N. 301 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 febbraio 1998

                                N. 301
  Ordinanza emessa il 24 febbraio 1998 dal tribunale di  Verbania  nel
 procedimento penale a carico di Visconti Nunzio
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese  nel  corso
    delle  indagini  preliminari  -  Preclusione  per il giudice salvo
    l'accordo  delle  parti  -  Irragionevolezza  posta  la   prevista
    utilizzabilita'  di  tali  precedenti  dichiarazioni nella diversa
    ipotesi  in  cui  non  sia  possibile  ottenere  la  presenza  del
    dichiarante oppure procedere all'esame in  altro modo - Diversita'
    di  regime  rispetto  a quello delle dichiarazioni del testimone -
    Lesione del  diritto  di  difesa  -  Violazione  dei  principi  di
    indipendenza del giudice e di obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P.  1988,  art.  513,  comma  2, modificato dalla legge 7 agosto
    1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 24, 25, 101 e 112).
(GU n.18 del 6-5-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la   seguente   ordinanza   sulla   questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  513  comma  2  c.p.p., nella
 formulazione risultante dalle modifiche operate con l'art. 1 legge  7
 agosto 1997 n. 267, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 112
 Cost., sollevata dal p.m. all'udienza del 24 febbraio 1998.
  Premessa
   Il  presente  procediemnto  trae origine da una piu' vasta indagine
 coordinata dalle procure della Repubblica di Verbania, Busto  Arsizio
 e  Novara,  avente  ad  oggetto  un  presunto  traffico  di  sostanze
 stupefacenti organizzato nelle zone del Varesotto, del Novarese e del
 Verbano.
   Nell'ambito   di   tali   indagini,   condotte   anche   attraverso
 intercettazioni  telefoniche,  emergevano  indizi  di   reita',   tra
 l'altro, anche a carico di Pinna Gesuino, Delussu Vincenzo e Visconti
 Nunzio  per  detenzione  e spaccio di sostanze stupefacenti (eroina e
 cocaina) ai tossicodipendenti delle zone sopra indicate.
   All'udienza odierna, veniva preliminarmente  disposto  lo  stralcio
 delle  posizioni  di  Delussu e Pinna, definite con patteggiamento ex
 art. 444 c.p.p. Si procedeva quindi al dibattimento nei confronti del
 solo Visconti.
   Come il tribunale ha potuto apprendere dalla relazione introduttiva
 svolta dal p.m. e  dalle  disposizioni,  in  particolare,  dei  testi
 Signori  e  Picozzi, l'intero impianto accusatorio, almeno per quanto
 concerne le contestate cessioni di modifiche quantita' di  cocaina  a
 Staderini  Alessandro,  poggia integralmente sulle dichiarazioni rese
 da quest'ultimo nel corso delle indagini preliminari.
   Quesiti, cosi'  come  emerso  dalle  risultanze  istruttorie  sopra
 indicate,  dopo  essere  stato  arrestato  nel  corso delle indagini,
 collaborava pienamente  con  gli  investigatori,  mentre  all'odierno
 dibattimento,  nel  quale  veniva  citato  ex  art.  210 c.p.p. quale
 imputato di reato connesso, dichiarava di avvalersi della facolta' di
 non rispondere.
   Poiche' la difesa non prestava  il  consenso  all'acquisizione  dei
 verbali  delle  dichiarazioni  rese  dallo  Staderini nel corso delle
 indagini  preliminari,  il  p.m.  chiedeva  a  questo  tribunale   di
 sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 513
 comma 2 c.p.p.  nella sua formulazione.  Sulla rilevanza
   Tenuto conto della  gia'  espletata  attivita'  istruttoria,  delle
 risultanze  dalla  stessa  emerse  nonche' dei dati rappresentati dal
 p.m. nel corso  della  relazione  introduttiva,  appare  evidente  la
 rilevanza  della  dedotta  questione  di legittimita' costituzionale,
 trattandosi di processo nel quale l'impianto accusatorio, per  quanto
 riguarda  le cessioni di modiche quantita' di cocaina allo Staderini,
 si fonda in larga parte  sulle  dichiarazioni  di  quest'ultimo,  che
 trovasi nelle condizioni descritte dall'art. 210 c.p.p.
   Tali   dichiarazioni   forniscono   infatti,  nella  prospettazione
 dell'accusa, la chiave di lettura di  tutte  le  restanti  risultanze
 dibattimentali (intercettazioni telefoniche, osservazioni, e relative
 testimonianze  di  p.g.) che tratteggiano un quadro indiziario di per
 se' insufficiente ad assurgere a piena  prova  della  responsabilita'
 dell'imputato  se non unitamente alle dichiarazioni del coindagato in
 una valutazione complessiva secondo i criteri di cui ai commi 2 e ss.
 dell'art. 192 c.p.p.
   Tali  dichiarazioni,  in  applicazione  dell'impugnata  norma,  non
 possono   allo   stato  trovare  ingresso  nel  dibattimento,  stante
 l'esercizio,  da  parte  del  dichiarante,  della  facolta'  di   non
 rispondere   e   l'assenza   dell'accordo   delle   parti  in  ordine
 all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni  rese  dal  medesimo
 nella   fase   delle  indagini  preliminari.    Sulla  non  manifesta
 infondatezza
   Condividendo pienamente  le  valutazioni  gia'  espresse  da  altri
 giudici  remittenti,  ed in particolare dal tribunale di Milano - che
 ha sollevato identica questione con ordinanza datata 24 ottobre  1997
 -, ritiene il collegio che nella norma impugnata si appalesi un vizio
 di  manifesta irragionevolezza rispetto ai principi costituzionali in
 materia  di  acquisizione  e utilizzabilita' della prova della stessa
 Corte  costituzionale  piu'  volte  ribaditi   e   sintetizzati   nel
 "principio di conservazione della prova".
   Il   dato   da  cui  non  puo'  prescindere  la  valutazione  della
 costituzionalita' o meno della norma e che l'art. 513 comma 2  c.p.p.
 nella  sua  nuova  formulazione  viene  ad escludere dal novero delle
 prove legittimamente acquisibili (e quindi utilizzabili ex artt.  191
 e  526  c.p.p.)  le dichiarazioni dei coindagati che si siano avvalsi
 della  facolta'  di  non  rispondere,  con  l'unica   eccezione   del
 meccanismo di consenso ivi previsto.
   Altro  dato fattualmente incontrovertibile e' che l'esercizio della
 predetta facolta' da parte di soggetti che nel corso  delle  indagini
 della   stessa   non   si   erano   avvalsi   determina  un  caso  di
 irripetibilita' oggettiva ed imprevedibile, dell'atto.
   Inevitabile appare dunque il richiamo a  tutte  le  pronunce  della
 Corte   costituzionale   che   in   relazione  ad  analoghi  casi  di
 irripetibilita' hanno affermato la legittimita' dell'acquisizione  ed
 utilizzazione  delle prove formatesi in sede di indagini preliminari,
 ancorandola al principio costituzionale della conservazione dei mezzi
 di prova.
   In particolare si richiamano:
     sentenza Corte cost. n. 254 del 1992,  attraverso  la  quale  era
 stata  dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 comma
 2 c.p.p. nella formulazione allora vigente "nella parte  in  cui  non
 prevede  che  il  Giudice,  sentite  le parti, dispone la lettura dei
 verbali delle dichiarazioni... rese dalle persone indicate  nell'art.
 210  c.p.p.,  qualora  queste  si  avvalgano  della  facolta'  di non
 rispondere".
   In quella occasione, la  Corte  osservo'  che  il  principio  guida
 dell'oralita'  deve  essere contemperato con l'esigenza di evitare la
 perdita, ai fini della  decisione,  di  quanto  acquisito  prima  del
 dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che gia'
 la    legge    delega   ricomprendeva   in   tale   categoria   anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
     sentenza n. 255/92 nella quale la Corte attribui'  esplicitamente
 rilievo  costituzionale  al "principio di conservazione della prova",
 osservando che "... il sistema accusatorio  positivamente  instaurato
 ha  prescelto  la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale
 criterio  rispondente  all'esigenza  di  ricerca  della  verita';  ma
 accanto  al  principo  dell'oralita'  e'  presente, nel nuovo sistema
 processuale, il principio della non  dispersione  degli  elementi  di
 prova non compiutamente (o non genuinamente) acqusibili con il metodo
 orale..".
     sentenza  n.  179/94, relativa all'ipotesi, invero in tutto e per
 tutto analoga a quella che ci occupa, dell'esercizio  della  facolta'
 di  astenersi dal deporre, riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi
 congiunti dell'imputato, con cui la Corte ha  confermato  il  proprio
 orientamento.
   Muovendo  da  una  fattispecie  concreta in relazione alla quale il
 giudice a quo  aveva  sollevato  la  questione  di  costituzionalita'
 reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p.
 nel  caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni in
 sede di indagini preliminari, si avvalga della citata  facolta'  solo
 in sede dibattimentale, la Corte dichiarava la questione non fondata,
 ricorrendo  ad  una  pronuncia  cd.  "interpretativa di rigetto", che
 concludeva  nel  senso  che  "la  testimonianza  cosi'  acquista   e'
 legittimamente,   e   soprattutto,   stabilmente  acquisita"  ed  "e'
 certamente  fuor   di   dubbio   che   l'acquisizione   della   prova
 trestimoniale  legittimamente  assunta  non  puo' essere condizionata
 dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste,
 nel caso di un suo tardivo esercizio della  facolta'  di  astensione:
 non  esiste  nell'ordinamento  alcuna  disposizione che autorizzi una
 interpretazione del genere".
   Nell'impostazione  del  giudice  delle  leggi,  dunque,   in   casi
 consimili,  e  sebbene  in  presenza dell'esercizio di un diritto, si
 determina  una  "oggettiva  e  non  prevedibile"  impossibilita'   di
 ripetizione dell'atto dichiarativo.
   La  conclusione  cui la citata sentenza perviene (ossia la lettura,
 ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza rese)  si  pone
 in  linea  con quello che dev'essere senz'altro definito un caposaldo
 della elaborazione della giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata
 in vigore del codice di procedura penale del 1988, secondo  il  quale
 occorre   "contemperare   il  rispetto  del  principio  dell'oralita'
 coll'esigenza di evitare la perdita,  ai  fini  della  decisione,  di
 quanto  acquisito  prima  del  dibattimento e che sia irripetibile in
 tale sede".
   Del resto, diversamente  opinando,  l'oralita'  si  atteggerebbe  a
 principio  fine  a  se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale,  che  consiste  nella  ricerca  della
 verita' e nella pronuncia di una giusta decisione.
   Proprio  l'elementare  principio della non dispersione dei mezzi di
 prova, posto a base delle molte sentenze della Corte  costituzionale,
 ha imposto al legislatore di prevedere e rendere possibile la lettura
 di   atti   formati   nelle   indagini   preliminari,  allorche'  per
 qualsivoglia ragione (che puo' consistere anche nel puro arbitrio del
 soggetto) l'atto non sia ripetibile in dibattimento (v. art.  512-bis
 c.p.p.).
   La  nuova formulazione dell'art. 513 comma 2 c.p.p. che, come sopra
 evidenziato, pone uno sbarramento all'acquisizione di atti formati in
 fase di indagini preliminari e successivamente divenuti irripetibili,
 introduce una evidente eccezione ai principi enucleati dalla Corte  e
 teste'  ricordati, ed impone pertanto un'attenta verifica della ratio
 e  della  logica  che  giustifichino  la  diversita'  di  trattamento
 rispetto alle ipotesi consimili.
   Sicuramente  non  si  tratta della tutela del diritto di difesa del
 coindagato: l'acquisizione di  quanto  dallo  stesso  precedentemente
 dichiarato  non contravviene infatti al principio del nemo tenetur se
 detegere, che esplica i suoi effetti nel momento dell'esercizio della
 libera scelta di parlare o  tacere  e  non  si  estende  alla  libera
 disponibilita'  del  materiale  fornito  al  procedimento:  tanto che
 l'ultima parola in merito all'acquisizione delle dichiarazioni  dallo
 stesso  precedentemente  rese  non spetta a lui bensi' alle parti del
 processo a cui egli e' estraneo.
   Del   resto,   nessuna    conseguenza    deriva    al    coindagato
 dall'utilizzazione  delle  sue  dichiarazioni nei confronti di terzi,
 mentre invece nel processo che lo  riguarda  direttamente  le  stesse
 sono,  proprio  ai  sensi  dell'art.  513  comma 1 c.p.p., pienamente
 utilizzabili: disciplina che risulterebbe palesemente illogica se  la
 ratio della norma in esame fosse la tutela del coindagato.
   Va altresi' esclusa, quale ratio della norma, la tutela del diritto
 di difesa dell'imputato.
   A  tal  proposito  va  osservato  che  nella maggior parte dei casi
 l'esame del coindagato  e'  richiesto  come  prova  d'accusa,  e  che
 pertanto  il  meccanismo  previsto dall'art. 513 comma 2 c.p.p. viene
 sostanzialmente   a   "compensare"   la   mancata   possibilita'   di
 controesaminare  il dichiarante, con cio' adombrando, limitatamente a
 tale  ipotesi,  l'imprescindibilita'  del  contraddittorio  in   sede
 dibattimentale.
   Il  principio  del  contraddittorio,  tuttavia,  non  trova  nessun
 diretto addentellato nella  nostra  Costituzione  ed  in  particolare
 nell'art.    24  Cost.,  essendo  invece espressione della preferenza
 accordata  dal  legislatore  al  rito  accusatorio  ed  al   connesso
 principio   di   oralita',  intesi  come  strumento  piu'  idoneo  al
 raggiungimento dell'unico fine del processo penale, che e'  e  rimane
 l'accertamento della verita'.
   La  strumentalita'  del  principio  dell'oralita'  rispetto al fine
 della ricerca  della  verita',  a  cui  e'  intimamente  connesso  il
 principio  della  conservazione  della  prova,  si appalesa del resto
 evidente in tutte quelle  altre  ipotesi  in  cui  la  necessita'  di
 acquisire  l'atto  irripetibile  sacrifica  il controesame e rispetto
 alle quali la norma in oggetto si pone in netta antitesi logica.
   L'antitesi e'  tanto  piu'  evidente  considerando  che  lo  stesso
 legislatore  del  nuovo  art.  513 c.p.p. da una parte ha recepito il
 principio    della    "conservazione    della    prova"    prevedendo
 l'utilizzabilita'  tout  court  delle  dichiarazioni  rese in fase di
 indagini preliminari dal coindagato  nei  casi  di  cui  al  comma  2
 secondo  alinea  e dall'altra lo ha disateso prevedendo la necessita'
 dell'accordo delle parti qualora il coindagato si presenti in udienza
 e rifiuti di rispondere.
   Ulteriore profilo di irragionevolezza si ravvisa nel raffronto  con
 la  disciplina prevista dagli artt. 512 e 512-bis c.p.p., riguardanti
 le dichiarazioni del testimone, rispetto alle quali nessun diritto al
 controesame puo' essere invocato per impedirne l'acquisizione in caso
 di irripetibilita'.
   La diversita'  di  disciplina  non  puo'  peraltro  trovare  alcuna
 plausibile  giustificazione  nella  diversa posizione processuale dei
 dichiaranti, che si riverbera nel diverso  grado  di  attendibilita':
 tale    ultimo    elemento    attiene    infatti   al   momento   non
 dell'acquisizione, ma della valutazione della prova, ed e' gia' stato
 risolto dal  legislatore  con  l'attribuzione  di  diversa  pregnanza
 probatoria alle due dichiarazioni.
   La  pur  sommaria  analisi sin qui condotta in ordine alla modifica
 dell'art. 513 c.p.p. se da un lato non consente  di  individuare  una
 logica  e  ragionevole  eccezione  al  principio costituzionale della
 conservazione della prova, dall'altro e contestualmente  evidenzia  e
 mette  a  nudo  il  vero principio sotteso alla riforma: quello della
 disponibilita' della prova in capo ad una parte processuale.
   Tale potere  dispositivo,  tuttavia,  non  solo  non  traova  alcun
 riferimento  nella Carta costituzionale, ma anzi si pone in contrasto
 con i principi del giusto processo, dell'obbligatorieta'  dell'azione
 penale  e  della  conseguente  indisponibilita'  della  res iudicanda
 sanciti dagli artt.  101 e 112 Cost.
   Invero  la  Consulta  ha piu' volte avuto modo di precisare come il
 potere di decisione del giudice del  merito  della  causa  non  possa
 essere  vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere
 delle parti, ed alle scelte  di  carattere  processuale,  in  ipotesi
 anche immotivate, di costoro.
   E'  evidente, infatti, come il predetto di cui all'art. 101 comma 2
 Cost.  precluda  una  esasperata  ed  estremistica  applicazione  del
 principio    dispositivo    nel    processo    penale,   in   ragione
 dell'indisponibilita' degli  interessi  pubblici  e  delle  posizioni
 soggettive  che  di questo costituiscono l'oggetto; la disponibilita'
 della prova renderebbe infatti disponibile, indirettamente, la stessa
 res iudicanda.
   Come gia' osservato e chiaramente  affermato  nella  nota  sentenza
 (sempre  appartenente al genus delle interpretative di rigetto: Corte
 cost. n. 111/93) relativa alla  definizione  del  potere  istruttorio
 suppletivo  riservato al giudice dibattimentale dell'art. 507 c.p.p.,
 del nuovo codice di rito "il metodo  dialogico  di  formazione  della
 prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti
 ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto<>piu' possibile pieno
 accertamento,   e  non  come  strumento  per  far  programmaticamente
 prevalere  una  verita'  formale  risultante   dal   mero   confronto
 dialettico  fra  le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe
 risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che  discende
 dal  principio  di  legalita'  e  da  quel  suo  particolare  aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   Se e' vero che un pieno  ed  arbitrario  potere  dispositivo  della
 prova   nel   processo  e'  negato  alle  parti,  a  maggior  ragione
 ingiustificabile appare l'attribuzione  al  coindagato  (estraneo  al
 processo)  della  possibilita',  di  fatto,  di  innescare  o meno il
 presupposto per  l'esercizio  del  potere  dispositivo  della  parte,
 possibilita'   che   astrattamente   potrebbe   anche  dipendere  non
 dall'espressione di un  diritto  del  coindagato,  ma  dal  suo  mero
 arbitrio.
   Il  riconoscimento  del potere dispositivo ad una parte processuale
 pone ulteriori dubbi di costituzionalita' sotto altri profili.
   Far dipendere l'acquisizione dell'atto irripetibile  dal  "consenso
 delle  parti"  pare  infatti irrazionale nel caso in cui gli imputati
 siano piu' di uno.
   Se per "consenso delle  parti"  si  intende  infatti  -  come  pare
 preferibile  -  accordo  tra tutti i soggetti processuali, laddove vi
 sia anche un unico dissenso all'acquisizione si  potrebbe  verificare
 una   ingiustificata   e   grave   lesione   del  diritto  di  difesa
 dell'imputato  che  abbia  invece  interesse  all'acqusizione   delle
 dichiarazioni del coindagato; se invece per "consenso delle parti" si
 fa  riferimento  solo  all'accordo  tra  p.m.  e  singolo imputato (a
 prescindere  dalle  determinazioni  degli  altri)   si   verrebbe   a
 legittimare    l'emanazione    di    sentenze    necessariamente   ed
 intrinsecamente contraddittorie rispetto all'accertamento del  fatto,
 che  verrebbe  a  diversamente  configurarsi  a seconda delle diverse
 posizioni processuali esaminate.
   Di conseguenza il processo verrebbe di fatto a perseguire non  piu'
 la   funzione   di   accertamento   della   verita',   ma  quella  di
 regolamentazione delle diverse verita' processuali.
   Un  conto  e' infatti creare sbarramenti normativi all'acquisizione
 di prove che, poiche' illegittimamente formate, potrebbero deviare il
 giudizio  da  un  corretto  accertamento  della  verita'  dei  fatti,
 pericolo   che   le   regole   precessuali   sull'acquisibilita'   ed
 utilizzabilita' delle prove mirano appunto ad evitare;  un  conto  e'
 invece  ritenere  che  prove  aventi  il  crisma della legittimita' e
 astrattamente  acquisibili  -  come  appunto  le  dichiarazioni   del
 coindagato  -  possano  valere  solo  nei  confronti  di  un soggetto
 processuale e non dell'altro.
   E' infatti evidente che in tal caso ci si trovi di fronte non  gia'
 ad elementi probatori difformi dai parametri indicati dal legislatore
 per l'accertamento della verita', ma bensi' ad una verita' (accertata
 alla  stregua  di  tutti  quei  parametri)  di cui non si puo' tenere
 conto, e  quindi  ad  una  inammissibile  divaricazione  tra  verita'
 formale e verita' sostanziale.
                               P. Q. M.
   Visti  gli  artt.  134 Cost., 23 e seguenti, legge 11 marzo 1953 n.
 87;
   Ritenuta rilevante e non  manifestamente  infondata,  in  relazione
 agli  artt.  3,  24 25, 101 e 112 Cost., la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 513 comma 2 c.p.p. come modificato dall'art.
 1 legge 7 agosto 1997 n. 267;
   Dispone la trasmissione degli atti  del  procedimento  della  Corte
 costituzionale;
   Manda   alla   cancelleria  per  la  notificazione  della  presente
 ordinanza al Presidente del Consiglio dei  Ministri  nonche'  per  la
 comunicazione   ai  Presidenti  delle  Camere  del  Parlamento  della
 Repubblica;
   Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di
 legittimita' costituzionale.
     Verbania, addi' 24 febbraio 1998
                       Il presidente: Riccobono
                                      I giudici: Cosentino - Cantarini
 98C0475