N. 668 ORDINANZA (Atto di promovimento) 31 marzo 1998

                                N. 668
  Ordinanza emessa il 31 marzo 1998 dal Tribunale di  sorveglianza  di
 Roma   nel  procedimento  di  sorveglianza  nei  confronti  di  Fonti
 Francesco
 Ordinamento penitenziario - Provvedimenti relativi  ai  collaboratori
    di   giustizia  ammessi  a  speciale  programma  di  protezione  -
    Competenza territoriale - Lamentata attribuzione in via esclusiva,
    secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, al  tribunale
    di   sorveglianza  di  Roma  -  Irragionevoleza  -  Disparita'  di
    trattamento tra condannati - Violazione dei principi  del  giudice
    naturale  precostituito  per  legge,  della  finalita' rieducativa
    della  pena  e  di  quello  che  vieta  l'istituzione  di  giudice
    straordinari.
 (Legge  15  marzo 1991, n. 82, art. 13-ter, comma 3, modificata dalla
    legge 7 agosto 1992, n. 356 (recte: d.-l. 15 gennaio 1991,  n.  8,
    art.  13-ter,  comma 3, convertito, con modificazioni, in legge 15
    marzo 1991, n. 81, modificato, da d.-l. 8  giugno  1992,  n.  306,
    convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356)).
 (Cost., artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 102, primo comma
    e 102, secondo comma).
(GU n.39 del 30-9-1998 )
                     IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento chiamato
 all'udienza del 31 marzo 1998, instaurato ai sensi degli  artt.  666,
 678  c.p.p. e art. 13-ter, legge n. 82/1991 e 51-bis, 47-ter o.p.  in
 ordine alla prosecuzione provvisoria della detenzione domiciliare, di
 cui beneficia Fonti Francesco, nato a Bovalino il 22 febbraio 1948.
                         Considerato in fatto
   Fonti Francesco e' collaboratore di giustizia  ammesso  a  speciale
 programma  di protezione. Attualmente e' in detenzione domiciliare ex
 art. 13-ter, legge n. 82/1991  e  47-ter,  l.p.  giusta  ordinanza  3
 febbraio  1995  di  questo tribunale, con scadenza pena al 4 dicembre
 2000.
   Essendo  intanto divenute esecutive altre condanne il magistrato di
 sorveglianza  di  Roma   emetteva   provvedimenti   di   prosecuzione
 provvisoria  della  misura,  ex art. 51-bis o.p., in data 27 novembre
 1996, 27 maggio 1997 e 1 settembre 1997 in relazione a  provvedimenti
 di  cumulo  della  procura  generale  di  Bologna, l'ultimo dei quali
 determina la pena complessiva in anni  19,  mesi  9  giorni  18,  con
 decorrenza 29 settembre 1996 e termine 16 luglio 2013.
   Rimessi gli atti al tribunale, sono intervenuti vari rinvii diretti
 ad acquisire la documentazione del caso e il parere della commissione
 centrale,  ex  art.  10,  legge  n. 82/1991 - da ultimo pervenuto con
 parere contrario alla prosecuzione -, nonche' per  acquisire  l'esito
 di  altro  procedimento  in  corso  per  la  revoca  della detenzione
 domiciliare concessa al Fonti,  processo  conclusosi  con  ordin.  15
 dicembre 1997 del tribunale di rigetto della proposta di revoca.
   All'udienza odierna la difesa sollevava eccezione di illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  13-ter,  comma  3, legge 15 marzo 1991, n.
 82, modificata dalla legge n. 356/1992,  nella  parte  in  cui  viene
 attribuita la competenza al tribunale o al magistrato di sorveglianza
 del  luogo  in  cui  la  persona  ammessa  a  speciale  programma  di
 protezione elegge domicilio ai sensi  dell'art.  12,  comma  3  della
 stessa legge; e concludeva nel merito per l'accoglimento dell'istanza
 di   prosecuzione.    Il  p.g.  chiedeva  dichiararsi  manifestamente
 infondata  la  questione  di   costituzionalita'   e,   nel   merito,
 accogliersi la prosecuzione.
                                Diritto
   Questo    procedimento,    con    la    sollevata    questione   di
 costituzionalita',  ampiamente  illustrata  dalla  difesa  specie  in
 alcuni  punti,  viene dopo altro procedimento deciso in data 18 marzo
 in cui veniva sollevata d'ufficio dal tribunale  tale  questione,  in
 ordine alla compenza territoriale a conoscere della domanda di questo
 tribunale.      Stima   il  tribunale  che  l'art.  13-ter,  ritenuto
 attributivo di una competenza territoriale esclusiva al tribunale  di
 sorveglianza di Roma per tutti i collaboratori di giustizia ammessi a
 speciale  programma  di  protezione,  ovunque  si  trovino,  presenta
 elevatissimi  dubbi  di  legittimita'  costituzionale,  si'  che   va
 sollevata  eccezione  di  illegittimita'  costituzionale della norma,
 siccome rilevante e pregiudiziale  ad  ogni  esame  di  merito.    La
 motivazione   che   segue   si  sviluppa  dapprima  in  una  disamina
 dell'interpretazione della norma data dalla Corte  di  cassazione;  e
 quindi in un raffronto della norma, cosi' come e' stata interpretata,
 con il dettato e i principi della Carta costituzionale.
   1.  -  L'art. 13-ter, prevede, nel comma 1, che nei confronti delle
 persone ammesse a speciale programma di protezione l'assegnazione  al
 lavoro  all'esterno,  i  permessi premio e le misure alternative alla
 detenzione sono disposti sentita l'autorita'  che  ha  deliberato  il
 programma;  e,  nel comma 2, che dette misure possono essere adottate
 anche in deroga alle vigenti disposizioni, comprese  quelle  relative
 ai  limiti  di  pena  previsti.    Il  comma  3  dispone  che  "per i
 provvedimenti di cui ai commi 1  e  2  la  competenza  appartiene  al
 tribunale e al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona
 ammessa allo speciale programma di protezione ha il domicilio".
   Il  comma  3,  dell'art.  12 della stessa legge n. 82/1991 dispone:
 "All'atto della sottoscrizione del programma l'interessato elegge  il
 proprio  domicilio  nel  luogo  in  cui ha sede la commissione di cui
 all'art. 10".  Ebbene la Suprema Corte con sentenza n.  4977  del  18
 novembre  1993-7  gennaio  1994,  emessa  su  conflitto di competenza
 sollevato da questo tribunale  (causa  Randazzo)  nei  confronti  del
 tribunale  di  sorveglianza  di  Venezia,  ha interpretato il comma 3
 dell'art. 13-ter,  in  correlazione  con  il  comma  3  dell'art.  12
 relativo   all'elezione   di  domicilio,  nel  senso  che  a  seguito
 dell'elezione di domicilio nel luogo  ove  ha  sede  la  commissione,
 cioe'  presso detta commissione a Roma, deve intendersi che "il luogo
 in cui la persona ha il domicilio" e' Roma. Seguivano altre  sentenze
 conformi.
   Siffatta  interpretazione,  appare  al  tribunale  erronea  e senza
 fondamento, e comunque comporta che la norma di cui all'art.  13-ter,
 cosi' intesa, si appalesa incostituzionale.
   2.  -  Una  prima  indagine utile e' la ricostruzione storica della
 formazione della norma  e  quindi  della  sua  interpretazione.    La
 protezione  di coloro che collaborano con la giustizia, in precedenza
 attuata  di  fatto  e  utilizzando  le   possibilita'   che   offriva
 l'ordinamento,  comincia  ad  avere  una  normativa  specifica con il
 d.lgs. 29 marzo 1993, n. 119  sul  cambiamento  di  generalita',  cui
 segue il decreto ministeriale 24 novembre 1994, n. 687, recante norme
 dirette  ad  individuare  i  criteri di formulazione del programma di
 protezione dei collaboratori.  Si avvertiva pero' l'esigenza di  dare
 veste   legislativa   e   strumenti  giuridici  nella  materia,  gia'
 ampiamente esistenti in altri Stati con un piu' forte sviluppo  della
 lotta  alla criminalita' organizzata.  E cosi' viene emanato il d.-l.
 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni  nella  legge  15
 marzo  1991,  n.  82.    Gli  artt. da 3 a 15 dispongono, in sintesi,
 l'adozione nei confronti delle persone esposte a grave  pericolo  per
 la loro collaborazione di "misure di protezione idonee ad assicurarne
 l'incolumita'".
   Qualora  le  misure  adottabili  dagli  organismi  antimafia, dalla
 polizia  e,   nei   confronti   di   detenuti,   dall'amministrazione
 penitenziaria   non  appaiono  adeguate  "puo'  essere  definito  uno
 speciale programma di protezione".  Viene istituita  una  commissione
 centrale  per  la  definizione  del  programma  e regolati contenuto,
 durata e sottoscrizione di esso; istituito un  servizio  centrale  di
 protezione  nell'ambito  del  dipartimento  della pubblica sicurezza;
 altre modalita' attuative delle esigenze di sicurezza.   Di  rilievo,
 ai  fini  che  interessano,  sono  il  trasferimento  della persona a
 rischio in comuni diversi da quello  di  residenza,  l'autorizzazione
 del   procuratore  della  Repubblica  o  del  giudice  alla  custodia
 cautelare della persona arrestata in luoghi diversi dal  carcere,  la
 loro  autorizzazione  al  soggetto  esaminato  "ad eleggere domicilio
 presso persona di fiducia o presso un ufficio di  polizia,  anche  ai
 fini  delle necessarie comunicazioni e notificazioni" (art. 13, comma
 3).  Una legge che realizza un avanzamento restando nell'ambito delle
 misure di sicurzza e di protezione a cura degli organismi di polizia,
 della commissione centrale e con le autorizzazioni citate del p.g.  o
 del giudice. Null'altro  che  investa  l'autorita'  giudiziaria,  ne'
 particolari  misure  da  deliberarsi  dagli  organi giudicanti, fermo
 quanto gia' previsto dall'ordinamento penitenziario.  Dopo la  strage
 di  Capaci e l'assassinio del giudice Borsellino, il Governo emana il
 d.-l- 8 giugno 1992, n. 306, recante modifiche al codice di procedura
 penale e provvedimenti di contrasto  alla  criminalita'  organizzata.
 Il titolo III del decreto, relativo ai collaboratori di giustizia, e'
 costituito  dall'art.  13,  che  introduce nella legge n. 82/1991 gli
 artt. 13-bis, 13-ter e un comma 3 dell'art. 12; mentre il  titolo  IV
 apporta alcune modifiche all'o.p. (art. 58-quater. art. 4-bis).
   3.  - Data l'interpretazione della Cassazione, in punto competenza,
 del combinato disposto dell'art. 13-ter,  comma  3,  e  del  comma  3
 dell'art.    12,  si  e'  proceduto all'esame dei lavori parlamentari
 sulla conversione in legge del decreto  onde  rinvenire  elementi  di
 riscontro  e  di  chiarificazione  della  volonta' e dell'intento del
 legislatore.  La lettura dei tre volumi, che riportano le  relazioni,
 la  disamina  delle  norme,  emendamenti,  dibattito e deliberazioni,
 fatti dal Senato in prima lettura  poi  dalla  Camera  e  quindi  dal
 Senato  in seconda lettura, non ha offerto alcun elemento di supporto
 all'interpretazione in esame  ma  piuttosto  ragionevoli  conclusioni
 contrarie.   Gia' il relatore sen. Pinto, puntuale nel sottolineare i
 punti di  maggiore  interesse  del  decreto  in  conversione,  e  pur
 dedicando  un  consistente  spazio  ai  titoli  III  e  IV, in ordine
 all'art. 13-ter dice che esso "consente in particolare che le persone
 ammesse allo speciale programma di  protezione  godano  dei  benefici
 carcerari addirittura in deroga ai limiti di pena previsti" e che "il
 godimento  e' stato subordinato ad una procedura rigorosa affidata ad
 organi  particolarmente  qualificati  e  centralizzati"  (Commissione
 centrale,  servizio  centrale di protezione).  Dunque, un'annotazione
 del rilievo che ha la deroga ai limiti di  pena;  un'annotazione  sul
 godimento   dei  benefici;  ma  nessun  cenno  in  punto  competenza:
 omissione incomprensibile se fosse stata  prevista  una  norma  cosi'
 straordinaria  da  accentrare  la  cognizione  e  l'irrogazione delle
 misure nel solo tribunale e ufficio di Roma, della quale il  relatore
 non  poteva  non  parlare.    Il dibattito che segue e' significativo
 nello stesso senso.
   Si nota una diffusa e attenta  sensibilita'  per  il  rispetto  dei
 principi  costituzionali  e  delle  regole  e  principi  generali che
 informano il nostro ordinamento, pur nell'urgenza di  norme  che  non
 vogliono  essere  di  emergenza  ma tuttavia altamente incisive nella
 lotta alla  criminalita'.    Gli  interventi  dei  sottosegretari  De
 Cinque,  Castiglione  e  altri,  a  nome  del Governo, sono precisi e
 frequenti nel sostenere  e  chiarire  fondamento  e  finalita'  delle
 norme,  ma  nulla  dicono  dell'art. 13-ter, comma 3.   Vari senatori
 fanno menzione degli importanti contributi (prima auspicati,  poi  in
 vario modo acquisiti) attraverso incontri con le componenti del mondo
 giudiziario  forense  e penitenziario interessate al provvedimento; e
 ancora non emerge  l'innovazione  di  una  competenza  accentrata  ed
 esclusiva.       Nella   commissione   giustizia   si   illustra   un
 maxi-emendamento presentato dal Governo volto a  introdurre  numerose
 modifiche  e  norme  di  piu' chiara interpretazione, e anche qui non
 v'e' nulla sull'art. 13-ter, comma 3.  Tra gli emendamenti presentati
 dai parlamentari, quattro riguardano il titolo III. I primi due  sono
 "sopprimere l'art. 13", cioe' tutto quanto, gli artt. 13-bis, 13-ter,
 e  comma  2,  lett.  d)  e  comma 3, art. 12, lasciando la legge come
 prima. Il terzo e' "all'art. 13,  comma  2,  sopprimere  il  punto  2
 dell'art. 13-ter": cioe' mantenere l'art. 13-ter sopprimendo la parte
 relativa  alla  deroga  alle  vigenti  disposizioni  dell'ordinamento
 penitenziario  e  ai  limiti  di  pena.    Il  quarto   apporta   una
 integrazione  formale  del testo.   Ancora una volta si deve annotare
 che  nella  sede  piu'  diretta  e  specifica, in sede di emendamenti
 all'art.  13  del  decreto,  si  tende  a  conservare  la  legge  sui
 collaboratori n. 82/1991 senza particolari modifiche dell'ordinamento
 penitenziario  in  loro  favore, o al piu' si consente l'introduzione
 dell'art. 13-ter ma senza deroghe alle disposizioni e  ai  limiti  di
 pena,  mentre  nulla  viene  osservato sulla competenza territoriale.
 Peraltro, tali emendamenti, ripresentati anche in sede assembleare al
 Senato e alla Camera, alla fine restarono assorbiti dall'approvazione
 del maxi-emendamento e del decreto, gia' modificato in  varie  parti,
 su cui il Governo pose la fiducia.  Ritiene in definitiva il collegio
 che  dai lavori parlamentari risulta di tutta evidenza che qualora il
 decreto-legge  avesse  voluto  una  competenza  cosi'  innovativa  ed
 eccezionale  da  essere accentrata ed esclusiva in Roma, cio' sarebbe
 emerso ampiamente nell'esame e nel dibattito parlamentare,  ad  opera
 dei    relatori,    dei   sottosegretari,   nello   specifico   esame
 dell'articolato e presentazione degli emendamenti, nei  contatti  con
 esponenti    del   mondo   giudiziario   forense   e   penitenziario,
 nell'attenzione di parlamentari esperti di problemi penitenziari come
 i  senatori  Salvato,  Molinari,  l'on.   Taradash   e   altri,   che
 presentarono  gli  emendamenti indicati, e in genere dei parlamentari
 delle commissioni giustizia.   Come sarebbe emersa  e  di  certo  non
 lasciata  passare  senza discussione, tanto piu' da quei parlamentari
 che addirittura  chiedevano  di  sopprimere  ogni  modificazione  che
 incidesse  sulla normale applicazione dell'ordinamento penitenziario,
 una forma cosi' involuta e indiretta per indicare una  competenza  in
 capo  al  tribunale  e  al magistrato di sorveglianza di Roma, quando
 peraltro sono stati apportati numerosi emendamenti solo di  chiarezza
 e  di  perfezionamento  formale.    Conclusione: nessuna conferma dai
 lavori parlamentari di una competenza territoriale accentrata a Roma,
 e massicci elementi che depongono per la sua esclusione.
   4. - Intanto, dalla data del d.-l. 8 giugno  1992,  poi  convertito
 nella   legge  1992,  n.  356,  iniziarono  subito  i  giudizi  e  le
 concessioni delle misure trattamentali e alternative ai soggetti  con
 programma  di protezione.   Questo tribunale emise la prima ordinanza
 in Italia il 26 giugno 1992 concedendo la detenzione  domiciliare  in
 deroga  alle  disposizioni  vigenti  a Epaminonda Angelo, detenuto in
 Roma, con pena da espiare fino al 2011.  Seguirono  altre  ordinanze:
 Contorno  Salvatore,  detenzione  domiciliare  per  la pena di anni 5
 (ord. n. 5465/1992  del  22  gennaio  1993);  Lauro  Giacomo  Ubaldo,
 detenzione  domiciliare  per pene fino al 2006 (ord. n. 6152/1992 del
 14 maggio 1993).   Quest'ultima e'  particolarmente  signifiativa  ed
 esplicita  sui  punti  in  esame  perche'  da'  atto  che il Lauro e'
 "elettivamente domiciliato  presso  la  commissione  centrale";  "che
 nulla   quaestio  in  ordine  alla  competenza  risultando  custodito
 nell'ambito del distretto di questa autorita'  giudiziaria  (come  da
 attestazione  della  D.IA.)";  perche'  nel  fissare  le prescrizioni
 precisa  "che  potranno   essere   modificate   dal   magistrato   di
 Sorveglianza   territorialmente   competente".     E  cosi'  via  con
 provvedimenti di questo e  altri  uffici  di  sorveglianza,  operando
 secondo  il  criterio  di  una  competenza diffusa.   Si apri' poi il
 conflitto indicato tra i tribunali di sorveglianza di Venezia e Roma,
 e la Cassazione emise la nota citata sentenza n. 4977 del 18 novembre
 1993-7 gennaio 1994.  Per la Corte "la simultanea introduzione" nella
 legge n. 82/1991 del comma 3 dell'art. 12 (elezione di domicilio  nel
 luogo  in  cui  ha  sede la commissione centrale) e dell' art. 13-ter
 (competenza del tribunale o  del  magistrato  del  luogo  in  cui  il
 collaboratore  ha  il  domicilio) rende evidente la voluntas legis di
 individuare la competenza dove ha sede la commissione centrale presso
 la quale il collaboratore ha eletto domicilio, pur nella imperfezione
 della norma dell'art. 13-ter che richiama solo il  termine  domicilio
 senza riferimento a quello eletto, e tenuto conto che per i frequenti
 spostamenti  del  collaboratore  a  rischio,  che  non  devono essere
 portati a conoscenza con atti formali, sarebbe impossibile  stabilire
 nel  momento  della  presentazione  delle  istanze  quale  sia il suo
 domicilio (sicĀ³).
   Una motivazione non condivisibile per le confuse e poco consistenti
 argomentazioni,   di   certo   non   proporzionate    alla    portata
 dell'innovazione  che  si  andava  ad introdurre, ed estranee al vero
 significato della nuova norma.  In contrario, anzitutto  va  chiarito
 che  ciascuna  norma,  l'art.   12, comma 3, e l'art. 13-ter, comma 3
 della legge n. 82/1992, ha una propria specifica funzione:
     a) e' stato gia' menzionato al  punto  2)  che  precede,  tra  le
 disposizioni  di  rilievo  della  legge  n. 82/1991 vecchio testo, il
 trasferimento della persona a rischio in comuni diversi da quello  di
 residenza;  l'autorizzazione  a  custodire  le  persone  arrestate in
 luoghi diversi dal carcere; l 'autorizzazione "ad eleggere  domicilio
 presso  persona  di  fiducia o presso un ufficio di Polizia, anche ai
 fini delle necessarie comunicazioni e notificazioni".  Orbene, sembra
 chiaro che quando si passa dalle prime fasi  ancora  precarie  e  non
 definite di protezione all'ammissione a completi e precisi programmi,
 non  sono  piu'  adeguati domicili eletti presso persone di fiducia o
 uffici di Polizia, ma occorre  un  luogo  stabile  ove  venga  eletto
 domicilio  dalle  persone  ammesse  al  programma,  magari di diretta
 pertinenza di un organo centrale e unico per tutti onde non dover far
 capo a varie centinaia di domicili eletti in tanti posti diversi.  Ne
 deriva  che  l'elezione  di  domicilio  nel  luogo  ove  ha  sede  la
 commissione, vale a dire, come afferma anche la Cassazione, presso la
 commissione stessa - poiche' elezione di domicilio in un luogo non ha
 senso  se  non  sia presso un domiciliatario in quel luogo (art.  62,
 disp. att. c.p.p.) - viene a  colmare  una  carenza  della  legge  n.
 82/1991;  e  tale elezione di domicilio assolve esattamente al fine e
 alla funzione  dell'istituto  consentendo  un  punto  di  riferimento
 necessario,  ove  vengono  effettuate  anche  le  comunicazioni  e le
 notificazioni di atti  provenienti  da  ogni  parte  (p.m.,  giudici,
 autorita' amministrative e di Polizia, parti processuali, ecc.).
   Quindi  un'elezione  di domicilio giustamente prevista e realizzata
 con una formula corretta, al di la' di ipotetici altri intendimenti o
 effetti piuttosto celati, ragionevolmente non voluti e non  messi  in
 atto dal legislatore;
     b)  "luogo  in  cui  la  persona  ha il domicilio". La norma, art
 13-ter,  comma  3,  non  presenta  l'imperfezione  menzionata   dalla
 Cassazione  indicando  solo  il termine domicilio senza riferimento a
 quello  eletto:    imperfezione  sussisterebbe  piuttosto   in   caso
 contrario.    Trattasi  invero di un ordinario criterio di competenza
 territoriale, corrispondente alla previsione generale dell'art.  677,
 c.p.p., "residenza o domicilio", per i soggetti non detenuti.  Qui il
 legislatore,   esclusa   la   residenza  caratterizzata  da  maggiore
 incertezza e spesso collegata ad atti formali  incompatibili  con  le
 esigenze  di  sicurezza,  ha indicato il domicilio che aderisce ad un
 reale centro dei propri interessi, economici affettivi  e  familiari,
 che  puo' trasferirsi come si sposta o viene per ragioni di sicurezza
 trasferito il soggetto collaboratore in altra localita',  spesso  con
 la  famiglia e con il reperimento di un impiego lavorativo.  Il luogo
 di domicilio non diviene necessariamente  noto  attraverso  gli  atti
 processuali, avendo il giudice ritenuto sufficiente la certificazione
 dell'autorita'  preposta alla protezione che il soggetto ha domicilio
 nell'ambito  della  sua  giurisdizione.  Trattasi   allora   di   una
 formulazione  della norma piana e lineare su un ordinario criterio di
 determinazione della competenza.
   E' proprio questa linearita' spiega perche' non c'era  ragione  che
 la  norma dovesse richiamare l'attenzione nei lavori parlamentari per
 la sua approvazione.
   5. - Resta comunque il fatto che l'interpretazione della  Corte  e'
 ormai ampiamente consolidata, seppure senza il conforto delle sezioni
 unite,  sicche'  costituisce diritto vivente.   Cio' che legittima il
 riscontro della sua aderenza ai precetti costituzionali.  La norma in
 esame, come cristallizzata in una competenza esclusiva per  tutto  il
 territorio  nazionale di un solo tribunale e giudice di sorveglianza,
 in una certa misura ratione materiae ma soprattutto ratione  personae
 sulla   base  dei  soggetti  giudicabili,  si  configura  come  norma
 eccezionale  come  nessun'altra;  sotto   l'aspetto   strutturale   e
 tecnico-giuridico  assolutamente  anomala  e  di rottura del sistema;
 priva di un fondamento di ragionevolezza; clamorosamente al di  fuori
 in    modo    singolare   dalle   previsioni   e   dalla   disciplina
 dell'ordinamento giudiziario che regola numero, sedi e circoscrizioni
 territoriali  degli  uffici  giudiziari  e  cosi'  dei  tribunali   e
 magistrati   di   sorveglianza;   introduttiva   di   una  competenza
 suscettibile di essere modificata da atto non legislativo.
   Sono  le  ragioni   del   contrasto   con   precetti   e   principi
 costituzionali:
     A)  l'esaminata competenza territoriale esclusiva del tribunale e
 del magistrato di sorveglianza di  Roma  costituisce  una  previsione
 unica  e  senza  precedenti  nel  nostro ordinamento.   Un giudice di
 merito di primo grado -  salvo  rari  casi  d'appello  -  in  materia
 penale,  regolarmente  inserito  dall'ordinamento  giudiziario in una
 distribuzione  territoriale  su  base  distrettuale   (tribunale)   e
 circondariale  o  pluricircondariale (magistrato di sorveglianza) per
 la trattazione di misure attinenti all'esecuzione della  pena,  delle
 misure   di   sicurezza   e   altro,   previste  dal  codice  penale,
 dall'ordinamento penitenziario e da altre leggi, e preminentemente di
 misure trattamentali e alternative alla detenzione previste dal  capo
 VI  titolo  I  dell'o.p.,  che  diviene,  nell'applicazione di queste
 stesse misure nei confronti di una determinata categoria  di  persone
 giudicabili  un  giudice  unico  ed esclusivo per tutto il territorio
 nazionale.  Cio' contrasta con piu' norme della Costituzione.   Sotto
 un   primo   profilo,  con  l'art.  102,  comma  1,  che  attribuisce
 l'esercizio della  funzione  giurisdizionale  a  magistrati  ordinari
 istituiti  e  regolati  dalle norme dell'ordinamento giudiziario, che
 stabilisce sedi e circoscrizioni territoriali di ogni  ufficio  (art.
 5,  in  relaz.  art. 1, ord. giud.).  E l'art. 102 della Costituzione
 non fa richiamo semplicemente alla  legge  ordinaria,  ma  nella  sua
 prima  norma  sulla  funzione  giurisdizionale,  anche  di  una certa
 solennita',   fa   richiamo   specifico  all'ordinamento  giudiziario
 (richiamato ancora dai successivi art. 105,  106,  107  e  108  della
 Costituzione)  quale  legge  fondamentale  che  regola  la  struttura
 organica  e  l'articolazione  dei  giudici,  operante  a  mezzo   del
 Consiglio   superiore   della   magistratura,   organo  di  rilevanza
 costituzionale, che ne assicura  l'applicazione  nel  rispetto  delle
 finalita'  di giustizia, di indipendenza, di corretto esercizio della
 giurisdizione, di efficienza.   Ordinamento giudiziario  che  non  e'
 stato modificato;
     B)  un  giudice  unico nel territorio che ha competenza esclusiva
 per i procedimenti riguardanti una certa categoria di giudicabili,  i
 collaboratori   di   giustizia  titolari  di  speciale  programma  di
 protezione,   si   configura   per   cio'   stesso   quale   "giudice
 straordinario",  la  cui  istituzione  e'  espressamente  vietata dal
 secondo comma dell'art.   102 della Costituzione.   Il  carattere  di
 straordinarieta'  e'  rafforzato  ove  si  consideri che accanto alla
 competenza  ratione  personae  c'e'  anche  una,  sia  pure  sfumata,
 competenza  per  materia,  non  essendo dubitabile che l'applicazione
 delle misure alternative e trattamentali  a  detti  collaboratori  si
 caratterizza  per  una specifica carenza e una diversita' di elementi
 sostanziali; per la deroga ai limiti di pena (illimitata); la  deroga
 a   carattere   generale  alle  "vigenti  disposizioni"  relative  ai
 requisiti e ad ogni altro elemento ordinariamente  richiesto  per  la
 concedibilita'  della  misura;  per la stessa condizione del soggetto
 giudicabile di  collaborante  esposto  a  rischio  e  con  protezione
 speciale   che   qualifica  in  modo  particolare  il  giudizio;  per
 l'intervento di  merito  della  commissione  centrale  attraverso  il
 previsto parere obbligatorio e altre indicazioni e determinazioni che
 puo' inviare al giudice.
   Sotto  certi  profili  un  siffatto giudice puo' qualificarsi anche
 "giudice speciale", essendo spesso il confine molto tenue e  incerto,
 come  evidenziato  dalla  maggiore  dottrina: giudice speciale la cui
 istituzione e' parimenti vietata dall'art 102,  secondo  comma  della
 Costituzione, che riconosce soltanto quelli gia esistenti per i quali
 la  VI  disposizione  transitoria  della  Costituzione  prevedeva una
 revisione, salvo quelli contemplati dalla stessa Costituzione. Ed  in
 effetti   v'e'  stata  tutta  una  serie  di  decisioni  della  Corte
 costituzionale che ha fatto cadere molte giurisdizioni speciali.
   Il divieto di istituzione  di  giudici  straordinari,  al  pari  di
 quelli speciali, ha carattere assoluto, in quanto viene a contraddire
 -  assieme  allo  specifico  precetto  costituzionale  -  i  principi
 basilari della nostra civilta' giuridica,  dal  generale  divieto  di
 discriminazioni   alle  regole  proprie  del  "processo  giusto",  al
 rispetto  dell'unita'  della  giurisdizione.      Non   e'   peraltro
 ipotizzabile  che trattasi non di un giudice straordinario o speciale
 ma di una sezione specializzata per una determinata materia,  la  cui
 istituzione  presso  gli organi giudiziari ordinari e' consentita dal
 secondo comma dell'art. 102 della Costituzione. Non  occorrono  molte
 parole  per  evidenziare  la  completa  diversita'  sia  per  ragioni
 strutturali e ordinamentali che per quelle attinenti alla materia.
   Le sezioni specializzate  che  hanno  previsione  legislativa  sono
 proprie  del ramo civile, inserite in un maggiore e ordinario ufficio
 giudiziario, generalmente prive di una normativa che  le  disciplina,
 costituite  da  giudici  di  quell'ufficio  per  la trattazione della
 specifica  materia, e non danno luogo a questioni di competenza ma al
 piu' a questioni di composizione di carattere tabellare.  In  materia
 penale,  l'unica  sezione specializzata puo' ravvisarsi nelle sezioni
 per i reati ministeriali,  con  sede  distrettuale,  che  pero'  sono
 previste dalla legge costituzionale 16 gennaio 1995, n.  1.
   Quanto al tribunale e magistrato di sorveglianza non sussistono gli
 elementi  strutturali-organizzativi  ne' una specialita' di "materia"
 perche' si  possa  configurare  come  una  sezione  specializzata.  I
 procedimenti   nei   confronti  dei  collaboratori,  pur  con  alcuni
 menzionati  elementi  di  diversita',  non   si   differenziano   dai
 procedimenti  per le stesse misure nei confronti degli altri soggetti
 giudicabili; tant'e' che non sono previsti appositi collegi o giudici
 ne' dalla legge ne' in sede tabellare, non richiedendo  tali  giudizi
 una  particolare  specializzazione.    E  sarebbe  davvero  singolare
 configurare un  tribunale  come  sezione  specializzata  per  materia
 soltanto   in  funzione  di  una  competenza  allargata  a  tutto  il
 territorio nei confronti di determinati soggetti giudicabili;
     C) contrasto della norma col principio della ragionevolezza della
 scelta legislativa e per  le  discriminazioni  che  ne  derivano  con
 l'art.  3 della Costituzione.
   La  Corte  costituzionale  ha  ampiamente  sviluppato il tema della
 incompatibilita' di una norma con i principi costituzionali quando la
 scelta del  legislatore  sia  priva  di  ragionevolezza  e  contrasti
 percio'  con  la buona tutela dell'interesse protetto, in questo caso
 con il buon andamento della giustizia.   Nella scelta che  ci  occupa
 non  e'  ravvisabile  alcuna ragione che giustifichi una deroga cosi'
 rivoluzionante e totalizzante agli ordinari criteri di  competenza  e
 agli assetti previsti dall'ordinamento giudiziario.
   Esponendo  in  sintesi,  manca  una  particolare  specificita'  dei
 giudici di sorveglianza di Roma perche' sia demandato soltanto a loro
 il giudizio sulle misure da irrogare ai collaboratori.
   Il restringere la cognizione di tali giudizi  ad  un  solo  giudice
 limita  l'evolversi  della giurisprudenza ed elimina i pur produttivi
 contrasti, con danno  all'elaborazione  del  diritto  e  quindi  alla
 giustizia,  cui  si  accompagna il rischio di sclerotizzare le prassi
 procedimentali.  Puo' determinare, piu' o  meno  inconsapevolmente  e
 indirettamente,  un  particolare  centro  di potere e di rapporti con
 alte autorita' centrali, con potenziale lesione della indipendenza  e
 dell'immagine  del giudice.  Non realizza una maggiore protezione del
 collaboratore  a  rischio  rispetto  ad  altre  possibili  soluzioni,
 neppure  determinando,  attraverso la designazione di un solo giudice
 competente, una apprezzabile maggiore difficolta' di  individuare  il
 luogo  ove  il  collaboratore vive ed e' tenuto. A parte il fatto che
 ormai e' dato verificare che molti collaboratori  protetti  conducono
 una  vita  regolare  e aperta, in regime di misura alternativa o non,
 nella localita' di origine o dove sono stati trasferiti;  cosi'  come
 molti altri sono ristretti in istituti carcerari quand'anche titolari
 di programmi di protezione.
   E'  allora  esigibile che, tra le tante possibili, venisse adottata
 una  scelta  razionale  e  adeguata  al  fine  da  realizzare,  senza
 intaccare i principi fondamentali dell'ordinamento;
     D)   dagli  elementi  sopra  indicati,  e  tanto  piu'  dal  loro
 combinarsi, derivano o possono attendibilmente derivare da parte  dei
 giudici diversita' di soluzioni e quindi di trattamento nei giudizi e
 nell'applicazione  delle  misure  rispetto  ai  giudizi  svolti in un
 assetto  ordinario  non  "turbato"  dalla  competenza  esclusiva,   e
 rispetto   alle   soluzioni  adottate  senza  turbative  dagli  altri
 tribunali e giudici di sorveglianza.  E cio' sia  nei  confronti  dei
 collaboratori  che  degli  altri condannati, sui quali si riverberano
 tutti i condizionamenti che ne derivano al giudice.
   Cosa che comporta disparita' di trattamento in violazione dell'art.
 3 della Costituzione;
     E) una ulteriore situazione anomala, estranea al caso  in  esame,
 ma    di    grande    rilievo    nell'indagine    complessiva   sulla
 incostituzionalita'  della  norma,  e  collegabile  al   tema   della
 ragionevolezza e della congruita', e' l'orientamento da qualche tempo
 adottato dalla commissione centrale, in progressiva accentuazione, di
 fare  espiare  in  carcere  consistenti  periodi  di  pena  anche  ai
 collaboratori con programma di protezione.
   E cio' anche in correlazione al noto dibattito che c'e'  stato  nel
 Paese  a  seguito  di eclatanti inammissibili comportamenti tenuti da
 alcuni  pentiti,  e   sui   trattamenti   "d'oro"   fatti   a   tanti
 collaboratori.
   Ne  consegue che, sempre di piu', le misure richieste e adottate da
 questo tribunale e magistrato riguardano collaboratori con  programma
 in stato di detenzione carceraria.
   Viene allora da considerare che senso ha che questo tribunale debba
 avere  competenza  a  giudicare i detenuti che trovansi in un carcere
 del Piemonte, delle Venezie, delle Puglie, quando  non  sussiste  una
 ragione di segretezza sul luogo in cui il collaboratore si trova, ne'
 alcuna altra ragione che giustifichi una deroga agli ordinari criteri
 di competenza; ed una deroga al criterio fondamentale che il detenuto
 va  giudicato  dal  magistrato  che  ha  giurisdizione  e esercita la
 sorveglianza sull'istituto carcerario in cui egli si trova, che  puo'
 seguirne    l'osservazione   della   personalita'   e   i   progressi
 trattamentali, che spesso ne ha conoscenza  personale  e  intrattiene
 con  lui  colloqui,  e  quanto altro attiene all'opera sostanziale di
 trattamento  e  risocializzazione.    Elementi  sui  quali  la  Corte
 costituzionale  si  e'  sempre  pronunziata per la loro essenzialita'
 nella funzione rieducativa della pena, dando con le sue pronunzie  un
 indirizzo di continua maggiore evoluzione in questo senso.
   Tutto  cio'  viene  irrazionalmente  tralasciato  e "tradito" dalla
 norma in esame; la quale poteva quanto meno essere congegnata in modo
 da escludere dalla competenza territoriale di questo giudice di  Roma
 coloro che fossero detenuti al di fuori della sua giurisdizione, e in
 modo  che  non  fossero  "distolti"  dalla  ordinaria  competenza del
 giudice del luogo di detenzione, che e' non soltanto  giuridicamente,
 ma  anche  sostanzialmente  il suo giudice naturale precostituito per
 legge. Ne  consegue,  per  questa  parte,  un  ulteriore  profilo  di
 incostituzionalita'  per  violazione degli artt. 25, secondo comma, e
 27, terzo comma, della Costituzione;
     F) infine, un rilievo di grande importanza che inverte ancora  il
 precetto   del  giudice  naturale  precostituito  per  legge.  L'art.
 13-ter,  comma  3,  come  interpretato,  attribuisce  la   competenza
 territoriale nei confronti dei collaboratori titolari di programma di
 protezione  al  giudice  di  sorveglianza  del  luogo  ove ha sede la
 commissione centrale.
   Tale norma, con la sua formulazione,  e'  di  per  se'  inidonea  a
 determinare  la  precostituzione di un giudice "per legge" e soltanto
 attraverso la legge, neanche attraverso un criterio di collegamento.
   La legge, invero, non indica il luogo ove ha sede  la  commissione,
 ne'  tale  luogo  e'  desumibile  da altre disposizioni di legge; ne'
 ancora alcuna disposizione di legge dispone che tale sede  non  possa
 essere cambiata e trasferita altrove.
   Sicche'  la  legge  non  indica  quale  sia  il giudice stabilmente
 competente per territorio.
   La commissione centrale attualmente ha di fatto  sede  a  Roma;  di
 fatto siede presso il Ministero dell'interno.
   Nulla  esclude che di fatto, o per atto amministrativo, trasferisca
 altrove la sua sede, per le piu' svariate ragioni che non spetta  qui
 esaminare.
   In   tal  caso,  il  giudice  fornito  di  competenza  territoriale
 esclusiva nei confronti dei collaboratori  cesserebbe  di  essere  il
 giudice di Roma passando tale competenza al giudice della nuova sede,
 in ipotesi Firenze, Perugia, e cosi' via.
   Sussiste allora violazione della riserva di legge in materia, e del
 dettato del giudice naturale precostituito per legge.
    E  il criterio di collegamento attraverso cui si vuole determinare
 la competenza e' inidoneo in quanto non contiene collegamento  su  un
 dato stabile, ma su un dato variabile.
   Peraltro,  che  la  commissione  centrale  possa mutare sede non e'
 un'astrazione; e' un accadimento umano  del  tutto  possibile.  E  le
 ragioni  organizzative,  gestionali,  di  scelta politica per le piu'
 svariate  ragioni,  come  per  ragioni  dirette  a   volere   proprio
 trasferire  la  competenza  da  un  giudice  ad altro, sono tutte qui
 irrilevanti.   Rileva solo, cosi'  come  sostiene,  tra  l'altro,  la
 difesa  con  particolare vigore, che la norma di cui all'art. 13-ter,
 comma 3, cosi' intesa e collegata all'art. 12, comma 3,  si  pone  in
 contrasto  con  il  principio  del giudice naturale precostituito per
 legge sancito dall'art. 25 della Costituzione.  Per queste ragioni il
 tribunale accoglie la  richiesta  della  difesa  sulla  questione  di
 legittimita' costituzionale come in dispositivo.
                               P. Q. M.
   Visti  l'art.  134  della  Costituzione  e l'art. 25 della legge 11
 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara rilevante e non manifestamente infondata,  in  riferimento
 agli  artt.  102, commi 1 e 2, art. 3 e 25, comma 2, art 27, comma 3,
 della  Costituzione  la  questione  di  legittimita'   costituzionale
 dell'art.  13-ter,  comma  3,  della legge 15 marzo 1991, n. 82, come
 modificata dalla legge 7 agosto 1992, n.  356.  In  via  gradata,  la
 questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 13-ter, comma 3,
 in relazione alla competenza  territoriale  di  questo  tribunale  di
 sorveglianza  nei  confronti  di soggetti collaboratori di giustizia,
 titolari di speciale programma di protezione ai sensi  dell'art.  10,
 comma  1,  legge 15 marzo 1991, n. 82, che siano detenuti in istituti
 penitenziari fuori del distretto della Corte di appello  di  Roma  su
 cui questo tribunale ha giurisdizione.
   Sospende  il  presente giudizio e ordina la trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale.
   Manda  alla  cancelleria  di  notificare  la   presente   ordinanza
 all'interessato  e al suo difensore, al procuratore generale di Roma,
 alla Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri, e
 di comunicare la stessa al Presidente  del  Senato  e  al  Presidente
 della Camera dei deputati.
   Cosi' deciso in Roma, il 31 marzo 1998.
                   Il presidente estensore: Vittozzi
 98C1070