N. 450 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 marzo 1998
N. 450 Ordinanza emessa il 24 marzo 1998 dal pretore di Trento nel procedimento penale a carico di Bassoli Natale Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni indizianti al pubblico ministero - Possibilita' di avvalersi della facolta' di non rispondere - Conseguente inutilizzabilita' di dette dichiarazioni - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa - Disparita' di trattamento tra le parti - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale - Incidenza sul principio del libero convincimento del giudice. Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Eseercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo l'accordo delle parti - Irragionevolezza - Disparita' di trattamento tra le parti - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale - Incidenza sul principio del libero convincimento del giudice. (C.P.P. 1988, artt. 210, comma 4, e 513, comma 2, modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1). (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 101, 102, primo comma, 111 e 112).(GU n.25 del 24-6-1998 )
IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza; All'esito della discussione ritiene il pretore di sollevare questione di costituzionalita', facendo proprie le motivazioni addotte dal p.m. che ha chiesto che tale eccezione venisse formalizzata: 1) degli artt. 210, comma 4, e 513, c.p.p. nella parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso, che abbia reso al pubblico ministero dichiarazioni direttamente o indirettamente indiziati a carico di determinati soggetti, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere, per violazione degli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111 e 112, della Costituzione; 2) dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come novellato dall'art. 1, legge 7 agosto 1997 n. 267, nella parte in cui subordina esclusivamente all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si siano avvalse della facolta' di non rispondere o, nel caso di accoglimento della eccezione sub 1), si siano rifiutate di rispondere, per violazione degli artt. 3, 25 comma secondo, 101, 102, comma primo, 111 e 112, della Costituzione. Sulla rilevanza della questione. Le questioni appaiono rilevanti nel presente processo, alla luce della dichiarazione degli imputati in procedimento connesso Lino Gentilini ed Enrico Pancheri di avvalersi della facolta' di non rispondere all'esame richiesto dal pubblico ministero. La norma processuale, cosi' come oggi vigente, impedisce la acquisizione al fascicolo per il dibattimento tramite lettura dei verbali delle dichiarazioni rese in precedenza al pubblico ministero se non con l'accordo delle parti. Tali dichiarazioni, sulla base delle quali e' stata esercitata l'azione penale nei confronti dell'odierno imputato, rappresentavano elementi di prova a carico dello stesso (e pertanto l'esame ai sensi degli artt. 210 e 468 c.p.p. delle predette persone era stato oggetto di richiesta in ordine alle prove); il regime processuale della utilizzabilita' di tali dichiarazioni incide quindi sulla valutazione spettante al giudice in relazione alla contestazione addebitata all'imputato. Sulla non manifesta infondatezza della questione. E' chiara la intenzione del legislatore del 1997 di depotenziare di valore probatorio (rispetto alla disciplina prima vigente) le acquisizioni avvenute in fase di indagini e in assenza di contraddittorio mediante il conferimento alle parti di un potere discrezionale circa il loro ingresso nel fascicolo per il dibattimento. E' d'altro canto noto che la Corte costituzionale si e' piu' volte pronunciata sui caratteri che il processo di parti introdotto con il codice del 1998 ha nel quadro del nostro ordinamento costituzionale e dei relativi principi sulla azione e giurisdizione penale. La sentenza n. 11 del 1997 ha ribadito l'esistenza del ".... principio di indefettibilita' della giurisdizione" (cosi' anche le sentt. nn. 353/1996, 460/1995, 114/1994); con la sentenza n. 88 del 1991, la Corte ha affermato che "l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale ad opera del pubblico ministero... e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato l'indipendenza del p.m. nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale"; il principio di legalita' (art. 25, comma 2, Cost.), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita' del procedere e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio della uguglianza dei cittadini di fronte alla legge, non puo' essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale (cui si ricollega l'indipendenza del pubblico ministero, art. 101, comma 2, Cost.). Il principio della obbligatorieta' dell'azione penale e' stato richiamato dalla giurisprudenza costituzionale in numerose sentenze che hanno individuato concrete applicazioni: tendenziale completezza delle indagini (sent. n. 92 del 1992), tutela della effettivita' dell'azione per contrastare un uso solo apparente della stessa (sentt. 409/1990, 445/1990 sui poteri del g.i.p.), ecc. Anche in ordine allo scopo del processo penale, la Corte ha avuto modo di affermare che esso deve individuarsi nell'"accertare i fatti onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale" e che, anche dopo l'entrata in vigore del codice del 1988 ad impianto tendenzialmente accusatorio, "fine primario e ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'" (sentt. n. 111/1993, 225/1992 e 258/1991). Tali affermazioni derivano direttamente dal principio di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge penale, dal principio di legalita' e di inviolabilita' della liberta' personale. Alla luce di cio', la scelta del contraddittorio dibattimentale operata dal legislatore del 1988 privilegiava il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da inflenze pregresse. Tuttavia, la Corte ha anche osservato che, proprio perche' lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella ricerca della verita', "...l'oralita', assunta a principio del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattunento... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti e alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima e al di fuori del dibattimento" (sent. 255/1992, che ha enunciato il "principio di non dispersione delle prove", nonche' la sent. n. 111/1993, secondo cui "ad un ordinamento improntato al principio di legalita', nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire a una giusta decisione"). Significativa e' inoltre la giurisprudenza sulla inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova (sent. 111/1993 cit. sull'art. 507 c.p.p., che conferisce al giudice poteri supplettivi ma non eccezionali). Nella disciplina novellata dal legislatore del 1997 si ravvisano violazioni di principi costituzionalmente affermati in relazione agli artt. 3, 25 comma secondo, 101, comma secondo, 102, comma primo, 111 e 112, Cost. Infatti, premesso che il pubblico ministero e' un organo pubblico, gli atti che questi compie o assume (fra cui le dichiarazioni direttamente o indirettamente indizianti rese da un indagato nei confronti di altri soggetti) sono utilizzabili nella fase delle indagini preliminari e ai fini dell'esercizio dell'azione penale (dovendosi rilevare che, per le dichiarazioni dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso, l'utilizzazione e' obbligatoria alla luce dell'art. 112 della Costituzione). Ne deriva che costituisce un irragionevole ostacolo al razionale esercizio dell'azione penale, oltre che una evidente contraddizione ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione, quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili - con conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al p.m. medesimo - siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti. Il meccanismo con cui la nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. riconosce alle parti la possibilita' di precludere la utilizzabilita' nel dibattimento di una prova (tale dovendosi considerare la dichiarazione indiziante non ripetuta in sede di esame per circostanze imprevedibili) appare irragionevole e in contrasto con il disposto dell'art. 25 della Costituzione come interpretato dalla Corte costituzionale (perche' rende possibile alle parti disporre delle prove e, quindi, dell'oggetto del processo). E' altresi' evidente il contrasto con i principi della soggezione del giudice soltanto alla legge e del libero convincimento dello stesso, avuto riguardo al potere riconosciuto alle parti di impedire l'acquisizione della prova non ripetibile in dibattimento. Anche per quanto riguarda la questione di costituzionalita' degli artt. 210, comma 4, e 513, c.p.p. si riscontrano violazioni alle norme costituzionali di riferimento, che derivano dalle modalita' con cui il legislatore ha inteso tutelare per un verso il diritto al contradditorio degli imputati e, per altro verso, il loro diritto a non sottoporsi all'esame dibattimentale, modalita' che - in forza della nuova disciplina - si riflettono in maniera negativa sull'esercizio della giurisdizione. Infatti, affinche' si possa sviluppare il contradditorio dibattimentale, quando esso si manifesta nella forma dell'esame incrociato, una condizione e' che il soggetto che vi e' sottoposto sia gravato dall'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, si concede al soggetto in questione il potere di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. Appare dunque irrazionale riconoscere al coimputato o all'imputato in procedimento connesso che abbiano reso al p.m. dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti, se si accettano i presupposti della intangibilita' del diritto al contraddittorio e dei principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio della azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione. Si rinvia, in ogni caso, alle argomentazioni contenute nell'ordinanza del tribunale di Torino, 27 novembre 1997, in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 8 del 25 febbraio 1998.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 1 novembre 1953, n. 87; Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di costituzionalita' sopra indicate; Dichiara sospeso il giudizio; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Trento, addi' 24 marzo 1998 Il pretore: (firma illeggibile) 98C0695