N. 378 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 marzo 1998

                                N. 378
  Ordinanza  emessa  il  10  marzo  1998  dal tribunale di Palermo nel
 procedimento penale a carico di Cascio Ermanno ed altri
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Lettura  dei  verbali  delle dichiarazioni rese nel corso delle
    indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo  l'accordo
    delle  parti - Irragionevole disparita' di trattamento rispetto al
    regime delle dichiarazioni divenute irripetibili  per  circostanze
    oggettive,  nonche'  rispetto  al  regime  delle dichiarazioni del
    testimone - Lesione del diritto di difesa  della  parte  civile  o
    dell'imputato   -   Violazione  dei  principi  di  obbligatorieta'
    dell'azione penale e di indipendenza del giudice.
 Ovvero: Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in
    provvedimento connesso - Possibilita' di avvalersi della  facolta'
    di  non  rispondere  -  Irragionevole  disparita'  di  trattamento
    rispetto ad ipotesi anologhe - Lesione del diritto di difesa della
    parte  civile  o  dell'imputato  -  Violazione  dei  principi   di
    obbligatorieta' penale e di indipendenza del giudice.
 (C.P.P.  1988,  artt.  210, comma 4, e 513, comma 2, modificato dalla
    legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, 101,  102,  primo  comma,  111  e
    112).
(GU n.22 del 3-6-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha   pronunziato   la   seguente   ordinanza   sulla  eccezione  di
 illegittimita'   costituzionale   dell'art.   513,   c.p.p.,    nella
 formulazione  novellata  dall'art.  1,  legge 7 agosto 1997, n. 267 e
 dell'art. 210, comma 4, c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24, 25,
 101,  102,  111  e  112  della  Costituzione,  sollevata   dal   p.m.
 all'udienza del 26 febbraio 1998.
                             O s s e r v a
   Preliminarmente   in  ordine  alla  rilevanza  della  questione  di
 costituzionalita' dell'art. 513, c.p.p. e 210, comma  4,  c.p.p.  nel
 presente procedimento.
   Va  premesso  che  l'odierno  procedimento  nei  confronti di Scoma
 Giuseppe + altri attiene ad una serie di reati di abuso  d'ufficio  e
 corruzione  compiuti da p.u. in concorso con privati, in relazione al
 convenzionamento con  l'assessorato  comunale  Attivita'  sociali  di
 scuole  private,  per l'assistenza e il recupero scolastico di minori
 indigenti e a rischio dell'area metropolitana.
   Inoltre, veniva contestato allo Scoma,  assessore  pro-tempore,  in
 concorso   con   Di  Martino,  Chiummo,  Bonanno  (fatto  oggetto  di
 procedimento  in  origine  separato,  ma  riunito  in  sede  di  atti
 preliminari  al  dibattimento, all'originario processo), un ulteriore
 fatto  di  corruzione  aggravata,  connesso  alla  consegna   di   L.
 25.000.000,  quale quota parte del prezzo di L. 50.000.000, richiesto
 dallo  Scoma  per  il  rilascio  dell'autorizzazione   comunale   per
 l'esercizio,  ad  opera dell'associazione A.S.C.S., nella titolarita'
 di Di Martino e Chiummo, dell'attivita' scolastica nei  confronti  di
 minori  indigenti,  in un immobile edificato su un terreno adibito ad
 edilizia scolastica e di proprieta' di  Pennino  Gioacchino,  attuale
 collaboratore  di  giustizia.  Questi  in particolare nel corso delle
 indagini  preliminari,  secondo  quanto  desumibile  dalla  relazione
 illustrativa  del  p.m.  sui  fatti  del  processo e dall'esposizione
 introduttiva circa le  fonti  di  prova,  aveva  rivelato  l'episodio
 predetto, cui era interessato, in ragione della proprieta' dell'aerea
 e  dell'immobile,  da  adibire ad uso scolastico, locato appunto alla
 A.S.C.S.
   All'udienza del 18 febbraio 1998 il  Pennino,  chiamato  a  rendere
 l'esame  in  questo  procedimento,  quale imputato di reato connesso,
 giusta richiesta del p.m. in data  30  aprile  1996  e  ordinanza  di
 questo  collegio ammissiva di prova in data 4 marzo 1997, si avvaleva
 della facolta' di non rispondere.
   Il p.m. quindi richiedeva la lettura e la conseguente  acquisizione
 dei  verbali  degli  interrogatori  resi  dal Pennino nel corso delle
 indagini preliminari, ai sensi dell'art. 513,  comma  2,  c.p.p.;  le
 difese negavano il loro consenso alla lettura.
   Il  semplice  richiamo alla vicenda processuale in esame attesta la
 rilevanza della questione di costituzionalita'  sollevata  dal  p.m.,
 posto  che il rifiuto di rispondere dell'imputato di reato connesso e
 l'assenza del consenso delle parti all'acquisizione delle  precedenti
 dichiarazioni  dello  stesso, impedisce l'acquisizione degli elementi
 probatori  desumibili  dalla  predetta  fonte  di  prova  e  la  loro
 successiva  utilizzazione da parte di questo collegio, in ossequio ai
 canoni interpretativi dell'art. 192, c.p.p.
   L'applicazione di questi  ultimi  infatti  presuppone  comunque  la
 legittima  acquisizione  al  dibattimento  del  materiale probatorio,
 desumibile dall'esame dell'imputato di reato  connesso.  Deve  quindi
 ritenersi   che   la  predetta  situazione  processuale  (rifiuto  di
 rispondere dell'imputato di reato connesso e opposizione delle  parti
 alla  lettura  dei  precedenti verbali) abbia impedito al collegio di
 acquisire e di  esaminare  una  fonte  di  prova,  la  cui  rilevanza
 discende  dalla  stretta  correlazione tra l'informazione probatoria,
 asseritamente deducibile dalla dichiarazione  del  Pennino  (si  veda
 articolato  di  prove  del  p.m. e relazione introduttiva) e il fatto
 contestato  agli  imputati, sussunto entro lo schema tipico dell'art.
 319, c.p., rimesso alla cognizione del collegio.
   La rilevanza della questione di  legittimita'  sollevata  dal  p.m.
 appare  altresi'  evidente  in  forza  della  soggezione del presente
 procedimento alla disciplina dell'art. 513,  c.p.p.,  come  novellato
 con  legge n.   267/1997. Infatti, sebbene il processo fosse in corso
 alla data di entrata in vigore della nuova disposizione, tuttavia non
 si era ancora proceduto all'esame dell'imputato  di  reato  connesso,
 ne'   era   stata  disposta  comunque  la  lettura  delle  precedenti
 dichiarazioni  dello  stesso,  condizioni  entrambe  richieste  quali
 presupposti   indefettibili   dall'art.  6  della  stessa  legge  per
 l'applicazione del  regime  transitorio.    Giova  in  tal  senso  il
 richiamo al tenore letterale dell'art. 6, legge n. 267/1997, donde si
 evince   come   non  rilevi  ai  fini  dell'applicazione  del  regime
 transitorio, la mera introduzione della fonte di prova, a mezzo della
 richiesta della parte processuale, dell'esame dell'imputato di  reato
 connesso, ma sia necessaria l'avvenuta acquisizione dei verbali delle
 dichiarazioni.
   Di  conseguenza,  in  virtu' del generale principio procedurale del
 tempus regit actum deve ritenersi  che  nella  fattispecie  in  esame
 trovi  esclusiva  applicazione  l'art.  513,  comma  2,  c.p.p., come
 novellato dall'art. 1, legge n. 267/1997.
   Sulla   non   manifesta    infondatezza    della    questione    di
 costituzionalita'  dell'art.  513, commi 1 e 2, c.p.p., 210, comma 4,
 in relazione agli artt. 3, 24, comma primo, 25, comma  secondo,  101,
 comma  secondo,  102,  comma  primo,  111,  comma  primo,  112  della
 Costituzione.
   La riforma dell'art. 513, comma 2, c.p.p. subordina  l'acquisizione
 delle   dichiarazioni  in  precedenza  rese  dall'imputato  di  reato
 connesso, non esaminato in dibattimento, alla presenza di circostanze
 imprevedibili e  sopravvenute  che  appunto  rendano  impossibile  la
 presenza  in dibattimento ovvero l'esame dell'imputato. Al contrario,
 qualora l'imputato di reato connesso si avvalga della facolta' di non
 rispondere,  l'acquisizione  delle  precedenti  dichiarazioni   resta
 subordinata al consenso delle parti.
   In  tal  modo,  a  giudizio  del  collegio,  risulta normativamente
 reintrodotto un  vizio  di  manifesta  irragionevolezza  della  norma
 processuale,  gia'  censurato dalla Corte costituzionale con sentenza
 n. 254/1992,  che  aveva  affermato  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  513,  c.p.p., nell'originaria formulazione, nella parte in
 cui non prevedeva che il giudice procedente, sentite  le  parti,  non
 disponesse  la  lettura dei verbali delle dichiarazioni dell'imputato
 di reato connesso,  che  si  fosse  avvalso  della  facolta'  di  non
 rispondere.  La  conclusione della Corte era ancorata al fondamentale
 principio processuale di conservazione degli atti e  delle  fonti  di
 prova, a sua volta strumentale alla salvaguardia dell'esercizio della
 funzione  giurisdizionale,  costituzionalmente  rilevante,  e percio'
 prevalente  sul  principio  ispiratore  del  nuovo  codice  di   rito
 dell'oralita'  del  processo, costituente di certo un principio guida
 per il legislatore e  per  l'interprete,  ma  non  costituzionalmente
 garantito  e quindi destinato a soccombere o comunque ad affievolirsi
 nelle ipotesi  eccezionali  di  irripetibilita'  originaria  o  anche
 sopravvenuta dell'atto istruttorio.
    Sul  solco  di  tale pronunzia, si inseriscono anche le successive
 decisioni della Corte (n. 255/1992 e n. 179/1994), che esplicitano la
 rilevanza costituzionale del principio della "non  dispersione  degli
 elementi di prova non compiutamente acquisibili con il metodo orale",
 individuato  dal  legislatore  del  1989,  quale strumento dialettico
 principe, ma non esclusivo, per la formazione della prova.
   Orbene, proprio muovendo dalla superiore premessa  e  dall'analisi,
 alla   stregua  di  essa,  della  nuova  disposizione  normativa,  si
 individua la prima censura di irragionevolezza dell'art.  513,  comma
 2,   c.p.p.,  come  novellato  nel  luglio  del  1997,  che  sancisce
 l'impossibilita' di acquisizione e la conseguente definitiva  perdita
 di  efficacia probatoria (in mancanza del consenso delle parti) delle
 precedenti dichiarazioni dell'imputato di reato connesso, che si  sia
 rifiutato  di  rispondere  al  dibattimento,  a  differenza di quanto
 accade per le dichiarazioni  divenute  irripetibili  per  circostanze
 oggettive.    Il  diverso regime introdotto dal legislatore contrasta
 infatti con il precedente insegnamento  del  giudice  delle  leggi  e
 persino  con  lo  stesso  "diritto  vivente"  derivato  dalla  prassi
 interpretativa dei giudici di legittimita'  e  di  merito,  che,  nel
 corso di questi anni, ha operato un costante sforzo di ragguaglio tra
 le ipotesi di irripetibilita' originaria e derivata dell'atto, fino a
 comprendere  nell'ultima  nozione  anche  il  rifiuto  di  rispondere
 dell'imputato  di  reato  connesso.  Invero,  la  nuova  disposizione
 introduce   altresi'   un'ulteriore   irragionevole   diversita'   di
 trattamento delle dichiarazioni rese dall'imputato di reato  connesso
 rispetto  a  quelle rese dal testimone (rectius persona informata dei
 fatti) nel corso delle indagini preliminari,  dichiarazioni  che,  ex
 art. 512, c.p.p., sono comunque ricuperabili al dibattimento anche in
 assenza  di consenso di una delle parti, se divenute irripetibili per
 fatti o "circostanze  imprevedibili",  tra  le  quali  va  certamente
 ricompreso anche l'irremovibile rifiuto del teste a deporre, malgrado
 la   soggezione  alla  sanzione  penale  prevista  per  il  testimone
 reticente.
   L'irragionevolezza del diverso trattamento riservato dal codice  di
 rito alle due ipotesi, appare vieppiu' stridente, ove si consideri la
 comune natura di elemento di prova delle dichiarazioni del teste e di
 quelle  dell'imputato  di  reato  connesso, e soprattutto la maggiore
 cautela  che  l'ordinamento  impone  al  giudice  nella   valutazione
 probatoria  della  chiamata  di correo (art. 192, comma 3, c.p.p.), a
 differenza della  testimonianza,  immediatamente  utilizzabile  quale
 prova  diretta  del  fatto  per  cui  si  procede, e cio' malgrado le
 dichiarazioni  del  teste  non  abbiano  potuto  formare  oggetto  di
 controesame.
   Ancor   piu'   stridente  risulta  l'irragionevolezza  della  nuova
 disposizione, ove si  consideri  la  possibilita'  che  l'ordinamento
 consente  di  acquisire,  attraverso  l'istituto  delle contestazioni
 (art. 500, c.p.p.), le dichiarazioni precedenti rese dall'imputato di
 reato connesso che, dopo avere acconsentito a  rendere  l'esame,  nel
 corso del dibattimento si rifiuti di rispondere a specifiche domande.
   Neppure  in  contrario  giova  il richiamo alla peculiare posizione
 dell'imputato di reato connesso a norma dell'art.  210,  c.p.p.,  cui
 l'ordinamento  appunto  riconosce, quale fondamentale diritto, quello
 di non essere obbligato a rispondere. La norma in  questione  infatti
 e'  ispirata  alla  positivizzazione  della  moderna  conquista della
 civilta' giuridica costituita dal principio nemo tenetur se detegere,
 che  tuttavia  attiene  al  fondamentale  diritto della persona a non
 pregiudicare la propria personale posizione processuale e  non  certo
 quella   di   eventuali   correi,   nei   cui  confronti  si  proceda
 separatamente, salva comunque l'incriminabilita' per le dichiarazioni
 falsamente e volontariamente accusatorie contro terzi.
   Ora, se e' evidente che gli  accusati  hanno  interesse  e  diritto
 all'esame   dibattimentale   dell'accusatore,   quale   strumento  di
 dialettica processuale  maggiormente  idoneo  alla  formazione  della
 prova  pertinente  al  fatto  rimesso  alla  cognizione  del giudice,
 tuttavia e' altrettanto evidente che il  rifiuto  di  rispondere  del
 chiamante  in  correita',  costituente  un  evento comunque sempre in
 concreto imprevedibile, non puo' pregiudicare il  diritto  di  difesa
 della  parte  civile o dello stesso imputato che, avendone interesse,
 abbia  richiesto  l'esame  (art.  24   Cost.),   ovvero   l'esercizio
 obbligatorio  dell'azione  penale  per  la  parte  pubblica (art. 112
 Cost.), ovvero paralizzare la cognizione del giudice (art.  101,  111
 Cost.),  cui  lo stesso sistema processuale ha riconosciuto poteri di
 intervento  ex  officio  per  l'introduzione  di  mezzi  di  prova  e
 l'acquisizione  di  ulteriori  elementi  di  convincimento (art. 507,
 c.p.p.).
   L'irragionevolezza della  nuova  disciplina  e  la  violazione  dei
 predetti  diritti costituzionali trova poi la sua massima espressione
 nella obiettiva introduzione,  a  mezzo  del  nuovo  sistema,  di  un
 diverso  regime  di  utilizzazione della fonte di prova rappresentata
 dalla dichiarazione dell'imputato di  reato  connesso,  utilizzazione
 che  risulta  massima  nel  corso  delle indagini preliminari e nella
 eventuale  fase  cautelare  del  procedimento,  ma  suscettibile   di
 diminuzione   successiva  per  il  mero  rifiuto  di  rispondere  del
 chiamante nel corso del dibattimento.  La diversificazione del regime
 di utilizzazione della dichiarazione dell'imputato di reato connesso,
 invero, oltre a frustrare nei fatti l'esercizio  dell'azione  penale,
 finisce  con  il  rendere praticamente impossibile la stessa prognosi
 della parte  pubblica  in  ordine  alla  sostenibilita'  in  giudizio
 dell'accusa  (artt. 125, disp. att. c.p.p.)  e la decisione cautelare
 del giudice chiamato  all'adozione  di  misure  coercitive  in  epoca
 anteriore  all'esame dibattimentale del coimputato, poiche' impedisce
 l'obiettiva valutazione prognostica circa l'attitudine degli elementi
 gia'  raccolti  ai  fini  della  declaratoria  di  colpevolezza   nel
 dibattimento,  richiesta  dall'art. 273, c.p.p., nell'interpretazione
 maturata dal c.d. "diritto vivente".
   Per quanto riguarda inoltre il riferimento  ulteriore  operato  dal
 p.m.  nella fattispecie alle minacce assertamente subite dal Pennino,
 che lo avrebbero indotto al rifiuto dell'esame, va rilevato  che  non
 risultano  acquisiti nel presente procedimento elementi obiettivi che
 consentano di correlare  specificamente  il  rifiuto  del  Pennino  a
 minacce  o  pressioni  di qualsiasi tipo, finalizzate a impedirgli di
 rendere  l'esame  richiesto  dal  p.m.  nel  presente  processo.   Di
 conseguenza,  il  richiamo  alle  suddette  minacce appare allo stato
 irrilevante ai fini della dedotta eccezione.
   Tuttavia, per le considerazioni generali sopra svolte, al  fine  di
 evitare  una  palese  violazione  dei  predetti canoni costituzionali
 (artt. 3, 24, 101, 111, 112 Cost.), non residua altra  soluzione  che
 quella  di riconoscere l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513,
 comma 2, c.p.p., nella parte  in  cui  subordina  l'acquisizione  dei
 verbali   delle   precedenti  dichiarazioni  dell'imputato  di  reato
 connesso  al  consenso  delle  parti,  ovvero,  nell'ipotesi  in  cui
 comunque   si   volesse   privilegiare  l'esame  incrociato  in  sede
 dibattimentale del chiamante, per una piu' efficace salvaguardia  del
 contraddittorio  tra  le  parti  (principio  tuttavia non inteso come
 costituzionalmente  rilevante  dalla  Corte  costituzionale  con   le
 precedenti  pronunzie), sancire l'illegittimita' dell'art. 210, comma
 4,  c.p.p.,  nella  parte  in  cui  consente  all'imputato  di  reato
 connesso,  nei  cui  confronti  si  sia  proceduto  separatamente, di
 avvalersi della facolta' di non rispondere anche  con  riferimento  a
 temi  di  prova  relativi  alla  posizione  processuale  di  soggetti
 diversi, imputati del medesimo fatto ovvero di fatti connessi ex art.
 12, c.p.p., o comunque probatoriamente
  collegati.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 134 Cost. e 23, legge 11 marzo 1953, n.  87,  ritenuta
 la rilevanza e la non manifesta infondatezza;
   In accoglimento della richiesta del p.m.;
   Solleva  per violazione degli artt. 3, 24, comma secondo, 101, 102,
 comma primo, 111, 112 Cost., questione di legittimita' costituzionale
 degli artt. 210, comma 4 e 513,  comma  2,  c.p.p.,  come  modificato
 dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267;
   Dispone  la  trasmissione  degli  atti  del procedimento alla Corte
 costituzionale;
   Manda  alla  cancelleria  per  la  notificazione   della   presente
 ordinanza   all'imputato   contumace  Vaglica  Giovanni,  nonche'  al
 Presidente del Consiglio dei Ministri, ed infine per la comunicazione
 ai Presidenti delle Camere del Parlamento della Repubblica;
   Sospende il dibattimento fino all'esito del giudizio incidentale di
 legittimita' costituzionale.
     Palermo, addi' 10 marzo 1998
                      Il presidente f.f.: Morvillo
                                       I giudici: Malizia - Pappalardo
 98C0590