N. 567 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 ottobre 1997- 16 luglio 1998

                                N.  567
  Ordinanza   emessa   il   24  ottobre  1997  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il  16  luglio  1998)  dal  tribunale  di  Milano  nel
 procedimento penale a carico di Chieco Giuseppe ed altro
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni  indizianti  al
    pubblico  ministero - Esercizio della facolta' di non rispondere -
    Conseguente   inutilizzabilita'   di   dette    dichiarazioni    -
    Irragionevolezza   con   incidenza  sul  diritto  di  difesa,  sul
    principio di legalita' di indipendenza e libero convincimento  del
    giudice, di obbligatorieta' dell'azione penale.
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento   connesso   -   Lettura   di   verbali    contenenti
    dichiarazioni   rese   nel  corso  delle  indagini  preliminari  -
    Preclusione per il  giudice  in  caso  di  contumacia,  assenza  o
    rifiuto   di   rispondere   dell'imputato   -  Irragionevolezza  -
    Disparita' di trattamento tra le parti - Lesione dei  principi  di
    indefettibilita'    della    funzione   giurisprudenziale   e   di
    obbligatorieta' dell'azione penale e di libero  convincimento  del
    giudice.
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esclusione  dell'accompagnamento  coattivo
    per l'assunzione dell'esame stesso - Irragionevolezza e disparita'
    di  trattamento - Violazione del diritto di difesa - Incidenza sui
    principi  di  imparzialita'  e  buon  andamento  della  p.a.,   di
    indefettibilita'     della    funzione    giurisprudenziale,    di
    obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P. 1988, artt. 208, 490 e 513, comma 1, sostituito dalla legge 7
    agosto 1997, n. 267, art. 1).
 (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 97, 101,  102,
    primo comma, 111 e 112).
(GU n.36 del 9-9-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Decidendo  nel processo penale n. 3683/1996 r.g. a carico di Chieco
 Giuseppe e  Pasquali  Gianpaolo  Celestino,  imputati,  il  primo  in
 qualita' di amministratore unico della B.Al.For. S.r.l. ed il secondo
 in  qualita'  di  amministratore di fatto della medesima societa', in
 concorso tra loro, del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e
 documentale consumato il 30 giugno 1992;
                             O s s e r v a
   1. - All'udienza del 16 ottobre 1997 il  tribunale,  dichiarata  la
 contumacia  del  Chieco,  constatata l'assenza del Pasquali, letto il
 capo di imputazione e sentite  le  richieste  delle  parti,  emetteva
 ordinanza  di  ammissione  delle  prove,  tra  le quali l'esame degli
 imputati.
   Escusso l'unico teste indicato in lista, stante la  contumacia  del
 Chieco  e  l'assenza  del  Pasquali,  il  pubblico ministero chiedeva
 l'acquisizione dei verbali degli interrogatori resi dai medesimi alla
 polizia giudiziaria, espressamente all'uopo delegata dal suo ufficio.
   Il  tribunale,  respinta  una  eccezione  sul  punto,  disponeva in
 conformita', indicando implicitamente tali atti come utilizzabili nei
 limiti previsti dalla legge. Ai difensori degli imputati veniva  dato
 modo  di  esprimere  le  loro  determinazioni circa l'utilizzabilita'
 degli atti in questione  nei  confronti  dei  loro  assistiti  e,  in
 particolare,  il difensore del Chieco non consentiva all'utilizzo nei
 confronti del suo assistito delle dichiarazioni del Pasquali,  ed  il
 difensore  del  Pasquali  non  consentiva l'utilizzo a carico del suo
 assistito delle dichiarazioni del Chieco (pp. 31-32, trascriz. ud. 16
 ottobre 1997).
   2.  -  Interpretazione  dell'art.  513,  c.p.p.,  come   sostituito
 dall'art.  1, della legge n. 267, dell'8 agosto 1997.
   L'art.  513  c.p.p.,  come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del
 1997 dispone: "1)  il giudice, se l'imputato e' contumace  o  assente
 ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte
 che   sia   data   lettura   dei  verbali  delle  dichiarazioni  rese
 dall'imputato al pubblico ministero o  alla  polizia  giudiziaria  su
 delega  del  pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini
 preliminari o nell'udienza preliminare,  ma  tali  dichiarazioni  non
 possono  essere  utilizzate  nei  confronti  di  altri  senza il loro
 consenso; 2) se  le  dichiarazioni  sono  state  rese  dalle  persone
 indicate  nell'art.  210,  il giudice, a richiesta di parte, dispone,
 secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o  l'esame
 a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con
 le  garanzie  del  contraddittorio.   Se non e' possibile ottenere la
 presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei  modi
 suddetti,  si  applica  la  disposizione  dell'art.  512  qualora  la
 impossibilita'  dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al
 momento  delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della
 facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali
 contenenti le suddette dichiarazioni  soltanto  con  l'accordo  delle
 parti;  3)  se  le  dichiarazioni  di cui ai commi 1 e 2 del presente
 articolo sono state assunte ai sensi dell'art.  392, si applicano  le
 disposizioni di cui all'art. 511".
   La  norma,  con  riferimento  alla  posizione dell'imputato, sembra
 finalizzata,  nell'intenzione  del  legislatore,  alla   tutela   del
 principio   di   separazione   delle  fasi  processuali  e,  ma  solo
 indirettamente,   del   contraddittorio:   essa   invero    subordina
 l'utilizzabilita'  nei  confronti  di  ciascuno  dei coimputati delle
 dichiarazioni rese da un imputato al p.m., alla  polizia  giudiziaria
 su  delega  di  quello,  al  giudice  nelle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza  preliminare   -   qualora   l'imputato   medesimo,   in
 dibattimento, resti contumace o assente, o si rifiuti di rispondere -
 al consenso, appunto, di ciascuno dei coimputati
   Indirettamente  ma  chiaramente,  percio',  la  norma attribuisce a
 ciascun imputato il potere di  vietare  la  utilizzazione  contro  se
 stesso delle dichiarazioni predibattimentali dei coimputati.
   Si  tratta  percio'  di  una  disposizione  che,  nel  procedimento
 probatorio, regola la fase della utilizzazione della prova.
   3. - Rilevanza della questione di legittimita'  concernente  l'art.
 513,  c.p.p.,  come  sostituito  dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 e
 l'art. 6, comma 5, legge n. 267 del 1997.
   Risulta evidente, nel caso di specie, la rilevanza della  questione
 di  legittimita'  costituzionale  del disposto dell'art 513, comma 1,
 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del  1997,  poiche'
 entrambi  gli  imputati  hanno  reso dichiazioni nel contempo auto ed
 etero accusatorie.
   Tali  dichiarazioni  appaiono importanti ai fini del decidere e, in
 particolare, al fine di definire  in  modo  sufficientemente  preciso
 l'andamento  della  vicenda  che  ne  occupa,  il ruolo concretamente
 assunto e  l'attivita'  effettivamente  svolta  da  ciascun  imputato
 nell'ambito  della  societa' fattita, e, quindi, la sussistenza delle
 responsabilita' individuali di ciascuno  e,  eventualmente,  il  loro
 spessore anche ai fini della commisurazione della pena.
   Il  problema  appare  rilevante  anzitutto  in  relazione  ad altri
 elementi di prova acquisiti in dibattimento,  ed  in  particolare  le
 dichiarazioni   del   Chieco   rese  al  curatore  al  di  fuori  del
 procedimento penale e  da  quest'ultimo  riportate  in  dibattimento,
 dichiarazioni  aventi  come  oggetto uno scarico totale delle proprie
 responsabilita' sul Pasquali (p. 13 e 25 trascrizioni ud. 16  ottobre
 1997).  Quanto affermato dal Chieco non sembra trovare conforto nelle
 dichiarazioni - allo stato inutilizzabili - rese  dal  Pasquali  alla
 polizia  giudiziaria  con  riferimento  alla  posizione  assunta  dal
 predetto all'interno della societa'.
   Ritiene altresi' questo collegio che, a fronte della  ritenuta  non
 manifesta  infondatezza  della  questione  di  legittimita' dell'art.
 513, comma 1, c.p.p., nella  sua  nuova  formulazione,  se  ne  ponga
 un'altra,  di  carattere preliminare, circa la conformita' al dettato
 costituzionale dell'art. 208 c.p.p., nella parte in  cui  attribuisce
 all'imputato  che  abbia  reso  alla polizia giudiziaria (operante su
 delega del p.m.   dichiarazioni accusatorie nei  confronti  di  altro
 imputato, la facolta' di sottrarsi all'esame.
   Tale  questione e' rilevante nel presente processo poiche', come si
 e' detto, gli imputati, l'uno assente e l'altro  contumace,  si  sono
 sottratti all'esame.
   4.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 dell'art. 513, comma 1, c.p.p., come sostituto dall'art. 1, legge  n.
 267  del  1997,  nella parte in cui subordina al consenso degli altri
 imputati l'utilizzabilita' nei confronti di ciascuno di esssi,  delle
 dichiarazioni  rese da un imputato alla polizia giudiziaria su delega
 del pubblico ministero,  qualora,  in  dibattimento,  questi  rimanga
 contumace o assente.
   4.1.  -  Giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  in  tema  di
 valutazione della prova e di regole di esclusione della prova.
   Occorre preliminarmente notare che le  norme  di  cui  si  sospetta
 l'illegittimita' vanno ad inserirsi nel centro del processo disegnato
 dal  codice  vigente, laddove regolano da un lato i rapporti tra fase
 delle indagini e fase dibattimentale, dall'altro i poteri delle parti
 nella formazione dibattimentale  della  prova  e,  dall'altro  ancora
 impongono   limiti   alla   formazione   del   razionale  e  motivato
 convincimento giudiziale. Non v'e' dubbio che  le  norme  di  cui  si
 discorre  siano  ispirate ad un depotenziamento del valore probatorio
 delle acquisizioni avvenute in fase di  indagini  ed  in  assenza  di
 contraddittorio  mediante  il  conferimento  alle  parti di un potere
 discrezionale  circa  il  loro  ingresso   nel   fascicolo   per   il
 dibattimento  e  mediante  l'introduzione  di  una  nuova  regola  di
 esclusione della prova.
   Preso  atto  che  la  scelta  del  legislatore  si  e'  mossa verso
 l'accentuazione  di   alcuni   aspetti   particolari   del   processo
 accusatorio   come   processo   di   parti   -   in   particolare  la
 positivizzazione, per la prima volta, del  principio  dispositivo  in
 materia   di   prova   -,   occorre   verificare  se,  in  base  alla
 giurisprudenza formatasi  nelle  materie  coinvolte  dall'innovazione
 normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali che la Corte
 stessa  ha individuato alla introduzione nel nostro ordinamento di un
 processo penale conforme ad un modello meramente astratto di processo
 penale di parti.
   Gia' con riferimento al piano metodologico, infatti,  la  Corte  ha
 affermato    che:    "   ...   la   considerazione   dell'ordinamento
 processual-penale italiano va condotta,  a  prescindere  da  astratte
 modellistiche,  sulla  base  del  tessuto  normativo positivo, la cui
 interpretazione e comprensione non puo' che  derivare  da  un'attenta
 lettura dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega
 e   dei   principi   costituzionali   di   cui  questa  ...  richiede
 l'attuazione. Non va cioe' dimenticato che  "il  sistema  processuale
 delineato  nella  legge delega e poi concretamente attuato nel codice
 e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' (art. 2, comma 1) ad
 attuare "i  caratteri  del  sistema  accusatorio'',  ma  ''secondo  i
 principi ed i criteri specificati nelle direttive che seguono" (sent.
 n.  88  del  1991);  e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima
 l'obbligo di "attuare i  principi  della  Costituzione",  un'adeguata
 considerazione   dell'ordinamento  effettivamente  vigente  non  puo'
 prescindere dagli  interventi  correttivi  che  questa  Corte  si  e'
 trovata a dover apportare".
   Seguendo  tale  prospettiva  occorrera'  prendere le mosse da tutte
 quelle affermazioni e decisioni con cui in questi anni  la  Corte  ha
 esplicitato   i   caratteri   costituzionali  della  azione  e  della
 giurisdizione penale, la funzione assegnata al  processo  penale,  il
 ruolo  che  gioca  al  suo interno il valore costituito dalla ricerca
 della verita' cosiddetta "reale"  o  "materiale"  in  contrapposto  a
 quella "formale" o "processuale".
   Quanto  al  primo  aspetto  la  Corte  -  pronunciandosi in tema di
 reiterazione di dichiarazioni di  ricusazione  fondate  sui  medesimi
 motivi -, ha di recente avuto modo di ribadire (sent. n. 11 del 1997)
 l'esistenza    del   "...   principio   di   indefettibilita'   della
 giurisdizione, ricollegabile a vari principi  costituzionali,  fra  i
 quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre
 alla  sentenza  n.  353  del  1996 e l'ordinanza n. 5 del 1997, v. le
 sentenze nn. 460 del 1995, 114  del  1994,  289  del  1992,  178  del
 1991)".  E  la  Corte, confrontando il principio suddetto a quello di
 uguaglianza  inteso  come  "canone   di   coerenza   dell'ordinamento
 giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...",
 ha  immediatamente  aggiunto:  "E  qui  va  riconosciuta,  certo,  la
 discrezionalita'   del   legislatore   per   quanto   attiene    alla
 individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del
 principio  di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto,
 la nozione stessa di processo. Si' che sono da censurare,  pure  alla
 luce  del  principio  di  razionalita'  normativa,  istituti o regole
 quando  si  prestino  ad  un  uso  distorto,  recando  cosi'  lesione
 dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale".
   Quanto  alla  funzione ed al ruolo del pubblico ministero, la Corte
 si e' espressa in modo assai chiaro nella sentenza n.  88  del  1991:
 "Va  innanzi  tutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe
 ad   affermare   nella   sent.   n.   84   del   1979,   cioe'    che
 ''l'obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione  penale ad opera del
 p.m. ... e' stata  costituzionalmente  affermata  come  elemento  che
 concorre   a   garantire,   da   un   lato  l'indipendenza  del  p.m.
 nell'esercizio della propria funzione  e,  dall'altro,  l'uguaglianza
 dei  cittadini  di  fronte  alla  legge penale''; sicche' l'azione e'
 attribuita a  tale  organo  ''senza  consentirgli  alcun  margine  di
 discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio''.
   Piu'  compiutamente:  il  principio  di legalita' (art. 25, secondo
 comma), che rende doverosa la repressione delle  condotte  violatrici
 della  legge  penale,  abbisogna,  per la sua concretizzazione, della
 legalita' del procedere; e questa, in  un  sistema  come  il  nostro,
 fondato  sul  principio  di  uguaglianza dei cittadini di fronte alla
 legge  (in  particolare,  alla  legge  penale),   non   puo'   essere
 salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale.
   Realizzare   la   legalita'   nell'eguaglianza   non   e',   pero',
 concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata dipende
 da  altri  poteri:  sicche'  di  tali  principi  e'   imprescindibile
 requisito l'indipendenza del p.m.
   Questi  e'  infatti,  al  pari  del giudice, soggetto soltanto alla
 legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione)  e  si  qualifica
 come  ''un  magistrato  appartenente all'ordine giudiziario collocato
 come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni
 altro potere'', che ''non fa valere interessi particolari  ma  agisce
 esclusivamente  a tutela dell'interesse generale all'osservanza della
 legge'' (sentt. nn. 190 del 1970 e 96 del 1975).    Il  principio  di
 obbligatorieta'  e',  dunque, punto di convergenza di un complesso di
 principi basilari del sistema costituzionale, talche'  il  suo  venir
 meno   ne   altererebbe   l'assetto   complessivo.   Di  conseguenza,
 l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito,  ne'
 avrebbe  potuto  scalfirlo.  ...   Per altro verso, l'eliminazione di
 ogni contaminazione funzionale tra giudice  e  organo  dell'accusa  -
 specie  in  tema di formazione della prova e di liberta' personale -,
 non comporta che, sul piano strutturale  ed  organico,  il  p.m.  sia
 separato   dalla   magistratura  costituita  in  ordine  autonomo  ed
 indipendente. Nell'architettura della delega, infatti, il  ruolo  del
 p.m.  non  e'  quello  di mero accusatore, ma pur sempre di organo di
 giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti
 per una giusta decisione,  ''ivi  compresi  gli  elementi  favorevoli
 all'imputato'' (cfr. dir. n. 37...).
   Coerentemente  a  cio', il legislatore delegato ha sottolineato che
 il ''potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini a  tutto
 cio'  che  puo'  formare  oggetto di prova per l'accusa o la difesa''
 tende ''nel rispetto assoluto dei principi del sistema accusatorio  e
 del ruolo di 'parte' del p.m. ad evidenziare la natura ordinamentale,
 giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione'' (Relazione al
 progetto  preliminare,  91);  ed  ha  poi  confermato tale natura nel
 redigere il nuovo art.  190  dell'ordinamento  giudiziario  (art.  29
 testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449).
   3.  -  Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che
 nulla venga  sottratto  al  controllo  di  legalita'  effettuato  dal
 giudice:  ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene
 definito  favor  actionis.  Cio'  comporta  non  solo  il rigetto del
 contrapposto  principio  di  opportunita' che opera, in varia misura,
 nei sistemi ad azione facoltativa ...; ma comporta, altresi', che  in
 casi  dubbi  l'azione  vada  esercitata e non omessa".   Proprio come
 aspetto   della   obbligatorieta'   ed    indisponibilita'    nonche'
 dell'esercizio  imparziale nei confronti di tutti dell'azione penale,
 la  Corte  ha  evidenziato  alcuni  caratteri  che  essa  ha  assunto
 all'interno  dello  stesso  codice del 1998 proprio come applicazione
 concreta della sua configurazione costituzionale: - il  principio  di
 tendenziale  completezza  delle  indagini  (v.  anche sent. n. 92 del
 1992); - il principio di tutela della effettivita' dell'azione, volto
 a contrastare i casi di suo esercizio meramente apparente,  principio
 questo  manifestatosi  in  istituti  quali l'indicazione da parte del
 g.i.p. di ulteriori indagini ritenute necessarie (art. 409, comma  4,
 415,  554,  comma  2, c.p.p., sentt. n. 409 del 1990,  445 del 1990),
 l'opposizione dell'offeso alla richiesta di archiviazione, il  potere
 di  avocazione  del  procuratore  generale,  l'ordine di formulazione
 dell'imputazione.    E'  infine  utile  ricordare  che  le  superiori
 considerazioni  sono  state  riprese  e valorizzate dalla Corte nella
 sentenza n. 111 del 1993 (par. 6), proprio quando si e'  trattato  di
 individuare  i  limiti  costituzionali  ad  un processo penale inteso
 come"... ''processo di parti'', nella misura in cui evoca  lo  schema
 di  una  contesa  tra  parti contrapposte operanti sul medesimo piano
 ..." o come "... tecnica di risoluzione dei  conflitti".    Spostando
 l'attenzione  dal  tema  dell'azione  e della giurisdizione a quello,
 strettamente connesso, dello  scopo  del  processo  penale  la  Corte
 costituzionale  ha avuto modo di affermare che esso deve individuarsi
 nell'"accertare i fatti onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu'
 possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale"
 e che, anche dopo l'entrata in vigore del codice del 1988 ad impianto
 tendenzialmente   accusatorio,  "fine  primario  ed  ineludibile  del
 processo penale non puo' che  rimanere  quello  della  ricerca  della
 verita'"  (sentt. n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n. 258 del 1991).
 I presupposti  costituzionali  di  tali  affermazioni  si  rinvengono
 agevolmente  leggendo  le  summenzionate pronunce, oltre che la sent.
 n. 88 del 1991: esse sono fatte derivare direttamente  dalla  lettura
 combinata  del  principio  di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla
 legge penale, dal principio  di  legalita'  "che  rende  doverosa  la
 punizione  delle  condotte penalmente sanzionate" (sentt. nn. 111 del
 1993, 88 del 1991) e di inviolabilita' della liberta'  personale.  Ma
 ad   essi  si  potrebbero  agevolmente  aggiungere  il  principio  di
 personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per
 il fatto commesso che gli  sia  psicologicamente  imputabile,  dunque
 sono  il  fatto  e  la  sua  imputabilita'  l'oggetto  del processo e
 dell'accertamento), il principio di presunzione di innocenza (l'onere
 della prova in capo all'accusa e'  criterio  nel  contempo  logico  e
 garantistico  che  dimostra  l'impegno dell'ordinamento nella ricerca
 della verita'), il principio di  obbligatorieta'  dell'azione  penale
 (l'azione  e'  obbligatoria  anche  perche' non ad altro tende se non
 all'accertamento secondo verita' dell'ipotesi contenuta nella notizia
 di reato ed all'applicazione della legge, seppure in modi diversi  da
 quelli  processuali), nel principio di difesa (la verita' puo' essere
 affermata solo se "garantita" dalla presenza attiva della difesa  nel
 processo),  nel  principio  di  indipendenza  e  liberta'  morale del
 giudice  in  particolare  nel  momento  del giudizio (principi questi
 ultimi inutili o dannosi se il giudizio  dovesse  servire  a  qualche
 cosa  di diverso che alla ricostruzione del fatto ed all'applicazione
 della legge).
   Tanto premesso, la Corte ha riconosciuto che il  legislatore  aveva
 scelto,    come    metodo    migliore   per   perseguire   lo   scopo
 costituzionalmente assegnato al processo, quello del  contraddittorio
 dibattimentale  che,  insieme all'esigenza di accentuare la terzieta'
 del giudice, aveva "condotto ad introdurre, di massima,  un  criterio
 di  separazione  funzionale  delle  fasi  processuali,  allo scopo di
 privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito  come
 strumento  per  favorire  la  dialettica  del  contraddittorio  e  la
 formazione nel  giudice  di  un  convincimento  libero  da  influenze
 pregresse" (sent. n. 111 del 1993).
   La  Corte ha tuttavia immediatamente osservato che, proprio perche'
 lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella  ricerca
 della  verita',  "...  l'oralita', assunta a principio ispiratore del
 nuovo sistema, non  rappresenta,  nella  disciplina  del  codice,  il
 veicolo  esclusivo  di formazione della prova nel dibattimento ... di
 guisa che in taluni casi  in  cui  la  prova  non  possa,  di  fatto,
 prodursi  oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di
 volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di  fuori  del
 dibattimento"  (sent.  n. 255 del 1992) e, per altro aspetto: "... ad
 un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 25, secondo
 comma, della Costituzione) - che rende doverosa  la  punizione  delle
 condotte  penalmente  sanzionate  -  nonche' al connesso principio di
 obbligatorieta' dell'azione penale (cfr. sent. n. 88 del 1991,  cit.)
 non  sono  consone norme di metodologia processuale che ostacolino in
 modo irragionevole il processo  di  accertamento  del  fatto  storico
 necessario a pervenire ad una giusta decisione (cfr. sent. n. 255 del
 1992)"  (sent.  n. 111 del 1993).  La Corte ha altresi' comprovato il
 fondamento  di  tali  affermazioni  elencando  i  numerosi  casi   di
 formazione  della prova in deroga o al contraddittorio dibattimentale
 o all'altro aspetto dell'oralita' costituito dall'immediato  contatto
 del giudice con la prova nel momento della sua formazione (artt. 392,
 431,  500,  comma  4,  503,  commi 5 e 6, 512, 513) (sent. n. 255 del
 1992); ha individuato la ragion d'essere di  quelle  eccezioni  nella
 necessita'  di non disperdere elementi di prova "non compiutamente (o
 non  genuinamente)  acquisibili  con  il  metodo  orale";  ha  infine
 denominato  tale  fenomeno, considerato il numero e la qualita' delle
 deroghe previste al metodo orale, "principio di non dispersione delle
 prove" (sent. n. 255 del 1992).   La Corte  ha  dunque  correttamente
 rilevato  -  qualificandolo  "principio"  a causa della sua obiettiva
 imponenza - la presenza in seno al codice un procedimento  probatorio
 alternativo   e   sussidiario  rispetto  al  principale  fondato  sul
 contraddittorio per la prova, procedimento attivabile  quando  quello
 principale    sia    o    nell'impossibilita'    di    funzionare   o
 nell'impossibilita' di  produrre  elementi  di  prova  genuini.    La
 presenza  di  tale  procedimento alternativo e sussidiario, come reso
 evidente dalla lettura combinata delle pronunce che si vanno citando,
 e'  fondata  da  un  lato  sulla  configurazione  costituzionale   ed
 istituzionale  del pubblico ministero e, dall'altro, sulla necessita'
 di affermare il principio  di  indefettibilita'  della  giurisdizione
 penale,  principio  anch'esso  strettamente  a  sua volta collegato a
 quelli  di  uguaglianza  e di legalita'.  Proprio sviluppando il tema
 dell'ampiezza degli effetti di tali affermazioni con riferimento  non
 solo  alla  fase  procedurale dell'ammissione della prova, ma anche a
 quello della valutazione degli elementi acquisiti, la Corte ha  avuto
 modo  di  affermare  non  solo  che  ad  un ordinamento improntato ai
 principi suindicati non si confanno norme di metodologia  processuale
 che  ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del
 fatto storico necessario per pervenire ad una  giusta  decisione,  ma
 anche  che  simili  regole  di  predeterminazione  legale  del valore
 persuasivo delle prove sono altresi' dissonanti rispetto ai  principi
 di  fondo  del  nuovo  codice,  che  "''fa  salvo  (e, in aderenza ai
 principi costituzionali non poteva essere  altrimenti)  il  principio
 del  libero  convincimento,  inteso  come  liberta'  del  giudice  di
 valutare la prova secondo  il  proprio  prudente  apprezzamento,  con
 l'obbligo  di  dar  conto  in  motivazione dei criteri adottati e dei
 risultati conseguiti'' (art. 192 c.p.p.; cfr. sent. n. 255 del  1992,
 cit.)" (sent. n. 111 del 1993).
   Anche  con riferimento al tema del ruolo delle parti nel processo e
 dell'esistenza di un preteso  principio  dispositivo  in  materia  di
 prova  la Corte, nella sentenza n. 111 del 1993 si e' pronunciata con
 chiarezza cristallina:  "La  configurazione  del  potere  istruttorio
 conferito  al  giudice  dall'art.  507  come eccezionale, e quindi da
 escludere in caso di decadenza o inattivita' delle  parti,  discende,
 nella  logica  presupposta  dai  giudici  remittenti, dall'assunzione
 dell'immanenza  nel  nuovo  codice,  come  conseguenza  della  scelta
 accusatoria,  di  un  principio  dispositivo  in materia di prova. Si
 tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi
 della delega ne' nel tessuto normativo  concretamente  disegnato  nel
 codice.    E', per la verita', incontroverso che sarebbe contrario ai
 principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione
 concepire come disponibile la tutela giurisdizionale  assicurata  dal
 processo  penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere
 il legame strutturale e funzionale tra  lo  strumento  processuale  e
 l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi
 che   quei  principi  intendono  garantire;  dall'altro,  contraddire
 all'esigenza, ad essi correlata, che la  responsabilita'  penale  sia
 riconosciuta  solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere
 indisponibile della liberta' personale.
   Sotto questo profilo, e' significativo  che  il  nuovo  codice  non
 conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il
 giudice  sul  merito  della  decisione; prova ne sia che ad un simlle
 esito non conduce neanche l'istituto  dell'applicazione  di  pena  su
 richiesta  (cfr. sent. n. 313 del 1990).  Ma un principio dispositivo
 non puo' dirsi esistente neanche sul piano  probatorio,  perche  cio'
 significherebbe  rendere  disponibile,  indirettamente, la stessa res
 iudicanda.
   Ed anche qui la riprova si  ha  nell'altro  rito  speciale  in  cui
 maggior  spazio  e'  riservato alla volonta' delle parti, dato che in
 esso l'accordo di queste sulle  prove  utilizzabili  non  vincola  il
 giudizio  sulla  loro  concludenza;  ed  anzi non puo' neppure essere
 inteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentt. nn.  92
 del  1992  e  56  del  1993)  -  come  assolutamente preclusivo delle
 integrazioni  probatorie  eventualmente  necessarie,  pena   la   sua
 incompatibilita'  con  i principi costituzionali.  Ma l'assunzione di
 un  principio  dispositivo  in  materia  di prova non trova riscontro
 nella normativa positiva neanche sul terreno del giudizio  ordinario.
 il  metodo  dialogico  di  formazione  della  prova e' stato, invero,
 prescelto come metodo di conoscenza dei fatti  ritenuto  maggiormente
 idoneo  al  loro  per quanto possibile pieno accertamento, e non come
 strumento per far programmaticamente prevalere  una  verita'  formale
 risultante  dal  mero confronto dialettico tra le parti sulla verita'
 reale:  altrimenti,  ne  sarebbe  risultata   tradita   la   funzione
 conoscitiva  del  processo, che discende dal principio di legalita' e
 da  quel  suo  particolare  aspetto  costituito  dal   principio   di
 obbligatorieta' dell'azione penale.
   Ma  e'  soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un
 potere dispositivo delle parti in materia di prova.
   Questa Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241  del
 1992,   che  tale  norma  -  inserita  ''in  un  sistema  processuale
 imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla  prova  e  nel
 quale  l'acquisizione  del  materiale  probatorio e' rimessa in primo
 luogo all'iniziativa delle  parti''  -  ''conferisce  al  giudice  il
 potere-dovere   d'integrazione,  anche  d'ufficio,  delle  prove  per
 l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza,  per  qualsiasi  ragione
 dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la
 funzione  di  assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei
 fatti oggetto del processo, onde consentirgli  di  pervenire  ad  una
 giusta decisione''. Richiamata quindi la sentenza delle sezioni unite
 della  Corte di cassazione n. 11227 del 6 novembre - 21 novembre 1992
 nonche' la direttiva n. 73  della  legge  delega  -  che  prevede  il
 "potere  del presidente ... o del pretore di indicare alle parti temi
 nuovi od incompleti utili alla ricerca della verita' e  di  rivolgere
 domande  dirette ....; potere del giudice di disporre l'assunzione di
 nuovi mezzi di  prova  -  la  Corte  cosi'  proseguiva":    "....  Il
 legislatore  delegante  ha cioe' esattamente considerato - in armonia
 con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di  fatto  posto
 dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione che la ''parita' delle
 armi'' delle parti normativamente enunciata puo' talvolta non trovare
 concreta  verifica  nella  realta'  effettuale,  si'  che  il fine di
 giustizia   della   decisione   puo'   richiedere    un    intervento
 riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di
 esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate.
   Il  potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere
 suppletivo, ma non certo eccezionale ...  E' del resto  evidente  che
 sarebbe   contraddittorio,   da   un   lato   garantire   l'effettiva
 obbligatorieta'  dell'azione  penale  contro  le  negligenze   o   le
 deliberate  inerzie  del pubblico ministero conferendo al giudice per
 le indagini preliminari il potere  di  disporre  che  costui  formuli
 l'imputazione ...; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il
 potere  di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica" (sent.
 n. 111 del 1993).  In sostanza, nella pronuncia  appena  indicata  la
 Corte  ha riconosciuto incompatibile con i principi costituzionali di
 uguaglianza,  legalita',  obbligatorieta'  dell'azione   penale,   un
 processo   penale   ridotto  a  "...  tecnica  di  risoluzione  delle
 controversie  nel   cui   ambito   al   giudice   sarebbe   riservato
 essenzialmente  un  ruolo  di garante dell'osservanza delle regole di
 una contesa  tra  parti  contrapposte,  ed  il  giudizio  avrebbe  la
 funzione  non  di  accertare  i  fatti  reali  onde  pervenire ad una
 decisione  il  piu'  possibile corrispondente al risultato voluto dal
 diritto  sostanziale,  ma  di  attingere   -   nel   presupposto   di
 un'accentuata  autonomia  finalistica  del  processo  -  quella  sola
 ''verita''' processuale che sia possibile  conseguire  attraverso  la
 logica  dialettica  del  contraddittorio  e  nel rispetto di rigorose
 regole metodologiche e processuali coerenti al modello".
   Parimenti indicata come incompatibile con i  suddetti  principi  e'
 stata  considerata l'operativita' - propria di un processo di parti -
 "di  un  principio  dispositivo   sotto   il   profilo   probatorio",
 operativita'  cui conseguirebbe "da un lato, l'espansione degli spazi
 di  discrezionalita'   della   parte   pubblica   e   l'accentuazione
 dell'oralita'   come   strumento  della  formazione  della  prova  in
 dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di  intervento
 del   giudice   in   materia   di   prova   come   eccezionale  ...".
 Giurisprudenza contraria a concedere rilevanza ed effetti sostanziali
 alla mera espressione della volonta' di una  parte  -  seppure  parte
 pubblica   cui   sono  proprie  logiche  e  finalita'  esclusivamente
 istituzionali - si e' formata anche con riferimento  alla  originaria
 disciplina  dell'applicazione  della pena su richiesta e del giudizio
 abbreviato.  Con riferimento al primo tipo di  giudizio,  infatti  la
 Corte  ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 444, comma 2, c.p.p.,
 in quanto, "prevedendo che il giudice debba attenersi alla pena cosi'
 come indicata dalle parti, ... non consente di valutare la congruita'
 della pena ai fini e nei limiti di  cui  all'art.  27,  terzo  comma,
 della Costituzione" (sent. n. 313 del 1990).
   Con  riferimento al rito abbreviato la Corte, nella sentenza n.  81
 del  1991,  dichiarando  l'illegittimita'  parziale   del   combinato
 disposto  degli  artt.  438, 439, 440 e 442 c.p.p., ha affermato "E',
 invece, fondata la questione proposta in riferimento all'art. 3 della
 Costituzione sotto il  profilo  dell'irrazionale  disparita'  cui  la
 normativa  impugnata,  vista  dall'interno  della  sua  applicazione,
 darebbe luogo tanto nei rapporti fra p.m.  ed  imputato,  quanto  nei
 rapporti tra imputato ed imputato.
   Non  risponde,  infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza
 una disciplina che autorizza il p.m. ad opporsi non  soltanto  a  una
 ''determinata  scelta  del  rito  processuale''  ...,  ma anche a una
 consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato  in  caso
 di  condanna,  senza  neppure  dover  esternare  le  ragioni  di tale
 opposizione,  cosi'  sottraendola   all'''obiettiva   ed   imparziale
 valutazione  del  giudice''.   Per giunta, in un sistema, come quello
 del  nuovo  codice,  imperniato  sul  principio  di  ''partecipazione
 dell'accusa  e  della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado
 del procedimento'' (art. 2, n. 3, legge 16 febbraio 1987, n. 81), non
 dovrebbe essere consentito che i rapporti fra  p.m.  ed  imputato  si
 sbilancino  al  punto  che  il primo, con un semplice atto di volonta
 immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di  privare
 il  secondo  di  un rilevante vantaggio sostanziale" (sent. n. 81 del
 1991).  Di tale sentenza e di quella n. 66 del 1990, la Corte ha reso
 interpret  azione autentica nel momento in cui, in seno alla sentenza
 n. 92 del 1992, ha rilevato: "il nucleo essenziale di tali  decisioni
 sta  nel  riconoscimento  dell'incompatibilita'  con  un  ordinamento
 costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e legalita'  della
 pena,  di  una  disciplina  che  affida(va)  a scelte discrezionali -
 immotivate  e,  quindi,  insindacabili  -  del   pubblico   ministero
 l'accesso   dell'imputato   ad   un   rito   dal  quale  scaturiscono
 automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena".
   Traendo le conseguenze delle superiori affermazioni  la  Corte  con
 riferimento  alla  fase  dibattimentale  e  mediante  la pronuncia di
 sentenze di accoglimento od interpretative di rigetto, ha considerato
 ostacoli irragionevoli o in se stessi o rispetto al  sistema:  a)  il
 divieto   di   testimonianza  de  relato  della  polizia  giudiziaria
 (sentenza n.  24 del 1992); b) l'omessa previsione  dell'acquisizione
 delle  dichiarazioni  di  imputati in procedimento connesso, anche se
 rese alla polizia  giudiziaria  su  delega  del  pubblico  ministero,
 quando  essi si fossero avvalsi in dibattimento della facolta' di non
 rispondere (sentt.  n. 254 del 1992 e n. 60 del 1995); c)  l'utilizzo
 solo  ai  fini  della valutazione di credibilita' delle dichiarazioni
 predibattimentali utilizzate per le contestazioni ai testimoni (sent.
 n. 255 del 1992).
   Inoltre la Corte ha: a) riconosciuto l'acquisibilita' ex  art.  512
 c.p.p.,  delle  dichiarazioni  dei  prossimi  congiunti  che si siano
 avvalsi in dibattimento della facolta' di non  rispondere  (sent.  n.
 179  del  1994); b) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p.,
 delle dichiarazioni predibattimentali del teste  affetto  da  amnesia
 assoluta  sui  fatti  di  causa, dovuta ad infermita' (ord. n. 20 del
 1995).
   Sempre in forza dei summenzionati principi, inoltre,  la  Corte  ha
 dichiarato  legittimo  l'art.  507  c.p.p.,  solo se interpretato nel
 senso che  esso  consentisse,  nell'inerzia  delle  parti,  l'impulso
 giudiziale nella acquisizione della prova (sent. n. 111 del 1993).
   4.2.  -  Profili  di  non manifesta infondatezza della questione di
 legittimita'.
   Tracciato il  quadro  generale  della  giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale  rilevante  in materia, occorre procedere a verificare
 se, rispetto alla disciplina dell'art. 513,  comma  1,  c.p.p.,  come
 sostituito  dall'art.    1, legge n. 267 del 1997, siano ipotizzabili
 violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati.
   Il tribunale rinviene alcune prospettive di violazione, quanto meno
 non manifestamente infondate.
   4.2.1. - Ostacolo irragionevole alla formazione della  prova,  alla
 funzione   conoscitiva   del   dibattimento  ed  all'esercizio  della
 giurisdizione   mediante   l'introduzione   di   un   meccanismo   di
 disposizione  della  prova:    contrasto con gli artt. 3, 25, secondo
 comma, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111, primo comma,  della
 Costituzione.    Per  apprezzare  i  vari  profili  di  dubbio  sulla
 legittimita' della norma in questione, occorre premettere che  questo
 tribunale considera le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria su
 delega  del pubblico ministero dagli imputati poi contumaci o assenti
 in dibattimento come atti divenuti imprevedibilmente irripetibili.
    Che si tratti di atti irripetibili risulta  evidente  sol  che  si
 consideri  che  l'esercizio della facolta' di non sottoporsi ad esame
 (implicitamente  esercitata  con   la   mancata   partecipazione   al
 dibattimento)  da  parte  degli  imputati che abbiano reso in sede di
 indagini dichiarazioni etero-accusatorie impedisce in  toto  la  loro
 rinnovazione   dibattimentale   ed   una   nuova   acquisizione   nel
 contraddittorio delle parti di elementi probatori  provenienti  dalla
 stessa   fonte.      Percio',   a   precludere  la  possibilita'  del
 contraddittorio, in  astratto  possibile,  e'  l'esercizio  da  parte
 dell'imputato    in    procedimento    connesso   di   una   facolta'
 riconosciutagli dalla legge.
   Che l'irripetibilita' dell'atto  sia  imprevedibile  e'  facilmente
 verificabile   considerando   la   natura   dell'atto  che  e'  causa
 dell'irripetibilita' - la mancata comparizione al dibattimento - e  i
 diversi  e contrapposti interessi che possono muovere il soggetto che
 e' titolare di quella facolta' alla decisione  di  esercitarla.    Si
 tratta,  invero, di un atto discrezionale, immotivato, insindacabile,
 frutto di una personale valutazione  che  l'imputato  fa  dei  propri
 interessi  processuali  ed anche extraprocessuali. D'altro canto, chi
 abbia reso in sede di indagini dichiarazioni a carico di altri ben si
 rende conto che esse possono avere gravi  conseguenze,  sia  per  lui
 medesimo nel caso di confessione di delitti ovvero di falsita' (artt.
 367  e  ss.  c.p.),  sia  per  il  terzo  che  ne  risulta coinvolto,
 conseguenze che vanno dal rinvio a giudizio all'applicazione  di  una
 misura    cautelare.    Una    siffatta   pregressa   assunzione   di
 responsabilita' indurrebbe a ritenere che l'imputato o l'imputato  in
 procedimento  connesso  reiterera'  le  dichiarazioni  a carico degli
 accusati.
   In forza di tali caratteristiche dell'esercizio della  facolta'  di
 non  presenziare al dibattimento (e, indirettamente di non sottoporsi
 ad esame), del soggetto che  la  esercita,  dei  motivi  che  possono
 spingerlo  a  cio',  ben  si  puo'  affermare  che  non  e' possibile
 prevedere, prima che il soggetto sia decaduto  dalla  possibilta'  di
 sottoporsi   all'esame,   se   la  facolta'  di  sottoporvisi  verra'
 esercitata  o  no  (cosi'  anche,  con  riferimento  all'imputato  in
 procedimento  connesso,  trib.  minorenni  Bologna, pres. Longo, imp.
 Ciavardini, ord. 19 settembre  1997,  proc.    n.  64/1992  r.g.,  n.
 335/1989  r.n.r.;  cfr.  anche  sent. Corte costituzionale n. 254 del
 1992).
   Va comunque  sottolineato  con  forza  che  non  sarebbe  razionale
 richiedere  al  pubblico ministero di prevedere i comportamenti delle
 controparti del processo, poiche', in tal caso ed in assenza  di  una
 disciplina  generalizzata  dei  rapporti  tra  pubblico  ministero  e
 collaboranti, si finirebbe per  riconoscere  effetto  giuridico  (sub
 specie  di  eventuale  inutilizzabilita'  della  prova)  a  possibili
 comportamenti ingannatori di tali soggetti nei confronti del pubblico
 ministero medesimo.
   Cio' premesso, il problema che si e' posto all'attenzione di questo
 tribunale e' se sia costituzionalmente corretto che,  nell'ambito  di
 un  sistema  accusatorio,  il  legislatore, allo scopo di tutelare il
 contraddittorio,     introduca     meccanismi     che     impediscono
 l'utilizzabilita'   di   elementi  di  prova  raccolti  dal  pubblico
 ministero   in   assenza   di   contraddittorio   e   di   cui    sia
 imprevedibilmente  sopravvenuta  l'irripetibilita'.   La soluzione da
 dare al quesito suddetto  necessita  di  una  ulteriore  precisazione
 preliminare,  e cioe' che, nel presente processo - come in ogni altro
 giudizio di primo grado in corso -, al pubblico ministero, attesa  la
 fase  processuale  in  cui il processo si trova, e' rimasta del tutto
 preclusa  la  possibilita'  di   chiedere,   in   fasi   antecedenti,
 l'assunzione  della prova con incidente probatorio, i cui presupposti
 di ammissione sono stati notevolmente ampliati solo con l'entrata  in
 vigore  della  stessa  legge  n.  267  del  1997  (art.  4,  comma 1,
 modificativo dell'art. 392, comma  1,  lett.  c)  e  d)  c.p.p.).  Ed
 invero, nel corso della celebrazione del dibattimento, non e' nemmeno
 prospettabile  l'esigenza  di anticipare le forme di assunzione della
 prova che gli sono proprie al fine di evitare la perdita di una prova
 presumibilmente non rinnovabile in futuro. Non  mette  conto  percio'
 trattare  qui  della  situazione in cui il pubblico ministero avrebbe
 effettivamente potuto chiedere  l'incidente  probatorio  in  fase  di
 indagini  e  dell'efficacia  (invero dubbia, atteso che anche in tale
 sede le  persone  sottoposte  ad  indagine  possono  avvalersi  della
 facolta'  di  non  rispondere, che il meccanismo puo' essere attivato
 anche dalla difesa addirittura in sede di  udienza  preliminare,  che
 non  si  vede  percio' perche' i risultati della sua omessa richiesta
 debbano  ricadere  esclusivamente  sul  pubblico  ministero,  che  e'
 costituzionalmente  discutibile  che si abbandoni la formazione della
 prova a scelte di mera strategia processuale delle  parti)  che  tale
 circostanza  puo'  spiegare  sulla valutazione del superamento o meno
 dei limiti costituzionali con riferimento alla disciplina  introdotta
 con il nuovo art. 513, c.p.p.  Ad ogni buon conto, nel caso di specie
 -  irripetibilita' sopravvenuta di un atto di acquisizione probatoria
 -, la regola generale e' quella della  utilizzabilita'  a  condizione
 che la causa dell'irripetibilita' fosse imprevedibile, regola volta a
 spingere  il  pubblico  ministero  ad  attivare  istituti  (incidente
 probatorio) che consentono  la  formazione  anticipata  della  prova.
 Occorre  pero' ulteriormente considerare che, nel caso che ne occupa,
 l'attivazione di tali istituti non era, come si e' detto,  possibile.
 Percio',  anche  quando,  per avventura, si volesse far incombere sul
 pubblico ministero l'onere di formulare previsioni circa  l'esercizio
 o  no  della  facolta'  di  non presenziare al dibattimento (e di non
 rispondere) rispondere da parte degli imputati e si volesse sostenere
 che  quell'onere  puo'  essere  ragionevolmente   assolto,   tuttavia
 l'eventuale  ritenuta prevedibilita' dell'esercizio della facolta' di
 astensione  non  rileverebbe  comunque  perche',  in  ogni  caso,  la
 sopravvenuta  irripetibilita'  non poteva essere prevenuta innescando
 l'incidente   probatorio.   Cioe',   anche   se    la    sopravvenuta
 irripetibilita'  fosse stata - per ipotesi - prevedibile, al pubblico
 ministero non sarebbe stato consentito porre rimedio ad una  siffatta
 situazione anticipando l'acquisizione della prova in contraddittorio.
 Ne  deriva  la  necessita' - ex art.  3 Cost. - di assimilare, quanto
 all'aspetto della loro utilizzabilita' dibattimentale, la  disciplina
 degli  atti  divenuti  irrimediabilmente  irripetibili a quella degli
 atti divenuti imprevedibilmente irripetibili.
   Tanto precisato, occorre notare che al quesito sopra  indicato  era
 lo  stesso  legislatore del 1988 ad avere risposto negativamente, nel
 senso  che  -  pressocche'  in  tutti   i   casi   di   imprevedibile
 irripetibilita'   dell'atto   -  aveva  previsto  un  meccanismo  che
 consentiva il recupero degli atti divenuti irripetibili.  Cio'  aveva
 consentito  alla  Corte  costituzionale  di  armonizzare  il sistema,
 colmandone le lacune in  forza  dell'art.  3  Cost.  -  caso  tipico,
 proprio quello di cui alla sent. n. 254 del 1992 - ed appianandone le
 piu'  stridenti  disarmonie.    In tali occasioni, tuttavia, la Corte
 aveva enunciato i principi  sopra  indicati  (par.  4.1),  capaci  di
 spiegare  i  loro  effetti  ben  oltre  lo  stato  della legislazione
 positiva  al  momento  della  loro  enunciazione.   In   particolare,
 attualmente,   il   legislatore  ha  direttamente  ed  esplicitamente
 introdotto un meccanismo di blocco, a discrezione  delle  parti,  del
 regime  sussidiario ed alternativo di formazione della prova a fronte
 della sua irripetibilita' dibattimentale,  fondato  su  due  cardini:
 perdurante  concessione  all'imputato  (ed  imputato  in procedimento
 connesso) che abbia (direttamente o  indirettamente)  accusato  altri
 della  facolta'  di non rispondere in dibattimento; subordinazione al
 consenso dei  soggetti  attinti  dall'efficacia  indiziante  di  tali
 dichiarazioni   dell'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni  medesime.
 Cio' impegna, indubbiamente, ad un compito parzialmente nuovo,  cioe'
 non  meramente  ricostruttivo  del  sistema  in  base al principio di
 ragionevolezza, ma alla valutazione diretta della sua  compatibilita'
 con i principi costituzionali.  Tuttavia, a fronte delle enunciazioni
 che  la  Corte costituzionale ha reso nelle sentenze sopra menzionate
 il sospetto  di  illegittimita'  non  puo'  ritenersi  manifestamente
 infondato.
   Se il processo deve tendere alla ricerca della verita' reale, se il
 processo  in  generale  ed  il  dibattimento in particolare hanno una
 funzione conoscitiva del fatto che ne  e'  oggetto,  se  il  pubblico
 ministero  e'  istituzionalmente  organo di giustizia che si muove al
 fine di applicare la legge e compie validamente  atti  normativamente
 previsti  su  cui  possono  fondarsi  per  legge altri atti lesivi di
 diritti costituzionali primari, se il codice stesso prevede  numerosi
 meccanismi  di  recupero  dell'utilizzabilita'  di  atti  formati dal
 pubblico   ministero   quando   siano   divenuti    imprevedibilmente
 irripetibili  cioe'  quando  il  contraddittorio  sia  -  per ragioni
 materiali o giuridiche - divenuto impossibile, allora sembra evidente
 dover dubitare di un meccanismo  processuale  che  per  un  verso  si
 risolve  nel  precludere  l'esercizio dell'azione penale e, per altro
 verso, nel precludere l'utilizzazione da parte del  giudice  di  atti
 che  appartengono  a  quella  categoria,  in tal modo impedendogli di
 accertare il fatto con la necesaria precisione e  compiutezza  e,  in
 base  a  tale  accertamento, di pervenire ad una giusta decisione.  I
 diversi aspetti di tale sillogismo  necessitano  di  una  spiegazione
 analitica.   Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina in
 questione al principio di  razionalita'  nell'esercizio  obbligatorio
 dell'azione  penale  (artt.  3  e 112 Cost.).   A questo scopo devono
 essere pur sommariamente chiariti la natura ed il valore  degli  atti
 compiuti  dal  pubblico  ministero  (o,  che e' lo stesso, degli atti
 compiuti dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero).
   Si tratta certamente di atti formati in assenza di  contraddittorio
 ed  in  segreto,  ma  si  tratta  anche di atti compiuti da un organo
 giudiziario,  pubblico,  indipendente,  la  cui  azione  e'   rivolta
 esclusivamente  all'applicazione  imparziale della legge (sent. n. 88
 del 1991). Si tratta altresi'  di  atti  che  godono  di  particolari
 garanzie  quanto  alla  rispondenza  alla realta' del loro contenuto,
 trattandosi  di  verbali.    Proprio  per  questa  loro   particolare
 affidabilita',  la  legge  conferisce  utilizzabilita'  agli elementi
 raccolti dal p.m. nelle indagini con  riferimento  sia  ad  atti  che
 spiegano  i  loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.:
 esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti  che
 spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine
 di  emettere  sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone
 il giudizio), sia ad  atti  che  incidono  profondamente  su  diritti
 costituzionali  primari  dei cittadini (es.:  emissione di decreti di
 perquisizione e sequestro, adozione di misure  cautelari  personali).
 Non solo, l'utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini -
 tra  le  quali  le  dichiarazioni  dei coimputati o degli imputati in
 procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa, ma  e',  in
 base  all'art. 112 Cost., obbligatoria.  Ne deriva che costituisce un
 irragionevole ostacolo al  razionale  esercizio  dell'azione  penale,
 oltre  che  una  evidente  contraddizione ordinamentale, disporre che
 atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio
 della  sua  funzione,   quando   siano   divenuti   imprevedibilmente
 irripetibili  -  con  conseguente  esclusione del contraddittorio non
 imputabile al pubblico ministero medesimo -,  siano  utilizzabili  in
 dibattimento  solo  con  il consenso degli imputati nei confronti dei
 quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i
 propri dannosi effetti.
   Risulta cioe' irrazionale da un lato imporre al pubblico  ministero
 di  raccogliere,  in modo tendenzialmente completo, elementi di prova
 circa il fatto, imporgli di chiedere misure  cautelari  eventualmente
 ottenendole, introdurre meccanismi di garanzia contro la sua inerzia,
 e  poi,  quando  quegli  elementi  siano  divenuti  imprevedibilmente
 irripetibili, conferire al soggetto controinteressato  il  potere  di
 disporre  a suo piacimento della loro utilizzabilita' secondo logiche
 che, per la natura del soggetto investito  del  potere,  non  possono
 essere   che   strettamente   egoistiche,  privatistiche  e  comunque
 discrezionali, insindacabili ed immotivate.   Riformulando,  adattato
 al  caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 81 del 1991 si
 potrebbe dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti  fra
 p.m.  ed  imputato  si  sbilancino  al  punto  che il secondo, con un
 semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile,  si
 trovi  in grado di privare il primo degli elementi di prova, divenuti
 imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili, in base ai quali
 ha esercitato l'azione penale".  Riformulando, adattato al  caso  che
 ne  occupa,  un  passaggio della sentenza n. 111 del 1993 si potrebbe
 dire: "... sarebbe contraddittorio, da un lato garantire  l'effettiva
 obbligatorieta'   dell'azione   penale  contro  le  negligenze  o  le
 deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al  giudice  per
 le  indagini  preliminari  il  potere  di disporre che costui formuli
 l'imputazione ...; e, dall'altro, consentire che l'utilizzo  di  atti
 delle  indagini,  sui  quali  si  e'  fondato l'esercizio dell'azione
 penale  sino  a  quel  momento  e   divenuti   imprevedibilmente   od
 irrimediabilmente  irripetibili,  possa  essere impedito dallo stesso
 pubblico ministero o dalle altre parti con  una  nuda  ed  immotivata
 manifestazione di volonta'".
   Va  altresi'  data  risposta negativa, per quanto qui e' possibile,
 circa la compatibilita' tra la disciplina di  cui  si  discute  e  la
 funzione  conoscitiva,  di  tendenziale  accertamento  della  verita'
 reale, attribuita dalla Costituzione al processo  penale  (cfr.  par.
 4.1).   E' indubbio, infatti, che la sottoposizione all'accordo delle
 parti della lettura  e  quindi  dell'acquisizione  di  atti  divenuti
 imprevedibilmente   irripetibili   costituisca   un   ostacolo   alla
 formazione del convincimento giudiziale  e  quindi  all'approssimarsi
 del  risultato  processuale alla verita', nella parte in cui consente
 che tali atti  siano  -  senza  alcuna  possibilita'  di  recupero  -
 sottratti  al  convincimento  medesimo mediante una manifestazione di
 volonta'  discrezionale,  insindacabile  ed  immotivata.      Occorre
 tuttavia  valutare  la  ragionevolezza della introduzione di siffatto
 ostacolo.    Certo,  rispetto  a  situazioni identiche, si coglie con
 immediatezza una ingiustificabile differenza.  Invero, solo  rispetto
 a  dichiarazioni  di  imputati contumaci o assenti o che si avvalgano
 della facolta' di non rispondere e' stato introdotto  il  potere  dei
 coimputati  di  impedirne ad nutum l'utilizzo, mentre con riferimento
 ad altre identiche situazioni  di  imprevedibile  irripetibilita'  di
 atti dello stesso tipo, tale potere non e' riconosciuto.
   Di  quest'ultima situazione costituiscono esempi i casi di imputato
 in procedimento connesso (o coimputato) di cui  sia  sopravvenuto  il
 decesso,  o  di  soggetto  che  decida  di sottoporsi all'esame ma si
 astenga  dal  rispondere  a  singole  domande  (fatto  che   consente
 contestazione ed utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali:
 art.  503)  e  di  testimone  prossimo congiunto che si avvalga della
 facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994).  Ne' pare che  la
 diversa  causa  di  irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il
 decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizio della facolta'
 di  non  rispondere)  -  possa  in   alcun   modo   giustificare   la
 diversificazione  delle discipline dell'utilizzabilita' degli atti di
 cui si discute, poiche' l'effetto dell'azione di tali cause sull'atto
 e' identico (irripetibilita') e perche' l'unica differenza -  diritto
 di  difesa  attuale  rispetto  al  vivo  ma  non  rispetto al morto -
 riguarda  il  dichiarante,  ma  non  i  soggetti  attinti  dalle  sue
 dichiarazioni  rispetto  al cui diritto al contraddittorio le diverse
 cause  di  irripetibilita'  agiscono  in  modo  identico,  rendendolo
 impossibile.    Si  tratta  cioe'  di  casi  identici  -  in  cui  il
 contraddittorio e' inibito senza che cio' sia imputabile al  pubblico
 ministero   -   alcuni  dei  quali  subiscono  pero'  un  trattamento
 irragionevolmente  diverso.     Esiste  un   ulteriore   profilo   di
 irragionevolezza  nell'ostacolo frapposto alla formazione della prova
 mediante  il  procedimento  alternativo  e  sussidiario  piu'   volte
 menzionato,  profilo attinente proprio alla devoluzione alle parti in
 generale, ed in particolare  agli  imputati,  della  decisione  circa
 l'utilizzabilita'  in  dibattimento di elementi raccolti dal pubblico
 ministero in sede di indagini  (elementi  che  possono  spiegare  una
 diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia
 sopravvenuta imprevedibilmente l'irripetibilita'.
   La  Corte  costituzionale,  come  si  e' detto, ha gia' avuto modo,
 ragionando su fattispecie  di  decadenza  colposa  o  consapevolmente
 determinata  del  pubblico  ministero  dalla prova, di affermare come
 "incontroverso che sarebbe contrario ai  principi  costituzionali  di
 legalita'   ed  obbligatorieta'  dell'azione  penale  concepire  come
 disponibile  la  tutela  giurisdizionale  assicurata   dal   processo
 penale";  e,  immediatamente dopo, che disporre della prova equivale,
 indirettamente, a disporre della stessa res iudicanda (sent.  n.  111
 del 1993).  Parimenti incontroverso, a parere del tribunale e' che la
 normativa  di  cui  si  tratta abbia introdotto il potere di ciascuna
 delle parti di disporre della prova e,  indirettamente,  dell'oggetto
 del  processo.    Ulteriore  conferma di tale conclusione si rinviene
 analizzando gli interessi  tutelati  dal  tipo  di  atto  di  cui  si
 discute.    Trattandosi, come si e' detto, del potere attribuito alle
 parti del processo, di inibire l'uso di prove,  l'aspetto  di  tutela
 del  diritto  di difesa appare prospettabile solo come stimolo per il
 p.m.  a chiedere l'incidente probatorio.  Nel caso di specie tuttavia
 - a prescindere dalla circostanza che sembra  singolare  attivare  il
 potere di interdizione di una parte quando i motivi di prevedibilita'
 o  meno  dell'esercizio  della  facolta'  di  non rispondere sono gli
 stessi anche per la difesa degli imputati  ed  anch'essa  ha,  se  le
 interessa,   il   medesimo   potere   di  attivazione  dell'incidente
 probatorio, che essi potevano chiedere di essere interrogati in  sede
 di  udienza preliminare, oggi anche nelle forme dell'esame incrociato
 - l'incidente probatorio era precluso, cosicche' la disciplina di cui
 si discute non puo' sortire nemmeno  in  astratto  alcun  effetto  di
 tutela   del  contraddittorio  ma  solo  l'effetto  di  sottrarre  al
 giudizio, senza  alcuna  possibilita'  di  recupero,  prove  divenute
 imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili.
   Deve   altresi'   osservarsi   che   la   Corte  costituzionale  ha
 costantemente  affermato  che  il  diritto  di  difesa,  per   quanto
 inviolabile,  non  puo'  non  trovare contemperamento e bilanciamento
 rispetto ad  altri  concorrenti  principi  parimenti  tutelati  dalla
 costituzione  e  che,  quindi,  il  suo livello di tutela deve essere
 rapportato alle singole, e diverse, situazioni processuali.  Nel caso
 di  specie,  la  disciplina  originaria  dell'utilizzabilita'   delle
 dichiarazioni  predibattimentali  dell'imputato  (fatta  propria, con
 riferimento all'imputo in procedimento connesso che si avvalga  della
 facolta'  di non rispondere, dalla stessa Corte costituzionale con la
 sentenza n. 254 del 1992), tendeva a bilanciare due  valori  diversi:
 l'esercizio  dell'azione  penale,  ma  soprattutto  ed ancor di piu',
 l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa,  da  un  lato,  e,
 dall'altro,  l'esercizio  del  diritto  di  difesa,  che non rimaneva
 affatto impedito ma soltanto limitato dall'esercizio,  da  parte  del
 coimputato  od  imputato in procedimento connesso, del suo diritto di
 difesa, sub specie di diritto di non rispondere in dibattimento anche
 alle domande di chi, direttamente od indirettamente, aveva  accusato.
 Impedito   dall'imputato   l'esercizio  del  diritto  di  difesa  del
 coimputato nel momento di genesi  della  prova,  veniva  attivato  il
 procedimento  sussidiario ed altemativo di formazione della prova che
 comunque consentiva il tradizionale esercizio del diritto  di  difesa
 sulla  prova  formata  (oltre  ad  introdurre,  di  fatto,  argomenti
 sfavorevoli all'intrinseca credibilita' del dichiarante).
   Infine, quanto  all'irragionevolezza  dell'ostacolo  frapposto  dal
 nuovo  art.  513,  comma  1,  c.p.p, alla formazione della prova, non
 sembra superfluo sottolineare che in caso di assenza al  dibattimento
 dell'imputato  dichiarante  infatti  - posto che le sue dichiarazioni
 predibattimentali non sono considerate  ontologicamente  inaffidabili
 dal  legislatore  che,  altrimenti,  non  ne  avrebbe  consentito  la
 documentazione e l'utilizzo anche in fase di indagini preliminari  ed
 anche   a   fini   cautelari   -   il  meccanismo  normativo  risulta
 semplicemente paradossale:  i veti incrociati di soggetti  privati  -
 quali sono gli imputati - possono precludere l'esercizio stesso della
 giurisdizione  e prima ancora quello dell'azione penale.  Considerato
 che i soggetti predetti  agiscono,  come  si  notava,  per  interessi
 privatissimi  e  sinanco  meramente  egoistici,  l'ostacolo frapposto
 all'esercizio  della  giurisdizione  non  puo'  non  essere  ritenuto
 irrazionale.   La stessa Corte costituzionale (sent. n. 111 del 1993)
 ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico
 ministero - organo cui pure la  Corte  riconosce  funzioni  pubbliche
 finalizzate  esclusivamente all'applicazione della legge (sent. n. 88
 del 1991) - di disporre del processo disponendo della  prova  (potere
 riconosciutogli  dai  giudici  di  merito  remittenti  grazie  ad una
 interpretazione dell'art.  507, c.p.p. ritenuta illegittima).
   A questo punto non si puo' non considerare  illegittimo  a  maggior
 ragione  l'analogo potere riconosciuto dalla legge agli imputati che,
 come tali, orientano i loro comportamenti secondo  logiche  meramente
 individualistiche.      E'  altresi'  prospettabile,  considerate  le
 precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25, secondo
 comma, nella parte in cui prevede  che  i  colpevoli  debbano  essere
 puniti.  E  'invero quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo
 da parte del giudice  di  elementi  di  prova  irripetibili  raccolti
 durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali
 elementi  spiegano  la  loro  efficacia  probatoria,  si consente che
 l'imputato stesso, mediante  una  scelta  discrezionale,  immotivata,
 insindacabile  ed eventualmente ispirata ad interessi non tutelabili,
 impedisca l'accertamento del fatto e percio'  delle  sue  (eventuali)
 responsabilita'.    In sostanza, si consente all'imputato, disponendo
 della prova a suo carico,  di  disporre  indirettamente  dell'oggetto
 stesso  del  processo,  in  violazione  - gia' riconosciuta una volta
 dalla Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  111  del  1993  con
 riferimento  all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art.
 507, c.p.p. recepita dai giudici remittenti  -  degli  artt.  3,  25,
 secondo comma, 27, primo comma, Cost.  Ne' puo' essere richiamato, in
 contrario  avviso,  il principio di presunta innocenza dell'imputato,
 poiche' tale principio, se fosse interpretato nel senso assolutistico
 di conferimento all'imputato del  potere  di  interdire  l'assunzione
 delle  prove  a  suo  carico,  renderebbe  inutile l'esercizio stesso
 dell'azione penale e della giurisdizione  annullando  il  valore  dei
 connessi principi.
   Va  approfondito, seguendo prospettive gia' accennate, il contrasto
 della disciplina di cui si discute con gli  artt.  101  e  111  della
 Costituzione.   E' banale osservare che la formazione del razionale e
 motivato convincimento giudiziale - artt. 3, 101, secondo comma,  111
 Cost.    - non e' solo parte integrante dell'esercizio della funzione
 giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo  stesso  dl  processo  si
 invera.
 Ebbene,  a  parere  del  tribunale,  la  normativa  di cui si tratta,
 introducendo il potere delle parti di disporre  della  prova  -  tale
 essendo  lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento
 raccolto  in  sede  di  indagini  dal  pubblico  ministero   divenuto
 imprevedibilmente  od  irrimediabilmente  irripetibile -, consente di
 sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice,  in  tal
 modo  impedendogli  di  formarsi  un convincimento che si avvicini il
 piu'  possibile  alla  reale  verificazione  dei  fatti  e,   quindi,
 impedendo  la  pronuncia  di una giusta decisione.  Vale anche notare
 che,  almeno   nella   materia   dell'utilizzabilita'   delle   prove
 processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve
 a  privati  quali sono gli imputati, la decisone ultima e definitiva,
 oltre che discrezionale, immotivata ed incontrollabile (tali non sono
 le scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti speciali, che hanno
 sempre come alternativa il giudizio  ordinario)  sull'utilizzabilita'
 delle  prove,  allora  appare  violata  dalla  legge stessa la regola
 secondo cui il giudice e' soggetto solo alla  legge  per  il  tramite
 formale  di  una  norma  giuridica  il giudice - nell'esercizio della
 funzione  che  gli  e'  piu'  propria,  il  giudizio  -  viene  fatto
 soggiacere alle decisioni altrui.
   Si  individuano,  infine,  contrasti  della  normativa in questione
 rispetto alla posizione della parte civile.
   Da un lato, infatti, la disciplina descritta contrasta anche con il
 diritto di difesa della parte  civile  (artt.  24,  primo  e  secondo
 comma, Cost.), poiche' la devoluzione agli imputati della facolta' di
 impedire  l'utilizzo  di elementi di prova divenuti imprevedibilmente
 irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base a quanto detto in
 precedenza  -  il  suo  diritto  di  veder  tutelati  gli   interessi
 privatistici di cui assume avvenuta la lesione ad opera dell'imputato
 con  la commissione del reato.  Mette conto notare, in proposito, che
 la parte civile non puo', nella fase delle indagim  preliminari,  ne'
 chiedere  ne'  partecipare,  come  tale,  all'incidente probatorio e,
 nell'udienza preliminare, puo' parteciparvi se chiesto  da  altri  ma
 non  chiederlo  (art.  392, comma 1, c.p.p., non modificato, quanto a
 legittimazione alla richiesta dalla sentenza Corte cost.  n.  77  del
 1994).    Percio', ammesso e non concesso che possa onerarsi la parte
 civile della previsione in ordine all'esercizio o no  della  facolta'
 di non rispondere da parte degli imputati od imputati in procedimento
 connesso,  la  parte  in  questione  non  potrebbe, anche se volesse,
 rimediare    mediante     l'anticipazione     del     contraddittorio
 all'(eventualmente)  prevedibile esercizio di quella facolta'. Cioe',
 rispetto alla parte civile, le dichiarazioni rese al  p.m.  (od  alla
 p.g.  su  delega)  dall'imputato  assente  in  dibattimento  o che si
 avvalga   della   facolta'   di   non    rispondere    sono    sempre
 irrimediabilmente   irripetibili.      Di   qui  l'irrazionalita'  di
 consentire che  gli  imputati  possano  eliminare  l'utilizzabilita',
 anche  rispetto  alla  parte  civile, delle dichiarazioni rese a loro
 carico dai coimputati prima del dibattimento e divenute irripetibili.
   5. - Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
 dell'art.  208, c.p.p., nella parte in cui prevede che l'imputato che
 abbia reso alla polizia  giudiziaria  operante  su  delega  del  p.m.
 dichiarazioni  direttamente  od indirettamente indizianti a carico di
 altri imputati, possa avvalersi, nel dibattimento, della facolta'  di
 non  sottoporsi  all'esame  e  di  non  rispondere.    Ritiene questo
 collegio che le discrasie e le contraddizioni in cui  si  involge  la
 disciplina  introdotta  con  l'art.  1  legge n. 267 del 1997 - ed in
 particolare quella di cui al comma 1,  dell'art.    513,  c.p.p.,  -,
 siano  dovute  alla  creazione  legislativa  di  un  vero  e  proprio
 conflitto - in quano tale irragionevole - tra diritto  di  difesa  ed
 esercizio  della  funzione giurisdizionale.   Infatti, tutelando sino
 all'estremo limite, per un verso il diritto al contraddittorio  degli
 imputati  e,  per  altro  verso  il  loro  diritto  a  non sottoporsi
 all'esame dibattimentale - entrambi  espressione  del  piu'  generale
 diritto  di  difesa  -,  la legge finisce per sacrificare l'esercizio
 della giurisdizione: in  nome  del  suo  diritto  al  contraddittorio
 ciascun   imputato   puo'   vietare  ad  nutum  l'utilizzabilita'  di
 dichiarazioni rese a suo carico di un altro imputato che, in nome del
 suo diritto di difesa,  abbia  reso  impossibile  il  contraddittorio
 medesimo avvalendosi ad nutum della facolta' di non rispondere.
   Da  tale  pur  sintetica analisi emerge immediatamente per un verso
 l'irragionevolezza del meccanismo poiche' gli artt. 2, 3, 25, secondo
 comma, 101, secondo comma, 102, 111  della  Costituzione  fondano  il
 principio  di  indefettibilita'  di  una  giurisdizione penale, ed in
 particolare  di  un  dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena
 conoscenza da parte  del  giudice  dei  fatti  oggetto  del  processo
 affinche' possa essere emessa una giusta decisione - per altro verso,
 che  il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione,
 ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti e,
 per altro verso ancora,  che  il  conflitto  in  questione  e'  stato
 erroneamente risolto a danno della giurisdizione.  E' evidente che il
 diritto  al  silenzio  (e  la  facolta'  di  menzogna) possono essere
 indirettamente tutelati in tanto in quanto non consentano di bloccare
 ne' l'esercizio dell'azione ne' l'esercizio della  giurisdizione,  ma
 solo come diritto dell'individuo ad astenersi dal collaborare con gli
 organi preposti alla verifica della responsabilita' penale.  Quindi i
 contemperamenti  volti  a  risolvere  il problema del conflitto degli
 interessi contrapposti non possono  che  essere  ricercati  su  altri
 piani.   Ed invero, il processo introdotto nel 1988 - tendenzialmente
 accusatorio -, ha fatto proprio e valorizzato come principio  cardine
 quello   dell'oralita'   -   id   est,   formazione  della  prova  in
 dibattimento, cioe' nel contraddittorio  delle  parti  di  fronte  al
 giudice  che  decide  nel merito del processo -. Cio', tra l'altro in
 armonia  con  il  disposto  dell'art  6,  comma  2,  lett.  d)  della
 Convenzione    per    la    salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo.
 L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella
 formazione della  prova,  del  resto,  e'  apparso  uno  degli  scopi
 fondamentali  che  hanno  mosso  l'azione  del  legislatore del 1997.
 Seppure a mezzo  di  meccanismi  processuali  irrazionali  e'  palese
 l'intenzione  di  costruire il contraddittorio, sub specie di diritto
 all'esame e controesame, come diritto delle parti.   Tanto  premesso,
 e'  pero'  pure  palese  che una delle condizioni per lo sviluppo del
 contraddittorio, quando esso assume forma genetica della prova  cioe'
 la  forma  dell'esame  incrociato,  e'  che  il  soggetto  che  vi e'
 sottoposto sia gravato dell'obbligo di rispondere  alle  domande  che
 gli  vengono  rivolte.  Se  tale  condizione non sussiste, invero, si
 concede al soggetto in questione il  potere  di  vanificare  l'altrui
 diritto  all'esame  e controesame.  D'altra parte e' scontato, almeno
 nel nostro ordinamento processuale penale,  che  elementi  di  accusa
 possano provenire da coimputati od imputati in procedimento connesso,
 peraltro  titolari,  come  tali,  della  facolta'  di non rispondere.
 Ebbene, mentre la concessione  alle  parti  di  un  diritto  di  veto
 rispetto    all'acquisizione    delle    dichiarazioni   rese   senza
 contraddittorio dagli  imputati  in  procedimento  connesso  divenute
 irripetibili   finisce   per  ledere  irreparabilmente  il  razionale
 esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della  giurisdizione
 e  lo  scopo  stesso  del processo, la acquisizione immediata di tali
 dichiarazioni finisce per ledere il diritto di azione eo difesa delle
 parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame.  Si  privano
 le   parti   del   potere   di   fare   domande,  ricevere  risposte,
 dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito  nelle
 indagini attraverso le contestazioni.
   Cio'   posto  -  considerando  come  fondamento  della  costruzione
 ordinamentale da un lato la stessa prospettiva  del  legislatore  del
 1988   e   del   1997   e   cioe'  l'intangibilita'  del  diritto  al
 contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza,  legalita',
 obbligatorio  esercizio  dell'azione penale, funzione conoscitiva del
 processo  e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione -,
 diviene irrazionale riconoscere, al  coimputato  od  all'imputato  in
 procedimento   connesso   che  abbiano  reso  al  pubblico  ministero
 dichiarazioni che  costituiscono  elemento  indiziante  a  carico  di
 determinati  soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento
 a carico di quei soggetti.  In tali limiti non appare  manifestamente
 infondata,  in  relazione agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., la
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  208  c.p.p.    E'
 superfluo    sottolineare    che    un'eventuale    declaratoria   di
 illegittimita' costituzionale  della  norma  predetta  e  nei  limiti
 suindicati  consentirebbe  a  tutte le parti di esercitare il proprio
 diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni  -,
 mentre  non  introdurrebbe  per gli imputati in procedimento connesso
 l'obbligo  di  dire  la  verita',  con   le   correlative   sanzioni.
 Dichiarazioni  rese  in  sede  di  esame  e  contestazioni  sarebbero
 ovviamente valutabili dal  giudice  ai  fini  della  decisione.    In
 sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in
 questione  - posti i vincoli di principio dell'indefettibilita' della
 giurisdizione, dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale,  della
 funzione  conoscitiva  del  processo,  del  diritto  di  difesa degli
 imputati e degli imputati in procedimento connesso  -  e'  quella  di
 ritenere  che,  a  fronte  di  dichiarazioni  indizianti  rese  da un
 soggetto nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante
 si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in  causa
 -  sub specie di diritto ad interrogarlo sulle accuse direttamente od
 indirettamente  rivolte  loro  -.     La   ragionevolezza   di   tale
 affievolimento  si  apprezza  anche  in considerazione del fatto che,
 quando in sede penale  -  indagini  o  dibattimento  -,  un  soggetto
 sottoposto  ad  indagine o un imputato rivolge accuse ad altri compie
 un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo  preciso
 il  suo  diritto  di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti
 del caso,  dall'altro  impone  all'autorita'  giudiziaria  (art.  112
 Cost.)  di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze
 in  termini  sia  di  eventuale  sacrificio  degli   altrui   diritti
 individuali  in  sede  cautelare,  sia  di dispendio di energie degli
 organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di  un
 tale  comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino - non
 e'  possibile  esimere  il   dichiarante   da   una   assunzione   di
 responsabilita'  che  comporti,  quanto meno, l'obbligo di rispondere
 alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame.
   Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non  e'  del  tutto
 cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in
 testimone,  anche  se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.)  -
 la facolta' di dare versioni diverse,  ritrattare,  perfino  mentire,
 facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di
 difesa.    D'altro  canto  proprio  le  virtu'  euristiche dell'esame
 dibattimentale - nelle quali il  legislatore  mostra  di  riporre  la
 massima  fiducia  -,  oltre  che l'intero sistema processuale nel suo
 complesso garantiscono piu' che a sufficienza  dal  pericolo  che  le
 menzogne  dibattimentali vengano recepite in sentenza o, quanto meno,
 riducono tale pericolo rispetto al livello che  esso  attinge  quando
 vengono   acquisite   dichiarazioni   assunte   da  una  parte  senza
 contraddittorio e divenute irripetibili.  Al legislatore  rimarrebbe,
 comunque,  sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no
 essere  equiparato al testimone, sia, in caso contrario, la decisione
 circa l'introduzione - ovviamente opportuna poiche'  costituente  una
 forma  di  tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo
 reato  contro   l'amministrazione   della   giustizia   avente   come
 fattispecie  obiettiva  l'omessa risposta a domande rivolte nel corso
 dell'esame ad imputati in  procedimento  connesso  che  abbiano  reso
 dichiarazioni  indizianti a carico di altri in loro assenza.  Occorre
 infine notare che la questione di legittimita' di cui si discorre  e'
 stata  trattata  per  ultima  per  comodita' espositiva dei complessi
 problemi sottostanti a quelle dianzi considerate.
   Tuttavia essa si  pone  come  preliminare  sia  rispetto  a  quella
 concernente  l'art.  513, comma 1, come modificato dall'art. 1, legge
 n. 267 del 1997.
   E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di  cui
 qui  si  discorre,  verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su
 cui  e'  costruita  l'attuale  disciplina   dell'acquisizione   delle
 dichiarazioni  degli  imputati e si determinerebbe immediatamente, in
 base  a  questo  dato  nuovo,  la   necessita'   di   verificare   la
 compatibilita'  costituzionale  di  una  disciplina  che  affida alla
 volonta' delle parti il  potere  di  interdire  l'acquisizione  delle
 dichiarazioni   predibattimentali   di   chi   -   a   questo   punto
 illegittimamente -, rifiuta di rispondere.
   Ritiene  il  collegio  che  tutti  i   motivi   che   rendono   non
 manifestamente  infondata  la  questione  concernente l'attuale testo
 dell'art 513, comma 1, c.p.p., non possano che  essere  ribaditi  con
 forza  anche  con  riferimento  a questa nuova situazione.  Ed invero
 l'illegittimo rifiuto di rispondere puo' conferire in  astratto  alle
 precedenti  dichiarazioni  o  particolare credibilita' - perche' sono
 acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato ha rifiutato di
 rispondere  a  causa  di  minacce  od  offerte  di  utilita'   ovvero
 "risultano  altre  situazioni  che  hanno  compromesso  la genuinita'
 dell'esame"  (art.  500,  comma  5,  c.p.p.)  -  oppure   particolare
 inaffidabilita',  potendosi  ipotizzare  che l'illegittimo rifiuto di
 rispondere sia assimilabile ad una attendibile ritrattazione.
   Orbene, un problema del genere appare  ovviamente  irresolubile  in
 astratto - cioe' mediante disciplina legislativa - e, per sua natura,
 non  puo'  che  essere  risolto caso per caso nell'ambito del singolo
 processo e, cioe', sottoposto prima al contraddittorio delle parti  e
 poi  al  razionale e motivato convincimento giudiziale, affinche' sia
 resa una giusta decisione nella situazione concreta.
   Si deve concludere, quindi, che accolta quest'ultima eccezione, non
 e' manifestamente infondata la  questione  di  legittimita'  dell'art
 513,  comma  1, c.p.p. - come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del
 1997 - nella parte in cui subordina al consenso degli altri  imputati
 l'utilizzazione    nei    loro    confronti    delle    dichiarazioni
 predibattimentali  degli  imputati  che  comunque  si  rifiutino   di
 rispondere.
   6.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 490, c.p.p., nella parte in cui esclude  che
 il  giudice  possa  disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato
 per l'assunzione dell'esame.   Evidente appare che,  qualora  dovesse
 essere  ritenuta  fondata  la  questione  prospetta  al paragrafo che
 precede, diverrebbe immediatamente illegittimo, per contrasto con gli
 artt. 3, 24, secondo comma, 97, 112, 101  e  111  Cost.,  l'art.  490
 c.p.p.,  nella  parte  in  cui  esclude che il giudice possa disporre
 l'accompagnamento coattivo d'imputato  per  l'assunzione  dell'esame,
 nei casi in cui sia divenuto obbligatorio.
                               P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenutane la
 rilevanza e non manifesta infondatezza;
   Solleva:
     I) per violazione degli artt. 3, 24, secondo comma,  25,  secondo
 comma, 101, 102, primo comma, 111 e 112 della Costituzione, questione
 di  legittimita'  costituzionale dell'art. 208 c.p.p., nella parte in
 cui prevede che l'imputato che abbia reso  alla  polizia  giudiziaria
 operante   su   delega   del   p.m.   dichiarazioni  direttamente  od
 indirettamente  indizianti  a  carico  di   altri   imputati,   possa
 avvalersi,   nel  dibattimento,  della  facolta'  di  non  sottoporsi
 all'esame e di non rispondere;
     II) per violazione degli artt. 3, 25, secondo  comma,  101,  102,
 primo  comma, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimita'
 dell'art. 513, comma 1, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n.
 267 del 1997, nella parte in cui subordina al  consenso  degli  altri
 imputati  l'utilizzabilita', nei confronti di ciascuno di essi, delle
 dichiarazioni rese da un imputato alla polizia giudiziaria su  delega
 del  pubblico  ministero,  qualora,  in  dibattimento, questi rimanga
 contumace o assente, o, nel caso di accoglimento della eccezione  sub
 I), si sia comunque sottratto all'esame;
     III)  per  contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, 97, 112,
 101 e 111 della Costituzione,  questione  di  legittimita'  dell'art.
 490, c.p.p., nella parte in cui esclude che il giudice possa disporre
 l'accompagnamento  coattivo dell'imputato per l'assunzione dell'esame
 nei casi in cui abbia l'obbligo di sottoporvisi;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
 costituzionale;
   Sospende  il  processo, che la presente ordinanza sia notificata, a
 cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio  dei  Ministri  e
 comunicata al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente
 della Camera dei deputati.
     Milano, addi' 24 ottobre 1997.
                        Il presidente: D'Antonio
                                            Il giudice est.: Mambriani
 98C0932