N. 307 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 marzo 1998

                                N. 307
  Ordinanza  emessa  il  3  marzo  1998  dal  pretore  di Siracusa nel
 procedimento penale a carico di Gioia Giovanni
 Processo penale - Applicazione della pena su richiesta  -  Effetti  -
    Mancata  previsione,  secondo  il  diritto  vivente,  di revoca di
    diritto  di  precedente  sospensione  condizionale  della  pena  -
    Disparita'  di  trattamento  tra imputati - Lesione del diritto di
    difesa - Violazione dei principi di inviolabilita' della  liberta'
    personale,  di  legalita',  di  personalita' della responsabilita'
    penale, di presunzione di non colpevolezza, del  fine  rieducativo
    della   pena,   di   indipendenza   del  giudice,  di  riserva  di
    giurisdizione   e   di   obbligatorieta'   di   motivazione    dei
    provvedimenti giurisdizionali.
 Pena  -  Sospensione  condizionale  della  pena - Revoca di diritto a
    seguito di sentenza di applicazione  della  pena  su  richiesta  -
    Mancata  previsione  -  Disparita'  di  trattamento tra imputati -
    Lesione del  diritto  di  difesa  -  Violazione  dei  principi  di
    inviolabilita'   della   liberta'   personale,  di  legalita',  di
    personalita' della responsabilita' penale, di presunzione  di  non
    colpovolezza, del fine rieducativo della pena, di indipendenza del
    giudice,  di  riserva  di  giurisdizione  e  di obbligatorieta' di
    motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
 (C.P.P. 1988, art. 445; c.p., art. 168).
 (Cost. artt. 3, 13, comma primo e secondo,  24,  comma  secondo,  25,
    comma  secondo,  27,  comma  primo,  secondo  e  terzo, 101, comma
    secondo, 102, comma primo, e 111, comma primo).
(GU n.18 del 6-5-1998 )
                                IL PRETORE
   Premesso che il pretore di Lentini in data 20 luglio 1995  emetteva
 sentenza  ex  art.  444  c.p.p.  applicando  a Gioia Giovanni, nato a
 Catania il 16 giugno 1963 la pena di mesi  tre  di  reclusione  e  L.
 200.000  di multa per il reato di cui agli artt. 56, 110, 624, 625 n.
 1 e 2 c.p. e che in quella sede veniva concesso  il  beneficio  della
 sospensione condizionale della pena;
     che  nei  confronti  di  Gioia Giovanni il pretore di Siracusa in
 data 25 giugno 1996 veniva emessa altra sentenza ex art.  444  c.p.p.
 applicando  la  pena  di mesi sette e giorni dieci di reclusione e L.
 400.000 di multa per il reato di cui agli artt. 624, 625  n.  1  e  2
 c.p.;
     che  a  seguito  del passaggio in giudicato di tale sentenza, con
 istanza del 13 giugno 1997, il p.m. chiedeva a revoca  del  beneficio
 della  sospensione  condizionale della pena concesso a Gioia Giovanni
 con la sentenza del pretore di Lentini del 20 luglio 1995;
   Considerato che veniva fissata udienza camerale ex art. 666 e 674
  c.p.p. e dopo  alcuni  rinvii,  sulle  conclusioni  delle  parti  la
 questione  veniva  trattenuta  in  riserva all'udienza del 3 febbraio
 1998;
   Considerato  che,  pertanto,  in  questa  sede  si rende attuale il
 problema della concreta operativita' nei suoi confronti della  revoca
 di  diritto  del  beneficio  concessogli  con  la citata sentenza del
 pretore di Lentini, a norma dell'art. 168,  comma  1,  n.  1  c.p.  a
 seguito  di  una sentenza di "patteggiamento" nonche' implicitamente,
 della stessa natura del rito alternativo previsto ex art. 444 c.p.p.;
   Solleva d'ufficio questione di  legittimita'  costituzionale  degli
 artt.  445  c.p.p.  e 168 c.p. in relazione agli artt. 3, 13, primo e
 secondo comma, 24, secondo  comma,  25,  secondo  comma,  27,  primo,
 secondo  e  terzo  comma,  101, secondo comma, 102, primo comma, 111,
 primo comma della Costituzione per i seguenti
                              M o t i v i
   1. - Con le sentenze rispettivamente dell'8 maggio 1996  e  del  26
 febbraio  1997  la Corte di cassazione sezioni unite ha affermato che
 la sentenza emessa all'esito della procedura ex artt. 444  s.  c.p.p.
 non  puo'  costituire  titolo  idoneo  alla revoca, della sospensione
 condizionale della pena precedentemente concessa, a  norma  dell'art.
 168,  comma  1,  n. 1 c.p., non avendo natura di sentenza di condanna
 nella parte in cui prescinde dall'accertamento giudiziale del reato e
 dall'affermazione di responsabilita' dell'imputato.  La Suprema Corte
 nel motivare tale determinazione ha, in particolare, affermato che:
     tra le sentenze di condanna emesse a seguito del rito ordinario e
 quelle emesse ex artt. 444 ss.  c.p.p.,  "la  diversita'  della  loro
 genesi  e  dei  loro conseguenti presupposti si dissolve di fronte ad
 una  costante,  essenziale  caratteristica:  in  esse  (sentenze   di
 condanna),  infatti,  la  pena  e'  sempre autonomamente disposta dal
 giudice, nell'esercizio del suo  potere  discrezionale,  e  non  gia'
 sulla  base della sola contestazione del fatto-reato, bensi' dopo che
 si e' accertata e, quindi, dichiarata, la colpevolezza dell'accusato.
 Ed una volta individuata tale profonda differenza, apprezzabile anche
 in relazione ai requisiti formali e sostanziali di  cosi'  eterogenei
 modelli  processuali  e'  stato  agevole dedurne che il provvedimento
 conclusivo dello speciale procedimento previsto dall'art. 444 c.p.p.,
 non contenendo un accertamento completo sulla sussistenza  del  fatto
 reato e sulla sua effettiva riferibilita' ad un determinato soggetto,
 giammai  avrebbe  potuto  giustificare  la  revoca  della sospensione
 condizionale della pena, giacche' questa anche quando e'  conseguente
 alla  doverosa  ricognizione  di una decadenza dal beneficio avvenuta
 ope legis, in virtu' di quanto disposto dall'art.  168, comma 1, n. 1
 c.p., postula sempre un accertamento dotato di quelle caratteristiche
 di completezza in ordine alla commissione del reato e,  quindi,  alla
 colpevolezza  dell'imputato,  accertamento  che  e' conseguibile solo
 mediante una sentenza pronunciata in esito ad un giudizio  con  plena
 cognitio del reato e della pena";
     nella  sentenza di "patteggiamento", "l'accertamento completo del
 fatto reato e della sua commissione da  parte  di  un  soggetto  sono
 sostituiti  dalla  ricognizione dell'accordo intervenuto tra le parti
 sul merito del processo e sulla pena da applicare";
     "il riconoscere di non possedere elementi utili, allo stato degli
 atti,  per  dimostrare  l'insussistenza  del  reato   contestato   o,
 comunque,  la  propria  innocenza,  non  puo'  certo equivalere ad un
 riconoscimento implicito della propria colpevolezza";
     nel  procedimento speciale ex art. 444 c.p.p. "ogni verifica deve
 esaurirsi nell'ambito dei risultati, sempre incompleti e  provvisori,
 che  l'indagine  preliminare, nei limiti in cui e' stata eseguita dal
 pubblico  ministero,  puo'  avere  acquisito:  ed   in   tale   senso
 l'accertamento  giudiziale  non  puo' che essere partecipe dei limiti
 che discendono oltre che dal suo  intrinseco  contenuto,  soprattutto
 dalle  modalita' con le quali tale contenuto e' stato al procedimento
 acquisito, e cioe' senza  il  prezioso  contributo  dialettico  delle
 parti";
     "la revoca del beneficio gia' concesso e' soltanto conseguente ad
 un  sopravvenuto  evento  che  pone  nel  nulla,  per la sua indubbia
 sintomaticita', la prognosi di ravvedimento che era  stata  formulata
 nella  sentenza  che  quel  beneficio  aveva concesso: e tale evento,
 dovendo necessariamente identificarsi nella commissione di  un  nuovo
 reato,  non  puo'  essere supposto sulla base di una mera ipotesi, ma
 deve avere i connotati qualificanti  della  certezza  processuale  e,
 quindi, non puo' essere sottratto alla completezza di un accertamento
 giudiziale che ne' il procedimento previsto dall'art. 444 c.p.p., ne'
 la  sentenza  che  questo  procedimento  conclude,  sono  in grado di
 assicurare".
   2. - In tali sentenze la Suprema Corte, pertanto, non si  limita  a
 introdurre  in  via  interpretativa  un  ulteriore  effetto  premiale
 conseguente alla scelta del rito ex art. 444 c.p.p. non espressamente
 previsto per legge (in primis  dall'art.  445  c.p.p.),  bensi',  per
 poter giungere alle conclusioni esposte, si sofferma ad esaminare e a
 delineare  l'intera  natura del rito speciale e della sentenza che lo
 conclude.  Tali conclusioni interpretative, ribadite con le due ampie
 sentenze delle sezioni unite, costituiscono, pertanto diritto vivente
 che questo giudice ritiene si  pongano  in  aperto  contrasto  con  i
 principi  sanciti  nella  Costituzione  e  con lo stesso orientamento
 espresso in materia dalla Corte costituzionale.  Invero in passato la
 Corte, con la storica sentenza n. 313 del  1990,  nel  respingere  la
 maggior  parte  delle  censure  sollevate (ad eccezione di quella che
 coinvolgeva l'art. 27, terzo comma e che significativamente comporto'
 la pronuncia  di  illegittimita'  ben  nota),  aveva  ricostruito  la
 struttura e la natura del cd. "patteggiamento" in modo diametralmente
 opposto  a  quello oggi cosi' autorevolmente prospettato dalle ss.uu.
 Nella sentenza n. 313/1990 la Corte aveva offerto  un'interpretazione
 che,  nel  pieno  rispetto della lettera della legge (contariamente a
 quanto,  come  vedremo,  hanno  fatto  le  sezioni  unite),   portava
 l'istituto  in  esame  ad armonizzarsi con il sistema costituzionale,
 pur mantenendone le sue peculiari caratteristiche di rito alternativo
 a scopo deflattivo.   Le ss.uu., invece,  espressamente,  evidenziano
 tuttora  "la  struttura  di  un  procedimento  che,  per potere avere
 concrete prospettive applicative in chiave deflattiva, non poteva non
 presentarsi con  connotati  di  spiccata  eccentricita'  rispetto  al
 sistema  processuale,  anche  perche'  privo di concrete radici nella
 nostra tradizione culturale e scientifica".   Va peraltro  verificato
 se tale asserita "eccentricita'" non sia in realta' la costruzione di
 un  sistema  che contrasta tout court con i principi fondamentali del
 nostro ordinamento.
   E' pertanto indubbio per questo decidente  che,  tale  orientamento
 della Suprema Corte di cassazione, da un lato impone al ai giudici di
 merito  di  uniformarsi  ad esso (non rendendo operativa la revoca di
 diritto a seguito di sentenza  di  "patteggiamento"),  e  dall'altro,
 ripropone  i  medesimi  dubbi  sulla  natura  del  rito  e  sulla sua
 compatibilita' all'ordinamento giuridico complessivo sancito in  sede
 costituzionale e che erano stati proposti prima della emissione della
 sentenza  n.    313/1990.  E'  pertanto  necessaria una rivisitazione
 dell'intero istituto a partire dallo specifico effetto  della  revoca
 della sospensione condizionale della pena.
   3.  -  Le  posizioni  delle  sezioni unite da un lato e della Corte
 cosituzionale dall'altro, sono irriducibili ed il  conflitto  che  ne
 nasce  e' del tutto insanabile.  Il tentativo di superamento da parte
 delle ss.uu. dell'asserito apparente conflitto e'  solo  formale,  fa
 leva  su  caratteri  meramente letterali sganciati dal contesto della
 motivazione e travisa la vera sostanza della citata  pronuncia  della
 Corte,  la  quale  e'  senpre  fatta oggetto di esplicito richiamo ed
 adesione da parte delle successive ordinanze della  Corte  (cfr.  per
 tutte   ord.  4-19  marzo  1992  n.  116).    E  cio'  e'  facilmente
 evidenziabile mediante la citazione di significativi stralci di  tale
 sentenza  da  porre  in correlazione con quelli gia' trascritti delle
 recenti  sentenze  delle   sezioni   unite.      Afferma   la   Corte
 costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990:
     con  riferimento  alla prospettata violazione dell'art. 101 primo
 comma Cost.: "Non e' vero che i poteri del giudice abbiano  carattere
 ''notarile''.  Gia'  nell'esercitare  il  controllo sulla definizione
 giuridica dei fatti, il giudice non valuta soltanto la correttezza di
 un'operazione  logico-giuridica  ...   il   giudice   trae   il   suo
 convincimento  proprio  dalle risultanze degli atti e non dal modo in
 cui le hanno valutate, ... e' sempre sulle risultanze  che  s'appunta
 il sindacato del giudice per la verifica e percio' non e' vero che il
 suo  controllo  s'arresti alla cornice di legittimita' ... cosi' come
 e' implicito che, il giudice non  ha  soltanto  il  potere-dovere  di
 controllare  la  correttezza  delle  circostanze  che  le parti hanno
 ritenuto  ma  puo'  altresi'  liberamente  ravvisarne  altre,   tanto
 attenuanti che aggravanti:  con esse diversamente condizionando anche
 l'eventuale giudizio di bilanciamento";
     con riferimento alla prospettata violazione dell'art. 102 comma 1
 e  111, primo comma Cost.: "Va negato decisamente che nell'ipotesi di
 cui all'art.  444  c.p.p.,  il  giudice  non  eserciti  una  funzione
 giurisdizionale  ...  va  altresi'  negato conseguentemente che nella
 sentenza di cui all'art. 444 c.p.p., non vi sia una  motivazione  che
 esprima il convincimento del giudice";
     con  riferimento  alla  prospettata violazione degli artt. 3 e 24
 Cost., laddove vi sarebbe attribuzione di una pena  a  se  stesso  da
 parte dell'imputato, cosi' disponendo del diritto indisponibile della
 liberta' personale a prescindere dall'accertamento di una commissione
 di  un  fatto-reato:  "Quanto  detto  esclude  che  il  giudice resti
 estraneo alla determinazione della pena ... l'accertamento diretto ad
 escludere che sussistano, acquisiti agli atti, elementi che negano la
 responsabilita'   o   la   punibilita',   integra   una    importante
 partecipazione  del  giudice  all'indagine  sulla responsabilita' ...
 quando sorga qualche perplessita' in ordine al senso effettivo  della
 sua  richiesta,  il  giudice  ha  ampia possibilita' di sincerarsene,
 disponendo la comparizione dell'imputato  per  poterlo  personalmente
 sentire:  anche questo e' un modo di accertare ... anche la decisione
 di  cui  all'art.  444   c.p.p.,   quando   non   e'   decisione   di
 proscioglimento,    non    puo'   prescindere   dalle   prove   della
 responsabilita'" .... Resta quindi confermato  che  la  essenzialita'
 della  partecipazione  del  giudice  alla  decisione  non e' soltanto
 formale ... cio' che  non  puo'  essere  assolutamente  condiviso  e'
 l'idea   che  l'imputato  ''disponga''  della  sua  ''indisponibile''
 liberta' personale per autolimitarla";
     con  riferimento  all'art.  27  Cost.:  "In  effetti,  nel  nuovo
 ordinamento giuridico-processuale e' preponderante l'iniziativa delle
 parti  nel settore probatorio: ma cio' non immuta affatto i principi,
 nemmeno nello speciale procedimento in esame, dove anzi il giudice e'
 in primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia  gia'  acquisita
 agli  atti la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo
 ha commesso. Dimodoche', risultando negativa questa  prima  verifica,
 se  l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della
 propria innocenza, nessuno lo  obbliga  a  richiedere  l'applicazione
 della  pena ed egli ha a disposizione le garanzie del rito ordinario.
 In altri termini, chi chiede l'applicazione della pena vuol dire  che
 rinuncia  ad  avvalersi  della facolta' di contestare l'accusa, senza
 che  cio'  significhi  violazione  del   principio   di   presunzione
 d'innocenza,  che  continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non
 sia  irrevocabile  la  sentenza  ...  bisogna  riconoscere   che   la
 preclusione  dello  specifico  controllo  del  giudice sulla concreta
 congruita' della pena puo' talvolta  determinare  una  situazione  di
 conflitto con il principio di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost.",
 "...  se  la finalizzazione (della pena) venisse orientata verso quei
 diversi  criteri   (afflittivita',   retributivita'),   anziche'   al
 principio  rieducativo,  si correrebbe il rischio di strumentalizzare
 l'individuo per fini  generali  di  politica  criminale  (prevenzione
 generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di
 stabilita'  e  sicurezza  (difesa  sociale),  sacrificando il singolo
 attraverso l'esemplarita' della sanzione.  E' per questo che  in  uno
 Stato  evoluto,  la  finalita'  rieducativa  non puo' essere ritenuta
 estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena ....".
 Il procuratore generale presso la Cassazione, in sede di requisitoria
 nel giudizio delle ss.uu. n. 1/1997, ha cosi' efficacemente riassunto
 la  ratio  decidendi  della  sentenza  della   Corte   n.   313/1990:
 "L'ordinamento  processuale  vigente  non  conferisce  effetti penali
 (qual'e'  quello  da  cui  deriva   la   revoca   della   sospensione
 condizionale  della  pena) unicamente a provvedimenti emessi in esito
 ad un giudizio svolto secondo  il  rito  della  plena  cognitio,  non
 essendo  preclusa  la configurabilita' in sede normativa ordinaria di
 moduli processuali diversi per l'accertamento  della  responsabilita'
 dell'imputato".  Egli  ha  indicato  come esempio il procedimento per
 decreto penale in cui l'irrevocabilita' della  condanna  consegue  al
 mero silenzio dell'imputato e nel testo originario dell'art. 168 c.p.
 (laddove  la  revoca  era prevista anche a seguito di condanne a pena
 pecuniaria), era anch'esso pacificamente titolo per la  revoca  della
 sospensione condizionale della pena.
   4. - In sintesi, la ricostruzione offerta dalla Corte di Cassazione
 ss.uu.  continua a ritenere la sussistenza di una mera ''ipotesi'' di
 reato e di colpevolezza di una persona accusata di  averlo  commesso,
 anche  dopo  l'emissione della sentenza di patteggiamento, mentre con
 la sentenza,  in  qualche  modo  e  rispondendo  alla  necessita'  di
 certezza  del  diritto, il conflitto espresso prima del processo, non
 puo'   non   risolversi  giuridicamente  e  l'ipotesi  iniziale  deve
 trasformarsi in un dato di certezza giuridica.
   La  Corte  nella  sent.  n.  313/1990,   infatti,   necessariamente
 ricollega  la  circostanza  che  una  pena  venga applicata al previo
 necessario accertamento  che  il  soggetto  che  la  subisce  ne  sia
 meritevole, cosi' che tale pena possa coerentemente esplicare i fini,
 rieducativi  preventivi  e  retributivi  ad  essa  connaturati;  tali
 finalita', per contro, non avrebbero concreta ragione di esistere nei
 confronti di chi sia ancora solo ipoteticamente colpevole  e  non  si
 possa  affermare abbia effettivamente commesso quel preciso reato per
 cui sconta una pena.
   Le sezioni unite,  invece,  muovono  da  un  presupposto  giuridico
 estraneo  al  nostro ordinamento, secondo il quale sarebbe plausibile
 la dissociazione tra accertamento di responsabilita' e  l'irrogazione
 della  pena, tra pronuncia di un giudizio e aderenza tendenziale alla
 realta', privilegiando in tal modo una costruzione giuridica  in  cui
 il  dato  fittizio  prende  il posto di quello reale, sganciata dalla
 doverosa verifica di corrispondenza con la realta' accertabile.
                       La questione e' rilevante
   Come gia' detto questo giudice solleva la  questione  allorche'  si
 trova a dover decidere in ordine alla accoglibilita' di una richiesta
 avanzata  dal  p.m.  ai  sensi degli artt. 665 s. c.p.p. di revoca di
 diritto disposta dall'art. 168 comma 1 n. 1 c.p. del beneficio  della
 sospensione  condizionale  della pena a seguito della irrevocabilita'
 di una sentenza emessa ex art. 444 c.p.p..   Questo  giudice  ritiene
 che  a  seguito  del  citato  orientamento delle ss.uu. la disciplina
 attualmente vigente circa le sentenze idonee  a  produrre  la  revoca
 della  sospensione  condizionale  della  pena  comporti la violazione
 delle norme  costituzionali  indicate  e  che  cio'  coinvolga  nella
 suddetta   censura   l'intero   istituto   del  patteggiamento  cosi'
 strutturato nel diritto vivente.  Cionondimeno, ritiene sufficiente e
 richiede una pronuncia della Corte sugli artt. 445 c.p.p. e 168  c.p.
 idonea   a  riportare  l'istituto  ad  armonizzarsi  con  il  sistema
 costituzionale, cosi' come indicato nella sentenza n. 313/1990.
   Non ignora questo giudice  le  recenti  ordinanze  in  cui  codesta
 ecc.ma  Corte  ha  arrestato  la  propria  disamina  della  questione
 sollevata ritenendo la questione  irrilevante  "essendo  precluso  al
 giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale ogni
 intervento  additivo  in  materia  penale  che  si  risolva   in   un
 trattamento  sfavorevole  per  l'imputato"  (cfr.  per  tutte ord. n.
 297/1997 sul punto qui in esame).  Si chiede, peraltro, alla Corte di
 voler riconsiderare tale sintetico diniego alla luce della sua stessa
 giurisprudenza e delle considerazioni che seguono.
   A)   E'   ben   noto   che   la   complessa   vicenda   in   ordine
 all'ammissibilita'  del  sindacato di legittimita' delle norme penali
 di favore e' stata autorevolmente affrontata con la storica  sentenza
 n.  148/1983.    In  tale pronuncia la Corte prende atto che, a voler
 seguire fino in fondo una  rigida  applicazione  del  criterio  della
 rilevanza,  "ne  deriverebbero implicazioni assai gravi" e che "norme
 sicuramente applicabili  nel  giudizio  a    quo,  rischierebbero  di
 sfuggire  ad ogni sindacato della Corte non essendo mai pregiudiziale
 la loro impugnazione; e la Corte stessa verrebbe in tal senso privata
 - quanto meno nei giudizi instaurati in via  incidentale  -  di  ogni
 strumento  atto  a  garantire  la preminenza della Costituzione sulla
 legislazione  statale  ordinaria".    Tre  sono  stati  i  profili di
 rilevanza segnalati dalla Corte in giudizi attinenti norme penali  di
 favore:
     "In  primo  luogo,  l'eventuale accoglimento delle impugnative di
 norme siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di  proscioglimento
 o,  quanto  meno,  sui  dispositivi  delle  sentenze  penali, i quali
 dovrebbero imperniarsi  per  effetto  della  pronuncia  emessa  dalla
 Corte,  sul primo comma dell'art. 2, c.p. (sorretto dal secondo comma
 dell'art. 25 Cost.) e non sulla  sola  disposizione  annullata  dalla
 Corte stessa";
     "In  secondo  luogo,  le  norme  penali di favore fanno anch'esse
 parte del sistema, al  pari  di  qualunque  altra  norma  costitutiva
 dell'ordinamento  ...  sicche'  va  confermato  cne  si  tratta di un
 problema inerente all'interpretazione  di  norme  diverse  da  quelle
 annullate  che  i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per
 caso, nell'ambito delle rispettive competenze";
     In  terzo  luogo,  la  tesi  restrittiva  muoverebbe  da  assunti
 ristretti  ed  angusti  circa  il  tipo  di pronunce adottabili dalla
 Corte, la  quale  "non  e'  vincolata  in  assoluto  dalle  posizioni
 interpretative    del    giudice    che   promuove   l'incidente   di
 costituzionalita'. In altre parole, non puo' escludersi a priori  che
 il giudizio della Corte su una norma penale di favore si concluda con
 una   sentenza  interpretativa  di  rigetto  (nei  sensi  di  cui  in
 motivazione) o con una pronuncia comunque correttiva  delle  premesse
 esegetiche  su  cui si fosse fondata l'ordinanza di rimessione".  Per
 il caso in esame  si  fanno  semplicemente  proprie  tali  autorevoli
 considerazioni, atteso che il giudizio richiesto alla Corte coinvolge
 principi  cardine dell'ordinamento e che pertanto massima deve essere
 la preoccupazione di non istituire "zone franche del tutto impreviste
 dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria
 diverrebbe incontrollabile".
   B) A cio' si aggiunga che  la  stessa  Corte  ha  gia'  piu'  volte
 dichiarato  ammissibili (e a volte fondate) questioni di legittimita'
 costituzionale di leggi regionali che  incidano  in  materia  penale,
 laddove,  a legislazione vigente, il giudice avrebbe dovuto assolvere
 l'imputato.
   C) In realta', si ritiene che nel caso in esame, non si  tratti  di
 estendere  la  portata di una norma penale (il reato rimane del tutto
 inalterato),  bensi'  di  riconoscere  esplicitamente,   anche   alla
 sentenza di patteggiametto il potere di dispiegare gli effetti propri
 della  sentenza  penale  di  condanna, cui la stessa e' espressamente
 equiparata ex art. 445 c.p.p., (fatti salvi gli effetti premiali gia'
 riconosciuti ex lege e tassativamente elencati).
   D) Ulteriore argomento che consentirebbe alla Corte di  discostarsi
 dalla   prospettazione   delle  sezioni  unite  penali  mediante  una
 pronuncia meramente interpretativa (come suggerito nella sentenza  n.
 148/1983  al  terzo  rilievo),  e'  costituito  dal fatto che sezioni
 semplici della Corte di cassazione civile, nell'applicare il medesimo
 art. 445 c.p.p., ritengono tassativo l'elenco dei  benefici  connessi
 al  rito  alternativo  in  esame  e  quanto  al resto, lo considerano
 pienamente equiparabile ad una sentenza  di  condanna  (come  recita,
 peraltro,  la  stessa lettera dell'ultima parte del primo comma).  Si
 vedano ad esempio Cass. I 12 aprile  1996  n.  3490  e  Cass.  I,  18
 ottobre 1994 n. 8489, ove in relazione all'ineleggibilita' di chi sia
 stato  condannato  per  determinati reati sancita dall'art.  15 legge
 1990 n. 55 e successive  modifiche,  espressamente  sostiene  che  la
 sentenza  di  patteggiamento,  "ancorche'  non  produttiva  di taluni
 effetti tipici della sentenza di condanna (espressamente esclusi  dal
 comma  1,  dell'art.  445  c.p.p.) e' tuttavia idonea a comportare la
 sospensione dalla carica del  consigliere  comunale  -  a  norma  del
 citato  art. 15 - quando porti applicazione di pena per uno dei reati
 ivi previsti, non rientrando detta sospensione nel novero delle  pene
 accessorie".
   A  fronte  di tale differente orientamento, un giudizio della Corte
 nel merito dell'intero istituto risponderebbe, pertanto, a ragioni di
 eguaglianza.
   E) La stessa citata ordinanza della Corte n.  297/1997  indica  due
 possibili varchi al proprio giudizio di inammissibilita'.
   La  Corte  afferma, infatti, che il proprio sindacato riemergerebbe
 laddove la norma sospettata  di  illegittimita'  costituzionale,  sia
 frutto  "di  una  scelta  irrazionale  e  non  giustificata", risulti
 arbitraria sia la previsione che  la  regolamentazione  di  cause  di
 estinzione  del  reato  in relazione al disvalore ad esso assegnato e
 alla condotta tenuta dal reo.  Premesso che la Corte utilizza termini
 quali "reo" e "disvalore" che le sezioni unite citate  non  ritengono
 neppure  appartenere  alla natura dell'accertamento della sentenza di
 patteggiamento, si segnalano i  seguenti  profili  di  irrazionalita'
 conseguenti  all'avere  le  ss.uu.   negato a tale sentenza qualunque
 effetto di accertamento di responsabilita'  e  quindi  idoneta'  alla
 revoca ex art. 168 c.p.).
   1.  -  E' pacifico che gli effetti della sentenza di patteggiamento
 siano elencati espressamente dall'art. 445 c.p.p. e  che,  quanto  al
 resto  e  salvo  espresse  disposizioni  di  legge,  la  sentenza sia
 equiparata a una pronuncia di  condanna:  essa  genera  recidiva  (v.
 anche    Relazione    al   progetto   preliminare),   abitualita'   e
 professionalita' nel reato; costituisce il precedente  richiamato  da
 singole norme incriminatrici, quali ad es. l'art. 707 c.p.;
   2.  -  Lo  stesso  art.  445,  secondo  comma,  c.p.p.  prevede,  a
 contrario, che l'applicazione di una pena detentiva  condizionalmente
 sospesa,  quand'anche  siano  passati  i cinque anni ivi previsti per
 l'estinzione  del  reato,  sia  ostacolo  alla  concessione  di   una
 successiva  sospensione  condizionale della pena; sul punto le ss.uu.
 non  convincono  laddove  sostengono  che  i   presupposti   per   la
 concessione  di  una sospensione condizionale della pena sarebbero di
 natura diversa rispetto a quelli richiesti per la revoca.
   Ed infatti la Suprema Corte precisa che la pena applicata all'esito
 del  "patteggiamento"  legittimamente  possa  essere  ostativa   alla
 concessione di una successiva sospensione condizionale della pena, in
 quanto  "applicando  la  pena", essa, sotto tale ed unico profilo, e'
 legittimamente equiparabile a una pronuncia di condanna.
   A seguire l'impostazione  delle  ss.uu.  le  conseguenze  sarebbero
 invero  arbitrarie in quanto si pone quale presupposto impeditivo del
 beneficio il solo "avere subito l'applicazione di una pena",  quando,
 per contro, la sospensione condizionale e' volta a fini preventivi ed
 esprime un giudizio di prognosi sul futuro comportamento di un reo.
   Nel  limitare  la  valenza  della sentenza di patteggiamento ad una
 fittizia ed ipotetica affermazione dell'attribuzione all'imputato del
 reato contestato con applicazione della pena, del tutto  incongrua  e
 incomprensibile  diventa,  quindi,  la  valutazione  dei  presupposti
 formali  e sostanziali richiesta per la concessione della sospensione
 condizionale della pena: fittizia ed ipotetica sarebbe anch'essa,  in
 quanto  nessuna  concreta  esigenza  preventiva  e  dissuasiva per il
 futuro sarebbe formulabile, coerentemente  a  tali  presupposti,  nei
 confronti  di  chi  non  si ritiene colpevole di avere commesso alcun
 reato.
   3. - Lo stesso art. 445, secondo comma,  c.p.p.,  prevede  che  "Il
 reato  e'  estinto  se nel termine di cinque anni, quando la sentenza
 concerne un delitto, e di due anni, quando la sentenza  concerne  una
 contravvenzione,  l'imputato  non  commette  un  delitto  ovvero  una
 contravvenzione della stessa indole".
   Tale formulazione e' in tutto analoga al meccanismo  del  beneficio
 della  sospensione  condizionale  della  pena:  l'estinzione  non  si
 verifica se l'imputato commette  un  delitto  o  una  contravvenzione
 della stessa indole.
   E   cosa   dire  nel  caso  in  cui  il  soggetto  richieda  sempre
 l'applicazione della pena anche  per  delitti  ascrittigli  entro  il
 quinquennio?  L'interpretazione  della Corte indirettamente coinvolge
 anche l'applicazione  di  questa  norma,  implicitamente  limitandone
 l'applicazione solo ai casi in cui si possa "effettivamente" dire che
 ha commesso un reato, - ovvero solo quando vi sia plena cognitio? Del
 resto gli agganci letterali valorizzati dalle ss.uu. sono identici.
   In  tutto  cio'  vi  e'  qualcosa di aberrante, atteso che quel che
 voleva  essere   solo   un   rito   deflattivo,   ben   puo'   essere
 strumentalmente  utilizzato per lo svuotamento e l'inoperativita', ad
 esempio, di due norme: l'art. 445 secondo comma c.p.p. e  l'art.  163
 c.p..
   Negare  l'effetto della revoca della sospensione condizionale della
 pena  a  seguito  dell'opzione  di  un  rito  alternativo,   infatti,
 significa  negare  al  giudice  la  possibilita'  di verificare se la
 prognosi espressa in sede di  concessione  del  beneficio  sia  stata
 osservata; e' inoltre svuotare di significato l'intero istituto della
 sospensione  condizionale  della  pena,  la  quale si basa su un fine
 preventivo, che sarebbe del tutto vanificato ex ante dalla  sicurezza
 dell'impunita'  per  tale  primo reato: patteggiando sempre, anche la
 commissione di un ulteriore reato non  comporterebbe  la  revoca  del
 beneficio.
   4.   -   La   ricostruzione  dell'istituto  offerta  dalle  ss.uu.,
 nonostante un tentativo meramente letterale di  aggirare  l'ostacolo,
 si  pone  poi in aperto contrasto con i presupposti della sentenza n.
 155 del 1996, cosi' inserendo un ulteriore elemento di irrazionalita'
 nel sistema.  Nella  sentenza  n.  155/1996  (come  del  resto  nelle
 pronunce   similari),   la   Corte  ha  dichiarato  che  l'estensione
 dell'incompatibilita' dei g.i.p. dev'essere pronunciata rispetto alla
 decisione sulla richiesta di applicazione della pena concordata dalle
 parti "la quale integra un vero e  proprio  giudizio".  Cio'  perche'
 "nel  procedimento previsto dagli artt. 444 s. c.p.p. il giudice, pur
 essendo il suo  compito  condizionato  dall'accordo  intervenuto  tra
 imputato   e   p.m.   e,  quindi,  in  questo  senso  circoscritto  e
 indirizzato, e'  chiamato  infatti  a  svolgere  valutazioni  fondate
 direttamente sulle circostanze in atti, aventi natura di giudizio non
 di  mera  legittimita',  ma  anche  di  merito,  concernenti tanto la
 prospettazione del caso contenuta nella richiesta di parte, quanto la
 responsabilita' dell'imputato, quanto, infine, la pena".
   F)  La  Corte  sempre  nella  citata ordinanza n. 297/1997, afferma
 inoltre che "la disposizione censurata e' coerente con  il  carattere
 premiale  del  ''patteggiamento'',  ed  e'  suscettibile di controllo
 giurisdizionale nel momento in cui al giudice chiamato a  pronunciare
 sentenza  ex  art.  444  c.p.p.  e'  imposta  una  valutazione  della
 ''congruita''' del trattamento  sanzionatorio  complessivo  negoziato
 dalle   ''parti'',   e   ''che,  in  particolare,  la  conseguenza  -
 prospettata dal giudice remittente - di un ricorso al  patteggiamento
 per  un numero indeterminato di volte, con la conseguenza che le pene
 non sarebbero mai eseguite, e' priva di fondamento, in quanto, da  un
 lato,  la richiesta di applicazione della pena e' condizionata in via
 generale al consenso del  pubblico  ministero,  dall'altro,  ove  sia
 subordinata  alla  concessione  della  sospensione condizionale della
 pena, il giudice, se  ritiene  che  il  beneficio  non  possa  essere
 concesso,  rigetta  la  richiesta  a norma dell'art. 444, terzo comma
 c.p.p.".
   Sembra si intravveda in tale prospettazione il  suggerimento  della
 Corte  al  giudice  di  merito  (vincolato quanto all'interpretazione
 dell'art. 168 c.p. all'orientamento delle  ss.uu.)  di  rigettare  le
 richieste  di  applicazione  della  pena  avanzate  da  soggetti "non
 meritevoli" del regime generale degli effetti  premiali  connessi  al
 patteggiamento,  operando un rigetto sulla base di un giudizio di non
 congruita' "del trattamento sanzionatorio complessivo"  (l'Avvocatura
 dello  Stato  in quella sede parlava addirittura di "opportunita' del
 beneficio").
   Non si vede peraltro, in base a quale norma sia stato  riconosciuto
 un  tale e penetrante intervento del giudice circa la scelta del rito
 che, in genere, spetta all'accordo delle parti.  La  stessa  sentenza
 della Corte n. 313/1990 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale
 dell'art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, ai fini e ai
 limiti  di  cui  all'art.  27  terzo  comma  Cost.,  il giudice possa
 valutare la congruita' della pena indicata dalle parti, rigettando la
 richiesta  in  ipotesi  di  sfavorevole  valutazione.    Il   sistema
 normativo attualmente vigente non consente al giudice di condizionare
 il proprio giudizio sulla meritevolezza del rito del "patteggiamento"
 o  sulla  congruita'  del  complessivo trattamento sanzionatorio a un
 evento, revoca della precedente sospensione condizionale, che  appare
 al  di fuori della disponibilita' delle parti e che lo stesso diritto
 vivente  (sent.  n.  1/1997  ss.uu.  Corte  di  cassazione)  ha  reso
 impermeabile  proprio  rispetto   a tale specifica conseguenza.  Vale
 poi ribadire che il giudizio di congruita' concesso a  seguito  della
 sentenza  n.  313/1990  attiene  esclusivamente  alla quantificazione
 della singola pena da irrogare e non a tutti  gli  eventuali  effetti
 penali  conseguenti  ex  lege.    E' pur vero che la sensibilita' del
 giudice interpreta in modo estensivo le  ipotesi  di  rigetto,  nello
 spirito  di  evitare  patteggiamenti  in  casi  in  cui  un  giudizio
 ordinario comporterebbe, probabilmente, un risultato piu'  favorevole
 per l'imputato, ma non si ritiene che appartenga al sistema normativo
 vigente   il   potere  del  giudice  di  rigettare  la  richiesta  di
 applicazione della pena (congrua in se'), per il solo  fatto  di  non
 ritenere l'imputato meritevole dei benefici connessi al rito.
             La questione non e' manifestamente infondata
   Negare  che  la sentenza di patteggiamento sia titolo per la revoca
 della sospensione condizionale della pena, implica ritenere che  tale
 sentenza non contenga un accertamento di responsabilita'.  Il diritto
 vivente  nega tale natura alla sentenza ex art. 444 c.p.p., o meglio,
 ritiene che solo a seguito di una plena cognitio si sia in  grado  di
 affermare  con certezza una nuova responsabilita' penale che, facendo
 venir meno la prognosi di  ravvedimento  in  virtu'  della  quale  il
 beneficio  era  stato  concesso  per motivi rieducativi e di recupero
 sociale del condannato, produca la revoca di cui all'art.  168  comma
 1, n. 1, c.p..
 Pertanto  si ritiene che tale ricostruzione confligga con le seguenti
 norme della Costituzione:
     A) art. 13, primo comma, e 24, secondo comma  in  quanto  con  la
 sentenza  ex art. 444 c.p.p. la pena verrebbe applicata a chi non sia
 stato effettivamente riconosciuto autore di un reato; di  conseguenza
 l'irrogazione  di  una  pena  conseguirebbe alla mera richiesta delle
 parti e alla  verifica  solo  astratta  e  ipotetica  della  corretta
 qualificazione  del  fatto  e  della  sua  riferibilita' all'imputato
 richiedente, con cio' riconoscendo  un  diritto  alla  disponibilita'
 della liberta' personale e della difesa.
     B)  art.  25,  comma  2,  in  quanto  l'applicazione  della  pena
 conseguirebbe a una legge che sia entrata in vigore prima di un fatto
 che, peraltro, non si sa se sia stato effettivamente commesso da  chi
 subisce la punizione.
     C) art. 27, primo, secondo e terzo comma.
   Tale  articolo  collega  l'applicazione  della  pena ad un giudizio
 positivo di responsabilita' della singola persona a causa di una  sua
 azione  od  omissione.  Non  e'  prevista  nel nostro ordinamento una
 responsabilita' fittizia, presunta o virtuale:  se  e',  deve  essere
 reale  e riferita al caso concreto e alla persona precisa, cosi' come
 concreta e riferita a quella persona e' la pena che  viene  eseguita.
 La  pena  e'  effettiva  e deve essere ricollegata strettamente quale
 conseguenza dell'accertamento della responsabilita' di un reato.  Una
 pena non puo' essere applicata per il solo  fatto  che  le  parti  la
 richiedano  e  che  il fatto ipotizzato sia previsto dalla legge come
 reato.  Quanto, poi, al fine rieducativo  della  pena  si  richiamano
 tutte  le  osservazioni  gia' citate e contenute nella sentenza della
 Corte n. 313/1990,  sinteticamente  solo  richiamando  che  l'effetto
 rieducativo presuppone un soggetto colpevole.
     D) art. 101 secondo comma.
   L'indipendenza  del giudice ivi sancita, infatti, sarebbe vulnerata
 dal fatto che  l'emanazione  della  sua  sentenza  sarebbe  vincolata
 all'accordo  tra  p.m.  e imputato (eccezion fatta per l'accertamento
 delle  sole  condizioni  di  legittimita'  volute  ex  lege  e  della
 congruita'  - ipotetica - della pena), prescindendo del tutto dal suo
 libero  e  pieno  convincimento  e  da  un  accertamento  di   penale
 responsabilita'.
     E)  art.  102, primo comma, laddove pare riservare l'esercizio di
 funzioni  giurisdizionali  a  contenuto  decisorio  al  solo   organo
 giudicante, mentre nel caso in esame la decisione avrebbe mera natura
 ipotetica,  aleatoria e affidata prevalentemente alle parti (imputato
 e p.m.).
     F)  art.  111,  comma  1,  Cost., sembra non essere rispettato in
 quanto mancherebbe una motivazione effettiva che possa  dare  ragione
 del  convicimento  del  giudice,  atteso  il  materiale esiguo su cui
 andrebbe  a  fondarsi,  riducendola  a  mero  riscontro  formale   ed
 apparente.
   Tale  violazione  appare ancor piu' intensa allorche' si accosta al
 111 primo comma, anche l'art. 13 secondo comma, norma  specifica  per
 la motivazione di provvedimenti restrittivi della liberta' personale.
     G)  art.  3, Cost. sotto il profilo che nei confronti di soggetti
 che abbiano commesso i  medesimi  reati  e  ai  quali  sia  stata  in
 concreto   applicata  la  medesima  pena,  non  sia  riconosciuta  la
 colpevolezza degli uni rispetto agli altri  in  dipendenza  esclusiva
 dal  rito  prescelto, cosi' che, irragionevolmente, solo a chi avesse
 richiesto le maggiori garanzie di plena  cognitio  e  contraddittorio
 proprie  del  rito  ordinario,  sarebbe revocabile il beneficio della
 sospensione condizionale della pena precedentemente concesso.
   Riassumendo, il dubbio di  costituzionalita'  e'  rilevante  e  non
 manifestamente infondato:
     quanto all'art. 445 c.p.p. nella parte in cui prevede, secondo il
 diritto  vivente, che tra gli effetti dell'applicazione della pena su
 richiesta  vi  e'  la  non  revoca   della   precedente   sospensione
 condizionale  della  pena  (ove  sussistano  le  altre condizioni che
 legittimerebbero  la  revoca  a  seguito  di  condanna  con  il  rito
 ordinario);
     quanto   all'art.   168,   c.p.,   nella  parte  in  cui  prevede
 analogamente che la sentenza di patteggiamento non e' titolo  per  la
 revoca della sospensione condizionale.
                               P. Q. M.
   Visto ed applicato l'art.23, legge 11 marzo 1953 n. 87;
   Dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondato il dubbio di
 legittimita' costituzionale degli artt. 445 c.p.p. e 168  c.p.p.  nel
 senso  di  cui  in motivazione, in relazione agli artt. 3, 13 primo e
 secondo comma, 24 secondo comma, 25 secondo comma, 27 primo,  secondo
 e  terzo  comma,  101 secondo comma, 102 primo comma, 111 primo comma
 della Costituzione.
   Dispone la  sospensione  del  giudizio  in  corso    e  l'immediata
 trasmissione  degli  atti alla Corte costituzionale, ordinando  che a
 cura della cancelleria la  presente  ordinanza  sia  notificata  alle
 parti,  al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
     Siracusa, addi' 3 marzo 1998
                         Il pretore: Zappasodi
 98C0481