Bonfanti Claudio
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Conseguente irripetibilita' delle dichiarazioni indizianti  rese
    al pubblico ministero - Irragionevolezza con incidenza sul diritto
    di  difesa  -  Lesione  del  principio  di  indefettibilita' della
    funzione giurisdizioanle e di obbligatorieta' dell'azione penale -
    Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 254 e 255
    del 1992, 11 del 1993 e 179 del 1994.
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Lettura  dei  verbali contenenti le dichiarazioni rese da detta
    persona nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per  il
    giudice  salvo che la parte non vi consenta - Irragionevolezza con
    incidenza sul  diritto  di  difesa  -  Lesione  del  principio  di
    indefettibilita'    della    funzione    giurisdizionale    e   di
    obbligatorieta' della azione penale.
 (C.P.P. 1988, artt. 210, comma 4, e 513; c.p.p. 1988, art. 513, comma
    2 sostituito dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 24, secondo comma,  25,  secondo  comma,  101,  102,
    primo comma, 111 e 112).
(GU n.8 del 25-2-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel procedimento penale n.
 11/1996 r.g. trib. nei confronti di Bonfanti  Claudio,  imputato  del
 reato di cui agli artt. 110 e 319 cod. pen.;
   Pronunciando  sulla  richiesta,  avanzata  dal  pubblico  ministero
 nell'udienza del 28 novembre 1997, di acquisizione al  fascicolo  per
 il  dibattimento  -  a  norma  degli  artt.  513  c.p.p. e 6 legge n.
 267/1997 - dei verbali relativi alle dichiarazioni rese dall'imputato
 di reato connesso, Massi Franco,  al  pubblico  ministero  nel  corso
 delle indagini preliminari;
   Sentiti   i   difensori   di   parte   civile,  nonche'  la  difesa
 dell'imputato la quale si e' opposta alla suddetta richiesta;
                             O s s e r va
   1.  -  All'udienza  del  28 novembre 1997 il tribunale ammetteva le
 prove, orali e documentali, richieste dalle parti ed  in  particolare
 l'esame  degli  imputati in procedimento connesso (ex art. 12 c.p.p.)
 Massi Franco e Glanzer  Roberto,  nei  confronti  dei  quali  si  era
 proceduto  separatamente,  avendo  gli  stessi chiesto ed ottenuto la
 definizione del processo mediante ricorso al  rito  speciale  di  cui
 agli artt.  444 e segg. c.p.p.
   Si  introduceva,  quindi,  per  l'esame  Massi  Franco, il quale si
 avvaleva della facolta'  di  non  rispondere  (riconosciutagli  dagli
 artt. 210 e 513 cp.p.).
   Il   pubblico  ministero  chiedeva  pertanto  procedersi,  a  mente
 dell'art.   513 c.p.p. cosi' come modificato  dall'art.  1  legge  n.
 267/97,  alla  lettura  dei  verbali  delle  dichiarazioni  rese  dal
 suddetto Massi nel corso delle indagini preliminari.
   Le  parti  civili  si  associavano  alla  richiesta  del   pubblico
 ministero,  mentre  la difesa dell'imputato Bonfanti non acconsentiva
 alla lettura.
   Il pubblico ministero reiterava allora la richiesta di acquisizione
 dei suddetti verbali ai  sensi,  peraltro,  non  gia'  dell'art.  513
 c.p.p.  bensi' dell'art. 6 legge n. 267/1997.
   Le  parti  interloquivano sul punto ed il tribunale si riservava di
 decidere all'odierna udienza.
   2. - Interpretazione dell'art. 513 c.pp. come sostituito  dall'art.
 1  della  legge n. 267 dell'8 agosto 1997 e dell'art. 6, commi 2 e 5,
 della stessa legge.
   La norma transitoria di cui all'art. 6, comma 2, legge n.  267  del
 1997  prevede: "Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata
 disposta la lettura, nei confronti di altri senza il  loro  consenso,
 dei   verbali   delle  dichiarazioni,  rese  dalle  persone  indicate
 nell'art.  513 del codice di procedura penale al pubblico  ministero,
 alla  polizia  giudiziaria  da questi delegata o al giudice nel corso
 delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, ove  le  parti
 lo richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette persone
 per un nuovo esame".
   Al comma 5 del medesimo articolo la disciplina e' completata con la
 previsione  che,  ove  le  persone  indicate  nell'art. 513 c.p.p., a
 seguito della citazione per il nuovo esame,  si  siano  ulteriormente
 avvalse  della  facolta'  di non rispondere o non si siano presentate
 "... le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come
 prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilita' sia
 confermata da altri elementi di prova, non desunti  da  dichiarazioni
 rese  al  pubblico  ministero,  alla  polizia  giudiziaria  da questi
 delegata  e  al  giudice  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza  preliminare,  di  cui  sia  stata data lettura ai sensi
 dell'art. 513 del codice di procedura penale, nel testo vigente prima
 della data di entrata in vigore della legge".
   Le disposizioni contenute nell'art. 6 sono rivolte  a  disciplinare
 l'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni  predibattimentali  - rese da
 imputati o da imputati in procedimento connesso - di cui, al  momento
 di  entrata in vigore della legge, sia gia' stata disposta la lettura
 ai sensi dell'art. 513 nella formulazione previgente.
   Nel caso posto all'esame di questo Collegio non esistono, tuttavia,
 i presupposti per l'applicazione di tali  disposizioni,  sia  perche'
 non  si tratta di un giudizio - inteso nel senso di dibattimento - in
 corso alla data di entrata in vigore della legge n. 267/1997 (che  ha
 novellato  l'art.  513 c.p.p.) sia perche' non e' ancora intervenuta,
 nel presente processo, la lettura  dei  verbali  delle  dichiarazioni
 predibattimentali rese dal Massi Franco.
   Ne'  puo'  accogliersi  la  tesi propugnata dal pubblico ministero,
 sulla scorta di una ordinanza del  tribunale  di  Milano  in  data  8
 ottobre  1997,  secondo  cui una lettura costituzionalmente orientata
 della norma transitoria di cui all'art. 6 porterebbe a concludere per
 la sua  applicabilita'  (onde  evitare  un  trattamento  diverso  per
 situazioni  identiche) anche nel caso in cui, ricorrendo l'ipotesi di
 giudizio gia' in corso alla data di entrata in vigore della legge  n.
 267/97,  l'imputato  in procedimento connesso o collegato si presenti
 in dibattimento e venga  sottoposto  ad  esame  in  epoca  successiva
 all'entrata in vigore della novella.
   Orbene, a parte il fatto che, come si e' gia' evidenziato sopra, il
 presente  giudizio  non  era  ancora in corso alla data del 12 agosto
 1997 (giorno di entrata in vigore della legge n. 267/1997),  risulta,
 con  tutta evidenza, dal chiaro tenore della disposizione transitoria
 che  un  presupposto  indefettibile  per  la  sua   applicazione   e'
 costituito  dalla gia' disposta lettura (nei confronti di altri senza
 il loro consenso) dei verbali delle dichiarazioni rese dalle  persone
 indicate nell'art. 513 c.p.p.
   Qualora,  come  nel  caso  che  ci  occupa, nessuna lettura di tali
 verbali sia ancora stata disposta alla  data  di  entrata  in  vigore
 della  legge,  non  potra'  dunque  venire in considerazione la norma
 transitoria, bensi' trovera' applicazione l'art. 513 c.p.p. novellato
 (in virtu' del principio tempus regit actum).
   Chiarito quanto sopra, rileva il tribunale che l'art.  513  c.p.p.,
 cosi' come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, dispone:
   "1.  Il giudice, se l'imputato e contumace o assente ovvero rifiuta
 di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia  data
 lettura   dei  verbali  delle  dichiarazioni  rese  dall'imputato  al
 pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del  pubblico
 ministero  o  al  giudice  nel  corso  delle  indagini  preliminari o
 nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni  non  possono  essere
 utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso.
   2.  Se  le  dichiarazioni  sono  state  rese dalle persone indicate
 nell'art.  210, il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo  i
 casi,   l'accompagnamento   coattivo  del  dichiarante  o  l'esame  a
 domicilio o la rogatoria internazionale ovvero l'esame in altro  modo
 previsto  dalla  legge con le garanzie del contraddittorio. Se non e'
 possibile ottenere la  presenza  del  dichiarante,  ovvero  procedere
 all'esame  in  uno  dei  modi  suddetti,  si  applica la disposizione
 dell'art.  512  qualora  la  impossibilita'  dipenda   da   fatti   o
 circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni.  Qualora il
 dichiarante  si  avvalga della facolta' di non rispondere, il giudice
 dispone la lettura dei verbali contenenti le  suddette  dichiarazioni
 soltanto con l'accordo delle parti.
   3.  Se le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo
 sono  state  assunte  ai  sensi  dell'art.  392,  si   applicano   le
 disposizioni di cui all'art. 511".
   La  norma  prevede  dunque  che, qualora una delle persone indicate
 nell'art. 210 c.p.p. (imputato in procedimento connesso)  si  avvalga
 della   facolta'  di  non  rispondere,  si  puo'  dare  lettura  (con
 conseguente acquisizione al fascicolo per il dibattimento) delle  sue
 dichiarazioni  predibattimentali, indicate nel comma 1 dell'art. 513,
 soltanto se sussista l'accordo di tutte le parti del processo.
   A ciascuna delle parti processuali viene,  pertanto,  conferito  il
 potere  di  vietare  la  lettura e l'utilizzabilita' a fini probatori
 delle dichiarazioni in questione.
   Siffatta disciplina legislativa si appalesa, ad  avviso  di  questo
 Collegio,  in contrasto con alcuni principii di rango costituzionale,
 di talche' va sollevata,  d'ufficio,  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale a norma dell'art. 23 legge n. 87/1953.
   Ritiene,   peraltro,   questo   tribunale  che  si  ponga  altresi'
 preliminarmente   una   questione   di   conformita'    al    dettato
 costituzionale  degli artt.  210, comma 4, e 513 c.p.p nella parte in
 cui attribuiscono, alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello  stesso
 art.  210  c.p.p.,  la  facolta'  di non rispondere alle domande loro
 rivolte in dibattimento.  Tale questione e'  rilevante  nel  presente
 processo poiche' il Massi Franco si e' avvalso di tale facolta'.
   Per  motivi  di  comodita'  espositiva  e'  preferibile  affrontare
 dapprima la questione  concernente  la  nuova  disciplina  introdotta
 dall'art.    1 della legge n. 267/1997, sebbene quella riguardante il
 combinato disposto di cui agli artt. 210, comma 4, e 513  c.p.p.  sia
 logicamente preliminare.
   3.  -  Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art.
 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997.
   Appare evidente, nel caso di specie, la rilevanza  della  questione
 di  legittimita'  costituzionale  del disposto di cui al vigente art.
 513, comma 2, c.p.p., poiche' l'esame ex art. 210 c.p.p. del Massi e'
 stato ammesso dal tribunale, che ha ritenuto rilevante detto mezzo di
 prova; va, poi, osservato che la  norma  in  questione  subordina  la
 lettura  e  l'acquisizione  al  fascicolo  per  il dibattimento delle
 dichiarazioni precedentemente  rese  dal  sunnominato  -  che  si  e'
 avvalso  della facolta' di non rispondere - al consenso delle parti e
 che la difesa dell'imputato  si  e'  opposta  a  tale  lettura.  Tali
 dichiarazioni,  in  applicazione  della  impugnata norma, non possono
 quindi trovare ingresso nel dibattimento.
   4. - Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
 dell'art.  513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1 legge n.
 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle
 parti la lettura dei verbali  contenenti  le  dichiarazioni  rese  al
 pubblico  ministero  dalle  persone  indicate  nell'art.  210  c.p.p.
 qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere.
   Contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma,  25,  secondo
 comma,  101,  secondo  comma, 102, primo comma, 111 primo comma e 112
 della Costituzione.
   4.1. - Irragionevolezza della norma.
   La legge n. 267/1997 ha, in buona sostanza, reintrodotto  un  vizio
 di  manifesta  irragionevolezza analogo a quello gia' censurato dalla
 Corte costituzionale nella sentenza n. 254 del 1992, con la quale era
 stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513  comma
 2,  c.p.p.  (nella formulazione all'epoca vigente) nella parte in cui
 non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura
 dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo  comma  del  medesimo
 articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., ove queste
 si fossero avvalse della facolta' di non rispondere.
   La  nuova  formulazione  dell'art.  513,  comma  2, c.p.p. prevede,
 infatti, una diversa utilizzabilita' degli  atti  a  seconda  che  si
 tratti di dichiaranti in relazione ai quali non e' possibile ottenere
 la presenza o procedere all'esame (in uno dei modi indicati nel comma
 medesimo   della   citata   disposizione)  per  fatti  o  circostanze
 imprevedibili al momento delle dichiarazioni, ovvero che si tratti di
 dichiaranti che si presentano al dibattimento, ma  che  si  avvalgono
 della facolta' di non rispondere.
   Ed,  invero,  mentre  nel  primo caso e' consentito al giudice dare
 senz'altro  lettura  (ex  art.  512   c.p.p.)   delle   dichiarazioni
 predibattimentali  rese  dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p.,
 tale possibilita' e'  preclusa  nella  seconda  ipotesi,  allorquando
 anche una sola delle parti non vi acconsenta.
   E'  innegabile,  tuttavia,  che nella categoria degli atti divenuti
 imprevedibilmente irripetibili sono sicuramente  ricompresi  anche  i
 verbali  contenenti  le  suddette  dichiarazioni predibattimentali di
 persone,  indicate  nell'art.  210  c.p.p.,  che  si   avvalgano   in
 dibattimento  della facolta' di non rispondere. Che l'irripetibilita'
 dell'atto sia imprevedibile (soprattutto nel momento delle precedenti
 dichiarazioni) e' evidente, ove si consideri che essa dipende da  una
 scelta rimessa al mero arbitrio del soggetto (giova rammentare a tale
 proposito  che  la  Corte costituzionale ha ritenuto che determini un
 oggettiva  ed  imprevedibile  irripetibilita'  dell'atto  il  tardivo
 esercizio della facolta' di astensione da parte di prossimo congiunto
 dell'imputato:  sentenza n. 179/1994).
   Trattandosi  di  situazioni  identiche, la diversita' di disciplina
 e',  dunque,  sfornita  di  qualunque  ragionevole   giustificazione,
 poiche'  in  entrambi  i  casi  l'atto  e' divenuto imprevedibilmente
 irripetibile e tanto dovrebbe bastare perche' il giudice se ne  possa
 avvalere ai fini di una decisione giusta.
   La  mera  eventualita'  che  delle  dichiarazioni possa essere data
 lettura, ove  tutte  le  parti  lo  consentano,  non  fa  venir  meno
 l'irragionevolezza  della  disciplina di cui al nuovo art. 513, comma
 2, c.p.p atteso che l'ostacolo frapposto alla formazione della  prova
 consiste in un insindacabile potere rimesso di fatto al libero volere
 di tutte le parti (comprese quelle che, in ipotesi, non abbiano alcun
 interesse  processualmente rilevante in ordine alla prova stessa), di
 guisa che ciascuna di esse potrebbe  opporsi  all'utilizzo  di  prove
 irrilevanti rispetto alla propria posizione - ma rilevanti rispetto a
 posizioni  diverse  - senz'altro scopo che il porre un impedimento al
 regolare esercizio della giurisdizione.
   4.2. - Principio di non dispersione della prova.
   Nella pronuncia sopra citata (n. 254/1992) la Corte  costituzionale
 osservo'  che  nel  vigente  codice  processuale  e'  rinvenibile  un
 fondamentale  criterio  tendente   contemperare   il   rispetto   del
 principio-guida  dell'oralita' con l'esigenza di evitare la "perdita"
 ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e
 che in questa sede sia divenuto irripetibile.
   Nella successiva  sentenza  n.  255/1992  la  Corte  ha,  altresi',
 affermato  che  "...  l'oralita',  assunta a principio ispiratore del
 nuovo sistema, non  rappresenta,  nella  disciplina  del  codice,  il
 veicolo  esclusivo  di  formazione della prova nel dibattimento; cio'
 perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che
 rimanere quello della ricerca della verita'... di guisa che in taluni
 casi  in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato
 rilievo nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate,  ad
 atti  formatisi  prima  e al di fuori del dibattimento". La Corte ha,
 quindi, individuato, siccome emergente da vari istituti  processuali,
 il  c.d.  principio  di  non  dispersione  dei  mezzi  di  prova, non
 compiutamente o non genuinamente acquisibili  col  metodo  orale.  Si
 pensi ad esempio al testimone (gia' sentito nella fase delle indagini
 preliminari)  che  opponga un irremovibile rifiuto a deporre; in tali
 casi il legislatore, posto nell'alternativa di  disperdere  la  prova
 testimoniale  precedentemente  acquisita  o rendere utilizzabile tale
 atto anteriormente formato, ha  optato  per  questa  seconda  scelta,
 consentendo la lettura delle dichiarazioni gia' rese in precedenza.
   Se  cosi'  non  fosse, quello dell'oralita' diverrebbe un principio
 fine a se stesso,  sul  cui  altare  verrebbe  sacrificato  lo  scopo
 essenziale  del  processo  penale,  che  consiste nella ricerca della
 verita' e nella pronuncia di una decisione giusta.
   Anche sotto questo profilo la norma impugnata pare quindi priva  di
 giustificazione, ponendo in essere una irragionevole preclusione alla
 ricerca della verita'.
   4.3.  -  Inesistenza  di  un  principio  dispositivo.  Principio di
 indefettibilita'   della   giurisdizione.   Principio   del    libero
 convincimento del giudice.
   La  Corte,  nella  sentenza n. 111 del 1993 ha, inoltre, affermato:
 "... La configurazione del potere istruttorio  conferito  al  giudice
 dall'art.  507  come  eccezionale,  e  quindi da escludere in caso di
 decadenza  o  inattivita'  delle  parti,   discende,   nella   logica
 presupposta  dai  giudici  remittenti, dall'assunzione dell'immanenza
 nel nuovo codice, come conseguenza della scelta  accusatoria,  di  un
 principio  dispositivo  in  materia di prova. Si tratta, pero', di un
 assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel
 tessuto normativo concretamente  disegnato  nel  codice.  E'  per  la
 verita'    incontroverso    che   sarebbe   contrario   ai   principi
 costituzionali di legalita' e obbligatorieta'  dell'azione  concepire
 come  disponibile  la  tutela giurisdizionale assicurata dal processo
 penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame
 strutturale e funzionale tra lo strumento processuale  e  l'interesse
 sostanziale  pubblico  alla  repressione dei fatti criminosi che quei
 principi intendono garantire; dall'altro,  contraddire  all'esigenza,
 ad essi correlata, che la responsabilita penale sia riconosciuta solo
 per  fatti  realmente  commessi,  nonche'  al carattere indisponibile
 della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo  che
 il  nuovo  codice  non conosca procedure in cui la concorde richiesta
 delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione;  prova  ne
 sia   che   ad   un  simile  esito  non  conduce  neanche  l'istituto
 dell'applicazione di pena su richiesta  (cfr.  sentenza  n.  313  del
 1990).  Ma  un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche
 sul  piano   probatorio,   perche'   cio'   significherebbe   rendere
 disponibile,  indirettamente,  la stessa res iudicanda. Ed anche qui'
 la riprova si ha nell'altro rito speciale in cui  maggior  spazio  e'
 riservato alla volonta' delle parti, e cioe' nel giudizio abbreviato,
 dato  che  in  esso  l'accordo di queste sulle prove utilizzabili non
 vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi non puo'  neppure
 essere iteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentenze
 nn.  92 del 1992 e 56 del 1993) - come assolutamente preclusivo delle
 integrazioni   probatorie   eventualmente  necessarie,  pena  la  sua
 incompatibilita' con i principi costituzionali. Ma l'assunzione di un
 principio dispositivo in materia di prova non trova  riscontro  nella
 normativa  positiva  neanche  sul  terreno del giudizio ordinario. Il
 metodo  dialogico  di  formazione  della  prova  e'  stato,   invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 verita'  reale:  altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione
 conoscitiva del processo, che discende dal principio di  legalita'  e
 da   quel   suo  particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale.... Ma  e'  soprattutto  dall'art.
 507  che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti
 in materia di prova. Questa Corte ha gia' avuto modo di  dire,  nella
 sentenza  n.  241  del 1992, che tale norma - inserita "in un sistema
 processuale imperniato su un ampio riconoscimento  del  diritto  alla
 prova  e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa
 in primo luogo all'iniziativa delle parti" - "conferisce  al  giudice
 il  potere-dovere  d'integrazione,  anche  d'ufficio, delle prove per
 l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza,  per  qualsiasi  ragione
 dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la
 funzione  di  assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei
 fatti oggetto del processo, onde consentirgli  di  pervenire  ad  una
 giusta decisione... Il potere conferito al giudice dall'art.  507 e',
 dunque,  un  potere  suppletivo,  ma non certo eccezionale...  E' del
 resto evidente che sarebbe  contraddittorio,  da  un  lato  garantire
 l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o
 le  deliberate  inerzie  del pubblico ministero conferendo al giudice
 per le indagini preliminari il potere di disporre che costui  formuli
 l'imputazione...;  e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il
 potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica".
   In sostanza, nella predetta  pronuncia  la  Corte  ha  riconosciuto
 incompatibile   con   i   principi   costituzionali  di  uguaglianza,
 legalita', obbligatorieta' dell'azione  penale,  un  processo  penale
 ridotto  a  "...  tecnica  di  risoluzione delle controversie nel cui
 ambito al  giudice  sarebbe  riservato  essenzialmente  un  ruolo  di
 garante  dell'osservanza  delle  regole  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di  accertare  i
 fatti  reali  onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu' possibile
 corrispondente al risultato voluto dal  diritto  sostanziale,  ma  di
 attingere  -  nel  presupposto di un'accentuata autonomia finalistica
 del processo - quella sola ''verita''' processuale che sia  possibile
 conseguire  attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel
 rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali  coerenti  al
 modello" (cfr. senenza n. 111 del 1993).
   Sotto  questo  profilo  e'  innegabile  che il potere insindacabile
 concesso alle parti  (di  acconsentire  o  meno  alla  lettura  delle
 dichiarazioni  predibattimentali)  dalla  norma  impugnata e' tale da
 consentire alle stesse di disporre ad libitum della prova e,  quindi,
 del processo stesso.
   Va,  poi, sottolineato che la disciplina dell'utilizzabilita' delle
 dichiarazioni   predibattimentali   dell'imputato   in   procedimento
 connesso  che  si  sia  avvalso  della  facolta'  di  non rispondere,
 introdotta dalla Corte con  la  citata  sentenza  n.  254  del  1992,
 tendeva  a  bilanciare  due  valori  diversi: l'esercizio dell'azione
 penale, ma  soprattutto,  da  un  lato,  l'esercizio  della  funzione
 giurisdizionale e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa.
   La  nuova  disciplina legislativa consente, invece, all'imputato di
 opporsi  alla   lettura   di   dichiarazioni   accusatorie   (benche'
 imprevedibilmente  irripetibili)  rese  a  suo carico, permettendogli
 cosi' di disporre a piacimento del processo, potendo financo giungere
 a paralizzare l'esercizio della giurisdizione - e prima ancora quello
 dell'azione penale -  nei  suoi  confronti,  specie  allorquando  non
 sussistano altri elementi di prova a carico.
   Detto ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo'
 che essere ritenuto irragionevole.
   La  stessa  Corte  costituzionale  (sentenza  n.  111  del 1993) ha
 considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico  ministero
 (organo  cui  pure  la  Corte riconosce funzioni pubbliche finlizzate
 esclusivamente all'applicazione della legge: cfr. sentenza n. 88  del
 1991) di disporre del processo, disponendo della prova.
   Non   si   puo',  allora,  non  considerare  parimenti  illegittimo
 l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati -  quali
 sono  l'imputato e la parte civile - che, come tali, orientano i loro
 comportamenti secondo logiche meramente indidualistiche.
   Il precetto di cui all'art. 101, secondo comma, della  Costituzione
 preclude  una  esasperata  ed estremistica applicazione del principio
 dispositivo nel processo penale, in  ragione  della  indisponibilita'
 degli  interessi  pubblici  e  delle posizioni soggettive che di esso
 costituiscono l'oggetto; la  disponibilita'  della  prova  renderebbe
 disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda.
   Come  precisato  dalla  Corte  nella  piu' volte citata sentenza n.
 111/1993 "il metodo dialogico di formazione  della  prova  e'  stato,
 invero,  precelto  come  metodo  di  conoscenza  dei  fatti  ritenuto
 maggiormente  idoneo  al  loro  per  quanto  piu'   possibile   pieno
 accertamento   e   non  come  strumento  per  far  programmaticamente
 prevalere  una  verita'  formale  risultante   dal   mero   confronto
 dialettico  tra  le  parti sulla verita' reale: altrimenti ne sarebbe
 tradita la  funzione  conoscitiva  del  processo,  che  discende  dal
 principio  di  legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito
 dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   La Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di  dichiarazioni
 di ricusazione fondate sui medesimi motivi - ha di recente avuto modo
 di  ribadire (sentenza n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio
 di  indefettibilita'  della  giurisdizione,  ricollegabile   a   vari
 principi costituzionali fra i quali l'art. 101 della Costituzione". E
 la   Corte,   confrontando   il  principio  suddetto  con  quello  di
 uguaglianza  inteso  come  "canone   di   coerenza   dell'ordinamento
 giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...",
 ha  aggiunto: "E qui' va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del
 legislatore per quanto attiene alla  individuazione  delle  scansioni
 processuali,  tuttavia  nel  rispetto del principio di ragionevolezza
 perche' non  venga  compromessa,  di  fatto,  la  nozione  stessa  di
 processo.  Si  che sono da censurare, pure alla luce del principio di
 razionalita' normativa, istituti o regole quando si  prestino  ad  un
 uso distorto, recando cosi' lesione dell'efficiente svolgimento della
 funzione giurisdizionale".
   Va,  poi,  aggiunto  che  la  formazione di un razionale e motivato
 convincimento giudiziale  -  artt.  101,  secondo  comma,  111  della
 Costituzione  -  non  e'  solo  parte integrante dell'esercizio della
 funzione giurisdizionale, ma e' lo scopo stesso del processo.
   Ad avviso del tribunale, la normativa  impugnata,  introducendo  il
 potere delle parti di disporre della prova consente di sottrarla alla
 razionale   e   motivata   valutazione   del  giudice,  in  tal  modo
 impedendogli di formarsi un convincimento che  si  avvicini  il  piu'
 possibile  alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la
 pronuncia di una giusta decisione.
   Vale anche notare che, almeno  nella  materia  dell'utilizzabilita'
 delle  prove  processuali penali, quando, come nel caso di specie, la
 legge devolve a  soggetti  privati  (quali  sono  gli  imputati,  gli
 imputati  in  procedimento  connesso  e la parte civile) la decisione
 ultima  e  definitiva,  oltre  che  immotivata  ed   incontrollabile,
 sull'utilizzabilita'  delle  prove, allora appare violata dalla legge
 stessa la regola secondo cui il giudice  e'  soggetto  soltanto  alla
 legge:  per  il  tramite  formale di una norma giuridica il giudice -
 nell'esercizio della funzione  che  gli  e'  propria  -  viene  fatto
 soggiacere alle decisioni di altri.
   4.4.   -   Principio   della  obbligatorieta'  dell'azione  penale.
 Principio di legalita'.
   Circa la funzione ed il ruolo  del  pubblico  ministero,  la  Corte
 (nella  sentenza  n. 88 del 1991) richiamando la precedente pronuncia
 n. 84 del 1979, ha rammentato che: "l'obbligatorieta'  dell'esercizio
 dell'azione  penale  ad opera del p.m.... e' stata costituzionalmente
 affermata come  elemento  che  concorre  a  garantire,  da  un  lato,
 l'indipendenza  del  p.m.  nell'esercizio  della  propria funzione e,
 dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge  penale;
 sicche' l'azione e' attribuita a tale organo senza consentirgli alcun
 margine  di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio.
 Piu' compiutamente il principio di legalita' (art. 25, comma secondo,
 della Costituzione) che rende doverosa la repressione delle  condotte
 violatrici    della    legge    penale,   abbisogna,   per   la   sua
 concretizzazione, della legalita' del  procedere;  e  questa,  in  un
 sistema  come  il  nostro,  fondato  sul principio di uguaglianza dei
 cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale non
 puo'   essere   salvaguardata   che   attraverso    l'obbligatorieta'
 dell'azione  penale. Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non e',
 pero', concretamente possibile se l'organo cui l'azione e'  demandata
 dipende  da altri poteri: sicche' di tali principi e' imprescindibile
 requisito l'indipendenza del p.m. Questi  e'  infatti,  al  pari  del
 giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della
 Costituzione)  e  si  qualifica  come  ''un  magistrato  appartenente
 all'ordine  giudiziario  collocato  come   tale   in   posizione   di
 istituzionale  indipendenza  rispetto ad ogni altro potere'', che non
 fa valere interessi particolari ma  agisce  esclusivamente  a  tutela
 dell'interesse generale all'osservanza della legge (cfr. sentenze nn.
 190  del  1970  e  96  del  1975).  Il  principio  di obbligatorieta'
 dell'azione penale e', dunque, punto di convergenza di  un  complesso
 di principi basilari del sistema costituzionale, talche' il suo venir
 meno   ne   altererebbe   l'assetto   complessivo.   Di   conseguenza
 l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito,  ne'
 avrebbe potuto scalfirlo....
   Per  altro  verso, l'eliminazione di ogni contaminazione funzionale
 tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della
 prova e  di  liberta'  personale  -,  non  comporta  che,  sul  piano
 strutturale  ed  organico,  il  p.m.  sia separato dalla Magistratura
 costituita in  ordine  autonomo  ed  indipendente.  Nell'architettura
 della  delega,  infatti,  il  ruolo  del  p.m.  non e' quello di mero
 accusatore,  ma  pur  sempre  di  organo  di  giustizia  obbligato  a
 ricercare  tutti  gli  elementi  di  prova  rilevanti  per una giusta
 decisione, ''ivi  compresi  gli  elementi  favorevoli  all'imputato''
 (cfr. dir. n. 37....).
   Coerentemente  a  cio', il legislatore delegato ha sottolineato che
 il potere-dovere del p.m. di estendere le proprie  indagini  a  tutto
 cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa tende
 "nel  rispetto  assoluto  dei  principi del sistema accusatorio e del
 ruolo di 'parte'  del p.m., ad evidenziare la  natura  ordinamentale,
 giudiziaria  e pubblica dell'istituto e della funzione" (Relazione al
 progetto preliminare. 91); ed  ha  poi  confermato  tale  natura  nel
 redigere  il  nuovo  art.  190  dell'ordinamento giudiziario (art. 29
 testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449). Il principio  di
 obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al
 controllo  di legalita' effettuato dal giudice: ed in esso e' insito,
 percio', quello che in dottrina viene definito favor  actionis.  Cio'
 comporta   non   solo   il  rigetto  del  contrapposto  principio  di
 opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione penale
 facoltativa...; ma comporta, altresi', che  in  casi  dubbi  l'azione
 vada esercitata e non omessa".
   Occorre  rammentare  che  gli  atti compiuti dal pubblico ministero
 sono bensi' atti formati in assenza  di  con  traddittorio,  ma  sono
 anche atti compiuti da un organo giudiziario, pubblico, indipendente,
 la  cui  azione e' rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale
 della legge (sentenza n. 88 del 1991). Si tratta, altresi',  di  atti
 che   godono   di   particolari   garanzie  processuali  quanto  alla
 rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali.
   Proprio  per  questa  loro  particolare  affidabilita',  la   legge
 conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m. nella fase
 delle  indagini,  con  riferimento  sia  ad  atti che spiegano i loro
 effetti all'interno di tale fase (es.: esercizio  dell'azione  penale
 nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori
 dalla  fase  delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non
 doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che
 incidono  profondamente  su  diritti   costituzionali   primari   dei
 cittadini  (es.:   emissione di decreti di perquisizione e sequestro,
 adozione di misure cautelari personali).
   Non solo,  ma  l'utilizzazione  delle  risultanze  emergenti  dalle
 indagini  -  tra  le  quali  le  dichiarazioni dei coimputati o degli
 imputati in procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa,
 ma e', in base all'art. 112 della Costituzione, obbligatoria.
   Tutto cio' premesso, ritiene questo tribunale  che  costituisca  un
 irragionevole  ostacolo  all'esercizio  dell'azione penale, oltre che
 una evidente contraddizione  ordinamentale,  disporre  che  atti  sui
 quali il ubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua
 funzione,  quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili siano
 utilizzabili in dibattimento solo  subordinatamente  al  consenso  di
 tutte  le  altre  parti processuali, tra le quali gli stessi imputati
 nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in
 base alla legge i propri effetti.
   Risulta   cioe'  irrazionale,  da  un  lato,  imporre  al  pubblico
 ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo,  elementi
 di  prova  circa  il  fatto,  imporgli  di chiedere misure cautelari,
 introdurre meccanismi  di  garanzia  contro  l'inerzia  del  pubblico
 ministero,   e   poi,   quando   quegli   elementi   siano   divenuti
 imprevedibilmente     irripetibili,     conferire     al     soggetto
 controinteressato  il  potere di disporre a suo piacimento della loro
 utilizzabilita' secondo logiche  che,  per  la  natura  del  soggetto
 investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche,
 privatistiche e, comunque, insindacabili ed immotivate.
   4.5.  -  Diritto  di  difesa (art. 24, commi primo e secondo, della
 Costituzione).
   Va rammentato che nel  presente  procedimento  si  sono  costituite
 anche  alcune  parti  civili  (il  Consorzio  tra i comuni di Madone,
 Filago e Bottanuco, nonche' la provincia  di  Bergamo  e  la  regione
 Lombardia),  cosicche'  la  questione  involge  anche la legittimita'
 costituzionale della norma  impugnata  in  relazione  al  diritto  di
 difesa  della  parte  civile  (art.  24,  commi primo e secondo della
 Costituzione), poiche' l'attribuzione all'imputato della facolta'  di
 impedire  l'utilizzo  di elementi di prova divenuti imprevedibilmente
 irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base a quanto detto in
 precedenza - il diritto della parte  civile  di  veder  tutelati  gli
 interessi  privatistici  di  cui  assume avvenuta la lesione ad opera
 dell'imputato mediante la commissione del reato.
   Basti considerare, in proposito, che  la  parte  civile  non  puo',
 nella  fase delle indagini preliminari, ne' chiedere, ne' partecipare
 all'incidente   probatorio   e,   nell'udienza   preliminare,    puo'
 parteciparvi (se chiesto da altri), ma non farne richiesta.
   Rispetto   alla   parte  civile,  le  dichiarazioni  rese  al  p.m.
 dall'imputato in procedimento connesso che si avvalga della  facolta'
 di non rispondere sono sempre irrimediabilmente irripetibili.
   Ma  le  contraddizioni  della discplina impugnata emergono anche da
 altro e opposto angolo di visuale, quello della titolarita'  in  capo
 alla   parte   civile  del  potere  di  negare  il  proprio  consenso
 all'utilizzo delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati  in
 procedimento   connesso  che  si  avvalgano  della  facolta'  di  non
 rispondere.  La parte civile, infatti, ben potrebbe, nella  personale
 interpretazione   dei   suoi  interessi  privatistici,  opporsi  alla
 acquisizione di dichiarazioni di imputati  in  procedimento  connesso
 quando esse ridondino a discarico degli imputati; in tal caso sarebbe
 allora  evidente la lesione del principio del diritto di difesa degli
 imputati.
   5. - Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
 degli  artt.  210, comma 4, e 513 c.p.p. nella parte in cui prevedono
 che l'imputato in procedimento connesso che abbia reso  dichiarazioni
 accusatorie  a carico di soggetti non presenti all'atto di assunzione
 davanti al pubblico ministero, possa avvalersi,  nel  dibattimento  a
 carico  di quei soggetti, della facolta' di non rispondere.  Ritiene,
 infine, questo Collegio condivisibile l'opinione di chi  afferma  che
 le   discrasie  e  le  contraddizioni  che  connotano  la  disciplina
 introdotta con l'art. 1 legge n. 267 del 1997  -  ed  in  particolare
 quella  di  cui al comma 2 dell'art. 513 c.p.p. - siano da attribuire
 alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in quanto
 tale  irragionevole  -  tra  diritto  di  difesa  ed  esercizio della
 funzione  giurisdizionale.    Infatti,  tutelando  sino   all'estremo
 limite,  per  un  verso  il  diritto  all'assunzione  delle prove nel
 contraddittorio delle parti e,  per  altro  verso  il  diritto  degli
 imputati   a   non   sottoporsi  all'esame  dibattimentale,  entrambi
 espressione del piu' generale diritto di difesa -  la  legge  finisce
 per sacrificare l'esercizio della giurisdizione:  in nome del diritto
 al   contraddittorio   ciascuna   parte   puo'   vietare  ad  libitum
 l'utilizzabilita' di  dichiarazioni  predibattimentali  di  un  altro
 soggetto  (imputato  in  procedimento  connesso  nei cui confronti si
 procede o si e' proceduto separatamente)  il  quale,  esercitando  il
 proprio  diritto di difesa, abbia reso impossibile il contraddittorio
 medesimo, avvalendosi della facolta'  di  non  rispondere.    Emerge,
 pertanto:  1)  l'irragionevolezza del meccanismo poiche' gli artt. 2,
 3,  25,  secondo  comma,  101,  secondo  comma,  102  e   111   della
 Costituzione,   fondano   il   principio  di  indefettibilita'  della
 giurisdizione penale e, in particolare, di un giudizio finalizzato ad
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del processo, affinche' possa essere emessa una giusta decisione;  2)
 che  il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione,
 ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i  diversi  soggetti;
 3)  che  il  conflitto  in  questione e' stato erroneamente risolto a
 tutto danno della giurisdizione.
   E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta'  di  mentire)
 possono  essere  indirettamente  tutelati,  in  tanto  in  quanto non
 consentano  di  bloccare  ne'  l'esercizio  dell'azione  penale,  ne'
 l'esercizio  della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo
 ad astenersi dal collaborare con gli organi  preposti  alla  verifica
 della  responsabilita'  penale.  Quindi  i  contemperamenti rivolti a
 risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti  non
 possono che essere ricercati su altri piani.
   Il  sistema  processuale  introdotto  nel  1988  -  tendenzialmente
 accusatorio - ha fatto proprio e valorizzato come  principio  cardine
 quello   dell'oralita',   ossia   della  formazione  della  prova  in
 dibattimento, cioe' nel contraddittorio  delle  parti  di  fronte  al
 giudice  che  decide  nel merito del processo.   Cio', tra l'altro in
 armonia con  il  disposto  dell'art.  6  comma  2,  lett.  d),  della
 Convenzione    per    la    salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo.
 L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella
 formazione della  prova,  del  resto,  e'  apparso  uno  degli  scopi
 fondamentali  che  hanno  mosso  l'azione  del  legislatore del 1997.
 Seppure a mezzo  di  meccanismi  processuali  irrazionali  e'  palese
 l'intenzione  di  costruire  il  contraddittorio  come  diritto delle
 parti.  E' pero' evidente che una delle condizioni  per  lo  sviluppo
 del  contraddittorio  nel  dibattimento e' che il soggetto sottoposto
 all'esame sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli
 vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si  concede
 al  soggetto  medesimo il potere insindacabile di vanificare l'altrui
 diritto all'esame e controesame.  Mentre la concessione alle parti di
 un diritto di  veto  rispetto  all'acquisizione  delle  dichiarazioni
 predibattimentali   divenute   irripetibili   (rese   in  assenza  di
 contraddittorio dalle persone indicate nell'art.  210 c.p.p.) finisce
 per  ledere  irreparabilmente  il  razionale  esercizio   dell'azione
 penale,  l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del
 processo, l'acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce  per
 ledere  il  diritto di difesa delle parti inteso come diritto l'esame
 ed al controesame.   Cio'  posto  -  considerando  come  fondamentali
 principi    del   sistema   processuale   quello   del   diritto   al
 contraddittorio e,  dall'altro,  quelli  di  uguaglianza,  legalita',
 obbligatorieta' dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo
 e  del  dibattimento,  indefettibilita'  della giurisdizione - appare
 irrazionale riconoscere all'imputato in  procedimento  connesso,  nei
 cui  confronti  si procede o si e' proceduto separatamente, che abbia
 reso al pubblico ministero dichiarazioni che  costituiscono  elemento
 indiziante  a  carico  di  determinati  soggetti,  la facolta' di non
 rispondere nel dibattimento che si celebra a carico di quei soggetti.
 In tali limiti non appare manifestamente infondata, in relazione agli
 artt. 3 e 24, secondo  comma,  della  Costituzione  la  questione  di
 legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, comma 2,
 c.p.p.      E'  appena  il  caso  di  sottolineare  che  un'eventuale
 declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme predette  e
 nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il
 proprio   diritto   all'esame  -  con  le  correlative  ed  eventuali
 contestazioni - mentre non introdurrebbe ovviamente per gli  imputati
 in  procedimento  connesso,  nei  cui  confronti  si  procede o si e'
 proceduto  separatamente,  l'obbligo  di  dire  la  verita',  con  le
 correlative sanzioni.
   In  sostanza,  l'unica  via  razionale  aperta  alla  soluzione del
 problema in  questione  e'  quella  di  ritenere  che,  a  fronte  di
 dichiarazioni  indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri,
 il diritto di difesa del dichiarante si  affievolisca  di  fronte  al
 diritto  di  difesa  dei  chiamati  in  causa,  ai  quali deve essere
 riconosciuta la possibilita' di interrogarlo in ordine  alle  accuse,
 direttamente od indirettamente, rivolte loro.
   La  ragionevolezza  di  tale  affievolimento  si  apprezza anche in
 considerazione del fatto che, quando in  sede  penale  -  indagini  o
 dibattimento  -  un  soggetto  indagato  o imputato rivolge accuse ad
 altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in  quel
 modo preciso il proprio diritto di difesa, con tutti i benefici e gli
 inconvenienti  del  caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria
 (art. 112 della Costituzione) di  approfondire  quelle  affermazioni,
 con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli
 altrui  diritti  individuali  in  sede cautelare, sia di dispendio di
 energie degli organi  pubblici  preposti  all'accertamento.  Date  le
 conseguenze   di  un  tale  comportamento  -  universalmente  note  a
 qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da  una
 assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di
 rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame.
   Del  resto,  il  diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto
 obliterato, posto che egli manterrebbe (in quanto non assume la veste
 di testimone) la  facolta'  di  dare  versioni  diverse,  ritrattare,
 perfino   mentire,   facolta'  pure  essa  ritenuta,  fino  ad  oggi,
 espressione del diritto di difesa.
   Al legislatore rimarrebbe,  comunque,  sia  la  valutazione  se  il
 dichiarante-accusatore  debba  o  no  essere equiparato al testimone,
 sia,  in  caso  contrario,  la  decisione  circa   l'introduzione   -
 ovviamente   opportuna   poiche'  costituente  una  forma  di  tutela
 dell'effettivita'  del  contraddittorio  -  di  un nuovo reato contro
 l'amministrazione della giustizia, avente come fattispecie  obiettiva
 il  rifiuto  di  rispondere a domande rivolte nel corso dell'esame ad
 imputati in procedimento  connesso  che  abbiano  reso  dichiarazioni
 indizianti a carico di altri, in assenza di questi ultimi.
   E'  chiaro,  infine,  che,  qualora  venisse  ritenuta  fondata  la
 questione di legittimita' di cui qui si discorre, verrebbe  meno  uno
 dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina
 dell'acquisizione  delle dichiarazioni degli imputati in procedimento
 connesso e si determinerebbe immediatamente, in base  a  questo  dato
 nuovo,  la  necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale
 di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il  potere  di
 interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi
 -  a  questo  punto  illegittimamente  -  si  rifiutasse  comunque di
 rispondere.
   Ritiene  il  Collegio  che  tutti  i   motivi   che   rendono   non
 manifestamente  infondata  la  questione  concernente l'attuale testo
 dell'art. 513, comma 2, c.p.p., non possano che essere  ribaditi  con
 forza anche con riferimento a questa nuova situazione.
   Si  deve  concludere,  quindi,  che,  ove  si  ritenesse fondata la
 questione  di  legittimita'  concernente  l'art.   210   c.p.p.,   si
 proporrebbe  altresi'  -  in quanto non manifestamente infondata - la
 questione di  legittimita'  dell'art.  513,  comma  2,  c.p.p.  (come
 sostituito  dall'art.  1  legge  n.  267  del 1997 nella parte in cui
 subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle  dichiarazioni
 predibattimentali  rese  dalle  persone indicate nell'art. 210 c.p.p.
 che comunque si rifiutino di rispondere nel dibattimento a carico  di
 altri soggetti.
                               P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge  11  marzo 1953, n. 87, ritenuta la
 rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva d'ufficio:
     I) per violazione degli artt. 3, 24,  comma  secondo,  25,  comma
 secondo,  101,  102,  comma  primo,  111  e  112  della Costituzione,
 questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4,  e
 513  c.p.p.    nella  parte  in cui prevedono che le persone indicate
 nell'art. 210 c.p.p. le quali  abbiano  reso  al  pubblico  ministero
 dichiarazioni  direttamente  od indirettamente indizianti a carico di
 determinati soggetti, possano avvalersi, nel dibattimento a carico di
 questi soggetti, della facolta' di non rispondere;
     II) per violazione degli artt. 3, 24, comma  secondo,  25,  comma
 secondo,  101,  102,  comma  primo,  111  e  112  della Costituzione,
 questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  513,  comma  2
 c.p.p.,  cosi'  come  sostituito  dall'art.  1 della legge n. 267 del
 1997, nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura
 dei verbali contenenti dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle
 persone indicate nell'art.  210 c.p.p. qualora esse si siano  avvalse
 della  facolta'  di  non rispondere o, nel caso di accoglimento della
 questione sub I, si siano rifiutate di rispondere;
   Sospende il processo;
   Ordina che la presente  ordinanza  sia  notificata,  a  cura  della
 cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente  del  Senato  della Repubblica nonche' al Presidente della
 Camera dei deputati;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Cosrte
 costituzionale.
     Bergamo, addi' 15 dicembre 1997
                         Il presidente: Grasso
                                          I giudici: De Bortoli - Nava
 98C0142