N. 140 SENTENZA 20 - 23 aprile 1998

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Reati  in  genere  -  Ingiuria  o  diffamazione  nello  stato  d'ira
 determinato  da un fatto ingiusto altrui - Punibilita' - Esclusione -
 Oltraggio a pubblico ufficiale - Applicabilita' di tale analoga causa
 di giustificazione - Omessa previsione -  Esigenza  di  una  corretta
 interpretazione  diversa da quella prospettata dal giudice rimettente
 - Non fondatezza.
 
 (C.P., art. 599, comma 2).
 
 (Cost., art. 3).
 
(GU n.17 del 29-4-1998 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici: prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.  Cesare  MIRABELLI,  prof.
 Fernando  SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
 Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo  ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,
 prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof. Guido NEPPI
 MODONA, prof.  Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 599, comma
 secondo, del codice penale,  promosso  con  ordinanza  emessa  il  31
 gennaio  1997  dal pretore di Latina nel procedimento penale a carico
 di M.   P.,  iscritta  al  n.  421  del  registro  ordinanze  1997  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 28, prima
 serie speciale, dell'anno 1997.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 28 gennaio 1998 il giudice
 relatore Guido Neppi Modona.
                           Ritenuto in fatto
   1. -  Nel corso del dibattimento celebrato nei confronti di persona
 imputata del delitto  di  oltraggio  (art.  341  codice  penale),  il
 pretore  di  Latina  ha  sollevato,  in  riferimento all'art. 3 della
 Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 599,
 comma secondo, del codice penale - che esclude la punibilita' di  chi
 commette i fatti preveduti dagli artt. 594 e 595 del codice (ingiuria
 e  diffamazione)  nello  stato d'ira determinato da un fatto ingiusto
 altrui e subito dopo di esso - nella parte in cui non ne e'  prevista
 l'applicabilita'  anche  al  reato  di  cui  all'art.  341 del codice
 penale.
   Il rimettente premette che dal dibattimento sarebbe emerso che  gli
 agenti di polizia giudiziaria, persone offese dall'oltraggio, avevano
 tenuto  nei confronti dell'imputata un comportamento complessivo che,
 pur non integrando gli estremi  della  scriminante  dell'art.  4  del
 decreto  legislativo  luogotenenziale  n.  288  del 14 settembre 1944
 ("Non si applicano le disposizioni degli artt. 336,  337,  338,  339,
 341,  342,  343  del  Codice  penale  quando  il pubblico ufficiale o
 l'incaricato del pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia
 dato causa al fatto preveduto negli stessi  articoli,  eccedendo  con
 atti  arbitrari  i  limiti delle sue attribuzioni"), appariva tale da
 rivestire le caratteristiche della provocazione per "fatto ingiusto",
 causa  di  giustificazione  prevista  dall'art.  599  cod.  pen.   in
 relazione  a  fatti d'ingiuria o diffamazione, ma valutabile nel caso
 di specie solamente come attenuante  ai  sensi  dell'art.  62,  comma
 primo, n. 2, cod. pen.
   Ad   avviso  del  rimettente,  tuttavia,  il  fatto  che  la  Corte
 costituzionale con  la  sentenza  n.  341  del  1994  abbia  ritenuto
 irragionevole   la  diversita'  del  minimo  edittale  del  reato  di
 oltraggio rispetto alla pena prevista per il reato di  ingiuria,  sul
 presupposto  che  la  disparita'  di trattamento sanzionatorio appare
 "non piu' giustificabile dall'attuale bilanciamento di interessi  tra
 la tutela dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale anche nei
 casi  di  minima  entita',  e  quella  della  liberta'  personale del
 soggetto agente" comporterebbe  che  pari  irragionevolezza  dovrebbe
 riscontrarsi  anche  nel diverso rilievo che dal codice viene dato al
 rapporto      tra      condotta      dell'autore      del       reato
 (oltraggiante/ingiuriante)  e  comportamento  della persona offesa, a
 seconda che questi sia pubblico ufficiale o un privato cittadino.
   In particolare, quando il  privato  si  trova  ad  "interagire  con
 comportamenti  del  pubblico  ufficiale che - sebbene non arbitrari -
 rivestano le caratteristiche del fatto ingiusto di cui  all'art.  599
 c.  II c.p."   perche' connotati da "estrema animosita' verbale" e da
 "patente scorrettezza" l'impossibilita' di applicare l'esimente della
 provocazione     comporterebbe     un    trattamento    sanzionatorio
 irragionevole, ingiustificatamente disomogeneo rispetto a chi subisca
 "lo stesso comportamento da parte di altri privati, (...) non forniti
 nemmeno del maggior prestigio del  pubblico  ufficiale,  di  per  se'
 capace di porre ulteriormente in soggezione il cittadino".
   2.  -  Si  e'  costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
   Ad  avviso  dell'Avvocatura  la sentenza n. 341 del 1994 citata dal
 rimettente, pur  dichiarando  costituzionalmente  illegittimo  l'art.
 341  cod.  pen.  nella  parte  in cui prevede come minimo edittale la
 reclusione per sei mesi, non ha affatto  sancito  l'esigenza  di  una
 piena corrispondenza nel trattamento sanzionatorio tra la fattispecie
 di  oltraggio  e  quella  di  ingiuria,  avendo al contrario la Corte
 ribadito come  "la  plurioffensivita'  del  reato  d'oltraggio  rende
 certamente  ragionevole  un  trattamento  sanzionatorio piu' grave di
 quello riservato all'ingiuria, in relazione  alla  protezione  di  un
 interesse  che  supera  quello  della  persona  fisica  e  investe il
 prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione".
   Ad avviso dell'Avvocatura e' dunque ragionevole che per il  delitto
 di oltraggio, in luogo dell'esimente della provocazione, sia prevista
 l'autonoma   scriminante  della  reazione  agli  atti  arbitrari  del
 pubblico ufficiale, in quanto tale scriminante  rappresenterebbe  una
 "forma  speciale  di  provocazione, qualificata dal (e modellata sul)
 particolare status di colui che la pone in essere" (Cass. sez. VI,  5
 maggio 1992, Rosi).
                         Considerato in diritto
   1.  -   Il pretore di Latina ha sollevato, con riferimento all'art.
 3  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'   costituzionale
 dell'art.    599,  comma  secondo, del codice penale - che esclude la
 punibilita' di chi  abbia  commesso  un  delitto  di  ingiuria  o  di
 diffamazione  nello  stato  d'ira  determinato  da  un fatto ingiusto
 altrui e subito dopo di  esso  -  nella  parte  in  cui  non  prevede
 l'applicabilita'  di  tale  causa  di  giustificazione  al delitto di
 oltraggio a pubblico ufficiale.
   In particolare, il giudice rimettente  premette  che  nel  caso  di
 specie  il pubblico ufficiale aveva posto in essere comportamenti che
 rivestivano  le  caratteristiche  del  fatto  ingiusto,   in   quanto
 connotati   da   "estrema   animosita'   verbale"   e   da   "patente
 scorrettezza", e che pero' - non integrando gli  estremi  degli  atti
 arbitrari  di  cui all'art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale
 14 settembre 1944, n. 288  -  rendevano  applicabile  in  favore  del
 privato  solo l'attenuante prevista dall'art. 62, comma primo, numero
 2, cod. pen., e non la causa di giustificazione  della  provocazione,
 operante esclusivamente per i delitti di ingiuria e diffamazione.
   Ad  avviso  del  giudice  rimettente, l'impossibilita' di applicare
 tale causa di giustificazione al delitto di  cui  all'art.  341  cod.
 pen. determinerebbe, a seconda che la persona offesa sia un privato o
 un  pubblico ufficiale e, quindi, sia configurabile, rispettivamente,
 il delitto di ingiuria ovvero quello di oltraggio, una  irragionevole
 disparita'  di  trattamento,  a  fronte  di  un analogo comportamento
 provocatorio del soggetto passivo del reato.
   Tali  censure  troverebbero conforto nella stessa giurisprudenza di
 questa Corte, in particolare nella sentenza n. 341 del 1994,  ove  e'
 stata    affermata   l'irragionevolezza   del   diverso   trattamento
 sanzionatorio  tra  i  delitti  di  ingiuria  e  di  oltraggio,   con
 riferimento   alla  sproporzione  per  eccesso  del  minimo  edittale
 previsto per il secondo reato, non piu'  giustificabile  dall'attuale
 bilanciamento di interessi "tra tutela dell'onore e del prestigio del
 pubblico  ufficiale (e del buon andamento dell'amministrazione) anche
 nei casi di minima entita' e  quello  della  liberta'  personale  del
 soggetto agente".
   2. - La questione non e' fondata, nei sensi di seguito precisati.
   Sulla   base   della  prospettazione  del  giudice  rimettente,  la
 questione di legittimita' costituzionale implica l'esame dei rapporti
 tra le due  cause  di  giustificazione  della  provocazione  e  della
 reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale: e' necessario in
 particolare  verificare  se  effettivamente  quest'ultima non ricorra
 quando  il  pubblico  ufficiale   abbia   tenuto   un   comportamento
 "provocatorio"  ma  non  "arbitrario"  e  se  per  porre rimedio alla
 conseguente denunciata violazione dell'art.  3 della Costituzione  si
 debba  necessariamente  ricorrere  ad  un  intervento  integrativo di
 questa  Corte  sull'art.  599,  secondo  comma,  cod.  pen.,  si'  da
 ricomprendervi  anche il caso in cui il privato commetta un oltraggio
 nello  stato  d'ira  determinato  dal  fatto  ingiusto  del  pubblico
 ufficiale e subito dopo di esso.
   In  particolare,  nel  confronto tra gli elementi costitutivi delle
 due cause di giustificazione vengono in considerazione da un lato  il
 "fatto ingiusto altrui", dall'altro gli "atti arbitrari".
   Iniziando  l'esame  da  questi ultimi, l'ordinanza di rimessione si
 basa sul presupposto che il comportamento provocatorio  del  pubblico
 ufficiale,  definito  in termini di "estrema animosita' verbale" e di
 "patente  scorrettezza",  pur  integrando  gli  estremi   del   fatto
 ingiusto,  non  rientra  tra  gli  atti  arbitrari  rilevanti ai fini
 dell'applicazione della causa di giustificazione prevista dall'art. 4
 del decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 1944. Se  ne  deve
 indurre  che  il  giudice rimettente si sia implicitamente richiamato
 all'indirizzo,  nettamente   prevalente   nella   giurisprudenza   di
 legittimita',  che interpreta in termini assai restrittivi e rigorosi
 questo elemento della causa di giustificazione in esame.
   In effetti, alla stregua di tale  indirizzo  il  comportamento  del
 pubblico  ufficiale  idoneo a scriminare la reazione del privato deve
 essere non solo illegittimo, cioe' eccedere dalle funzioni  conferite
 dalla  legge,  ma  esprimere  atteggiamenti aggressivi, vessatori, di
 sopraffazione,  ovvero  essere  ispirato  da  ragioni  di   malanimo,
 prepotenza  o  capriccio,  cioe'  denotare la pervicace intenzione di
 agire al di fuori delle proprie attribuzioni e di realizzare un  vero
 e  proprio  sopruso  nei  confronti  del  privato.  Puo'  al riguardo
 parlarsi di concezione soggettiva dell'atto arbitrario, nel senso che
 si richiede che gli atti del pubblico ufficiale siano sorretti  dalla
 dolosa  consapevolezza  dell'illegittimita'  e dell'arbitrarieta' del
 proprio  comportamento.    Sulla  base  di  questi  presupposti,   la
 prevalente  giurisprudenza  ritiene  che  comportamenti semplicemente
 inurbani, scorretti o sconvenienti non siano qualificabili come  atti
 arbitrari,  ed  esclude  di  conseguenza  in tali casi l'operativita'
 della esimente.
   Tale  orientamento,  sebbene prevalente, non e' peraltro esclusivo.
 Alcune decisioni di legittimita',  meno  frequenti  ma  non  isolate,
 nonche'   la   stragrande   maggioranza  delle  sentenze  di  merito,
 costruiscono  in  maniera  radicalmente  diversa   i   rapporti   tra
 illegittimita'   e   arbitrarieta'  del  comportamento  del  pubblico
 ufficiale.
   Attraverso varie decisioni relativamente recenti, che si  integrano
 tra  loro  e  costituiscono  un coerente superamento della precedente
 giurisprudenza, la  Suprema  Corte  ha  sostenuto:  che  puo'  essere
 invocata  l'esimente  dell'atto  arbitrario ogniqualvolta il pubblico
 ufficiale abbia agito in modo aggressivo, vessatorio o comunque privo
 di quei requisiti di convenienza e urbanita' in cui si  esprimono  le
 esigenze  fondamentali  di  ogni civile convivenza; che e' arbitrario
 l'atto  del  pubblico  ufficiale  che,  pur  essendo  sostanzialmente
 legittimo,  venga  compiuto  con  modalita'  scorrette,  offensive  e
 comunque sconvenienti, in quanto la  convenienza  e  l'urbanita'  dei
 modi,  esplicitamente  imposte  a  determinate  categorie di pubblici
 ufficiali, debbono ritenersi doverose anche in difetto  di  esplicita
 disposizione   legislativa;  che  l'atteggiamento  villano  non  puo'
 comunque  essere  consentito  al  pubblico   ufficiale   e   che   la
 scorrettezza  e  la  sconvenienza delle modalita' di esercizio di una
 attivita' conforme sotto il profilo sostanziale alle norme  di  legge
 si traducono in un eccesso dai limiti delle attribuzioni del pubblico
 ufficiale.  Attraverso  questo  indirizzo  giurisprudenziale  risulta
 superata anche la  concezione  soggettiva  dell'atto  arbitrario,  in
 quanto  non si fa piu' cenno al requisito della dolosa consapevolezza
 in  capo  al  pubblico  ufficiale  della   illegittimita'   e   della
 arbitrarieta' del proprio comportamento.
   Logicamente  conseguente a questa impostazione e' la sua proiezione
 sui rapporti tra le due cause di giustificazione della reazione  agli
 atti  arbitrari  e  della provocazione, puntualmente colta attraverso
 l'affermazione che la prima non e' altro che una speciale ipotesi  di
 provocazione, qualificata dallo status di pubblico ufficiale di colui
 che la pone in essere.
   3.  -  Dei  due contrapposti indirizzi giurisprudenziali, il primo,
 fatto proprio dal giudice rimettente,  determinerebbe  il  denunciato
 contrasto  con  l'art.  3 Cost.; il secondo, invece, consentirebbe di
 superare il prospettato vizio di costituzionalita', in quanto il caso
 oggetto  del  presente   giudizio   rientrerebbe   nella   sfera   di
 applicazione  dell'art.  4 del decreto legislativo luogotenenziale n.
 288  del  1944,  alla  stregua  di  una  interpretazione  che  appare
 agevolmente   sostenibile  e  compatibile  con  gli  ordinari  canoni
 ermeneutici.
   Militano in primo luogo a  favore  dell'interpretazione  piu'  lata
 dell'esimente  della  reazione  ad  atti  arbitrari ragioni di ordine
 storico-politico. Presente nel codice penale Zanardelli del 1889,  la
 causa di giustificazione venne abolita dal codice penale del 1930, in
 nome  di  una malintesa tutela del prestigio e della "infallibilita'"
 degli agenti della pubblica autorita', per essere  poi  reintrodotta,
 ancor  prima  della  fine  della  guerra  di Liberazione, dal decreto
 legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288, unitamente  ad
 altre   significative  modifiche  dell'ordinamento  penale,  ritenute
 coessenziali al passaggio dal regime autoritario al nuovo ordinamento
 democratico e alla nuova impostazione dei rapporti  tra  autorita'  e
 cittadino.
   Le  vicende  storiche della causa di giustificazione della reazione
 agli atti arbitrari del pubblico ufficiale sono  dunque  sintomatiche
 della  diversa  disciplina  dei  rapporti  tra  cittadino e autorita'
 rispettivamente negli ordinamenti liberal-democratici  e  nei  regimi
 totalitari:  in  particolare,  riflettono  le  garanzie e le forme di
 tutela che i primi riconoscono ai privati in  caso  di  comportamenti
 abusivi  dei  pubblici  ufficiali.  Rientra percio' nei poteri-doveri
 dell'interprete tenere conto dello sviluppo storico dell'istituto che
 egli e' chiamato ad applicare,  attribuendogli  il  significato  piu'
 consono  alla  struttura  complessiva  dell'ordinamento vigente, alla
 luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione.
   Non paiono di ostacolo a tale interpretazione ne'  la  formulazione
 letterale della norma, ne' considerazioni di ordine sistematico.
   Il  doppio  richiamo, contenuto nell'art. 4 del decreto legislativo
 luogotenenziale  in  esame,  all'eccesso  dai  limiti  delle  proprie
 attribuzioni e agli atti arbitrari del pubblico ufficiale non impone,
 infatti,  di  costruire l'arbitrarieta' come un quid pluris diverso e
 ulteriore rispetto all'eccesso dalle attribuzioni, riferito, sotto il
 profilo oggettivo, alle  modalita'  di  esercizio  delle  funzioni  e
 sorretto,  sotto  l'aspetto  soggettivo,  dalla dolosa consapevolezza
 dell'illegittimita' e dell'arbitrarieta' del  proprio  comportamento.
 Anche  alla  stregua  della  stessa  interpretazione  letterale delle
 espressioni usate dall'art.  4, puo' ragionevolmente  sostenersi  che
 arbitrarieta'  ed  eccesso  dalle  attribuzioni esprimono il medesimo
 fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalita' con  cui
 il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all'atto illegittimo e della
 illegittimita'  dell'atto  in se' considerato; altrettanto plausibile
 e' concludere, sulla scia  della  interpretazione  prospettata  dalla
 giurisprudenza  di  legittimita'  minoritaria,  che  il comportamento
 scorretto, incivile, inurbano, sconveniente  del  pubblico  ufficiale
 rende  di  per  se' la sua condotta estranea alle funzioni e, quindi,
 illegittima.
   Questa interpretazione e'  avvalorata  dalla  legislazione  (v.  ad
 esempio  l'art.  13  del  d.P.R.  10  gennaio  1957,  n.  3,  nonche'
 l'impianto ispiratore della legge 7 agosto 1990, n. 241) che a  vario
 titolo  impone norme di comportamento ai pubblici impiegati o delinea
 principi generali dell'azione amministrativa, volti ad  impostare  in
 un  contesto  di  lealta'  e  di reciproca fiducia e collaborazione i
 rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. Si  puo'  pertanto
 concludere  che l'arbitrarieta' da un lato non implica un quid pluris
 rispetto  alla  "illegittimita'",   dall'altro   e'   sufficiente   a
 qualificare  come  eccedenti dalle proprie attribuzioni comportamenti
 posti in essere in  esecuzione  di  pubbliche  funzioni  di  per  se'
 "legittime",  ma  connotati da difetto di congruenza tra le modalita'
 impiegate e le finalita' per  le  quali  e'  attribuita  la  funzione
 stessa,   a   causa  della  violazione  degli  elementari  doveri  di
 correttezza  e  civilta'  che  debbono  caratterizzare  l'agire   dei
 pubblici ufficiali.
   4.  - L'interpretazione conforme a Costituzione si pone non solo in
 linea  con  le  ragioni  storico-politiche  che  hanno   indotto   il
 legislatore  a  reintrodurre  sin dal 1944 nell'ordinamento penale la
 causa di giustificazione della reazione agli atti  arbitrari,  ma  si
 innesta  su  interventi  di  questa Corte volti a rendere altre norme
 contenute  nel capo del codice penale relativo ai delitti dei privati
 contro la pubblica  amministrazione  compatibili  con  l'assetto  dei
 rapporti   tra   autorita'  e  cittadino  propri  di  un  ordinamento
 democratico. Valga per tutti il richiamo alla  sentenza  n.  341  del
 1994,  che  ha  dichiarato  costituzionalmente  illegittima la misura
 minima edittale di sei mesi di reclusione prevista dall'art. 341 cod.
 pen., rilevando, tra l'altro,  che  tale  sanzione  appare  "come  il
 prodotto  della  concezione  autoritaria  e  sacrale dei rapporti tra
 pubblici ufficiali  e  cittadini  tipica  di  quell'epoca  storica  e
 discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che
 e'  estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione
 repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e societa'
 non e' un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale  alla  cura
 degli interessi di quest'ultima".
   5.  -  Alla stregua delle considerazioni sinora esposte, emerge una
 sostanziale  coincidenza   tra   l'illegittimita'-arbitrarieta'   del
 comportamento  del pubblico ufficiale che ha dato causa alla reazione
 oltraggiosa del privato e il fatto ingiusto altrui  di  cui  all'art.
 599,  comma  secondo,  cod. pen. Al riguardo, e' significativo che la
 giurisprudenza di legittimita' definisca  il  fatto  ingiusto  altrui
 come  qualsiasi  comportamento  contrario  alle  regole  sociali  che
 improntano la convivenza civile, a prescindere dalla sua contrarieta'
 a norme giuridiche, adottando espressioni in cui e' dato cogliere una
 significativa  assonanza  con  la  scorrettezza,   la   sconvenienza,
 l'aggressivita'   che   connotano  in  termini  di  arbitrarieta'  il
 comportamento del pubblico ufficiale contrastante con  gli  specifici
 doveri attinenti allo svolgimento delle sue attribuzioni.
   D'altro  canto  la  struttura  della causa di giustificazione della
 reazione agli atti arbitrari  implicitamente  richiama  -  quantomeno
 nella  specifica  ipotesi  della reazione oltraggiosa del privato - i
 requisiti dello stato d'ira e della  conseguente  immediatezza  della
 reazione:  poiche' il comportamento del pubblico ufficiale deve avere
 "dato causa" alla reazione del privato, la reazione si accompagna per
 lo piu' ad uno stato di concitazione e di  alterazione,  assimilabile
 ad  una  risposta ab irato. E' dato dunque riscontrare un rapporto di
 "causalita' psichica" tra il comportamento del pubblico  ufficiale  e
 la  reazione  del  privato,  non  diverso  dal  rapporto tra il fatto
 ingiusto e lo stato d'ira richiamato dall'art.  599,  comma  secondo,
 cod.  pen.;  rapporto  che  trova conferma nella stessa struttura del
 delitto di oltraggio, ove si richiede che  l'offesa  all'onore  o  al
 prestigio  del  pubblico  ufficiale  avvenga  "in presenza di lui e a
 causa o nell'esercizio delle sue funzioni".
   Ove debba essere applicata al delitto di  oltraggio,  la  causa  di
 giustificazione  della  reazione  agli  atti  arbitrari  del pubblico
 ufficiale ricalca dunque la struttura della provocazione, dalla quale
 si differenzia per gli  elementi  specializzanti  della  qualita'  di
 pubblico   ufficiale   della   persona  offesa  e  della  conseguente
 specificita' del fatto  ingiusto  su  cui  si  innesta  la  reazione,
 individuato  in  relazione  alle  funzioni  del soggetto passivo e ai
 doveri di correttezza, di convenienza  e  di  urbanita'  che  debbono
 connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali ed i privati.
   Cosi'  delineati  i  rapporti tra provocazione e reazione agli atti
 arbitrari, risulta evidente che la presente questione di legittimita'
 costituzionale deve  essere  risolta  mediante  una  interpretazione,
 diversa  da  quella  prospettata  dal  giudice  rimettente,  idonea a
 superare i denunciati vizi di incostituzionalita'.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
 di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  599,  comma secondo, del
 codice  penale,  sollevata,   in   riferimento   all'art.   3   della
 Costituzione, dal pretore di Latina, con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 20 aprile 1998.
                        Il Presidente: Granata
                         Il redattore: Neppi Modona
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 23 aprile 1998.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
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