N. 388 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 novembre 1997
N. 388 Ordinanza emessa il 18 novembre 1997 dal tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Bosso Luigi ed altri Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti - Disparita' di trattamento rispetto al regime delle dichiarazioni del testimone e a quello dei prossimi congiunti - Lesione del diritto di difesa dell'imputato - Violazione dei principi di obbligatorieta' dell'azione penale e di indipendenza del giudice. (C.P.P. 1988, art. 513, comma 2). (Cost., artt. 2, 3, 24, commi primo e secondo, 25, comma secondo, 101, 111 e 112).(GU n.23 del 10-6-1998 )
IL TRIBUNALE Decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, sollevata dal pubblico ministero nel processo penale n. 219/1/1995 r.g. nuovo rito a carico di Bosso Luigi + 27, sentite le parti; O s s e r v a 1. - Nel corso del dibattimento relativo al processo nei confronti di Bosso Luigi + 27 all'udienza del 28 ottobre 1997, Arnese Salvatore e Scalzone Federico, ammessi dal tribunale come testi su richiesta del pubblico ministero e citati da quest'ultimo nelle forme di cui all'art. 210, c.p.p., essendo stato il primo inizialmente sottoposto ad indagini nel presente procedimento e risultando il secondo - anche se in maniera non specifica - indagato in procedimento connesso, si erano avvalsi della facolta' di non rispondere, allorquando erano stati chiamati a deporre davanti al tribunale. All'udienza successiva del 4 novembre 1997, il pubblico ministero sollevava eccezione di legittimita' costituzionale della disposizione di cui all'art. 513, c.p.p., come novellata dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24 primo e secondo comma, 101, 111, 112 della Costituzione. Le parti interloquivano in merito ed il tribunale riservava la decisione all'odierna udienza. 2. - Rilevanza nel processo de quo della questione di 1egittimita' costituzionale dell'art. 513, c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge n. 267 del 1997. Nell'analizzare la rilevanza della sollevata questione di legittimita' costituzionale nell'ambito del giudizio in corso, va innanzitutto sottolineata l'importanza che le dichiarazioni dell'Arnese e dello Scalzone rivestono sul piano probatorio, atteso che gli stessi, inseriti nella lista testimoniale del pubblico ministero, erano stati regolarmente ammessi dal tribunale, in quanto chiamati a riferire sui rapporti intercorrenti tra il Taurisano e l'imputato Di Donato Giulio, su quelli tra quest'ultimo e la "Napoletana Gas" e sull'organizzazione ed i metodi di raccolta del consenso elettorale del Di Donato stesso. Tali circostanze, nella prospettazione accusatoria, appaiono di primaria importanza in relazione alle contestazioni di cui sono chiamati a rispondere gli odierni imputati, anche se non costituiscono, come esplicitato dallo stesso pubblico ministero, delle dichiarazioni di accusa nei confronti di questi ultimi. Le considerazioni sopra esposte, inducono il collegio a ritenere sicuramente rilevante per il processo che qui occupa, la sollevata questione di legittimita' costituzionale. Ed infatti, se il consenso delle parti all'acquisizione delle dichiarazioni rese in sede di indagine dai soggetti sopra indicati che costituisce, secondo la nuova formulazione dell'art. 513, c.p.p., l'unica condizione per acquisire le stesse al fascicolo del dibattimento e considerarle poi utilizzabili ai fini della decisione, fosse dichiarato incostituzionale tali dichiarazioni avrebbero libero accesso nel processo pendente, risultando pienamente valutabili dal giudice, con un meccanismo di acquisizione identico a quello contemplato dalla vecchia formulazione dell'art. 513, c.p.p., cosi' come integrato dalla sentenza n. 254/1992 della Corte costituzionale. 3. - La non manifesta infondatezza delle questioni proposte. Va preliminarmente osservato che la censura di illegittimita' costituzionale dell'art. 513, c.p.p., nella valutazione di questo collegio, non e' diretta a confutare il principio ispiratore della norma nella parte in cui essa, nella nuova formulazione, tende ad assicurare le regole del contraddittorio. Al contrario, va riconosciuto che la nuova formulazione dell'art. 513 ha sicuramente cercato di dare una risposta, da piu' parti auspicata, alle numerose critiche mosse alla normativa precedente, considerata da molti lesiva del diritto di difesa dell'imputato, laddove consentiva la piena utilizzabilita' delle dichiarazioni di soggetti estranei al processo raccolte in assenza di contraddittorio. La scelta di subordinare l'acquisizione di tali dichiarazioni al consenso delle parti, infatti, altro non costituisce - nelle intenzioni del legislatore - che la "riparazione" di tale violazione, possibile solo con il consenso di colui il cui diritto risulta violato dal mancato rispetto delle regole imposte dal principio del contraddittorio. E pero' la scelta operata dal legislatore appare inadeguata a conciliare i diversi principi costituzionali che regolano la materia in questione e mal si armonizza con il sistema quale si e' andato delineando in questi ultimi anni anche attraverso le successive pronunce della Corte costituzionale. E' vero infatti che essa determina uno squilibrio, ora in pregiudizio dell'accusa, non meno censurabile di quello preesistente a sfavore della difesa, che si voleva invece correggere. Com'e' noto il giudice, nell'esprimere un preliminare giudizio di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale posta alla sua attenzione, deve limitarsi a raffrontare le norme di sospetta legittimita' non solo con le specifiche disposizioni costituzionali di riferimento, ma anche con l'interpretazione che delle stesse e' stata fornita nel corso del tempo dalla Corte costituzionale. Tali norme, infatti, non possono essere interpretate isolatamente, ma devono essere valutate sistematicamente alla luce dei principi informatori della Costituzione stessa, che la Corte, massimo organo di interpretazione della Costituzione "vivente", ha enucleato con la propria giurisprudenza. Ed invero, e' la stessa Corte che con la sentenza n. 111 del 26 marzo 1993, ha affermato che "la considerazione dell'ordinamento processual-penale italiano va condotta a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e dei criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa .... richiede attuazione. Non va cioe' dimenticato che il sistema processuale delineato nella legge delega ed attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' ad attuare i caratteri del sistema accusatorio, ma secondo i criteri ed i principi direttivi specificati nelle direttive che seguono; e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di attuare i principi della Costituzione, una adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata a dover apportare". Ed e' sicuramente alla luce di quanto or ora espresso che questo collegio non puo' non ritenere non manifestamente infondata la sollevata questione di legittimita' costituzionale, anche in considerazione del fatto che la nuova disciplina prevista dall'art. 513, c.p.p., sostanzialmente ripropone, con la mera previsione di una condizione puramente "di scuola" e sicuramente quasi mai verificabile, la disciplina originariamente prevista da tale articolo, poi ritenuto illegittimo dal giudice delle leggi con la sentenza n. 254 del 3 giugno 1992, che ne aveva dichiarato l'incostituzionalita' per contrasto con gli artt. 3 e 76 della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura dei verbali di dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 210, c.p.p., qualora queste si fossero avvalse in dibattimento della facolta' di non rispondere. 4. - Principi costituzionali ed elaborazioni giurisprudenziali della Corte costituzionale. La Corte costituzionale, prendendo le mosse dall'esistenza nel nostro ordinamento del principio di obbligatorieta' dell'azione penale e di legalita', regolati dagli artt. 112 e 101 Cost., ha piu' volte affermato che il processo penale ha come fine primario ed ineludibile quello della ricerca della verita' (cfr. sent. nn. 111 del 1993, 255 del 1992, 258 del 1991), intesa in senso storico e non meramente processuale. Ed invero il modello processuale prescelto con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, non e' certo quello di un processo di parti nel senso puro del termine, nel quale il giudice deve "accontentarsi" della prospettazione delle stesse, ma un sistema che consente a quest'ultimo di addivenire ad una giusta decisione e che fa salvo il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti. In maniera del tutto conseguenziale la Corte, enucleando il c.d. principio della non dispersione o di conservazione della prova, ha poi affermato che - proprio in virtu' del fatto che il fine del processo penale deve individuarsi nella ricerca della verita' - "l'oralita' assunta a principio ispiratore del nuovo sistema non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento (....) di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento (sent. n. 255 del 1992). E cio' tanto piu' in un sistema procedimentale nel quale il pubblico ministero e' una parte processuale pubblica, "un magistrato indipendente, appartenente all'ordine giudiziario che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sent. n. 88 del 1991); al quale e' percio' demandato anche il compito di svolgere gli accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini ed i cui poteri discrezionali, in virtu' del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale, sono stati rigorosamente contenuti (cfr. sentenza n. 92 del 1992 con la quale la Corte ha dichiarato l'incompatibilita' "con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di eguaglianza e di legalita' della pena" nel giudizio abbreviato "che affida(va) a scelte - immotivate e quindi insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena; sentenza 26 giugno 1990, n. 313, che ha ritenuto illegittimo, nella parte in cui prevedeva per il giudice il potere di rigettare la richiesta di applicazione della pena ritenuta non congrua). Dall'elaborazione dei principi fin qui citati, la Corte ha anche individuato l'inesistenza nel nostro ordinamento di un principio dispositivo in materia di tutela giurisdizionale, che si estende anche in tema di prova, nel senso che il potere del giudice di addivenire ad una giusta decisione non puo' mai essere subordinato al potere delle parti o a loro scelte processuali. Ed infatti nella sentenza del 26 marzo 1993, n. 111, si e' affermato che la configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507, c.p.p., non ha natura eccezionale. Nella motivazione di tale sentenza la Corte, nel ribadire che la disponibilita' della tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale e' indubbiamente contraria ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione penale, evidenzia che un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul piano probatorio "perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente la res iudicanda". E cio' soprattutto in relazione all'art. 507, c.p.p., la cui portata normativa inserita" in un sistema imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti, conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o l'insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle parti, impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". Anche del diritto di difesa, garantito dall'art. 24, primo e secondo comma della Costituzione, la Corte costituzionale ha fornito la propria interpretazione, sottolineando come l'inviolabilita' dello stesso imponga sul piano processuale che l'ordinamento debba adoperarsi con ogni mezzo per consentire a chiunque di dimostrare la propria innocenza in ogni stato e grado di giudizio, e sul piano tecnico che non possano esservi spazi del thema decidendum sui quali l'imputato non possa intervenire criticamente, come del resto espressamente sancito anche dall'art. 6 della Convenzione europea dei Diritti dell'uomo, sempre piu' spesso richiamata anche dal giudice delle leggi per individuare i principi supremi cui il nostro ordinamento deve uniformarsi. Talche' deve ritenersi incostituzionale - salvi casi eccezionali ed espressamente previsti - qualsiasi soluzione legislativa che sottragga alla parte, anche solo parzialmente e per singole fasi processuali, tale potere di intervento, ovvero che sottragga al vaglio critico del dibattimento qualsiasi elemento di prova prodotto dalle parti. Va da ultimo sottolineato che al piu' generale principio di solidarieta' previsto dall'art. 2 Cost., e' collegata l'esistenza dei cc.dd. "doveri pubblici", tra i quali deve ricomprendersi, per costante orientamento della Corte costituzionale, anche l'obbligo di rendere testimonianza. A tale dovere, che deve essere esercitato nel piu' ampio perseguimento dei fini del processo penale, per come sopra evidenziati, possono essere imposte delle limitazioni solo per la tutela di altri valori costituzionalmente garantiti da considerare prevalenti, in base ad un bilanciamento di interessi. Proprio in considerazione della coesistenza di piu' interessi diversamente tutelati dall'ordinamento, puo' cosi' spiegarsi la previsione normativa della facolta' di astensione prevista per i prossimi congiunti nonche' quella del diritto dell'imputato di non rispondere, che proprio perche' espressioni di diritti "prevalenti", possono costituire deroghe eccezionali al dovere di testimoniare. 5. - Incostituzionalita' dell'art. 513, secondo comma, c.p.p., per contrasto con gli artt. 2, 3, 25 secondo comma, 111 Cost. In relazione a tali disposizioni costituzionali, la cui interpretazione e' stata chiarita alla luce di quanto sopra espresso, va rilevato che la norma in questione presenta profili di illegittimita' costituzionale nella parte in cui consente al soggetto citato ex art. 210, c.p.p., che durante le indagini preliminari aveva inteso rispondere, di avvalersi della facolta' di non rendere dichiarazioni in dibattimento. Il carattere irragionevole di tale disposizione e di contrasto con i principi di responsabilita' e collaborazione in vista dell'accertamento della verita' che questa disciplina presenta, appare ancora piu' evidente se si sottolinea che la possibilita' di "recedere" da una scelta precedentemente operata - il non essersi avvalso di tale facolta' nella fase delle indagini - non puo' in realta' giustificarsi con il principio del nemo tenetur se detegere, ossia con l'interesse del soggetto di non rendere dichiarazioni che possano poi pregiudicarlo nel diverso procedimento nel quale riveste la qualita' di imputato. Ed invero, in tale ultimo processo, qualora egli dovesse avvalersi della facolta' di non rispondere, subira' il ben diverso e piu' "dannoso" trattamento previsto dal comma primo dell'art. 513, c.p.p., con la conseguente utilizzabilita' contra se delle dichiarazioni precedentemente rese al pubblico ministero. Proprio in virtu' di tale considerazione, non puo' non ritenersi che la possibilita' riconosciuta a tale soggetto di sottrarsi alla prova dibattimentale, appellandosi alla possibilita' che gli riconosce il legislatore di avvalersi della facolta' di non rispondere, non trova fondamento nel diritto di difesa della parte, risolvendosi in una ingiustificata ed irragionevole violazione del generale dovere di collaborare alla ricerca della verita' come innanzi configurato. Vanno in tal senso condivise ed integralmente richiamate in questa sede le argomentazioni del pubblico ministero circa il contrasto con il principio del libero convincimento del giudice ex art. 111 Cost., di una normativa che "... improvvisamente, in dipendenza della scelta di (un) soggetto estraneo al processo sottrae al giudice una parte del thema decidendum e del materiale probatorio portatogli, senza per converso fornirgli alcuno strumento per sopperire, in vista dell'accertamento dei fatti, a tale lacuna che si viene a creare. 6. - Incostituzionalita' dell'art. 513, commi 1 e 2 c.p.p., e conseguentemente dell'art. 514, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, 111 e 112 Cost. Appare di sospetta legittimita' costituzionale anche la disparita' di trattamento che puo' verificarsi nel modo in cui viene assicurato, secondo la disciplina vigente, il diritto di difesa degli imputati ed in particolare il diritto al controesame che costituisce momento essenziale nello svolgimento del processo. Ed invero, nel caso in cui due processi relativi allo stesso fatto vengano trattati in momenti diversi, potra' verificarsi l'ipotesi che il dichiarante, in uno dei processi, risponda alle domande delle parti, mentre nell'altro, si avvalga della facolta' di non rispondere. In tale seconda ipotesi, gli imputati si vedranno privati del diritto di controesaminare il dichiarante, vedendo cosi' leso il loro diritto di difesa che - come si e' visto in precedenza -, deve essere individuato non nella possibilita' di sfuggire comunque alla condanna, ma nella tutela riservata all'imputato di vedersi sempre assicurata la possibilita' di fare tutto quanto necessario per dimostrare la propria innocenza. Tale disparita' di trattamento appare ancor piu' evidente se si considera che il giudice in un caso potra' tenere conto di tali dichiarazioni, mentre nell'altro caso si vedra' privato di elementi essenziali per il giudizio, per la sola decisione (rectius arbitrio) di un soggetto estraneo al processo, al quale viene riconosciuta una facolta' di astenersi dal rispondere, assolutamente non collegata - per quanto sopra evidenziato - alla tutela del suo inviolabile diritto di difesa. Per comprendere piu' a fondo tale aspetto della problematica sollevata dal pubblico ministero, il Collegio ritiene necessario evidenziare che, se costituisce sicura espressione di avanzata civilta' giuridica, il consentire l'utilizzabilita' in dibattimento, solo subordinatamente al consenso della parte che non ha partecipato al momento della loro assunzione, delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, potendo solo tale soggetto ripristinare l'avvenuta violazione del principio del contraddittorio, e' da ritenersi, invece, del tutto inconcepibile che tale possibilita' sia collegata alla scelta di un soggetto estraneo al processo. Tale scelta, infatti, insindacabile e non soggetta ad alcun controllo e sanzione, costituisce - come innanzi ricordato - violazione del principio del giusto processo e del libero convincimento del giudice riconducibili all'art. 111 Cost., ed anche di quello dell'obbligatorieta' dell'azione penale regolato dal successivo art. 112. 7. - Incostituzionalita' dell'art. 513, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Cost. La disciplina introdotta dal novellato testo dell'art. 513, c.p.p., presenta una irragionevole disparita' di trattamento anche rispetto al regime previsto per l'analoga ipotesi di rifiuto di rispondere da parte del teste. In tale secondo caso, infatti, ai sensi dell'art. 511, c.p.p., le dichiarazioni rese dai testi che si sono rifiutati di rispondere, verranno lette ed acquisite al fascicolo del dibattimento, senza alcuna possibilita' che la parte, il cui diritto al contraddittorio risulta comunque violato, possa impedire tale evenienza negando il proprio consenso alla loro utilizzazione. Per meglio comprendere tale profilo di incostituzionalita', basta sottolineare come le persone imputate in un procedimento connesso siano da sempre state individuate come una categoria intermedia tra quella dell'imputato e quella del teste. Ed invero, se l'esame dello stesso e' inserito tra le fonti di prova, come quello dell'imputato, gli sono estese le modalita' di citazione del teste e gli e' poi riconosciuta, in applicazione del gia' richiamato principio del nemo tenetur se detegere, la necessita' di farsi assistere da un difensore e la conseguente possibilita' di avvalersi della facolta' di non rispondere. Tali considerazioni, rapportate a quanto si e' gia' esposto in tema di eccezionalita' delle ipotesi di deroga al generale obbligo di collaborazione con la giustizia alla ricerca della verita', e collegate alla esclusione di ogni pregiudizio che allo stesso possa derivare nel procedimento a suo carico, comportano una oggettiva assimilazione della sua posizione a quella del teste, per quanto attiene alle dichiarazioni rese non contro se stesso, ma contro terzi. Del resto la "peculiarita'" di tali dichiarazioni, rese da soggetto "interessato" al processo, che proprio per questo possono essere inficiate dall'esistenza di interessi personali, trova una confortante tutela nella speciale disciplina dettata dall'art. 192 comma 3 e 4, c.p.p., in tema di valutazione della prova. Ulteriore profilo di incostituzionalita' della disposizione prevista dall'art. 513, c.p.p., non rilevato dal pubblico ministero, ma ritenuto sussistente dal collegio sempre in relazione alla disparita' di trattamento tra la posizione dell'imputato di reato connesso ed il testimone, va ravvisato nella non previsione, nel testo novellato della citata norma, di una diversa disciplina alla quale assoggettare le dichiarazioni precedentemente rese dai soggetti indicati nell'art. 210, c.p.p., nel caso in cui risulti provato che gli stessi siano rimasti vittima di pressioni o minacce, come invece testualmente previsto in caso di esame testimoniale. Tale mancata previsione, inizialmente prevista ma poi non trasfusa nel testo definitivo, appare sicuramente illogica ed irrazionale ed acquista una rilevanza particolare se solo si tiene conto della maggiore permeabilita' a condizionamenti esterni di tali soggetti, derivante proprio dalla "ibrida" posizione processuale dagli stessi rivestita. Sempre partendo dall'elaborazione dei principi fin qui esposti circa l'irragionevolezza di una disparita' di trattamento tra la posizione del teste e quella di imputato di reato connesso per quanto non attiene alle dichiarazioni autoaccusanti, appare di dubbia costituzionalita' anche la differenziazione tra la disciplina alla quale sono soggette le disposizioni in tema di prossimi congiunti e quelle regolate dall'art. 513, c.p.p. Ed infatti, nel caso dei prossimi congiunti che si avvalgono della facolta' di non rispondere, la Corte costituzionale ha sostenuto che tale facolta' rappresenta una oggettiva ed imprevedibile causa di impossibilita' di ripetizione dell'atto (sent. n. 179 del 1994), con conseguente possibilita' di utilizzazione delle dichiarazioni precedentemente rese dai prossimi congiunti che in dibattimento si erano poi avvalsi della facolta' di non rispondere, laddove nell'ipotesi analoga che qui ne occupa, la legge ha predisposto una disciplina basata sulla utilizzabilita' delle stesse solo previo consenso delle parti.
P. Q. M. Letti gli artt. 134 Cost., 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenuta la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p., in relazione agli artt. 2, 3, 24, primo e secondo comma, 25, secondo comma, 101, 111, 112 della Costituzione non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione; Sospende il giudizio in corso; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina alla cancelleria di notificare la presente ordinanza agli imputati, al pubblico ministero, alle parti civili ed al Presidente del Consiglio dei Ministri; Ordina alla cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Napoli, il 18 novembre 1997. Il presidente: Frallicciardi I giudici estensori: Paolelli - De Tollis 98C0611