N. 328 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 febbraio 1998
N. 328 Ordinanza emessa il 13 febbraio 1998 dal pretore di Siracusa nel procedimento penale a carico di La Rocca Vittorio Processo penale - Applicazione della pena su richiesta - Effetti - Mancata previsione, secondo il diritto di precedente sospensione condizionale della pena - Disparita' di trattamento tra imputati - Lesione del diritto di difesa - Violazione dei principi di inviolabilita' della liberta', personale, di legalita', di personalita' della responsabilita' penale, di presunzione di non consapevolezza, del fine rieducativo della pena, di indipendenza del giudice, di riserva di giurisdizione e di obbligatorieta' di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. Pena - Sospensione condizionale della pena - Revoca di diritto a seguito di sentenza di applicazione della pena su richiesta - Mancata previsione - Disparita' di trattamento tra imputati - Lesione del diritto di difesa - Violazione dei principi di inviolabilita' della liberta' personale, di legalita', di personalita' della responsabilita' penale, di presunzione di non colpevolezza, del fine rieducativo della pena, di indipendenza del giudice, di riserva di giurisdizione e di obbligatorieta' di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. In subordine: processo penale - Sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti - Lamentata omessa pronuncia di responsabilita' dell'imputato - Disparita' di trattamento tra imputati - Lesione del diritto di difesa - Violazione dei principi di inviolabilita' della liberta' personale, di presunzione di non colpevolezza, del fine rieducativo della pena, di indipendenza del giudice, di riserva di giurisdizione e di obbligatorieta' di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. (C.P.P. 1988, artt. 444 e 445; c.p., art. 168). (Cost., artt. 3, 13, commi primo e secondo, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 27, comma primo, secondo e terzo, 101, comma secondo, 102, comma primo, e 111, comma primo).(GU n.19 del 13-5-1998 )
IL PRETORE Premesso che La Rocca Vittorio veniva tratto in arresto, unitamente a Cultraro Maurizio, in data 28 gennaio 1998 e che a seguito dell'udienza di convalida del 28 gennaio 1998 l'arresto era convalidato e veniva applicata nei suoi confronti la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla p.g.; Che a seguito di termine a difesa, alle udienze del 6 febbraio 1998, prima e del 13 febbraio 1998, poi, l'imputato personalmente e il suo difensore avanzavano richiesta di applicazione della pena nella misura finale di mesi quattro di reclusione e L. 400.000 di multa cosi' determinata: concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, pena base mesi sei di reclusione e L. 600.000 di multa, pena ridotta all'inflitto per il rito (senza subordinare tale richiesta alla sospensione condizionale); Che all'udienza del 13 febbraio 1998 il pubblico ministero prestava il proprio consenso a tale richesta; Considerato che la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e comparazione delle circostanze effettuate dalle parti appare corretta e che la pena determinata appare congrua all'effettiva entita' del fatto; Ritenuto che La Rocca Vittorio in data 10 maggio 1996 aveva gia' subito una sentenza di applicazone della pena ad anni uno e mesi sei di reclusione e L. 800.000 di multa per i reati di cui agli artt. 56, 110, 628 c.p. e legge n. 895/1967 emessa dal g.i.p. presso il tribunale di Caltagirone e in quella sede era stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena; Considerato che, pertanto, (ritenendo questo decidente corretta la prognosi negativa prospettata dalle parti circa la futura astensione da parte del La Rocca della commissione di ulteriori reati), in questa sede si rende attuale il problema della concreta operativita' nei suoi confronti della revoca di diritto del beneficio concessogli con la citata sentenza del g.i.p. presso il tribunale di Caltagirone, a norma dell'art. 168, comma 1, n. 1 c.p. a seguito dell'emissione, di una sentenza di "patteggiamento" nonche' della stessa natura del rito alternativo, previsto ex art. 444 c.p.p.; Solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale degli artt. 445 c.p.p. e 168 c.p. e, in via subordinata dell'art. 444 c.p.p., in relazione agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111, primo comma della Costituzione per i seguenti motivi. 1. - Con le sentenze risettivamente dell'8 maggio 1996 e del 26 febbraio 1997 la Corte di cassazione sezioni unite ha affermato che la sentenza emessa all'esito della procedura ex artt. 444 s. c.p.p. non puo costituire titolo idoneo alla revoca, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa, a norma dell'art. 168, comma 1, n. 1 c.p., non avendo naura di sentenza di condanna nella parte in cui prescinde dall'accertamento giudiziale del reato e dall'affermazione di responsabilita' dell'imputato. La suprema Corte nel motivare tale determinazione ha, in particolare, affermato che: tra le sentenze di condanna emesse a seguito del rito ordinario e quelle emesse ex artt. 444, ss. c.p.p. "la diversita' della loro genesi e dei loro conseguenti presupposti si dissolve di fronte ad una costante, essenziale caratteristica: in esse (sentenze di condanna), infatti, la pena e' sempre autonomamente disposta dal giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, e non gia' sulla base della sola contestazione del fatto-reato, bensi' dopo che si e' accertata e, quindi, dichiarata, la colpevolezza dell'accusato. Ed una volta individuata tale profonda differenza, apprezzabile anche in relazione ai requisiti formali e sostanziali di cosi' eterogenei modelli processuali, e' stato agevole dedurne che il provvedimento conclusivo dello speciale procedimento previsto dall'art. 444, c.p.p., non contenendo un accertamento completo sulla sussistenza del fatto reato e sulla sua effettiva riferibilita' ad un determinato soggetto, giammai avrebbe potuto giustificare la revoca della sospensione condizionale della pena, giacche' questa anche quando e' conseguente alla doverosa ricognizione di una decadenza dal beneficio avvenuta ope legis, in virtu' di quanto disposto dall'art. 168, comma 1, n. 1 c.p., postula sempre un accertamento dotato di quelle caratteristiche di completezza in ordine alla commissione del reato e, quindi, alla colpevolezza dell'imputato, accertamento che e' conseguibile solo mediante una sentenza pronunciata in esito ad un giudizio con plena cognitio del reato e della pena"; nella sentenza di "patteggiamento", "l'accertamento completo del fatto reato e della sua commissone da parte di un soggetto sono sostituiti dalla ricognizione dell'accordo intervenuto tra le parti sul merito del processo e sulla pena da applicare"; "il riconoscere di non possedere elementi utili, allo stato degli atti, per dimostrare l'insussistenza del reato contestato o, comunque, la propria innocenza, non puo' certo equivalere ad un riconoscimento implicito della propria colpevolezza"; nel procedimento speciale ex artt. 444, c.p.p. "ogni verifica deve esaurirsi nell'ambito dei risultati, sempre incompleti e provvisori, che l'indagine preliminare, nei limiti in cui e' stata eseguita dal pubblico ministero, puo', avere acquisito: ed in tale senso l'accertamento giudiziale non puo' che essere partecipe dei limiti che discendono oltre che dal suo intrinseco contenuto, soprattutto dalle modalita' con le quali tale contenuto e' stato al procedimento acquisito, e cioe' senza il prezioso contributo dialettico delle parti"; "la revoca del beneficio gia' concesso e' soltanto conseguente ad un sopravvenuto evento che pone nel nulla, per la sua indubbia sintomaticita', la prognosi di ravvedimento che era stata formulata nella sentenza che quel beneficio aveva concesso: e tale evento, dovendo necessariamente identificarsi nella commissione di un nuovo reato, non puo' essere supposto sulla base di una mera ipotesi, ma deve avere i connotati qualificanti della certezza processuale e, quindi, non puo' essere sottratto alla completezza di un accertamento giudiziale che ne' il procedimento previsto dall'art. 444 c.p.p., ne' la sentenza che questo procedimento conclude, sono in grado di assicurare". 2. - In tali sentenze la suprema Corte, pertanto, non si limita a introdurre in via interpretativa un ulteriore effetto premiale conseguente alla scelta del rito ex art. 444, c.p.p. non espressamente previsto per legge (in primis dall'art. 445 c.p.p.), bensi', per poter giungere alle conclusioni esposte, si sofferma ad esaminare e a delineare l'intera natura del rito speciale e della sentenza che lo conclude. Tali conclusioni interpretative, ribadite con le due ampie sentenze delle sezioni unite, costituiscono, pertanto diritto vivente che questo giudice ritiene si pongano in aperto contrasto con i principi sanciti nella Costituzione e con lo stesso orientamento espresso in materia dalla Corte costituzionale. Invero in passato la Corte, con la storica sentenza n. 313 del 1990, nel respingere la maggior parte delle censure sollevate (ad eccezione di quella che coinvolgeva l'art. 27, terzo comma e che significativamente comporto' la pronuncia di illegittimita' ben nota), aveva ricostruito la struttura e la natura del cd. "patteggiamento" in modo diametralmente opposto a quello oggi cosi' autorevolmente prospettato dalle ss.uu.. Nella sentenza n. 313/1990 la Corte aveva offerto un'interpretazione che, nel pieno rispetto della lettera della legge (contrariamente a quanto, come vedremo, hanno fatto le sezioni unite), portava l'istituto in esame ad armonizzarsi con il sistema costituzionale, pur mantenendone le sue peculiari caratteristiche di rito alternativo a scopo deflattivo. Le ss.uu. invece, espressamente, evidenziano tuttora "la struttura di un procedimento che, per potere avere concrete prospettive applicative in chiave deflattiva, non poteva non presentarsi con connotati di spiccata eccentricita' rispetto al sistema processuale, anche perche' privo di concrete radici nella nostra tradizione culturale e scientifica". Va peraltro verificato se tale asserita "eccentricita'" non sia in realta' la costruzione di un sistema che contrasta tout court con i principi fondamentali del nostro ordinamento. E' pertanto indubbio per questo decidente che, tale orientamento della suprema Corte di cassazione, da un e lato impone ai giudici di merito di uniformarsi ad esso (non rendendo operativa la revoca di diritto a seguito di sentenza di "patteggiamento"), e dall'altro, ripropone i medesimi dubbi sulla natura del rito e sulla sua compatibilita' all'ordinamento giuridico complessivo sancito in sede costituzionale e che erano stati posti prima della emissione della sentenza n. 3l3/1990. E' pertanto necessaria una rivisitazione dell'intero istituto a partire dallo specifico effetto della revoca della sospensione condizionale della pena. 3. - Le posizioni delle sezioni unite da un lato e della Corte costituzionale dall'altro, sono irriducibili ed il conflitto che ne nasce e' del tutto insanabile. Il tentativo di superamento da parte delle ss.uu.dell'asserito apparente conflitto e' solo formale, fa leva su caratteri meramente letterali sganciati dal contesto della motivazione e travisa la vera sostanza della citata pronuncia della Corte, la quale e' sempre fatta oggetto di esplicito richiamo ed adesione da parte delle successive ordinanze della Corte (cfr. per tutte ordinanza 4-19 marzo 1992, n. 116). E cio' e' facilmente evidenziabile mediante la citazione di significativi stralci di tale sentenza da porre in correlazione con quelli gia' trascritti delle recenti sentenze delle sezioni unite. Afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990: con riferimento alla prospettata violazione dell'art 101, primo comma, della Costituzione: "Non e' vero che i poteri del giudice abbiano carattere ''notarile''. Gia nell'esercitare il controllo sulla definizione giuridica dei fatti, il giudice non valuta soltanto la correttezza di un'operazione logico-giuridica ... il giudice trae il suo convincimento proprio dalle risultanze degli atti e non dal modo in cui le hanno valutate, ... e' sempre sulle risultanze che s'appunta il sindacato del giudice per la verifica e percio' non e' vero che il suo controllo s'arresti alla cornice di legittimita' ... cosi' come e' implicito che, il giudice non ha soltanto il potere-dovere di controllare la correttezza delle circostanze che le parti hanno ritenuto, ma puo' altresi' liberamente ravvisarne altre, tanto attenuanti che aggravanti: con esse diversamente condizionando anche l'eventuale giudizio di bilanciamento"; con riferimento alla prospettata violazione dell'art. 102, primo comma e 111, primo comma della Costituzione: "Va negato decisamente che nell'ipotesi di cui all'art. 444, c.p.p., il giudice non eserciti una funzione giurisdizionale ... va altresi' negato conseguentemente che nella sentenza di cui all'art. 444, c.p.p., non vi sia una motivazione che esprima il convincimento del giudice"; con riferimento alla prospettata violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, laddove vi sarebbe attribuzione di una pena a se stesso da parte dell'imputato, cosi' disponendo del diritto indisponibile della liberta' personale a prescindere dall'accertamento di una commissione di un fatto-reato: "Quanto detto esclude che il giudice resti estraneo aIla determinazione della pena ... l'accertamento diretto ad escludere che sussistano, acquisiti agli atti, elementi che negano la responsabilita' o la punibilita', integra una importante partecipazione del giudice all'indagine sulla responsabilita' ... quando sorga qualche perplessita' in ordine al senso effettivo della sua richiesta, il giudice ha ampia possibilita' di sincerarsene, disponendo la comparizione dell'imputato per poterlo personalmente sentire: anche questo e' un modo di accertare ... anche la decisione di cui all'art. 444, c.p.p., quando non e' decisione di proscioglimento, non puo' prescindere dalle prove della responsabilita' ... Resta quindi confermato che la essenzialita' della partecipazione del giudice alla decisione non e' soltanto formale ... cio' che non puo essere assolutamente condiviso e l'idea che l'imputato ''disponga'' della sua ''indisponibile'' liberta' personale per autolimitarla"; con rifermento all'art. 27 della Costituzione: "In effetti, nel nuovo ordinamento giuridico-processuale e' preponderante l'iniziativa delle parti nel settore probatorio: ma cio' non immuta affatto i principi, nemmeno nello speciale procedimento in esame, dove anzi il giudice e' in primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia gia' acquisita agli atti la prova che che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha consesso. Dimodoche', risultando negativa questa prima verifica, se l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della propria innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere l'applicazione della pena ed egli ha a disposizione le garanzie del rito ordinario. In altri termini, chi chiede. l'applicazione della pena vuol dire che rinuncia ad avvalersi della facolta' di contestare l'accusa, senza che cio' significhi violazione del principio di presunzione d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza ... bisogna riconoscere che la preclusione dello specifico controllo del giudice sulla concreta congruita' della pena puo' talvolta determinare una situazione di conflitto con il principio di cui al comma 3 dell'art. 27 della Costituzione", "... se la finalizzazione (della pena) venisse orientata verso quei diversi criteri (afflittivita', retributivita'), anziche' al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilita' e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarita' della sanzione. E' per questo che in uno Stato evoluto, la finalita' rieducativa non puo' essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena ...". Il procuratore generale presso la cassazione, in sede di requisitoria nel giudizio delle ss.uu. n. 1/1997, ha cosi' efficacemente riassunto la ratio decidendi della sentenza della Corte n. 313/1990: "L'ordinamento processuale vigente non conferisce effetti penali (qual e' quello da cui deriva la revoca della sospensione condizionale della pena) unicamente a provvedimenti messi in esito ad un giudizio svolto secondo il rito della plena cognitio, non essendo preclusa la configurabilita' in sede normativa ordinaria di moduli processuali diversi per l'accertamento della responsabilita' dell'imputato". Egli ha indicato come esempio il procedimento per decreto penale in cui l'irrevocabilita' della condanna consegue al mero silenzio dell'imputato e nel testo originario dell'art. 168, c.p. (laddove la revoca era prevista anche a seguito di condanne a pena pecuniaria era anch'esso pacificamente titolo per la revoca della sospensione condizionale della pena. 4. - In sintesi, la ricostruzione offerta dalla Corte di cassazione ss.uu. continua a ritenere la sussistenza di una sera "ipotesi" di reato e di colpevolezza di una persona accusata di averlo consesso, anche dopo l'emissione della sentenza di patteggiamento, mentre con la sentenza, in qualche modo e rispondendo alla necessita' di certezza del diritto, il conflitto espresso prima del processo, non puo' non risolversi giuridicamente e l'ipotesi iniziale deve trasformarsi in un dato di certezza giuridica. La Corte nella sentenza n. 313/1990, infatti, necessariamente ricollega la circostanza che una pena venga applicata al previo necessario accertamento che il soggetto che la subisce ne sia meritevole, cosi che tale pena possa coerentemente esplicare i fini rieducativi, preventivi e retributivi ad essa connaturati; tali finalita', per contro, non avrebbero concreta ragione di esistere nei confronti di chi sia ancora solo ipoteticamente colpevole e non si possa affermare abbia effettivamente commesso quel preciso reato per cui sconta una pena. Le sezioni unite, invece, muovono da un presupposto giuridico estraneo al nostro ordinamento, secondo il quale sarebbe plausibile la dissociazione tra accertamento di responsabilita' e l'irrogazione della pena, tra pronuncia di un giudizio e aderenza tendenziale alla realta', privilegiando in tal modo una costruzione giuridica in cui il dato fittizio prende il posto di quello reale, sganciata dalla doverosa verifica di corrispondenza con la realta' accertabile. La questione e rilevante Come gia' detto questo giudice solleva la questione allorche' si trova a dover decidere in ordine alla accoglibilita' di una richiesta di applicazione della pena, con conseguente possibile emissione di sentenza ex art. 444, c.p.p., ed inoltre ad un soggetto che aveva subito altra sentenza di applicazione della pena in data 10 maggio 1996 e nei cui confronti, pertanto, opererebbe la revoca di diritto disposta dall'art. 168, comma 1, n. 1 c.p. Questo giudice ritiene che a seguito del citato orientamento delle ss.uu. la disciplina attualmente vigente circa le sentenze idonee a produrre la revoca della sospensione condizionale della pena comporti la violazione delle norme costituzionali indicate e che cio' coinvolga nella suddetta censura l'intero istituto del patteggiamento cosi' strutturato nel diritto vivente. Cionondimeno, ritiene sufficiente e la richiede in via principale, una pronuncia della Corte sugli artt. 445, c.p.p. e 168 c.p. idonea a riportare l'istituto ad armonizzarsi con il sistema costituzionale, cosi' come indicato nella sentenza n. 313/1990. Solo in via subordinata ed allorche' la Corte ritenga insuperabile il giudizio di rilevanza in ordine alla questione sollevata in via principale, e allorche' la Corte non ritenga di prendere decisioni solo interpretative, si solleva la conseguenziale e logica questione di legittimita' dell'intero istituto del patteggiamento cosi' come strutturato nel diritto vigente a seguito delle citate sentenze delle ss.uu. Non ignora questo giudice le recenti ordinanze in cui codesta ecc.ma Corte ha arrestato la propria disamina della questione sollevata ritenendo la questione irrilevante "essendo precluso al giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale ogni intervento additivo in materia penale che si risolva in un trattamento sfavorevole per l'imputato" (cfr. per tutte ordinanza n. 297/1997 sul punto qui in esame). Si chiede, peraltro, alla Corte di voler riconsiderare tale sintetico diniego alla luce della sua stessa giurisprudenza e delle considerazioni che seguono. A) E' ben noto che la complessa vicenda in ordine all'ammissibilita' del sindacato di legittimita' delle norme penali di favore e' stata autorevolmente affrontata con la storica sentenza n. 148/1983. In tale pronuncia la Corte prende atto che, a voler seguire fino in fondo una rigida applicazione del criterio della rilevanza, "ne deriverebbero implicazioni assai gravi" e che "norme sicuramente applicabili nel giudizio a quo, rischierebbero di sfuggire ad ogni sindacato della Corte non essendo mai pregiudiziale la loro impugnazione; e la Corte stessa verrebbe in tal senso privata - quanto meno nei giudizi instaurati in via incidentale - di ogni strumento atto a garantire la preminenza della Costituzione sulla legislazione statale ordinaria". Tre sono stati i profili di rilevanza segnalati dalla Corte in giudizi attinenti norme penali di favore: "In primo luogo, l'eventuale accoglimento delle impugnative di norme siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali, i quali dovrebbero imperniarsi per effetto della pronuncia emessa dalla Corte, sul comma 1 dell'art. 2, c.p. (sorretto dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione) e non sulla sola disposizione annullata dalla Corte stessa"; "In secondo luogo, le norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento ... sicche' va confermato che si tratta di un problema inerente all'interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso per caso, nell'ambito delle rispettive competenze"; In terzo luogo, la tesi restrittiva muoverebbe da assunti ristretti ed angusti circa il tipo di pronunce adottabili dalla Corte, la quale "non e' vincolata in assoluto dalle posizioni interpretative del giudice che promuove l'incidente di costituzionalita'. In altre parole, non puo' escludersi a priori che il giudizio della Corte su una norma penale di favore si concluda con una sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi di cui in motivazione) o con una pronuncia comunque correttiva delle premesse esegetiche su cui si fosse fondata l'ordinanza di rimessione". Per il caso in esame si fanno semplicemente proprie tali autorevoli considerazioni, atteso che il giudizio richiesto alla Corte coinvolge principi cardine dell'ordinamento e che pertanto massima deve essere la preoccupazione di non istituire "zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile". B) A cio' si aggiunga che la stessa Corte ha gia' piu' volte dichiarato ammissibili (e a volte fondate) questioni di legittimita' costituzionale di leggi regionali che incidano in materia penale, laddove, a legislazione vigente, il giudice avrebbe dovuto assolvere l'imputato. C) In realta', si ritiene che nel caso in esame, non si tratti di estendere la portata di una norma penale (il reato rimane del tutto inalterato), bensi' di riconoscere esplicitamente, anche alla sentenza di patteggiamento il potere di dispiegare gli effetti propri della sentenza penale di condanna, cui la stessa e' espressamente equiparata ex art. 445, c.p.p., (fatti salvi gli effetti premiali gia' riconosciuti ex lege e tassativamente elencati). D) Ulteriore argomento che consentirebbe alla Corte di discostarsi dalla prospettazione delle sezioni unite penali mediante una pronuncia meramente interpretativa (come suggerito nella sentenza n. 148/1983 al terzo rilievo), e' costituito dal fatto che sezioni semplici della Corte di cassazione civile, nell'applicare il medesimo art. 445, c.p.p., ritengono tassativo l'elenco dei benefici connessi al rito alternativo in esame e, quanto al resto, lo considerano pienamente equiparabile ad una sentenza di condanna (come recita, peraltro la stessa lettera dell'ultima parte del primo comma). Si vedano ad esempio Cass. I, 12 aprile 1996 n. 3490 e Cass. I, 18 ottobre 1994 n. 8489, ove in relazione all'ineleggibilita' di chi sia stato condannato per determinati reati sancita dall'art. 15, legge 1990 n. 55 e succ. mod., espressamente sostiene che la sentenza di patteggiamento, "ancorche' non produttiva di taluni effetti tipici della sentenza di condanna (espressamente esclusi dal comma 1, dell'art. 445 c.p.p.) e' tuttavia idonea a comportare la sospensione dalla carica del consigliere comunale - a norma del citato art. 15 - quando porti applicazione di pena per uno dei reati ivi previsti, non rientrando detta sospensione nel novero delle pene accessorie". A fronte di tale differente orientamento, un giudizio della Corte nel merito dell'intero istituto risponderebbe, pertanto, a ragioni di eguaglianza. E) La stessa citata ordinanza della Corte n. 297/1997 indica due possibili varchi al proprio giudizio di inammissibilita'. La Corte afferma, infatti, che il proprio sindacato riemergerebbe laddove la norma sospettata di illegittimita' costituzionale, sia frutto "di una scelta irrazionale e non giustificata", risulti arbitraria sia la previsione che la regolamentazione di cause di estinzione del reato in relazione al disvalore ad esso assegnato e alla condotta tenuta dal reo. Premesso che la Corte utilizza termini quali "reo" e "disvalore" che le sezioni unite citate non ritengono neppure appartenere alla natura dell'accertamento della sentenza di patteggiamento, si segnalano i seguenti profili di irrazionalita' conseguenti all'avere le ss.uu. negato a tale sentenza qualunque effetto di accertamento di responsabilita' (e quindi idoneita' alla revoca ex art. 168, c.p.). 1. - E' pacifico che gli effetti della sentenza di patteggiamento siano elencati espressamente dall'art. 445 c.p.p. e che, quanto al resto e salvo espresse disposizioni di legge, la sentenza sia equiparata a una pronuncia di condanna: essa genera recidiva (v. anche Relazione al progetto preliminare), abitualita' e professionalita' nel reato; costituisce il precedente richiamato da singole norme incriminatrici, quali ad es. l'art. 707 c.p. 2. - Lo stesso art. 445 secondo comma c.p.p. prevede, a contrario, che l'applicazione di una pena detentiva condizionalmente sospesa, quand'anche siano passati i cinque anni ivi previsti per l'estinzione del reato, sia ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena; sul punto le ss.uu. non convincono laddove sostengono che i presupposti per la concessione di una sospensione condizionale della pena sarebbero di natura diversa rispetto a quelli richiesti per la revoca. Ed infatti la suprema Corte precisa che la pena applicata all'esito del "patteggiamento" legittimamente possa essere ostativa alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena, in quanto "applicando la pena", essa, sotto tale ed unico profilo, e' legittimamente equiparabile a una pronuncia di condanna. A seguire l'impostazione delle ss.uu. le conseguenze sarebbero invero arbitrarie in quanto si pone quale presupposto impeditivo del beneficio il solo "avere subito l'applicazione di una pena", quando per contro, la sospensione condizionale e' volta a fini preventivi ed esprime un giudizio di prognosi sul futuro comportamento di un reo. Nel limitare la valenza della sentenza di patteggiamento ad una fittizia ed ipotetica affermazione dell'attribuzione all'imputato del reato contestato con applicazione della pena, del tutto incongrua e incomprensibile diventa, quindi, la valutazione dei presupposti formali e sostanziali richiesta per la concessione della sospensione condizionale della pena: fittizia ed ipotetica sarebbe anch'essa, in quanto nessuna concreta esigenza preventiva e dissuasiva per il futuro sarebbe formulabile, coerentemente a tali presupposti, nei confronti di chi non si ritiene colpevole di avere commesso alcun reato. 3. - Lo stesso art. 445, comma 2, c.p.p., prevede che "Il reato e' estinto se nel termine di cinque anni, quando la sentenza concerne un delitto, e di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l'imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole". Tale formulazione e' in tutto analoga al meccanismo del beneficio della sospensione condizionale della pena: l'estinzione non si verifica se l'imputato commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole. E cosa dire nel caso in cui il soggetto richieda sempre l'applicazione della pena anche per delitti ascrittigli entro il quinquennio? L'interpretazione della Corte indirettamente coinvolge anche l'applicazione di questa norma, implicitamente limitandone l'applicazione solo ai casi in cui si possa "effettivamente" dire che ha commesso un reato, ovvero solo quando vi sia plena cognitio? Del resto gli agganci letterali valorizzati delle ss.uu. sono identici. In tutto cio' vi e' qualcosa di aberrante, atteso che quel che voleva essera solo un rito deflattivo, ben puo' essere strumentalmente utilizzato per lo svuotamento e l'inoperativita', ad esempio, di due norme: l'art. 445 comma 2, c.p.p. e l'art. 63 c.p. Negare l'effetto della revoca della sospensione condizionale della pena a seguito dell'opzione di un rito alternativo, infatti, significa negare al giudice la possibilita' di verificare se la prognosi espressa in sede di concessione del beneficio sia stata osservata; e' inoltre svuotare di significato l'intero istituto della sospensione condizionale della pena, la quale si basa su un fine preventivo, che sarebbe del tutto vanificato ex ante dalla sicurezza dell'impunita' per tale primo reato: patteggiando sempre, anche la commissione di un ulteriore reato non comporterebbe la revoca del beneficio. 4. - La ricostruzione dell'istituto offerta dalle ss.uu., nonostante un tentativo meramente letterale di aggirare l'ostacolo, si pone poi in aperto contrasto con i presupposti della sentenza n. 155 del 1996, cosi' inserendo un ulteriore elemento di irrazionalita' nel sistema. Nella sentenza n. 155/1996 (come del resto nelle pronunce similari), la Corte ha dichiarato che l'estensione dell'incompatibilita' dei g.i.p. dev'essere pronunciata rispetto alla decisione sulla richiesta di applicazione della pena concordata dalle parti "la quale integra un vero e proprio giudizio". Cio' perche' "nel procedimento previsto dagli artt. 444, s. c.p.p. il giudice, pur essendo il suo compito condizionato dall'accordo intervenuto tra imputato e p.m. e, quindi, in questo senso circoscritto e indirizzato, e' chiamato infatti a svolgere valutazioni fondate direttamente sulle circostanze in atti, aventi natura di giudizio non di mera legittimita', ma anche di merito, concernenti tanto la prospettazione del caso contenuta nella richiesta di parte, quanto la responsabilita' dell'imputato, quanto, infine, la pena". E) La Corte sempre nella citata ordinanza n. 297/1997, afferma inoltre che "la disposizione censurata e' coerente con il carattere premiale del "patteggiamento", ed e' suscettibile di controllo giurisdizionale nel momento in cui al giudice chiamato a pronunciare sentenza ex art. 444 c.p.p. e' imposta una valutazione della "congruita'" del trattamento sanzionatorio complessivo negoziato dalle "parti", e "che, in particolare, la conseguenza - prospettata dal giudice remittente - di un ricorso al patteggiamento per un numero indeterminato di volte, con la conseguenza che le pene non sarebbero mai eseguite, e' priva di fondamento, in quanto, da un lato, la richiesta di applicazione della pena e' condizionata in via generale al consenso del pubblico ministero, dall'altro, ove sia subordinata alla concessione della sospensione condizionale della pena, il giudice, se ritiene che il beneficio non possa essere concesso, rigetta la richiesta a norma dell'art. 444, comma 3, c.p.p.". Sembra si intravveda in tale prospettazione il suggerimento della Corte al giudice di merito (vincolato quanto all'interpretazione dell'art. 168 c.p. all'orientamento delle ss.uu.) di rigettare le richieste di applicazione della pena avanzate da soggetti "non meritevoli" del regime generale degli effetti premiali connessi al patteggiamento, operando un rigetto sulla base di un giudizio di non congruita' "del trattamento sanzionatorio complessivo" (l'Avvocatura dello Stato in quella sede parlava addirittura di "opportunita' del beneficio"). Non si vede peraltro, in base a quale norma sia stato riconosciuto un tale e penetrante intervento del giudice circa la scelta del rito che, in genere, spetta all'accordo delle parti. La stessa sentenza della Corte n. 313/1990 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 444, c.p.p. nella parte in cui non prevede che, ai fini e ai limiti di cui all'art. 27 terzo comma Cost., il giudice possa valutare la congruita' della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione. Il sistema normativo attualmente vigente non consente al giudice di condizionare il proprio giudizio sulla meritevolezza del rito del "patteggiamento" o sulla congruita' del complessivo trattamento sanzionatorio a un evento, revoca della precedente sospensione condizionale, che appare al di fuori della disponibilita' delle parti e che lo stesso diritto vivente (sentenza n. 1/1997 ss.uu. Corte di cassazione) ha reso impermeabile proprio rispetto a tale specifica conseguenza. Vale poi ribadire che il giudizio di congruita' concesso a seguito della sentenza n. 313/1990 attiene esclusivamente alla quantificazione della singola pena da irrogare e non a tutti gli eventuali effetti penali conseguenti ex lege. E' pur vero che la sensibilita' del giudice interpreta in modo estensivo le ipotesi di rigetto, nello spirito di evitare patteggiamenti in casi in cui un giudizio ordinario comporterebbe, probabilmente, un risultato piu' favorevole per l'imputato, ma non si ritiene che appartenga al sistema normativo vigente il potere del giudice di rigettare la richiesta di applicazione della pena (congrua in se'), per il solo fatto di non ritenere l'imputato meritevole dei benefici connessi al rito. Come sopra gia' osservato, nel caso, peraltro, in cui la ecc.ma Corte ritenga che il diritto vivente in materia di definizione degli effetti della sentenza ex art. 444, c.p.p. sia di fatto inattaccabile da un giudizio di legittimita' costituzionale, appare necessariamente coinvolto dal giudizio di verifica di costituzionalita' l'intero rito alternativo del "patteggiamento". Sotto tale profilo e' evidente la rilevanza della questione sollevata essendo chiamato questo giudice a pronunciarsi su una richiesta congiunta di applicazione della pena e, in ogni caso, si richiama quanto sopra appena esposto. La questione non e' manifestamente infondata Negare che la sentenza di patteggiamento sia titolo per la revoca della sospensione condizionale della pena, implica ritenere che tale sentenza non contenga un accertamento di responsabilita'. Il diritto vivente nega tale natura alla sentenza ex art. 444, c.p.p., o meglio, ritiene che solo a seguito di una plena cognitio si sia in grado di affermare con certezza una nuova responsabilita' penale che, facendo venir meno la prognosi di ravvedimento in virtu' della quale il beneficio era stato concesso per motivi rieducativi e di recupero sociale del condannato, produca la revoca di cui all'art. 168 comma 1, n. 1, c.p. Pertanto si ritiene che tale ricostruzione confligga con le seguenti norme della Costituzione: A) art. 13, primo comma, e 24, secondo comma in quanto con la sentenza ex art. 444 c.p.p. la pena verrebbe applicata a chi non sia stato effettivamente riconosciuto autore di un reato; di conseguenza l'irrogazione di una pena conseguirebbe alla mera richiesta delle parti e alla verifica solo astratta e ipotetica della corretta qualificazione del fatto e della sua riferibilita' all'imputato richiedente, con cio' riconoscendo un diritto alla disponibilita' della liberta' personale e della difesa. B) art. 25, secondo comma, in quanto l'applicazione della pena conseguirebbe a una legge che sia entrata in vigore prima di un fatto che, peraltro, non si sa se sia stato effettivamente commesso da chi subisce la punizione. C) art. 27, primo, secondo e terzo comma. Tale articolo collega l'applicazione della pena ad un giudizio positivo di responsabilita' della singola persona a causa di una sua azione od omissione. Non e' prevista nel nostro ordinamento una responsabilita' fittizia, presunta o virtuale: se e', deve essere reale e riferita al caso concreto e alla persona precisa, cosi' come concreta e riferita a quella persona e' la pena che viene eseguita. La pena e' effettiva e deve essere ricollegata strettamente quale conseguenza dell'accertamento della responsabilita' di un reato. Una pena non puo' essere applicata per il solo fatto che le parti la richiedano e che il fatto ipotizzato sia previsto dalla legge come reato. Quanto, poi, al fine rieducativo della pena si richiamano tutte le osservazioni gia' citate e contenute nella sentenza della Corte n. 313/1990, sinteticamente solo richiamando che l'effetto rieducativo presuppone un soggetto colpevole. D) art. 101, secondo comma. L'indipendenza del giudice ivi sancita, infatti, sarebbe vulnerata dal fatto che l'emanazione della sua sentenza sarebbe vincolata all'accordo tra p.m. e imputato (eccezion fatta per l'accertamento delle sole condizioni di legittimita' volute ex lege e della congruita' - ipotetica - della pena), prescindendo del tutto dal suo libero e pieno convincimento e da un accertamento di penale responsabilita'. E) art. 102, primo comma, laddove pare riservare l'esercizio di funzioni giurisdizionali a contenuto decisorio al solo organo giudicante, mentre nel caso in esame la decisione avrebbe mera natura ipotetica, aleatoria e affidata prevalentemente alle parti (imputato e p.m.). F) art. 111, primo comma della Costituzione, sembra non essere rispettato in quanto mancherebbe una motivazione effettiva che possa dare ragione del convicimento del giudice, atteso il materiale esiguo su cui andrebbe a fondarsi, riducendola a mero riscontro formale ed apparente. Tale violazione appare ancor piu' intensa allorche' si accosta al 111, primo comma, anche l'art. 13, secondo comma, norma specifica per la motivazione di provvedimenti restrittivi della liberta' personale. G) art. 3, Cost. sotto il profilo che nei confronti di soggetti che abbiano commesso i medesimi reati e ai quali sia stata in concreto applicata la medesima pena, non sia riconosciuta la colpevolezza degli uni rispetto agli altri in dipendenza esclusiva dal rito prescelto, cosi' che, irragionevolmente, solo a chi avesse richiesto le maggiori garanzie di plena cognitio e contraddittorio proprie del rito ordinario, sarebbe revocabile il beneficio della sospensione condizionale della pena precedentemente concesso. Riassumendo, il dubbio di costituzionalita' e' rilevante e non manifestamente infondato: quanto all'art. 445, c.p.p. nella parte in cui prevede, secondo il diritto vivente, che tra gli effetti dell'applicazione della pena su richiesta vi e' la non revoca della precedente sospensione condizionale della pena (ove sussistano le altre condizioni che legittimerebbero la revoca a seguito di condanna con il rito ordinario); quanto all'art. 168, c.p., nella parte in cui prevede analogamente che la sentenza di patteggiamento non e' titolo per la revoca della sospensione condizionale; quanto all'art. 444, c.p.p., (in subordine), in quanto la sentenza di patteggiamento prescinde dall'accertamento giudiziale del reato e dell'affermazione di responsabilita' dell'imputato.
P. Q. M. Visto ed applicato l'art.23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di legittimita' costituzionale degli artt. 445, c.p.p. e 168, c.p., nonche' dell'art. 444, c.p.p., nel senso di cui in motivazione, in relazione agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111, primo comma, della Costituzione; Dispone la sospensione del giudizio in corso e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ordinando che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Siracusa, addi' 13 febbraio 1998 Il pretore: Zappasodi 98C0509