N. 81 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 aprile 1998- 3 febbraio 1999
N. 81 Ordinanza emessa il 4 aprile 1998 (pervenuta alla Corte costituzionale il 3 febbraio 1999) dalla Commissione tributaria provinciale di Caltanissetta sul ricorso proposto da Bartolozzi Michele contro l'ufficio imposte dirette di Caltanissetta. Imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.P.E.F.) - Liquidazione delle imposte dovute, in base alle dichiarazioni dei contribuenti - Termine posto all'Amministrazione finanziaria per l'attivazione della relativa procedura - qualificazione di tale termine, mediante norma interpretativa, come ordinatorio, non comportante decadenza - Irragionevolezza - Lesione del principio di eguaglianza - Violazione del diritto di difesa - Violazione del principio di irretroattivita' di norme punitive - Incidenza sul principio di imparzialita' e buon andamento della p.a. Imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.P.E.F.) - Liquidazione delle imposte dovute, in base alle dichiarazioni dei contribuenti - Procedura - Cartella di pagamento - Asserita natura di "atto cumulativo di accertamento o rettifica e di riscossione", nonche' di atto recettizio - Conseguente necessita' che tale atto contenga la firma dell'organo competente della p.a. e la dovuta motivazione - Mancata previsione - Lesione del diritto di difesa - Violazione del principio di buon andamento della p.a. (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 36-bis, n. 602 e 26; legge 27 dicembre 1997, n. 449, art. 28). (Cost., artt. 3, 24, 25 e 97).(GU n.9 del 3-3-1999 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. 943/1997 depositato il 22 novembre 1997 avverso cart. pagamento - Irpef, 91 contro imposte dirette di Caltanissetta da Bartolozzi Michele residente a San Cataldo (Caltanissetta) in via Buonarroti n. 9, difeso dal dott. Narbone Alessandro residente a Caltanissetta in via Canonico Pulci n. 11/A. F a t t o Michele Bartolozzi ha proposto ricorso, presentato il 22 novembre 1997 all'ufficio distrettuale II.DD. di Caltanissetta (ricevuta n. 2063) e lo stesso giorno depositato in questa Commissione, contro la cartella esattoriale notificatagli il 10 novembre 1997, con la quale gli si imponeva il pagamento, entro lo stesso 10 novembre 1997, di L. 5.257.000, risultanti da varie componenti Irpef 1991 (dichiarazione 1992), per sopratassa per omesso-ritardato versamento. Nel ricorso egli ha rilevato che la rettifica deve essere compiuta dall'ufficio entro il 31 dicembre dell'anno successivo alla presentazione della dichiarazione secondo l'art. 36-bis d.P.R. n. 600/1973 e nello stesso termine perentorio deve compiersi l'iscrizione a ruolo (come ha deciso la Commissione centrale delle imposte con la sentenza n. 3513/1994). Non e' utile il termine quinquennale dell'art. 38 d.P.R., che riguarda il procedimento mediante avviso di accertamento da notificare al contribuente. Rettifica ed iscrizione a ruolo sono parti inscindibili di uno stesso atto unilaterale dell'A.F., che viene conosciuto dal contribuente solo con l'iscrizione a ruolo. E' d'altra parte ovvio che, dopo oltre un quinquennio (dalla presentazione della dichiarazione del 1992 al 10 novembre 1997, giorno della notifica della cartella), il contribuente non e' piu' in grado di dimostrare se la rettifica sia stata compiuta dall'ufficio nel termine prescritto o no (come sembra). Ha chiesto, pertanto, che sia dichiarata la nullita' dell'atto impugnato con vittoria delle spese del giudizio. L'A.F. non si e' costituita. All'udienza del 4 aprile 1998 il ricorso e' passato in decisione e la Commissione ha emesso la presente ordinanza. Motivi della decisione La fattispecie in esame offre occasione per rilevare diversi aspetti di incostituzionalita' inerenti soprattutto al procedimento impositivo abbreviato ex art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. 1. - Il contribuente rileva la perentorieta' del termine in cui l'A.F. deve compiere l'imposizione tributaria ex art. 36-bis D.P.R. suddetto, scaduto il quale si verifica la decadenza del relativo potere impositivo. Nella questione cosi' posta si e' inserito quale ius superveniens l'art. 28 legge 27 dicembre 1997, n. 449, intitolato "norma interpretativa" secondo il quale "il primo comma dell'art. 36-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare fino alla data stabilita dall'art. 6 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non e' stabilito a pena di decadenza". A parte i dubbi che sono stati sollevati sulla efficacia e funzionalita ' della norma per raggiungere gli scopi ai quali mira, cioe' salvare l'A.F. dalle decadenze in cui e' gia' caduta (cui si fara' cenno), la commissione ritiene che ricorrano gravi vizi di legittimita' costituzionale con riferimento agli art. 3 (principio di eguaglianza), 24 (diritto di difesa), 25 (irretroattivita' di norme punitive) e 97 (buon andamento ed imparzialita' della p.a.), nonche' ai principi generali cosituzionali che informano l'attivita' legislativa, che non puo' essere usata in modo irragionevole e surrettizio e con lo scopo preciso ed esclusivo di coprire, senza plausibile ragione, ritardi e disservizi, che gia' per se' stessi ledono il principio del buon andamento della p.a., norme costituzionali e principi fondamentali dell'ordinamento giuridico, che prima ancora sono principi di civilta' (v. Corte cost. 4 aprile 1990, n. 155; Id. 23 novembre 1994, n. 397). La vicenda obbliga il richiamo di principi elementari che appaiono tutti violati soprattutto nella loro essenza. 2. - L'applicazione delle leggi importa la conoscenza della loro portata per accertare la possibilita' di loro applicazione al caso concreto (rapporto fra fattispecie astratta e fattispecie concreta). La norma chiara, immediatamente intellegibile ed apprendibile non abbisogna di particolare procedimento intepretativo; si verifica solo quella c.d. "interpretazione inavvertita", che e' quasi subcosciente e porta all'immediata applicazione della norma. Da cio' il noto in claris non fit interpretatio. Questa considerazione importa che sulle norme chiare si finisce col fare un'interpretazione (oggettivamente intesa e non di parte, quale che questa sia, pubblica o privata) che resta necessariamente ferma; variazione importerebbero palesi illegittimita'. Lo stesso avviene per norme non in senso assoluto chiare, su cui si crea un'interpretazione (sempre oggettivamente intesa) che diventa sempre piu' stabile e giunge alla qualificazione di "conforme" o ancor piu' "consolidata". Si tratta del c.d. "diritto vivente", cioe' applicato de plano nella vita di ogni giorno, cui fanno spesso riferimento le decisioni della Corte costituzionale (es. Corte cost. 6 aprile 1995, n. 110: "la questione di costituzionalita' sollevata in relazione alla consolidata esege'si che di una norma abbia dato la Cassazione, mentre e' inammissibile se surrettiziamente volta ad ottenere dalla Corte cost. (attribuendole un ruolo impugnatorio che non le e' proprio) una revisione di quella interpretazione, e' ammissibile nel caso in cui, assunta l'interpretazione medesima in termini di ''diritto vivente'', se ne chieda la verifica di compatibilita' con dati parametri costituzionali"; Corte cost. 28 aprile 1992, n. 196, "la disposizione viene interpretata come diritto vivente..."; Corte cost. (ord.) 14 giugno 1990, n. 288, "la Corte nel respingere la questione prospettata, ha fatto richiamo al ''diritto vivente'' della suprema Corte, secondo cui il giudice ordinario puo' disapplicare il provvedimento amministrativo nei casi.."; Corte cost. 21 dicembre 1985, n. 362, ".... diritto vivente giurisprudenziale e dottrinale..."; ecc.) e della Corte di cassazione (Cass. 20 aprile 1995, n. 4430: "... funzione della Cassazione di interpretare la legge e di dare chiarezza e certezza al ''diritto vivente'' ..."; Cass., sez. un., 1 aprile 1993, n. 3889: "...costituisce ''diritto vivente'', dal quale la Corte cost. sembra tenuta a prendere le mosse, nello scrutinare le questioni di costituzionalita' sollevate in ordine all'art. 6, comma 4, d.-l. 11 luglio 1992, n. 333, ..."; ecc.). Dinanzi a queste situazioni sono possibili elementi di rottura, ma essi debbono sempre restare nell'ambito della norma, qual'essa e', ed essere sorretti da ragioni tanto valide che debbono superare quelle gia' ampiamente considerate. L'elemento di rottura puo' essere anche un intervento legislativo, ma esso non sara' piu' interpretativo, ma innovativo e dara' alla norma significato, valore, portata diversi. 3. - Come e' noto ed e' insegnato anche nei piu' succinti libri di principi generali del diritto, nell'interpretazione delle leggi secondo le fonti, accanto ad altre, si hanno: la "dottrinale", data dagli studiosi del diritto. E' sempre privata. Non ha carattere vincolante ed influisce solo per la sua fondatezza e per l'autorita' scientifica di chi la sostiene; la "giudiziale", data nell'esercizio della funzione giurisdizionale. Anch'essa non ha efficacia vincolante se non quella della Cassazione nello stesso processo, e per il resto, solo per la sua fondatezza e per l'autorita' del giudice da cui proviene. Questi, pero', non e' un privato, ma un organo che esercita una funzione pubblica fondamentale propria solo dello Stato, che - si noti - e' il solo fra gli enti pubblici al quale e' attribuito questo potere. La sua autorita' sta gia' nella funzione pubblica della fonte e dell'attivita' in cui si innesta, non con carattere di occasionalita' e di facoltativita', ma con quello della doverosita' (potere-dovere), per cui in alcuni stati come gli anglosassoni) ha efficacia vincolante. Su cio' si basa il principio di autorita' cioe' la c.d. auctoritas rerum similiter iudicatarum (v. Messineo, Manuale, I, S.6, n. 3; ma v. tutta la produzione dottrinaria istituzionale). Quando, poi, essa proviene dall'organo giurisdizionae supremo, qual'e' la Corte di cassazione, e' la stessa legge (art. 65 ordinamento giudiziario) a dare precisa indicazione di questa preminente autorita'. La Corte, infatti, "quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale ...". La stessa Cassazione ha sempre riaffermato questa natura delle sue funzioni (v. per tutte Cass. 20 aprile 1995, n. 4430, cit.). Proprio per garantire questa funzione, detta appunto di "nomofilacia" (da nomos = legge e phylakos = guardiano, cioe' "garanzia della uniforme interpretazione della legge" (Zingarelli)), fu istituito (art. 68 ord. giud.) il Massimario della Corte di cassazione, che raccoglie le massime ufficiali delle sentenze dalla Cassazione, ora anche informatizzato nel CED e posto al servizio di tutti gli uffici giudiziari d'Italia. E' chiaro che le ora illustrate posizione, autorita', e funzione istituzionale della Corte di cassazione portano ad una determinante prevalenza della sua interpretazione su quella degli altri giudici. Esattamente e' stato rilevato (Torrente, Manuale, sin dalla prime edizioni piu' sintetiche) che la giurisprudenza "ha importanza notevole per gli altri magistrati, che saranno chiamati a decidere controversie analoghe; essi non se ne discosteranno, o non se ne dovrebbero discostare, se non quando si convincessero dell'erroneita' del principio che e' stato gia' affermato in altre decisioni". Peraltro, constatato che "la giurisprudenza rende generalmente ad uniformarsi ai propri orientamenti interpretativi", giustamente e realisticamente si osserva (Bianca, Dir. civ., I, 100) che "la formazione di un orientamento interpretativo consolidato segna talora il significato effettivo che la norma assume nelle applicazioni giurisprudenziali". Infine, e' inveteratamente noto e non puo' sfuggire che l'uniformita' dell'interpretazione delle leggi, per quel che sono e non per quello che taluno (p.a. compresa) vorrebbe che fossero, e' garanzia di certezza del diritto che e' (o almeno dovrebbe essere in uno stato coerente con la sua essenza) un carattere indefettibile dello stato di diritto qual'e', anche in base alla sua Costituzione, la Repubblica italiana. L'"autentica, che proviene dagli stessi organi legislativi e si concreta in apposita norma limitata solo a chiarire il significato di una norma preesistente": essa a carattere vincolante nel senso che ''sul significato di quella norma non sono piu' possibili dubbi o discussioni'' (Torrente cit.). Bisogna senz'altro ribadire che l'intervento legislativo di interpretazione si giustifica e puo' avvenire solo ed esclusivamente in caso di contrasto interpretativo a livelli di fonti autorevoli, per garantire ai cittadini la certezza del diritto imponendone, con l'autorita' propria della legge, una fra le diverse seguite. E' questa la sola funzione pubblica essenziale dell'interpretazione autentica (v. Cass. 3 aprile 1981, n. 1695: "... il legislatore ha il potere, quando una legge abbia dato luogo ad incertezze interpretative, di precisare in modo definitivo ed obbligatorio erga omnes il suo reale pensiero ..."). Allorche' il legislatore (pur se spinto da chi, anche parte, sta alle sue spalle) ritiene che l'interpretazione seguita sia da modificare, dal momento che la norma vale secondo la interpretazione che di essa comunemente si da' (il suddetto ''diritto vivente''), il suo intervento e' solo innovativo, mai interpretativo: sarebbe assurdo sostenere che il legislatore intervenga per far rispettare la sua (pretesa) volonta', che ritiene tradita da interpretazioni che la contraddicono, anche perche' e' ben noto che non esiste una volonta' del legislatore (ogni legge e' frutto di esigenze di natura diversa e di dibattiti fra proposte e/o tesi, e/o emendamenti ecc. diversi; essa, una volta emanata, vive la sua vita autonoma per quel che e' ed a prescindere da cio' che il legislatore voleva che fosse, adattandosi anche alle mutate esigenze proprio attraverso la interpretazione (la c.d. "evolutiva" in senso corretto): la conferma si ha anche nei lavori preparatori (v. Trimarchi, Ist., S4 e 8). Occorre fissare bene la natura (e di conseguenza la portata e gli effetti) esclusivamente interpretativa di questo tipo di norma, che importa da un canto uno stretto ed indissolubile legame con la norma che interpreta, di cui subisce le sorti, dall'altro il conseguente suo effetto retroattivo (ex tunc) all'entrata in vigore della norma a cui si riferisce, ma, correlativamente, anche l'impossibilita' innovativa che puo' avere solo effetti ex nunc. Su questi punti occorre soffermarsi appena. 3. - L'art. 11 delle preleggi riproduce un principio giuridico fondamentale, quello di irretrattivita' delle leggi, che e' principio di civilta', di ragionevolezza, di correttezza, prima che giuridico: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il fondamento della disposizione e' in re ipsa: "la norma giuridica contiene un comando; per poterlo osservare, occorre almeno la possibilita' che esso sia conosciuto" (Torrente, cit.). Esso "risponde ad una elementare esigenza di certezza dei destinatari della norma, i quali devono poter contare sulla disciplina legale in vigore per sapere quali sono gli effetti giuridici dei loro atti" (Bianca, op. cit., 119; e cosi' la migliore dottrina e la piu' autorevole giurisprudenza). Si tratta, del resto, del c.d. "principio di legalita'", come espressamente l'ha qualificato lo stesso legislatore in sede di depenalizzazione nell'art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, "modifiche del sistema penale", capo I "le sanzioni amministrative", e da recente, proprio in materia tributaria, nell'art. 3 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, sulle sanzioni amministrative tributarie. Il "principio di legalita'", appunto perche' tale, e' un carattere intrinseco dello stato di diritto e la sua violazione e' squalificante per esso. Non e' inopportuno ricordare che proprio per impedire la lesione di questo fondamentale principio in occasione della successione di leggi, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato la teoria dei "diritti quesiti" e/o quella (destinata soprattutto ad evitare la rigida cristallizzazione dei diritti destinati a durare nel tempo) del "fatto compiuto". Se la fattispecie costitutiva di un rapporto e' per qualsivoglia ragione chiusa, e' impossibile a posteriori farla rivivere a mezzo di una norma successiva. Questo principio ha applicazione anche nella questione in esame, come si vedra'. 4. - Il principio della irretrattivita', com'e' noto, non e' costituzionalizzato, se non per le norme "punitive" (art. 25 "nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso"). Ma le norme "punitive" non sono solo quelle "penali", che ne sono una sottospecie, anche se la piu' importante. Questo carattere non strettamente penale, emerge chiaramente da tanti elementi: a) l'espressione letterale dell'art. 25 "punito" e' generica rispetto a quella, specifica, derivante da condanna penale ed alla sanzione con questa inflitta, la "pena" intesa in senso stretto; "punito" indica. assoggettato all'avvenuta inflizione di un castigo, di una sanzione di qualunque natura essa sia. Proprio con l'adeguamento legislativo delle sanzioni amministrative, gia' attuato anche per quelle tributarie con il d.lgs. n. 472/1997 suddetto ed in corso di elaborazione per le altre, si e' fatta e si fara' chiarezza anche sul punto: molte sanzioni amministrative, anche nella sottopecie delle tributarie, qualificate come "pene pecuniarie" hanno finito o finiranno di essere qualificate ancora "pene" (art. 2 d.lgs. cit.). Ma cosi' erano qualificate al tempo della redazione della Costituzione e da cio' l'uso generico dell'espressione "punito"; b) nella Costituzione si usa l'espressione generica, nonostante il Costituente avesse il modello specifico del codice penale del 1930 art. 1 ("nessuno puo' essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, ne' con pene, che non siano da essa stabilite") e 2, primo comma, ("nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituisce reato"), da soli ed ancor piu' coordinati: in questi il "punito" e' posto in esclusiva relazione col "reato", cioe' il riferimento e' solo alle pene in senso stretto, come sanzioni penali. Nella Costituzione l'espressione manca di ogni limitazione al penale, ma e' generica; c) la suddetta sostanziale diversita' di valore delle espressioni trova riscontro nella disposizione, di poco successiva alla Costituzione (frutto di due interventi dello Stato italiano: nel 1950 in sede internazionale di elaborazione della Convenzione e nel 1955 in sede statale di ratifica), dell'art. 7, primo comma, legge 4 agosto 1955, n. 848, di "ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 ottobre 1950" secondo cui "nessuno puo' essere condannato per un'azione od omissione che, nel momento in cui e' stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato e' stato consumato". Questa disposizione e quelle soprariportate del codice penale rispecchiano e recepiscono il vecchio principio nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, che la Costituzione ha recepito ma nei suddetti termini piu' ampi relativi ad ogni illecito di qualsiasi natura, come dimostra il fatto che non si e' adeguata ad esse meramente riportandole, ma ha preso l'iniziativa di usare espressione diversa (e cio' importa una scelta, che come ogni scelta e' volontaria e frutto dl valutazione comparativa). Si tratta dell'apertura verso la costruzione sistematica della categoria degli illeciti non penali, puniti con sanzioni non penali, che ha avuto un inizio con le norme sulla depenalizzazione e via via si completa; d) proprio il principio di legalita' cosi' inteso tiene in vita la prescritta irretrattivita' in campo penale, anche quando al reato non conseguono piu' pene in senso stretto intese, ma sanzioni che, come espressamente e letteralmente risulta dalla loro qualificazione legislativa, si distinguono da esse. Infatti, oltre alle pene in senso stretto, che, come e' noto, si distinguono in principali (art. 17 cod. pen.; e a loro volta possono essere detentive (ergastolo, reclusione, arresto) e/o pecuniarie (multa, ammenda)) ed accessorie (art. 19), si hanno le "sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi", di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, Capo II, art. 53 e seg. (semidetenzione, liberta' controllata, pena pecuniaria), le "misure alternative alla detenzione", di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354, Capo VI, art. 47 e seg. (affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare, semiliberta', liberazione anticipata). Le stesse considerazioni valgono in ordine alle misure di sicurezza, considerate (a prescindere dalle controversie sul punto, che qui non interessano), "misure amministrative" secondo la specifica qualifica dello stesso codice nell'intestazione del "Titolo VIII" del libro I; e) il comma 2 dell'art. 25 Cost., poi, si inserisce fra il comma 1 che impone il principio del "giudice naturale" che attiene ad ogni materia e non solo alla penale, ed il comma 3 che riguarda le misure di sicurezza, che il codice, come detto, continuava e continua a qualificare come "misure amministrative". L'art. 25 segue il 24 che attiene a tutte le materie: la generale tutela giurisdizionale (comma 1), il generale diritto alla difesa (comma 2) assicurato anche ai non abbienti (comma 3), il diritto alla riparazione degli errori giudiziari (comma 4), che dovrebbe estendersi ad ogni campo, come risulta pure dai lavori preparatori (pur se ridotti perche' il comma fu successivamente aggiunto) ed anche se ha trovato ritardata applicazione, limitata ed in modo ridotto, al campo penale (art. 314 e 315 cod. proc. pen.), ed appena sfiorata in altri campi con le norme sulla responsabilita' dei giudici; f) ancora e' l'art. 25 Cost. che sta alla base del gia' citato art. 1 legge 24 dicembre 1981, n. 689, che fra i "principi generali", come si intitola la sez. I del capo I ("le sanzioni amministrative"), pone, prima di ogni altro, il "principio di legalita' = nessuno puo' essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione"; g) sempre l'art. 25 Cost. e' alla base dell'eguale art. 3 d.lgs. n. 472/1997 per le sanzioni tributarie. Bisogna ricordare, anche per evidenziare ancora il modus operandi in materia tributaria, che appare lontano dall'aderenza ai principi della Costituzione ed ai principi generali dell'ordinamento giuridico italiano, senza che vi siano ragioni collegate alla particolare attivita' impositiva tributaria (che comunque dovrebbero essere di tale rilevante portata da giustificare il sovvertimento dei principi), punto su cui si avra' occasione di tornare, che vi e' stata resistenza ad applicare le norme della legge 24 novembre 1981, n. 689, cit., alle sanzioni tributarie, come dimostrano contrastanti o strane pronunce: cosi', appena esemplificativamente), mentre Comm. trib. centr. 16 gennaio 1993, n. 366, e Td. 13 marzo 1989, n. 1825, hanno ritenuto applicabile anche in campo tributario la norma dell'art. 7 legge n. 689/1981 sulla intrasmissibilita' agli eredi dell'"obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione" (per un'ovvia esigenza di uniformita', che ha determinato ora la recezione dello stesso principio nell'art. 8 d.lgs. n. 472/1997, e secondo un'interpretazione adeguata alla Costituzione), l'opposta tesi hanno seguito Cass. 11 febbraio 1988, n. 1468; Comm. trib. II grado Perugia 24 giugno 1993, n. 239). Emerge chiaramente che la retrattivita' delle norme giuridiche e' la regola e la irretroattivita' un'eccezione (cosi' secondo costanti arresti giurisprudenziali), limitata ad alcune materie, che, come ogni eccezione, deve avere una giustificazione giuridica valida e non puo' mai essere ad libitum; e non puo', in mancanza di valida giustificazione, essere raggiunta surrettiziamente per vie traverse, come detto. La mancanza di previsione costituzionale generale non svilisce il principio dell'irretroattivita' della legge e non fa perdere il carattere del tutto eccezionale alla retroattivita'. La riprova e' nella stessa Costituzione, che, infatti, regola un particolare caso di retroattivita', giustificatamente eccezionale. La possibilita' per il governo di emanare ex art. 77 Cost. decreti-legge e' riconosciuta in via eccezionale "in casi straordinari di necessita' e d'urgenza", ma con l'obbligo di presentarli lo stesso giorno alle Camere per la conversione in legge. L'effetto retroattivo si ha sia in caso di conversione in quanto gli effetti della legge di conversione retragiscono ex tunc al tempo dell'entrata in vigore del d.-l., sia in caso di non conversione con identiche conseguenze; ma in caso di conversione con modificazioni, solo le norme non modificate mantengono l'effetto ex tunc, mentre quelle modificate lo hanno solo ex nunc, appunto ed in modo particolare, per il loro carattere innovativo, che le rende solo da ora conoscibili. Che questa possibilita' sia eccezionale e che con l'abuso di essa, consistente nell'emissione di decreti ripetitivi a catena (i c.d. decreti-legge "fotocopia") senza che siano convertiti, surrettiziamente si attribuisca all'esecutivo, attraverso il gioco dilatato degli effetti retroattivi, potere legislativo, che non ha, e che, quindi, le reiterazioni siano costituzionalmente illegittime, e' stato riconosciuto da Corte cost. 24 ottobre 1996, n. 360. Proprio fra le ragioni poste a base della pronuncia di incostituzionalita' per violazione dell'art. 77 Cost., (l'altro aspetto relativo all'art. 24 Cost. e' stato ritenuto assorbito dall'accoglimento del primo), vi e' anche quella inerente all'ampio slargamento della retroattivita' (limitata dalla Costituzione ai 60 giorni prescritti per la conversione) perche' la reiterazione dava "gli effetti determinati dalla decretazione d'urgenza mediante la sanatoria finale della disciplina reiterata". Ma l'eccezione della retroattivita', che trova la sua piena giustificazione proprio nella straordinarieta' e nell'assoluta necessita' della decretazione d'urgenza, trova limite proprio nel venir meno della straordinarieta' che non giustifica piu' il sacrificio di un valore preminente, qual'e' l'"interesse di evitare che il governo possa regolare con effetti definitivi al di fuori della garanzia e del controllo del Parlamento" (Bianca, op. cit., 122). Quello della decretazione a catena o in "fotocopia", ora riferito, e' un sistema illegittimo usato dal Governo anche per l'art. 36-bis, come, si vedra', a conferma ulteriore del gia' cennato particolare modus operandi in questo specifico procedimento impositivo abbreviato ed in campo tributario. Altra eccezione, connaturata al tipo di norme, riguarda le leggi interpretative, appunto perche' sono collegate in modo stretto ed immediato ad altra norma gia' vigente. Ma anche per esse si pone il pericolo di una finta o apparente, talora surrettizia qualificazione come, "interpretative" al fine di dare loro un effetto retroattivo che altrimenti non potrebbero avere. La Corte cost., in linea con quanto e' universalmente riconosciuto, ha gia' avuto occasione di pronunciarsi contro queste pericolose deviazioni, lesive, come detto, dello stesso carattere di stato di diritto che ha la Repubblica italiana e, quindi, dell'essenza stessa dell'intera Costituzione, affermando (Corte cost. 23 novembre 1994, n. 397, proprio in materia tributaria; ma gia' prima Corte cost. 4 aprile 1990, n. 155 che "il ricorso da parte del legislatore a leggi di interpretazione autentica non puo' essere utilizzato per mascherare norme effettivamente innovative dotate di efficacia retroattiva, in quanto cosi' facendo la legge interpretativa tradirebbe la sua propria funzione di chiarire il senso delle norme preesistenti". Invero, la norma pur qualificata "interpretativa" non ha, ne' puo' avere un significato ed una portata autonoma in se' e per se' considerata; ma acquista significato e senso solo nel detto collegamento con disposizioni precedenti, di cui fissa la portata senza sostituirle o modificarle. Si deve trattare (Cass. 25 febbraio 1982, n. 3119, che ribadisce il concetto ora espresso, ma v. anche subito dopo) di "corollario di una potenzialita' insita nella vecchia legge". Essa, quindi, ha funzione solo esplicativa (non dat, sed datum significat). Puo' imporre una determinata esege'si della norma esistente ed in tal senso ha una "naturale" retroattivita', ma non puo' dettare una nuova norma o riformulare la precedente o riaggiustarla, perche' cio' configura innovazione legislativa e non interpretazione. Molto esattamente in giurisprudenza si e' affermato: Corte cost. 25 luglio 1995, n. 26: "il ricorso a leggi di interpretazione autentica, possibile anche da parte delle regioni, non puo' esser utilizzato per attribuire a norme innovative una surrettizia efficacia retroattiva, venendo meno altrimenti la funzione peculiare di tali leggi, ossia quella di chiarire il senso delle norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibli con il tenore letterale"; Corte cost. 23 gennaio 1994, n. 397, cit.; Cass. n. 3119/1982 cit.: "mascherando come legge d'interpretazione autentica quella che in realta' e' una legge innovativa con effetto retroattivo, per suscitare minore opposizione al proprio intervento, presentandolo come corollario di una potenzialita' insita nella vecchia legge, il legislatore esercita pur sempre un potere che gli spetta, nella misura, in cui la retroattivita' non incontra ostacoli; ma, se l'ostacolo e' rappresentato dalla retroattivita' come tale, non e' l'adozione dello strumento dell'interpretazione autentica a venire in considerazione, sibbene il principio costituzionale che presiede alla (ir)retroattivita' delle leggi"; Cass. 3/371994, n. 2115, che ribadisce il "carattere eccezionale" della norma interpretativa; ecc. Ed egualmente in dottrina (per tutti Bianca, op. cit. S 88): "proprio perche' l'efficacia retroattiva e' una eccezione, deve essere certo che la legge e' diretta ad interpretare la norma anziche' a sostituirla con una norma piu' chiara o piu' completa". Se l'interpretazione giudiziale e l'interpretazione autentica convivono, cio' e' possibile solo nel rispetto delle proprie competenze costituzionalmente assegnate. Nella parita' delle funzioni non puo' il legislatore assumere posizioni e compiti preminenti rispetto al giudice imponendogli una interpretazione di una legge al di fuori dei suoi compiti legislativi: e questi, in sede di interpretazione, sono limitati alla scelta fra piu' interpretazioni correnti, non nell'imporre contenuto e valore nuovi ad una norma, perche' cio' sostanzia attivita' legislativa in senso stretto e non con valore interpretativo. Ogni diversa condotta lede il principio fondamentale della separazione e distinzione dei poteri, pietra angolare, dello stato moderno. 6. - Al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, contenente "disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi" solo in un secondo tempo con l'art. 2 d.P.R. 24 dicembre 1976, n. 920, fu aggiunto l'art. 36-bis, il cui testo fu poi sostituito con l'art. 1 d.P.R. 27 settembre 1979, n. 506. La norma ha subito adattamenti; cosi' col d.-l. 31 maggio 1994, n. 330, convertito con modifiche in legge 27 luglio 1994, n. 473, "semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria", che rappresenta l'ennesima illegittima (v. n. precedente) reiterazione dei d.-l. 6 dicembre 1993, n. 503, 4 febbraio 1994, n. 90, 31 marzo 1994, n. 222, non convertiti in legge. La nuova norma, che signiticativamente si intitola "liquidazione delle imposte dovute in base alla dichiarazione", ha introdotto un procedimento speciale abbreviato per l'accertamento delle imposte sui redditi, limitato ai casi semplici di mere correzioni (in cui sull'accertamento decisamente prevale - o dovrebbe prevalere - la liquidazione dell'imposta) nel quadro di quanto avviene in ogni campo. Basta considerare: che in campo legislativo accanto al procedimento ordinario di formazione della legge si hanno il procedimento abbreviato (in cui i termini sono ridotti), il procedimento c.d. decentrato (che alleggerisce l'assemblea plenaria sostituendola con le commissioni) ed il procedimento redigente (che sta fra l'ordinario ed il decentrato); che in campo penale si hanno "i procedimenti speciali" (giudizio abbreviato - art. 438 seg. c.p.p.; giudizio immediato - art. 453 seg.; procedimento per decreto - art. 459 seg.; ecc.); che in campo civile si hanno i "procedimenti sommari" (decreto ingiuntivo - art. 633 seg. c.p.c.; ecc.). Ma in essi i cardini ed i principi essenziali sono sempre rispettati. Con l'art. 36-bis si e' creato un procedimento speciale abbreviato che nell'accertamento delle imposte sui redditi: "ai fini della liquidazione delle imposte", ferma restando la potesta' di rettifica ed accertamento secondo le vie normali e art. 38 e seg. (comma 2, inizio), "gli uffici possono" procedere alle operazioni che sono tassativamente indicate nelle lettere da a) a g) (correzione di errori materiali o di calcolo; esclusione in tutto o in parte di scomputo di ritenute d'acconto non risultanti o risultanti in misura inferiore dai certificati dei sostituti d'imposta allegati alla dichiarazione ecc.; esclusione di detrazioni non previste dalla legge o non risultanti da documenti o riduzione di quelle esposte in misura superiore; esclusione o riduzione di deduzioni dal reddito complessivo delle persone fisiche di oneri non previsti dalla legge o non risultanti dai documenti o esposti in misura maggiore; controllo di crediti di imposta spettanti e dei versamenti dovuti in base alla dichiarazione ecc.). A tal fine il contribuente e' invitato "anche per via telefonica o a mezzo posta" a dare chiarimenti sulla dichiarazione ed esibire ricevute di pagamenti e documenti indicati nella dichiarazione ma ad essa non allegati (comma 3, aggiunto con d.-l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in legge 27 aprile 1989, n. 154, e sostituito con l'art. 1, comma 1, lett. p), n. 3, d.-l. 31 maggio 1994, n. 330, cit.). La norma ha sacrificato i diritti del contribuente, come quello di avere notificato e di potere impugnare l'avviso di rettifica ed accertamento prima del passaggio alla fase di riscossione delle imposte, cioe' senza avere incombente la fase esecutiva, unificando le due distinte fasi in una, con la giustificazione che si tratta solo di mera correzione di errori da espletare in tempo breve. Essa, pero', ha avuto applicazione distorta perche' l'A.F. ha cercato di dilatare oltre misura il ben delimitato campo di applicazione, riconosciuto come tassativo (giurisprudenza unanime: Cass. 8 luglio 1996, n. 6193; Id. 1 maggio 1991, n. 2174; Id. 9 maggio 1991, n. 3658; Id. 25 settembre 1990, n. 9692, che esclude "il recupero a tassazione di deduzioni od agevolazioni operate od invocate dal contribuente in sede di dichiarazione e ritenute dall'A.F. inapplicabili in base a leggi ignorate dal contribuente o ad interpretazioni difformi della stessa o a valutazioni o apprezzamenti difformi di fatti"; Cass. 20 novembre 1989, n. 4958; Corte cost. (ord.) 7 aprile 1988, n. 430; Comm. trib. centr. 15 maggio 1995, n. 2045; Comm. trib. centr. 16 gennaio 1993, n. 326; Comm. trib. centr. 16 marzo 1994, n. 733; Comm. trib. I grado Monza 28 aprile 1981: "in presenza di una delle situazioni tassativamente enunciate dall'art. 36-bis, secondo comma, d.P.R. n. 600/1973, l'ufficio imposte deve (e non puo' a sua discrezione) procedere alla liquidazione diretta senza accertamento"; Comm. trib. centr. 13 febbraio 1985, n. 3221: "l'elencazione dei casi nei quali e' ammessa la tassazione senza previo accertamento e' tassativa; di talche' fuori dei casi, tassativamente elencati, l'ufficio deve provvedere a notificare al contribuente l'avviso di accertamento, necessario al fine di costituire il contraddittorio tra l'A.F. ed il contribuente ..."; Id. 30 novembre 1990, n. 7135; Id. 20 novembre 1990, n. 7524; ecc.). Ancora, l'A.F. nella pratica quotidiana non ha rispettato i termini stabiliti dalla legge, per cui l'art. 36-bis si e' ridotto ad essere una scorciatoia buona solo ad evitare attivita' dell'A.F. con lesione dei diritti del contribuente, fra cui, in definitiva, quello essenziale del contraddittorio, che tutela il diritto alla difesa costituzionalmente garantito, e tradendo la stessa ragione per cui e' stata emanata. 7. - Allorche' questo secondo aspetto e' stato portato all'esame della giurisdizione tributaria e di quella ordinaria si sono avute conformi pronunce, ai livelli piu' qualificati (non puo' avere valore determinante qualche pronuncia di organo periferico, specie non sostenuta da corretta motivazione nel senso sfavorevole all'A.F. ed in tal senso su questo capo si e' formato il c.d. "diritto vivente". La tesi irrazionalmente e giuridicamente assurda di lasciare ad libitum dell'A.F. i termini per essa fissati, peraltro in contrapposizione a quelli rigorosamente perentori assegnati al contribuente (aggravata dalla costante disapplicazione del colloquio chiarificatore previsto dallo stesso art. 36-bis: v. sopra) e' stata respinta costantemente dagli organi giurisdizionali supremi; valgano per tutte: comm. trib. centr. 27 ottobre 1994, n. 5313, in cui si osserva esattamente che non puo' distinguersi "surrettiziamente tra procedimento di rettifica e liquidazione della maggiore imposta con iscrizione a ruolo, mentre la distinzione va fatta fra rettifica ex art. 36-bis ed accertamento ex art. 38 seg.". Cio' "vanificherebbe di fatto l'istituto della rettifica ... vanificando la difesa del contribuente che non puo' dimostrare in modo alcuno che la rettifica e' stata effettuata nell'anno e solo l'iscrizione a ruolo molto tempo dopo nel quinquennio e che, quindi, la rettifica e' stata effettivamente tempestiva". Balza, quindi, evidente la violazione dell'art. 24 della Costituzione. Ed ancora "non si comprende perche' l'A.F., avendo effettuato la rettifica nell'anno fissato dalla legge, tarda poi fino anche a 5 anni nell'iscrivere a ruolo la maggiore imposta rettificata. Oltrettutto una tale tardivita' nell'iscrizione a ruolo comporterebbe una responsabilita' della stessa A. per interessi e rivaluzione sulla maggiore somma dovuta dal contribuente per la rettifica della sua dichiarazione". Balza evidente la lesione dell'art. 97 della Costituzione sul buon andamento ed imparzialita' dell'attivita' amministrativa; cass. 29 luglio 1997, n. 7088, ha posto in evidenza che la perentorieta' del termine e' connaturale all'attivita' prevista nell'art. 36-bis: "le attivita' accertative (e di conseguente rettifica della dichiarazione dei contribuenti) sono della legge vincolate al rispetto di rigorosi termini di decadenza, la cui esistenza e' da considerare pertanto connaturata al loro svolgimento, a tutela del buon andamento e dell'imparzialita' dell'A., oltre che degli interessi dei contribuenti". Ed ancora "il termine stabilito dal comma 1 dell'art. 36-bis deve essere riferito all'iscrizione a ruolo e quest'ultima, conseguentemente, non puo' essere effettuata entro il piu' esteso arco temporale previsto dal comma 1 dell'art. 17 d.P.R. n. 602/1973, anche perche' cio' comporta, per il contribuente, l'aggravio di ulteriori interessi (art. 7, primo comma, d.P.R. n. 787/1980), aggravio che il legislatore, decidendo di tenere fermo con l'art. 1 d.P.R. n. 506/1979, il termine annuale per la liquidazione delle imposte dovute a norma dell'art. 36-bis, proprio quando, con l'art. 2 dello stesso D., elevava di ben cinque volte il termine per l'iscrizione a ruolo delle somme liquidate in base alle dichiarazioni ha mostrato di volere evitare". Chiaramente emerge da quest'altra fonte la violazione degli artt. 24 e 97 della Costituzione (vedi l'esplicito riferimento alla "tutela del buon andamento e dell'imparzialita' dell'A."), che implicitamente importa quella dell'art. 3, a sua volta autonomamente violato; cass. 24 settembre 1997, n. 12442, ha riaffermato che "il termine stabilito dal primo comma dell'art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e' stabilito a pena di decadenza e concerne l'iscrizione a ruolo delle maggiori imposte liquidate a seguito di controllo "formale" delle dichiarazione espletato ai sensi di tale disposizione, mentre il termine fissato dal comma 1 dell'art. 17 d.P.R. n. 602/1993 riguarda la riscossione delle imposte nell'ammontare risultante dalla dichiarazione del contribuente, senza che la stessa sia in alcun modo rettificata". La dottrina di gran lunga prevalente e piu' autorevole e' negli stessi sensi ed ha prestato unanime consenso alle decisioni ora indicate. Le citate pronunce (a prescindere da altre) e dottrina dimostrano l'esistenza di una costante interpretazione ("diritto vivente") rispetto alla quale sono risultati vani i tentativi compiuti da una parte del rapporto tributario (l'A.F.) per farla modificare. Manca, pertanto, la ragione fondamentale che puo' giustificare l'intervento del legislatore in sede interpretativa. Non vi e' contrasto di interpretazione da dirimere, ma interesse di una parte (anche se pubblica) ad una disciplina diversa da quella risultante dal "diritto vivente". E' ancora da aggiungere la contraddittorieta' in termini ed irragionevolezza della pretesa di uso di una norma con funzione esclusivamente acceleratoria, pretendendo di usare i termini del procedimento impositivo ordinario: cade la stessa ragione d'essere dall'art. 36-bis. La nuova norma dell'art. 28, legge n. 119/1997 non e', quindi, interpretativa ma innovativa e non puo' avere valore retroattivo. Ma e' anche innovativa in senso anticostituzionale. L'artificio dell'autoqualificazione di norma interpretativa e' nient'altro che un tentativo degenere di autoattribuzione alla funzione esercitata di caratteri e qualita' che non ha; ma proprio il conclamare qualifiche che non sussistono e' confessorio dell'intento di crearle a parole. 8. - La disposizione dell'art. 28, legge n. 449/1997 pone il legislatore in contrasto con se stesso ed anche sotto questo profilo si presenta come espediente. Infatti, rendendosi conto della situazione creatasi, sopra delineata, il legislatore con l'art. 13 decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, in vigore dal 1 gennaio 1999, ha sostituito il testo dell'art. 36-bis (e dell'art. 36-ter): pur restando un procedimento impositivo semplificato, la fase di accertamento viene separata da quella di riscossione perdendo la caratteristica di attivita' meramente interna dell'A.F.: l'A.F. deve comunicare al contribuente l'esito del controllo formale e della liquidazione entro il 31 dicembre del 2 anno dalla presentazione della dichiarazione, che e' termine certamente di decadenza. Orbene, e palese da un canto che si e' voluto dare maggior respiro all'A.F. ampliando il termine del 31 dicembre dal 1 al 2 anno successivo alla dichiarazione, ma, dall'altro, si e' dato il riconoscimento legislativo pieno della perentorieta' del termine indicato dall'art. 36-bis, che e' anche l'adesione alla chiara interpretazione giudiziale, in tal senso cioe' al "diritto vivente". Si tratta in buona sostanza di un'interpretazione autenticata dell'art. 36-bis secondo il "diritto vivente", che viene posta a presupposto indefettibile della nuova norma. E' chiaro che l'art. 28, legge n. 449/1997 e' in pieno inammissibile contrasto con l'art. 13 d.lgs. esaminato. Questa condotta legislativa contraddittoria e' costituzionalmente irrazionale ed illegittima. A salvarlo non vale la limitazione temporale dell'interpretazione autentica fino all'entrata in vigore del d.lgs. n. 241/1997, perche' si tratta di un intervento che irrazionalmente (e si sono visti e si vedranno anche altri aspetti) contrasta sia col "diritto vivente" sia con la modifica recentissima della norma. 9. - La nuova norma dell'art. 28, pertanto, e' affetta da intrinseca irrazionalita' giuridica. Se ce ne fosse bisogno, la stessa espressione letterale ne da' riprova. Allorche', vi si afferma che l'art. 36-bis "deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato avendo carattere ordinatorio, non e' stabilito a pena di decadenza", pone un sillogismo irrimediabilmente errato perche' parte da premesse anch'esse irremediabilmente ed istituzionalmente errate, che si danno per vere e per certe. Da cio' deriva, oltre che la violazione di principi essenziali, l'irrazionalita'. Infatti, sostanzialmente si afferma: a) premessa maggiore/dato certo: i termini ordinatori non possono essere a pena di decandenza; b) premessa minore/dato certo: il termine dell'art. 36-bis e' ordinatorio; c) ergo: il termine dell'art. 36-bis non e' a pena di decadenza. Senonche', proprio le due premesse, cioe' i due dati di base certi, sono erratamente affermate tali, per cui anche la conseguenza e' errata. Infatti: a) e' inesatto che i termini ordinatori alla loro scadenza non producano decadenza. Evidentemente si fa confusione fra termini ordinatori e termini dilatori. Come e' ben noto, i termini riguardano il diritto in via generale e, quindi, tutti i suoi rami con regole comuni (eguali i criteri di computo, decorrenza, scadenza, natura, effetti, ecc.). Le norme che li riguardano, anche se contenute in testi legislativi diversi, hanno carattere generale (tranne eccezioni proprie nel quadro del campo in cui operano. I termini ordinatori, allorche' scadono, producono decadenza a meno che non siano prima prorogati. La norma dell'art. 154 c.p.c. e' di carattere generale. Tuttavia, le conclusioni non mutano anche a distinguere i termini processuali da quelli di diritto sostanziale, in quanto: 1) solo per i primi si ha una presunzione di non perentorieta' che tuttavia non deve risultare esplicitamente: v. in seguito mentre per i secondi si ha la presunzione opposta (Cass. 2 ottobre 1987, n. 7374, secondo cui e' attribuito al giudice individuarne la natura); 2) anche i termini ordinatori danno gli stessi effetti dei perentori, se prima della scadenza non sono stati prorogati (art. 154 c.p.c.; Cass. 25 luglio 1992, n. 8976, in relazione all'art. 201 per la nomina del C.T. di parte; Id. 23 gennaio 1991, n. 651, in relazione all'art. 203, u.c., per le rogatorie di prove; ecc.); ma a prorogarli puo' essere solo il giudice, in quanto terzo fra le parti, non una parte, anche se essa e' una p.a. (in mancanza resta leso il principio della eguale posizione delle parti (c.d. par condicio), in violazione dell'art. 3 Cost., che e' la norma base, e dell'art. 24 della Costituzione sul diritto di difesa; b) l'art. 28 pone de plano, come dato esistente certo ed incontroverso, premessa necessaria su cui fonda la norma interpretativa (non frutto della statuizione legislativa, si noti) che il termine ex art. 36-bis sia ordinatorio. L'assunto non corrisponde alla verita', non foss'altro perche', come si e' dimostrato, contrasta col "diritto vivente". Ma ancora: a) l'espressione letterale della norma non lascia dubbi. Infatti, dispone che gli uffici "procedono entro il 31/12 dell'anno successivo a quello di presentazione (della dichiarazione) alla liquidazione delle imposte..." e l'uso dell'indicativo presente e del verbo "procedere" indica l'obbligo e non la mera facolta' del comportamento prescritto. Il riscontro immediato si ha nel contestuale contrasto con la facolta', e non obbligo, ("possono") prevista nell'immediatamente successivo comma 2. La stessa norma in unico contesto ha formulato le prescrizioni obbligatorie e quelle facoltative, distinguendole. L'obbligo e' correlato soprattutto al termine in cui va adempiuto, posto appositamente subito dopo il verbo e prima anche dell'indicazione del suo oggetto. Ancora, contrariamente a quanto si assume da parte dell'A.F., non e' un termine che riguarda l'attivita' interna della stessa A.F. A parte che tutto quanto attiene all'organizzazione interna del lavoro di un ufficio va posta ai piu' in norme regolamentari e non in una legge, per cui l'assunto appare infondato gia' sotto l'aspetto sistematico/formale, bisogna ricordare che l'art. 36-bis obbliga l'A.F. anche, e nello stesso termine, ad "effettuare rimborsi eventualmente spettanti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti", con conseguente decorrenza degli interessi e con facolta' del contribuente di agire nei confronti dell'A.F., come questa stessa ha riconosciuto nella circolare 21 aprile 1984, n. 14, in cui si ribadisce quest'obbligo, specificando che, trascorso il detto termine, "l'Amministrazione diventa inadempiente ed il contribuente puo' far valere il suo diritto al rimborso, azionando le procedure previste dalla legge". E' quindi, ben chiaro che si tratta di norma che ha efficacia esterna e riguarda direttemente il contribuente e che si tratta di termine di decadenza perentorio, scaduto il quale l'A.F. da un canto e' responsabile verso il contribuente per i rimborsi, dall'altro decade dal potere di imposizione di cui all'art. 36-bis. b) la natura dell'attivita' alla quale il termine e' collegato, cioe' l'imposizione tributaria, impone secondo stretta razionalita' che esso sia di decadenza. c) un termine piu' lungo, addirittura per multipli e sostanzialmente vicino a quello del procedimento ordinario non spiegherebbe l'art. 36-bis con i suoi caratteri, la sua emanazione, il suo mantenimento (la contraddittorieta' e' stata posta in evidenza gia' sopra). d) non ha rilievo che la legge non dichiari espressante perentorio il termine, bastando le sue caratteristiche a dimostrarlo. E' noto che il tempo passando fa perdere o decadere da diritti, facolta', poteri, ecc. Si insegna (v. Torrente) che la prescrizione "produce l'estinzione del diritto per effetto dell'inerzia del titolare che non lo esercita per il tempo determinato dalla legge" e che il suo fondamento sta "nell'esigenza della certezza dei rapporti giuridici", sia perche' "per il fatto che un diritto non viene esercitato si forma nella generalita' delle persone la convizione che esso non esiste o e' stato abbandonato", sia perche' "d'altro canto, sorgendo contestazioni, riesce difficile, quando sia decorso un certo tempo, la dimostrazione della nascita e correlativamente dell'estinzione di un rapporto giuridico". Si aggiunge che, se "il fondamento della prescrizione e' l'inerzia del titolare che fa ritenere abbandonato, il diritto, alla base della decadenza sta la necessita' obiettiva che l'esercizio del diritto sia compiuto entro un termine perentorio, senza riguardo alle circostanze subiettive che abbiano determinato l'inutile decorso del termine e ribadisce che "resta esclusa ogni considerazione relativa alla situazione soggettiva del titolare". I principi esposti sono generali, e gia' in passato Santi Romano scriveva per il diritto pubblico (cui appartiene il diritto tributario) che "la prescrizione determina l'estinzione di un diritto, la decadenza l'impossibilita' di esercitare un potere". Ancora piu' specificamente per il diritto amministrativo (di cui, come si e' detto, il tributario e' un ramo), l'attuale dottrina (Sandulli) scrive, riferendosi anche all'imposizione tributaria, come si vedra' in seguito, che "la decadenza ricorre quando l'esercizio delle potesta' e delle facolta' inerenti ad un diritto sia dalla legge ammesso soltanto per un certo tempo e tale tempo sia trascorso senza che alcun esercizio ne sia stato fatto; il mancato esercizio fa si' che il diritto si estingue". Ed esemplificativamente per l'art. 36-bis aggiunge che "l'A.F... non puo' per le imposte liquidate in base alle dichiarazioni dei contribuenti... effettuare l'iscrizione a ruolo delle imposte al di la' del 31 dicembre dell'anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione". Ed analogamente (Virga) si afferma che "il potere di accertamento dell'A.F. (ed il potere di rettificare le dichiarazioni dei contribuenti) e' legato a rigorosi termini di decadenza". Orbene, i termini di decadenza sono perentori. Si e' visto che se in campo processuale civile la perentorieta' deve risultare espressamente dalla legge, come dispone l'art. 152 c.p.c., negli altri campi, compreso il sostanziale, spetta all'interprete accertarne la natura secondo la funzione loro assegnata, il contesto normativo in cui sono indicati, il rapporto sistematico che hanno con altre norme, ecc.. Cosi', ad es., nonostante non dichiarati espressamente perentori, sono stati ritenuti tali i termini di decadenza: di 5 giorni prima dell'udienza, entro il quale secondo l'art. 98 legge fallimentare debbono costituirsi i creditori esclusi dallo stato passivo e la sua inosservanza importa decadenza dall'opposizione ed estinzione del giudizio (Cass., 27 maggio 1995, n. 5908); di 1 anno dalla scadenza del quinquennio successivo alla registrazione del contratto di acquisto del terreno per la realizzazione o ampliamento di impianto industriale sito nel mezzogiorno, ai fini delle agevolazioni (imposta fissa di registro) dell'art. 109 l.u. 30 giugno 1967, modificato dall'art. 13 legge 6 ottobre 1971, n. 85 (Cass. 17 dicembre 1994, n. 10853); di 20 giorni dalla comunicazione per la proposizione del ricorso contro decreto di liquidazione del compenso al consulente tecnico di cui all'art. 11, comma 5, legge 8 luglio 1980, n. 319 (Cass. 21 aprile 1994, n. 3812); di 3 anni per la certificazione dei requisiti dell'imprenditore agricolo a titolo principale (art. 12 legge 9 maggio 1975, n. 153) (Cass. 23 febbraio 1993, n. 2216); di 6 mesi dalla comunicazione che riconosce la causa di servizio per la menomazione dell'integrita' fisica per la domanda di equo indennizzo per i ferrovieri di cui all'art. 4 decreto ministeriale 2 luglio 1983 (Cass. lav. 8 agosto 1994, n. 7339); v. anche per la contestazione delle violazioni degli obblighi in materia di accertamento di imposta a cui si applica il termine di decadenza perentorio dell'art. 43; e tanti altri). La dichiarazione dei redditi con i documenti ad essa allegati e le ricevute dei versamenti, prodotta dal contribuente, e' sottoposta a controllo da parte dell'ufficio imposte e dai centri di servizio; e) ne' giova sostenere che il legislatore, se avesse voluto cosi' qualificarlo, lo avrebbe dichiarato perentorio e di decadenza cosi' come ha fatto nell'art. 43, perche' le due norme sono state emanate in tempi diversi da organi legislativi impersonati da persone fisiche diverse (a parte che, come si e' rilevato, in tutta la normativa e' considerevolmente carente il coordinamento); f) si richiamano gli argomenti esposti nella sentenza della Commissione trib. centrale e nelle due della Cassazione, sopra riportate nelle massime, cioe' "il diritto vivente". 10. - Proprio in base a questi principii generali la nuova norma dell'art. 28 legge 27 dicembre 1997, n. 449, a prescindere dal resto si presenta, per se stesso, come di scarsa efficacia e di marginale applicazione. Sulla base della perentorieta' del termine ordinatorio scaduto e non prorogato nuova giurisprudenza ha ritenuto (v. Comm. trib. prov. Brindisi 9 febbraio 1998, n. 77) l'A.F. decaduta. Ancora, negli altri casi in cui la decadenza si e' gia' verificata la pronuncia giudiziale e' meramente dichiarativa/constatativa di essa, per cui si tratta di situazioni gia' definite che neanche una norma retroattiva puo' fare rivivere. Infatti, a prescindere dal resto, si tratterebbe di far rivivere rapporti definiti ed esauriti, con altri risvolti di incostituzionalita'. Cosi' e' nel caso in esame in cui il potere dell'A.F. e' gia' estinto e non puo' rivivere per una (pretesa) interpretazione autentica. II. - Queste constatazioni provano la plurima illegittimita' costituzionale della norma creata appositamente in favore di una parte (non interessa se pubblica o privata) ed a danno dell'altra con violazione, anche sotto questo aspetto, dell'art. 3 Cost. Le insufficienze organizzative ed operative dell'A.F. comprovanti cattivo andamento e non imparzialita' della p.a., per se stesso violano l'art. 97 Cost., non possono sanarsi o ridursi con violazioni di principi giuridici fondamentali, e con l'irrazionalita'. Sui suddetti aspetti di incostituzionalita' occorre ricordare che per consolidata giurisprudenza (v. Cass. civ. 4 luglio 1983, n. 4485; Cass. pen. 29 settembre 1982, Sartoris; Cass. civ. 12 giugno 1975, n. 2342; ecc.) e dottrina (v. autori cit.), peraltro secondo un ovvio principio, fra piu' interpretazioni bisogna seguire quella che e' piu' conforme alla Costituzione scartando le altre. Questo principio e' stato rigorosamente seguito dalle sentenze suddette, com'e' in esse espressamente attestato; esse hanno, di conseguenza, scartato le altre, precisamente anche quella sostenuta dall'A.F., recepita dalla nuova norma spacciata per interpretativa, che si presenta come incostituzionale. Lo scopo surrettizio della nuova norma appare evidente, perche' e' impensabile ed impossibile che si dia un'interpretazione contraria alla Costituzione e che si crei una norma in tal senso. Questo vincolo sussiste anche per il legislatore e per l'interpretazione autentica delle norme ad esso demandata, nei casi in cui e' possibile, e non puo' essere superato da scelta ad libitum del legislatore stesso. 11. - Col procedimento semplificato dell'art. 36-bis la cartella esattoriale assume una funzione ben diversa dalla sua originaria: diventa atto cumulativo di accertamento o rettifica e di riscossione. Ed e' anche recettizio, perche' solo con la sua notifica si attua il potere impositivo dell'A.F. Ma, emanato l'art. 36-bis e successivamente le sue modifiche ed integrazioni, il legislatore non si e' mai preoccupato di modificare le norme che regolano la cartella esattoriale, che era ed e' rimasta un mero atto di riscossione, peraltro deficitariamente regolato. L'art. 26 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, che indica gli elementi che la debbono costituire, omette di indicare la firma, che e' elemento costitutivo essenziale di ogni atto giuridico, indicante l'autenticita' e la provenienza dal suo autore, cioe' dall'organo competente della p.a. La violazione ha assunto e va assumendo sempre maggior peso per il diffondersi dell'uso della cartella esattoriale in campo estraneo a quello tributario (dal pagamento delle sanzioni pecuniarie ex legge 24 novembre 1981, n. 689, sulle "modifiche del sistema penale", alle violazioni amministrative del codice della strada (ove puo' anche non essere preceduta dalla emissione e dalla notifica dell'ordinanza/ingiunzione, anche secondo sentenze della Corte cost.), ecc.). Secondo la costante giurisprudenza l'atto privo di firma e' piu' viziato da nullita', assolutamente inesistente. Si tratta oltre che di un vizio dell'atto, di un vizio della legge manchevole, con violazione dell'art. 97 Cost. perche' determina il cattivo andamento dell'A.F. che emana atti di imposizione tributaria inesistenti, dell'art. 24 Cost., perche' lede il diritto di difesa profittando della buona fede del contribuente spinto ad adempiere e/o comunque a sottostare all'atto dell'A.F. per l'affidamento che fa sul corretto comportamento della p.a. Con la sostanziale sua inesistenza in base ad una norma per se' viziata, a nulla vale che vi sia un "modulo" ministeriale, che non prevede la firma, perche' cio' costituisce un'ennesima indicazione della violazione dell'art. 97 Cost.). Queste illegittimita' caratterizzano la cartella esattoriale notificata al contribuente nel caso in esame. III. - Analoghe violazioni produce la mancanza di previsione della dovuta motivazione. E' inesatto che, applicandosi l'art. 36-bis ad errori materiali, la motivazione non sia necessaria. Infatti, l'imposizione ex art. 36-bis riguarda anche altre ipotesi; comunque, quali che siano i rilievi impositivi dell'A.F., e' diritto ragionevole del contribuente conoscerli per potere esercitare il diritto di difesa. La necessita' della motivazione e' riconosciuta dal legislatore, che nell'art. 36-ter, secondo comma, introdotto con l'art. 1 d.P.R. 14 aprile 1982, n. 309, per casi analoghi a quelli di cui si occupa l'art. 36-bis fa obbligo della motivazione ("devono essere indicati i motivi che hanno dato luogo alla liquidazione dell'imposta..."). La mancanza di motivazione in un atto recettizio e' ancora di maggiore gravita'. IV. - La nuova norma dell'art. 28 legge n. 449/1997 viola senza dubbio anche l'art. 25 Cost. (v. sopra in S 4) ed il principio di irretroattivita' delle norme in materia punitiva, perche' mira a raggiungere l'effetto retroattivo anche per le sanzioni applicate con l'art. 36-bis cit. a decadenza gia' avvenuta come avviene nel caso in esame. Da quanto esposto emerge sia la fondatezza sia la rilevanza e la necessita', ai fini della decisione, della soluzione delle questioni di costituzionalita' degli artt. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 26 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in relazione agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost. ed ai principi giuridici e di ragionevolezza fondamentali che questa informano.
P. Q. M. Dispone che gli atti siano immediatamente trasmessi alla on.le Corte costituzionale e che il giudizio in corso sia sospeso, nonche' che a cura della segreteria copia di questa ordinanza sia notificata alle parti in causa, all'on.le Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata agli on.li Presidenti della Camera dei deputati e del Senato. Caltanissetta, addi' 4 aprile 1998 Il presidente est.: Patane 99C0128