N. 81 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 aprile 1998- 3 febbraio 1999

                                 N. 81
  Ordinanza  emessa  il  4   aprile   1998   (pervenuta   alla   Corte
 costituzionale  il  3  febbraio  1999)  dalla  Commissione tributaria
 provinciale di  Caltanissetta  sul  ricorso  proposto  da  Bartolozzi
 Michele contro l'ufficio imposte dirette di Caltanissetta.
 Imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.P.E.F.) - Liquidazione
    delle  imposte dovute, in base alle dichiarazioni dei contribuenti
    - Termine posto all'Amministrazione finanziaria per  l'attivazione
    della   relativa  procedura  -  qualificazione  di  tale  termine,
    mediante norma interpretativa, come ordinatorio,  non  comportante
    decadenza   -   Irragionevolezza   -   Lesione  del  principio  di
    eguaglianza - Violazione del diritto di difesa  -  Violazione  del
    principio  di  irretroattivita'  di norme punitive - Incidenza sul
    principio di imparzialita' e buon andamento della p.a.
 Imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.P.E.F.) - Liquidazione
    delle  imposte dovute, in base alle dichiarazioni dei contribuenti
    - Procedura - Cartella di pagamento -  Asserita  natura  di  "atto
    cumulativo  di accertamento o rettifica e di riscossione", nonche'
    di atto recettizio - Conseguente necessita' che tale atto contenga
    la firma dell'organo competente della p.a. e la dovuta motivazione
    - Mancata previsione - Lesione del diritto di difesa -  Violazione
    del principio di buon andamento della p.a.
 (D.P.R.  29  settembre 1973, n. 600, artt. 36-bis, n. 602 e 26; legge
    27 dicembre 1997, n. 449, art. 28).
 (Cost., artt. 3, 24, 25 e 97).
(GU n.9 del 3-3-1999 )
                 LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE
   Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. 943/1997  depositato
 il  22  novembre  1997  avverso  cart.  pagamento  - Irpef, 91 contro
 imposte dirette di Caltanissetta da Bartolozzi  Michele  residente  a
 San  Cataldo (Caltanissetta) in via Buonarroti n. 9, difeso dal dott.
 Narbone Alessandro residente a Caltanissetta in via Canonico Pulci n.
 11/A.
                               F a t t o
   Michele Bartolozzi ha proposto ricorso, presentato il  22  novembre
 1997  all'ufficio  distrettuale  II.DD. di Caltanissetta (ricevuta n.
 2063) e lo stesso giorno depositato in questa Commissione, contro  la
 cartella  esattoriale notificatagli il 10 novembre 1997, con la quale
 gli si imponeva il pagamento, entro lo stesso 10 novembre 1997, di L.
 5.257.000, risultanti da varie componenti Irpef  1991  (dichiarazione
 1992), per sopratassa per omesso-ritardato versamento.
   Nel  ricorso egli ha rilevato che la rettifica deve essere compiuta
 dall'ufficio  entro  il  31  dicembre   dell'anno   successivo   alla
 presentazione  della  dichiarazione  secondo  l'art. 36-bis d.P.R. n.
 600/1973  e  nello   stesso   termine   perentorio   deve   compiersi
 l'iscrizione  a  ruolo  (come ha deciso la Commissione centrale delle
 imposte con la sentenza n.   3513/1994).  Non  e'  utile  il  termine
 quinquennale  dell'art.  38  d.P.R.,  che  riguarda  il  procedimento
 mediante  avviso  di  accertamento  da  notificare  al  contribuente.
 Rettifica ed iscrizione a ruolo sono parti inscindibili di uno stesso
 atto  unilaterale  dell'A.F.,  che  viene conosciuto dal contribuente
 solo con l'iscrizione a ruolo.
   E' d'altra parte  ovvio  che,  dopo  oltre  un  quinquennio  (dalla
 presentazione  della  dichiarazione  del  1992  al  10 novembre 1997,
 giorno della notifica della cartella), il contribuente non e' piu' in
 grado di dimostrare se la rettifica sia stata  compiuta  dall'ufficio
 nel termine prescritto o no (come sembra).
   Ha  chiesto,  pertanto,  che  sia  dichiarata la nullita' dell'atto
 impugnato con vittoria delle spese del giudizio.
   L'A.F. non si e' costituita.
   All'udienza del 4 aprile 1998 il ricorso e' passato in decisione  e
 la Commissione ha emesso la presente ordinanza.
                         Motivi della decisione
   La  fattispecie  in  esame  offre  occasione  per  rilevare diversi
 aspetti di incostituzionalita' inerenti soprattutto  al  procedimento
 impositivo  abbreviato  ex  art.  36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n.
 600.
   1. - Il contribuente rileva la perentorieta'  del  termine  in  cui
 l'A.F.  deve  compiere l'imposizione tributaria ex art. 36-bis D.P.R.
 suddetto, scaduto il quale si  verifica  la  decadenza  del  relativo
 potere  impositivo.  Nella questione cosi' posta si e' inserito quale
 ius superveniens l'art. 28 legge 27 dicembre 1997, n. 449, intitolato
 "norma  interpretativa"  secondo  il quale "il  primo comma dell'art.
 36-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare  fino
 alla  data  stabilita dall'art.  6 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, deve
 essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo
 carattere ordinatorio, non e' stabilito a  pena  di  decadenza".    A
 parte i dubbi che sono stati sollevati sulla efficacia e funzionalita
 '  della norma per raggiungere gli scopi ai quali mira, cioe' salvare
 l'A.F. dalle decadenze in cui e' gia' caduta (cui si fara' cenno), la
 commissione  ritiene  che  ricorrano  gravi  vizi   di   legittimita'
 costituzionale   con   riferimento   agli   art.   3   (principio  di
 eguaglianza), 24 (diritto di difesa), 25 (irretroattivita'  di  norme
 punitive)  e 97 (buon andamento ed imparzialita' della p.a.), nonche'
 ai  principi  generali  cosituzionali   che   informano   l'attivita'
 legislativa,  che  non  puo'  essere  usata  in  modo irragionevole e
 surrettizio e con lo scopo preciso ed  esclusivo  di  coprire,  senza
 plausibile  ragione,  ritardi  e  disservizi, che gia' per se' stessi
 ledono  il  principio  del   buon   andamento   della   p.a.,   norme
 costituzionali  e  principi  fondamentali dell'ordinamento giuridico,
 che prima ancora sono principi di civilta' (v. Corte cost.  4  aprile
 1990,  n.  155; Id. 23 novembre 1994, n. 397).  La vicenda obbliga il
 richiamo  di  principi  elementari   che   appaiono   tutti   violati
 soprattutto nella loro essenza.
   2.  -  L'applicazione  delle leggi importa la conoscenza della loro
 portata per accertare la possibilita' di loro  applicazione  al  caso
 concreto  (rapporto fra fattispecie astratta e fattispecie concreta).
 La norma chiara, immediatamente  intellegibile  ed  apprendibile  non
 abbisogna di particolare procedimento intepretativo; si verifica solo
 quella  c.d. "interpretazione inavvertita", che e' quasi subcosciente
 e porta all'immediata applicazione della norma. Da cio'  il  noto  in
 claris  non  fit  interpretatio.    Questa considerazione importa che
 sulle  norme  chiare   si   finisce   col   fare   un'interpretazione
 (oggettivamente intesa e non di parte, quale che questa sia, pubblica
 o privata) che resta necessariamente ferma; variazione importerebbero
 palesi  illegittimita'.  Lo  stesso  avviene  per  norme non in senso
 assoluto  chiare,  su  cui   si   crea   un'interpretazione   (sempre
 oggettivamente  intesa) che diventa sempre piu' stabile e giunge alla
 qualificazione di "conforme" o ancor piu' "consolidata".   Si  tratta
 del  c.d.  "diritto  vivente", cioe' applicato de plano nella vita di
 ogni giorno, cui fanno spesso riferimento le  decisioni  della  Corte
 costituzionale  (es. Corte cost. 6 aprile 1995, n. 110: "la questione
 di costituzionalita' sollevata in relazione alla consolidata esege'si
 che di una norma abbia dato la Cassazione, mentre e' inammissibile se
 surrettiziamente volta ad ottenere dalla Corte  cost.  (attribuendole
 un  ruolo impugnatorio che non le e' proprio) una revisione di quella
 interpretazione,  e'   ammissibile   nel   caso   in   cui,   assunta
 l'interpretazione  medesima  in termini di ''diritto vivente'', se ne
 chieda   la   verifica   di   compatibilita'   con   dati   parametri
 costituzionali";   Corte   cost.     28  aprile  1992,  n.  196,  "la
 disposizione viene interpretata come diritto vivente..."; Corte cost.
 (ord.) 14 giugno 1990, n. 288, "la Corte nel respingere la  questione
 prospettata,  ha  fatto richiamo al ''diritto vivente'' della suprema
 Corte,  secondo  cui  il  giudice  ordinario  puo'  disapplicare   il
 provvedimento  amministrativo  nei  casi..";  Corte cost. 21 dicembre
 1985,   n.   362,   "....   diritto   vivente   giurisprudenziale   e
 dottrinale...";  ecc.)  e  della Corte di cassazione (Cass. 20 aprile
 1995, n. 4430: "... funzione  della  Cassazione  di  interpretare  la
 legge  e  di  dare  chiarezza e certezza al ''diritto vivente'' ...";
 Cass., sez. un., 1 aprile 1993, n.  3889:  "...costituisce  ''diritto
 vivente'',  dal  quale  la  Corte  cost.  sembra tenuta a prendere le
 mosse, nello scrutinare le questioni di  costituzionalita'  sollevate
 in  ordine  all'art.  6, comma 4, d.-l. 11 luglio 1992, n. 333, ...";
 ecc.).   Dinanzi a  queste  situazioni  sono  possibili  elementi  di
 rottura,  ma  essi  debbono  sempre  restare nell'ambito della norma,
 qual'essa e', ed essere sorretti da ragioni tanto valide che  debbono
 superare  quelle  gia'  ampiamente considerate. L'elemento di rottura
 puo' essere anche un intervento legislativo, ma esso non  sara'  piu'
 interpretativo, ma innovativo e dara' alla norma significato, valore,
 portata diversi.
   3.  - Come e' noto ed e' insegnato anche nei piu' succinti libri di
 principi  generali  del  diritto,  nell'interpretazione  delle  leggi
 secondo  le fonti, accanto ad altre, si hanno:  la "dottrinale", data
 dagli studiosi del diritto. E' sempre  privata.    Non  ha  carattere
 vincolante  ed influisce solo per la sua fondatezza e per l'autorita'
 scientifica di chi la sostiene; la "giudiziale", data  nell'esercizio
 della   funzione   giurisdizionale.     Anch'essa  non  ha  efficacia
 vincolante se non quella della Cassazione nello  stesso  processo,  e
 per  il  resto,  solo  per  la  sua  fondatezza e per l'autorita' del
 giudice da cui proviene. Questi, pero', non  e'  un  privato,  ma  un
 organo  che  esercita una funzione pubblica fondamentale propria solo
 dello Stato, che - si noti - e' il solo  fra  gli  enti  pubblici  al
 quale  e'  attribuito  questo potere. La sua autorita' sta gia' nella
 funzione pubblica della fonte e dell'attivita' in cui si innesta, non
 con carattere di occasionalita' e di facoltativita',  ma  con  quello
 della  doverosita'  (potere-dovere), per cui in alcuni stati come gli
 anglosassoni) ha efficacia vincolante. Su cio' si basa  il  principio
 di autorita' cioe' la c.d. auctoritas rerum similiter iudicatarum (v.
 Messineo,   Manuale,  I,  S.6,  n.  3;  ma  v.  tutta  la  produzione
 dottrinaria istituzionale).  Quando, poi, essa  proviene  dall'organo
 giurisdizionae  supremo, qual'e' la Corte di cassazione, e' la stessa
 legge (art. 65 ordinamento giudiziario) a dare precisa indicazione di
 questa preminente  autorita'.    La  Corte,  infatti,  "quale  organo
 supremo  della  giustizia,  assicura l'esatta osservanza e l'uniforme
 interpretazione della legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale
 ...". La stessa Cassazione ha sempre riaffermato questa natura  delle
 sue funzioni (v. per tutte Cass.  20 aprile 1995, n.  4430, cit.).
   Proprio   per   garantire   questa   funzione,   detta  appunto  di
 "nomofilacia" (da  nomos  =  legge  e  phylakos  =  guardiano,  cioe'
 "garanzia  della uniforme interpretazione della legge" (Zingarelli)),
 fu istituito (art. 68  ord.  giud.)  il  Massimario  della  Corte  di
 cassazione,  che  raccoglie le massime ufficiali delle sentenze dalla
 Cassazione, ora anche informatizzato nel CED e posto al  servizio  di
 tutti  gli  uffici  giudiziari  d'Italia.    E'  chiaro  che  le  ora
 illustrate posizione, autorita', e funzione istituzionale della Corte
 di cassazione  portano  ad  una  determinante  prevalenza  della  sua
 interpretazione  su quella degli altri giudici.  Esattamente e' stato
 rilevato  (Torrente,  Manuale,  sin   dalla   prime   edizioni   piu'
 sintetiche)  che  la  giurisprudenza  "ha importanza notevole per gli
 altri  magistrati,  che  saranno  chiamati  a  decidere  controversie
 analoghe;  essi  non  se  ne  discosteranno,  o  non se ne dovrebbero
 discostare,  se  non  quando  si  convincessero  dell'erroneita'  del
 principio che e' stato gia' affermato in altre decisioni".  Peraltro,
 constatato  che  "la giurisprudenza rende generalmente ad uniformarsi
 ai propri orientamenti interpretativi", giustamente e realisticamente
 si osserva (Bianca, Dir. civ., I,  100)  che  "la  formazione  di  un
 orientamento  interpretativo  consolidato segna talora il significato
 effettivo che la norma assume nelle applicazioni  giurisprudenziali".
 Infine, e' inveteratamente noto e non puo' sfuggire che l'uniformita'
 dell'interpretazione  delle leggi, per quel che sono e non per quello
 che taluno (p.a. compresa)  vorrebbe  che  fossero,  e'  garanzia  di
 certezza  del  diritto  che e' (o almeno dovrebbe essere in uno stato
 coerente con la sua essenza) un carattere indefettibile  dello  stato
 di   diritto  qual'e',  anche  in  base  alla  sua  Costituzione,  la
 Repubblica italiana.  L'"autentica, che proviene dagli stessi  organi
 legislativi  e si concreta in apposita norma limitata solo a chiarire
 il  significato  di  una  norma  preesistente":  essa   a   carattere
 vincolante  nel  senso che ''sul significato di quella norma non sono
 piu' possibili  dubbi  o  discussioni''  (Torrente  cit.).    Bisogna
 senz'altro  ribadire  che l'intervento legislativo di interpretazione
 si giustifica e puo' avvenire  solo  ed  esclusivamente  in  caso  di
 contrasto interpretativo a livelli di fonti autorevoli, per garantire
 ai  cittadini  la  certezza  del diritto imponendone, con l'autorita'
 propria della legge, una fra le diverse seguite. E'  questa  la  sola
 funzione pubblica essenziale dell'interpretazione autentica (v. Cass.
 3  aprile 1981, n. 1695: "... il legislatore ha il potere, quando una
 legge abbia dato luogo ad incertezze interpretative, di precisare  in
 modo  definitivo  ed  obbligatorio  erga  omnes il suo reale pensiero
 ...").  Allorche' il legislatore (pur se spinto da chi, anche  parte,
 sta  alle  sue  spalle)  ritiene che l'interpretazione seguita sia da
 modificare, dal momento che la norma vale secondo la  interpretazione
 che  di essa comunemente si da' (il suddetto ''diritto vivente''), il
 suo  intervento  e'  solo  innovativo,  mai  interpretativo:  sarebbe
 assurdo sostenere che il legislatore intervenga per far rispettare la
 sua (pretesa) volonta', che ritiene tradita da interpretazioni che la
 contraddicono,  anche perche' e' ben noto che non esiste una volonta'
 del legislatore (ogni legge e' frutto di esigenze di natura diversa e
 di dibattiti fra proposte e/o tesi,  e/o  emendamenti  ecc.  diversi;
 essa, una volta emanata, vive la sua vita autonoma per quel che e' ed
 a   prescindere   da  cio'  che  il  legislatore  voleva  che  fosse,
 adattandosi  anche  alle  mutate  esigenze  proprio   attraverso   la
 interpretazione  (la c.d. "evolutiva" in senso corretto): la conferma
 si ha anche nei lavori preparatori (v.  Trimarchi,  Ist.,  S4  e  8).
 Occorre  fissare  bene  la  natura (e di conseguenza la portata e gli
 effetti) esclusivamente interpretativa di questo tipo di  norma,  che
 importa  da un canto uno stretto ed indissolubile legame con la norma
 che interpreta, di cui subisce le sorti,  dall'altro  il  conseguente
 suo effetto retroattivo (ex tunc) all'entrata in vigore della norma a
 cui   si  riferisce,  ma,  correlativamente,  anche  l'impossibilita'
 innovativa che puo' avere solo effetti ex  nunc.    Su  questi  punti
 occorre soffermarsi appena.
   3.  -  L'art.  11  delle  preleggi riproduce un principio giuridico
 fondamentale, quello di irretrattivita' delle leggi, che e' principio
 di civilta', di ragionevolezza, di correttezza, prima che  giuridico:
 "la  legge  non  dispone  che  per  l'avvenire:  essa  non ha effetto
 retroattivo".  Il fondamento della disposizione e' in  re  ipsa:  "la
 norma  giuridica  contiene un comando; per poterlo osservare, occorre
 almeno la possibilita' che esso  sia  conosciuto"  (Torrente,  cit.).
 Esso "risponde ad una elementare esigenza di certezza dei destinatari
 della  norma, i quali devono poter contare sulla disciplina legale in
 vigore per sapere quali sono gli effetti  giuridici  dei  loro  atti"
 (Bianca,  op.  cit.,  119;  e  cosi'  la  migliore dottrina e la piu'
 autorevole  giurisprudenza).    Si  tratta,  del  resto,   del   c.d.
 "principio  di  legalita'",  come  espressamente  l'ha qualificato lo
 stesso legislatore in sede di depenalizzazione nell'art. 1  legge  24
 novembre  1981,  n.  689,  "modifiche del sistema penale", capo I "le
 sanzioni  amministrative",  e  da   recente,   proprio   in   materia
 tributaria,  nell'art.  3  d.lgs.  18  dicembre  1997,  n. 472, sulle
 sanzioni amministrative tributarie.   Il  "principio  di  legalita'",
 appunto  perche'  tale,  e'  un  carattere  intrinseco dello stato di
 diritto e la sua violazione  e'  squalificante  per  esso.    Non  e'
 inopportuno  ricordare  che proprio per impedire la lesione di questo
 fondamentale principio  in  occasione  della  successione  di  leggi,
 dottrina  e  giurisprudenza  hanno  elaborato  la teoria dei "diritti
 quesiti" e/o quella  (destinata  soprattutto  ad  evitare  la  rigida
 cristallizzazione  dei  diritti  destinati  a  durare  nel tempo) del
 "fatto compiuto".  Se la fattispecie costitutiva di  un  rapporto  e'
 per  qualsivoglia  ragione  chiusa, e' impossibile a posteriori farla
 rivivere a mezzo di  una  norma  successiva.    Questo  principio  ha
 applicazione anche nella questione in esame, come si vedra'.
   4.  -  Il  principio  della  irretrattivita',  com'e'  noto, non e'
 costituzionalizzato, se non per le norme "punitive" (art. 25 "nessuno
 puo' essere punito se non in forza di una legge che  sia  entrata  in
 vigore  prima  del fatto commesso").  Ma le norme "punitive" non sono
 solo quelle "penali", che ne sono una sottospecie, anche se  la  piu'
 importante.     Questo  carattere  non  strettamente  penale,  emerge
 chiaramente da tanti elementi:
     a) l'espressione letterale  dell'art.  25  "punito"  e'  generica
 rispetto  a  quella,  specifica, derivante da condanna penale ed alla
 sanzione con questa inflitta, la  "pena"  intesa  in  senso  stretto;
 "punito"  indica. assoggettato all'avvenuta inflizione di un castigo,
 di  una  sanzione  di  qualunque  natura  essa   sia.   Proprio   con
 l'adeguamento legislativo delle sanzioni amministrative, gia' attuato
 anche  per quelle tributarie con il d.lgs. n. 472/1997 suddetto ed in
 corso di elaborazione per le altre, si e' fatta e si fara'  chiarezza
 anche   sul   punto:   molte  sanzioni  amministrative,  anche  nella
 sottopecie delle tributarie, qualificate come "pene pecuniarie" hanno
 finito o finiranno di essere qualificate ancora "pene" (art. 2 d.lgs.
 cit.).  Ma cosi' erano qualificate al  tempo  della  redazione  della
 Costituzione e da cio' l'uso generico dell'espressione "punito";
     b)  nella  Costituzione si usa l'espressione generica, nonostante
 il Costituente avesse il modello specifico del codice penale del 1930
 art. 1 ("nessuno  puo'  essere  punito  per  un  fatto  che  non  sia
 espressamente preveduto come reato dalla legge, ne' con pene, che non
 siano  da  essa  stabilite")  e 2, primo comma, ("nessuno puo' essere
 punito per un fatto che,  secondo  la  legge  del  tempo  in  cui  fu
 commesso,  non costituisce reato"), da soli ed ancor piu' coordinati:
 in questi il "punito" e' posto in esclusiva  relazione  col  "reato",
 cioe'  il  riferimento  e'  solo  alle  pene  in  senso stretto, come
 sanzioni penali.   Nella Costituzione  l'espressione  manca  di  ogni
 limitazione al penale, ma e' generica;
     c) la suddetta sostanziale diversita' di valore delle espressioni
 trova   riscontro   nella   disposizione,  di  poco  successiva  alla
 Costituzione (frutto di due interventi dello Stato italiano: nel 1950
 in sede internazionale di elaborazione della Convenzione e  nel  1955
 in  sede  statale  di  ratifica),  dell'art.  7, primo comma, legge 4
 agosto 1955, n. 848, di "ratifica ed esecuzione della Convenzione per
 la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
 firmata  a  Roma  il 4 ottobre 1950" secondo cui "nessuno puo' essere
 condannato per un'azione od omissione che,  nel  momento  in  cui  e'
 stata  commessa,  non  costituiva  reato secondo la legge nazionale o
 internazionale.  Parimenti non puo' essere  inflitta  una  pena  piu'
 grave  di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato
 e' stato consumato".  Questa disposizione e quelle soprariportate del
 codice penale rispecchiano e recepiscono il vecchio principio  nullum
 crimen  sine  lege,  nulla  poena  sine  lege, che la Costituzione ha
 recepito ma nei suddetti termini piu' ampi relativi ad ogni  illecito
 di qualsiasi natura, come dimostra il fatto che non si e' adeguata ad
 esse  meramente  riportandole,  ma  ha  preso  l'iniziativa  di usare
 espressione diversa (e cio' importa una scelta, che come ogni  scelta
 e'  volontaria  e  frutto  dl  valutazione  comparativa).  Si  tratta
 dell'apertura verso la costruzione sistematica della categoria  degli
 illeciti  non penali, puniti con sanzioni non penali, che ha avuto un
 inizio con le norme sulla depenalizzazione e via via si completa;
     d) proprio il principio di legalita' cosi' inteso tiene  in  vita
 la  prescritta irretrattivita' in campo penale, anche quando al reato
 non conseguono piu' pene in senso stretto intese,  ma  sanzioni  che,
 come  espressamente e letteralmente risulta dalla loro qualificazione
 legislativa, si distinguono da esse.   Infatti, oltre  alle  pene  in
 senso  stretto, che, come e' noto, si distinguono in principali (art.
 17 cod. pen.; e a loro volta  possono  essere  detentive  (ergastolo,
 reclusione,  arresto)  e/o pecuniarie (multa, ammenda)) ed accessorie
 (art. 19), si hanno le "sanzioni  sostitutive  delle  pene  detentive
 brevi",  di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, Capo II, art. 53
 e seg. (semidetenzione, liberta' controllata,  pena  pecuniaria),  le
 "misure  alternative  alla  detenzione",  di cui alla legge 26 luglio
 1975, n. 354, Capo VI,  art.  47  e  seg.  (affidamento  al  servizio
 sociale,    detenzione    domiciliare,    semiliberta',   liberazione
 anticipata). Le stesse considerazioni valgono in ordine  alle  misure
 di  sicurezza,  considerate  (a  prescindere  dalle  controversie sul
 punto, che qui non interessano), "misure amministrative"  secondo  la
 specifica qualifica dello stesso codice nell'intestazione del "Titolo
 VIII" del libro I;
     e)  il comma 2 dell'art. 25 Cost., poi, si inserisce fra il comma
 1 che impone il principio del "giudice naturale" che attiene ad  ogni
 materia  e non solo alla penale, ed il comma 3 che riguarda le misure
 di sicurezza, che il codice, come  detto,  continuava  e  continua  a
 qualificare  come "misure amministrative".  L'art. 25 segue il 24 che
 attiene a tutte le materie: la generale tutela giurisdizionale (comma
 1), il generale diritto alla difesa (comma 2) assicurato anche ai non
 abbienti   (comma  3),  il  diritto  alla  riparazione  degli  errori
 giudiziari (comma 4), che dovrebbe estendersi  ad  ogni  campo,  come
 risulta  pure dai lavori preparatori (pur se ridotti perche' il comma
 fu  successivamente  aggiunto)  ed  anche  se  ha  trovato  ritardata
 applicazione,  limitata ed in modo ridotto, al campo penale (art. 314
 e 315 cod. proc. pen.), ed appena sfiorata  in  altri  campi  con  le
 norme sulla responsabilita' dei giudici;
     f)  ancora  e'  l'art. 25 Cost. che sta alla base del gia' citato
 art. 1 legge 24 dicembre 1981, n. 689, che fra i "principi generali",
 come si intitola la sez. I del capo I ("le sanzioni amministrative"),
 pone, prima di ogni altro, il "principio di legalita' = nessuno  puo'
 essere  assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
 legge che  sia  entrata  in  vigore  prima  della  commissione  della
 violazione";
     g)  sempre l'art. 25 Cost. e' alla base dell'eguale art. 3 d.lgs.
 n. 472/1997 per le sanzioni tributarie.  Bisogna ricordare, anche per
 evidenziare ancora il  modus  operandi  in  materia  tributaria,  che
 appare  lontano  dall'aderenza  ai  principi della Costituzione ed ai
 principi generali dell'ordinamento giuridico italiano, senza  che  vi
 siano   ragioni   collegate  alla  particolare  attivita'  impositiva
 tributaria (che comunque dovrebbero essere di tale rilevante  portata
 da giustificare il sovvertimento dei principi), punto su cui si avra'
 occasione  di  tornare,  che  vi  e' stata resistenza ad applicare le
 norme della legge 24 novembre  1981,  n.  689,  cit.,  alle  sanzioni
 tributarie,  come  dimostrano contrastanti o strane pronunce:  cosi',
 appena esemplificativamente), mentre Comm. trib.  centr.  16  gennaio
 1993,  n.  366,  e  Td.  13  marzo  1989,  n.  1825,  hanno  ritenuto
 applicabile anche in campo tributario la norma dell'art. 7  legge  n.
 689/1981  sulla  intrasmissibilita'  agli eredi dell'"obbligazione di
 pagare la somma dovuta per la violazione" (per un'ovvia  esigenza  di
 uniformita',  che  ha  determinato  ora  la  recezione  dello  stesso
 principio   nell'art.   8   d.lgs.    n.    472/1997,    e    secondo
 un'interpretazione  adeguata alla Costituzione), l'opposta tesi hanno
 seguito Cass. 11 febbraio 1988, n. 1468; Comm. trib. II grado Perugia
 24 giugno 1993, n. 239).   Emerge chiaramente  che  la  retrattivita'
 delle   norme   giuridiche   e'   la  regola  e  la  irretroattivita'
 un'eccezione  (cosi'  secondo  costanti  arresti  giurisprudenziali),
 limitata  ad alcune materie, che, come ogni eccezione, deve avere una
 giustificazione giuridica valida e non puo' mai essere ad libitum;  e
 non  puo',  in  mancanza  di valida giustificazione, essere raggiunta
 surrettiziamente per vie  traverse,  come  detto.    La  mancanza  di
 previsione   costituzionale   generale   non  svilisce  il  principio
 dell'irretroattivita' della legge e non fa perdere il  carattere  del
 tutto  eccezionale  alla retroattivita'.   La riprova e' nella stessa
 Costituzione,  che,  infatti,   regola   un   particolare   caso   di
 retroattivita',  giustificatamente eccezionale.   La possibilita' per
 il governo di emanare ex art. 77 Cost. decreti-legge e'  riconosciuta
 in  via eccezionale "in casi straordinari di necessita' e d'urgenza",
 ma con l'obbligo di presentarli lo stesso giorno alle Camere  per  la
 conversione  in  legge.  L'effetto  retroattivo  si ha sia in caso di
 conversione  in  quanto  gli  effetti  della  legge  di   conversione
 retragiscono  ex  tunc al tempo dell'entrata in vigore del d.-l., sia
 in caso di non conversione con identiche conseguenze; ma in  caso  di
 conversione   con   modificazioni,   solo  le  norme  non  modificate
 mantengono  l'effetto ex tunc, mentre quelle modificate lo hanno solo
 ex nunc, appunto ed  in  modo  particolare,  per  il  loro  carattere
 innovativo,  che  le  rende  solo  da  ora  conoscibili.   Che questa
 possibilita' sia eccezionale e che con l'abuso di  essa,  consistente
 nell'emissione  di decreti ripetitivi a catena (i c.d.  decreti-legge
 "fotocopia")  senza  che  siano   convertiti,   surrettiziamente   si
 attribuisca all'esecutivo, attraverso il gioco dilatato degli effetti
 retroattivi,  potere  legislativo,  che  non  ha,  e  che, quindi, le
 reiterazioni   siano   costituzionalmente   illegittime,   e'   stato
 riconosciuto  da  Corte cost. 24 ottobre 1996, n. 360. Proprio fra le
 ragioni poste a  base  della  pronuncia  di  incostituzionalita'  per
 violazione dell'art.  77 Cost., (l'altro aspetto relativo all'art. 24
 Cost. e' stato ritenuto assorbito dall'accoglimento del primo), vi e'
 anche  quella  inerente  all'ampio  slargamento  della retroattivita'
 (limitata  dalla  Costituzione  ai  60  giorni  prescritti   per   la
 conversione)  perche'  la  reiterazione dava "gli effetti determinati
 dalla decretazione  d'urgenza  mediante  la  sanatoria  finale  della
 disciplina  reiterata".    Ma  l'eccezione  della retroattivita', che
 trova la sua piena giustificazione proprio nella  straordinarieta'  e
 nell'assoluta  necessita'  della decretazione d'urgenza, trova limite
 proprio nel venir meno della straordinarieta' che non giustifica piu'
 il sacrificio  di  un  valore  preminente,  qual'e'  l'"interesse  di
 evitare  che  il  governo possa regolare con effetti definitivi al di
 fuori della garanzia e del controllo  del  Parlamento"  (Bianca,  op.
 cit., 122).  Quello della decretazione a catena o in "fotocopia", ora
 riferito,  e'  un  sistema  illegittimo  usato  dal Governo anche per
 l'art. 36-bis, come, si vedra', a conferma ulteriore del gia' cennato
 particolare  modus  operandi   in   questo   specifico   procedimento
 impositivo  abbreviato  ed  in  campo  tributario.   Altra eccezione,
 connaturata al tipo  di  norme,  riguarda  le  leggi  interpretative,
 appunto  perche' sono collegate in modo stretto ed immediato ad altra
 norma gia' vigente.  Ma anche per esse si pone  il  pericolo  di  una
 finta   o   apparente,   talora   surrettizia   qualificazione  come,
 "interpretative" al fine di dare  loro  un  effetto  retroattivo  che
 altrimenti non potrebbero avere.  La Corte cost., in linea con quanto
 e'   universalmente   riconosciuto,   ha   gia'  avuto  occasione  di
 pronunciarsi contro queste pericolose deviazioni, lesive, come detto,
 dello stesso carattere di stato  di  diritto  che  ha  la  Repubblica
 italiana  e,  quindi,  dell'essenza  stessa dell'intera Costituzione,
 affermando (Corte cost. 23 novembre 1994, n. 397, proprio in  materia
 tributaria;  ma gia' prima Corte cost.  4 aprile 1990, n. 155 che "il
 ricorso da parte del legislatore a leggi di interpretazione autentica
 non  puo'  essere  utilizzato  per  mascherare  norme  effettivamente
 innovative  dotate  di efficacia retroattiva, in quanto cosi' facendo
 la  legge  interpretativa  tradirebbe  la  sua  propria  funzione  di
 chiarire  il  senso  delle norme preesistenti".  Invero, la norma pur
 qualificata "interpretativa" non ha, ne' puo' avere un significato ed
 una portata autonoma in  se'  e  per  se'  considerata;  ma  acquista
 significato  e  senso  solo  nel  detto collegamento con disposizioni
 precedenti, di cui fissa la portata senza sostituirle o  modificarle.
 Si  deve  trattare (Cass. 25 febbraio 1982, n. 3119, che ribadisce il
 concetto ora espresso, ma v. anche subito dopo) di "corollario di una
 potenzialita' insita nella vecchia legge".  Essa, quindi, ha funzione
 solo esplicativa (non dat, sed datum significat).  Puo'  imporre  una
 determinata  esege'si  della  norma  esistente ed in tal senso ha una
 "naturale" retroattivita', ma non puo'  dettare  una  nuova  norma  o
 riformulare  la  precedente  o  riaggiustarla, perche' cio' configura
 innovazione legislativa e non interpretazione.  Molto esattamente  in
 giurisprudenza  si  e' affermato:  Corte cost. 25 luglio 1995, n. 26:
 "il ricorso a leggi di interpretazione autentica, possibile anche  da
 parte delle regioni, non puo' esser utilizzato per attribuire a norme
 innovative   una  surrettizia  efficacia  retroattiva,  venendo  meno
 altrimenti la funzione peculiare  di  tali  leggi,  ossia  quella  di
 chiarire  il  senso  delle  norme preesistenti, ovvero di imporre una
 delle  possibili  varianti  di  senso  compatibli   con   il   tenore
 letterale";  Corte  cost.  23  gennaio  1994,  n. 397, cit.; Cass. n.
 3119/1982 cit.: "mascherando come legge  d'interpretazione  autentica
 quella   che   in   realta'  e'  una  legge  innovativa  con  effetto
 retroattivo, per suscitare minore opposizione al proprio  intervento,
 presentandolo  come  corollario  di  una  potenzialita'  insita nella
 vecchia legge, il legislatore esercita pur sempre un potere  che  gli
 spetta, nella misura, in cui la retroattivita' non incontra ostacoli;
 ma,  se  l'ostacolo  e' rappresentato dalla retroattivita' come tale,
 non e' l'adozione dello strumento  dell'interpretazione  autentica  a
 venire  in  considerazione,  sibbene  il principio costituzionale che
 presiede alla (ir)retroattivita' delle  leggi";  Cass.  3/371994,  n.
 2115,   che   ribadisce   il   "carattere  eccezionale"  della  norma
 interpretativa; ecc.  Ed egualmente in dottrina  (per  tutti  Bianca,
 op.  cit.  S  88):  "proprio  perche'  l'efficacia retroattiva e' una
 eccezione, deve essere certo che la legge e' diretta ad  interpretare
 la  norma  anziche'  a  sostituirla  con una norma piu' chiara o piu'
 completa".    Se  l'interpretazione  giudiziale  e  l'interpretazione
 autentica  convivono,  cio'  e'  possibile  solo  nel  rispetto delle
 proprie competenze costituzionalmente assegnate. Nella parita'  delle
 funzioni  non  puo'  il  legislatore  assumere  posizioni  e  compiti
 preminenti rispetto al giudice imponendogli  una  interpretazione  di
 una  legge  al  di  fuori dei suoi compiti legislativi:  e questi, in
 sede  di  interpretazione,  sono  limitati  alla  scelta   fra   piu'
 interpretazioni  correnti,  non nell'imporre contenuto e valore nuovi
 ad una norma, perche' cio' sostanzia attivita' legislativa  in  senso
 stretto  e non con valore interpretativo.  Ogni diversa condotta lede
 il principio fondamentale della separazione e distinzione dei poteri,
 pietra angolare, dello stato moderno.
   6. - Al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, contenente  "disposizioni
 comuni  in materia di accertamento delle imposte sui redditi" solo in
 un secondo tempo con l'art. 2 d.P.R. 24 dicembre  1976,  n.  920,  fu
 aggiunto  l'art. 36-bis, il cui testo fu poi sostituito con l'art.  1
 d.P.R. 27 settembre 1979, n. 506.   La norma ha  subito  adattamenti;
 cosi'  col  d.-l. 31 maggio 1994, n. 330, convertito con modifiche in
 legge 27 luglio 1994, n. 473, "semplificazione di talune disposizioni
 in materia tributaria", che rappresenta l'ennesima illegittima (v. n.
 precedente) reiterazione  dei  d.-l.  6  dicembre  1993,  n.  503,  4
 febbraio 1994, n. 90, 31 marzo 1994, n. 222, non convertiti in legge.
 La  nuova  norma,  che  signiticativamente  si intitola "liquidazione
 delle imposte dovute in base alla dichiarazione",  ha  introdotto  un
 procedimento speciale abbreviato per l'accertamento delle imposte sui
 redditi,  limitato  ai  casi  semplici  di  mere  correzioni  (in cui
 sull'accertamento decisamente prevale - o  dovrebbe  prevalere  -  la
 liquidazione  dell'imposta)  nel  quadro  di  quanto  avviene in ogni
 campo.   Basta considerare:  che  in  campo  legislativo  accanto  al
 procedimento   ordinario  di  formazione  della  legge  si  hanno  il
 procedimento  abbreviato  (in  cui  i  termini  sono   ridotti),   il
 procedimento  c.d.  decentrato (che alleggerisce l'assemblea plenaria
 sostituendola con le commissioni) ed il procedimento  redigente  (che
 sta  fra  l'ordinario ed il decentrato); che in campo penale si hanno
 "i procedimenti  speciali"  (giudizio  abbreviato  -  art.  438  seg.
 c.p.p.;  giudizio immediato - art. 453 seg.; procedimento per decreto
 - art. 459 seg.; ecc.); che in campo civile si hanno i  "procedimenti
 sommari"  (decreto  ingiuntivo - art.   633 seg. c.p.c.; ecc.). Ma in
 essi i cardini ed i principi essenziali sono sempre rispettati.   Con
 l'art.  36-bis  si  e' creato un procedimento speciale abbreviato che
 nell'accertamento  delle  imposte  sui  redditi:   "ai   fini   della
 liquidazione  delle imposte", ferma restando la potesta' di rettifica
 ed accertamento secondo le vie normali e art. 38  e  seg.  (comma  2,
 inizio),  "gli  uffici  possono"  procedere  alle operazioni che sono
 tassativamente indicate nelle lettere  da  a)  a  g)  (correzione  di
 errori  materiali  o  di  calcolo;  esclusione in tutto o in parte di
 scomputo di ritenute d'acconto non risultanti o risultanti in  misura
 inferiore  dai  certificati  dei  sostituti  d'imposta  allegati alla
 dichiarazione ecc.; esclusione di detrazioni non previste dalla legge
 o non risultanti da documenti o riduzione di quelle esposte in misura
 superiore;  esclusione  o  riduzione   di   deduzioni   dal   reddito
 complessivo delle persone fisiche di oneri non previsti dalla legge o
 non  risultanti dai documenti o esposti in misura maggiore; controllo
 di crediti di imposta spettanti e dei versamenti dovuti in base  alla
 dichiarazione  ecc.).   A tal fine il contribuente e' invitato "anche
 per via  telefonica  o  a  mezzo  posta"  a  dare  chiarimenti  sulla
 dichiarazione  ed  esibire ricevute di pagamenti e documenti indicati
 nella dichiarazione ma ad essa non allegati (comma  3,  aggiunto  con
 d.-l.  2  marzo 1989, n.   69, convertito in legge 27 aprile 1989, n.
 154, e sostituito con l'art. 1, comma 1, lett. p),  n.  3,  d.-l.  31
 maggio  1994,  n. 330, cit.).   La norma ha sacrificato i diritti del
 contribuente, come quello di avere notificato e di  potere  impugnare
 l'avviso  di  rettifica ed accertamento prima del passaggio alla fase
 di riscossione delle imposte, cioe' senza avere  incombente  la  fase
 esecutiva,   unificando   le   due  distinte  fasi  in  una,  con  la
 giustificazione che si tratta solo di mera correzione  di  errori  da
 espletare  in  tempo  breve.    Essa,  pero',  ha  avuto applicazione
 distorta perche' l'A.F. ha cercato di dilatare oltre  misura  il  ben
 delimitato   campo   di  applicazione,  riconosciuto  come  tassativo
 (giurisprudenza unanime: Cass. 8 luglio 1996, n. 6193; Id.  1  maggio
 1991, n. 2174; Id. 9 maggio 1991, n.  3658; Id. 25 settembre 1990, n.
 9692,   che  esclude  "il  recupero  a  tassazione  di  deduzioni  od
 agevolazioni  operate  od  invocate  dal  contribuente  in  sede   di
 dichiarazione  e  ritenute  dall'A.F.  inapplicabili  in base a leggi
 ignorate dal contribuente o ad interpretazioni difformi della  stessa
 o  a  valutazioni  o  apprezzamenti  difformi  di  fatti"; Cass.   20
 novembre 1989, n. 4958; Corte cost. (ord.) 7  aprile  1988,  n.  430;
 Comm.  trib.  centr.  15  maggio 1995, n. 2045; Comm. trib. centr. 16
 gennaio 1993, n. 326; Comm. trib. centr. 16 marzo 1994, n. 733; Comm.
 trib. I grado Monza  28  aprile  1981:  "in  presenza  di  una  delle
 situazioni  tassativamente enunciate dall'art. 36-bis, secondo comma,
 d.P.R.    n.  600/1973,  l'ufficio  imposte  deve  (e  non puo' a sua
 discrezione) procedere alla liquidazione diretta senza accertamento";
 Comm. trib.  centr. 13 febbraio 1985,  n.  3221:  "l'elencazione  dei
 casi  nei quali e' ammessa la tassazione senza previo accertamento e'
 tassativa;  di  talche'  fuori  dei  casi,  tassativamente  elencati,
 l'ufficio  deve  provvedere  a notificare al contribuente l'avviso di
 accertamento, necessario al fine di costituire il contraddittorio tra
 l'A.F. ed il contribuente ..."; Id. 30 novembre 1990, n. 7135; Id. 20
 novembre  1990,  n.  7524;  ecc.).    Ancora,  l'A.F.  nella  pratica
 quotidiana non ha rispettato i termini stabiliti dalla legge, per cui
 l'art.  36-bis  si e' ridotto ad essere una scorciatoia buona solo ad
 evitare attivita' dell'A.F. con lesione dei diritti del contribuente,
 fra cui, in definitiva, quello essenziale  del  contraddittorio,  che
 tutela   il  diritto  alla  difesa  costituzionalmente  garantito,  e
 tradendo la stessa ragione per cui e' stata emanata.
   7. - Allorche' questo secondo aspetto e'  stato  portato  all'esame
 della  giurisdizione  tributaria  e di quella ordinaria si sono avute
 conformi pronunce, ai livelli piu' qualificati (non puo' avere valore
 determinante qualche  pronuncia  di  organo  periferico,  specie  non
 sostenuta  da  corretta motivazione nel senso sfavorevole all'A.F. ed
 in tal senso su questo capo si e' formato il c.d. "diritto  vivente".
 La  tesi  irrazionalmente  e  giuridicamente  assurda  di lasciare ad
 libitum  dell'A.F.  i  termini  per   essa   fissati,   peraltro   in
 contrapposizione   a  quelli  rigorosamente  perentori  assegnati  al
 contribuente (aggravata dalla costante disapplicazione del  colloquio
 chiarificatore  previsto dallo stesso art. 36-bis: v. sopra) e' stata
 respinta costantemente dagli organi giurisdizionali supremi;  valgano
 per  tutte:    comm. trib. centr. 27 ottobre 1994, n. 5313, in cui si
 osserva esattamente che non puo'  distinguersi "surrettiziamente  tra
 procedimento  di  rettifica e liquidazione della maggiore imposta con
 iscrizione a ruolo, mentre la distinzione va fatta fra  rettifica  ex
 art. 36-bis ed accertamento ex art. 38 seg.". Cio' "vanificherebbe di
 fatto  l'istituto  della  rettifica  ...  vanificando  la  difesa del
 contribuente che non puo' dimostrare in modo alcuno che la  rettifica
 e' stata effettuata nell'anno e solo l'iscrizione a ruolo molto tempo
 dopo   nel   quinquennio   e  che,  quindi,  la  rettifica  e'  stata
 effettivamente tempestiva".   Balza, quindi, evidente  la  violazione
 dell'art. 24 della Costituzione.  Ed ancora "non si comprende perche'
 l'A.F., avendo effettuato la rettifica nell'anno fissato dalla legge,
 tarda  poi  fino  anche  a  5 anni nell'iscrivere a ruolo la maggiore
 imposta rettificata. Oltrettutto una tale tardivita'  nell'iscrizione
 a  ruolo  comporterebbe  una  responsabilita'  della  stessa  A.  per
 interessi e rivaluzione sulla maggiore somma dovuta dal  contribuente
 per la rettifica della sua dichiarazione".  Balza evidente la lesione
 dell'art.  97  della Costituzione sul buon andamento ed imparzialita'
 dell'attivita' amministrativa; cass. 29  luglio  1997,  n.  7088,  ha
 posto  in  evidenza  che  la perentorieta' del termine e' connaturale
 all'attivita' prevista nell'art. 36-bis:   "le attivita'  accertative
 (e  di  conseguente  rettifica  della dichiarazione dei contribuenti)
 sono della  legge  vincolate  al  rispetto  di  rigorosi  termini  di
 decadenza, la cui esistenza e' da considerare pertanto connaturata al
 loro  svolgimento,  a  tutela del buon andamento e dell'imparzialita'
 dell'A., oltre che degli interessi dei contribuenti". Ed  ancora  "il
 termine  stabilito dal comma 1 dell'art. 36-bis  deve essere riferito
 all'iscrizione  a  ruolo  e  quest'ultima, conseguentemente, non puo'
 essere effettuata entro il piu' esteso arco  temporale  previsto  dal
 comma 1 dell'art. 17 d.P.R. n. 602/1973, anche perche' cio' comporta,
 per il contribuente, l'aggravio di ulteriori interessi (art. 7, primo
 comma, d.P.R. n. 787/1980), aggravio che il legislatore, decidendo di
 tenere  fermo con l'art. 1 d.P.R. n. 506/1979, il termine annuale per
 la liquidazione  delle  imposte  dovute  a  norma  dell'art.  36-bis,
 proprio  quando,  con l'art. 2 dello stesso D., elevava di ben cinque
 volte il termine per l'iscrizione a ruolo delle  somme  liquidate  in
 base  alle dichiarazioni ha mostrato di volere evitare".  Chiaramente
 emerge da quest'altra fonte la violazione degli artt.  24 e 97  della
 Costituzione  (vedi  l'esplicito  riferimento  alla  "tutela del buon
 andamento e dell'imparzialita' dell'A."), che implicitamente  importa
 quella  dell'art.  3,  a  sua  volta  autonomamente violato; cass. 24
 settembre 1997, n. 12442, ha riaffermato che  "il  termine  stabilito
 dal primo comma dell'art. 36-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e'
 stabilito  a  pena di decadenza e concerne l'iscrizione a ruolo delle
 maggiori imposte liquidate a seguito  di  controllo  "formale"  delle
 dichiarazione  espletato  ai  sensi  di  tale disposizione, mentre il
 termine fissato dal comma 1 dell'art. 17 d.P.R. n. 602/1993  riguarda
 la   riscossione   delle   imposte  nell'ammontare  risultante  dalla
 dichiarazione del contribuente, senza che la stessa sia in alcun modo
 rettificata".  La dottrina di gran lunga prevalente e piu' autorevole
 e' negli stessi sensi ed ha prestato unanime consenso alle  decisioni
 ora  indicate.    Le  citate  pronunce  (a    prescindere da altre) e
 dottrina  dimostrano  l'esistenza  di  una  costante  interpretazione
 ("diritto  vivente")  rispetto  alla  quale  sono  risultati  vani  i
 tentativi compiuti da una parte del rapporto tributario (l'A.F.)  per
 farla  modificare.  Manca, pertanto, la ragione fondamentale che puo'
 giustificare l'intervento del legislatore in sede interpretativa. Non
 vi e' contrasto di interpretazione da dirimere, ma interesse  di  una
 parte  (anche  se  pubblica)  ad  una  disciplina  diversa  da quella
 risultante dal  "diritto  vivente".    E'  ancora  da  aggiungere  la
 contraddittorieta'  in  termini  ed irragionevolezza della pretesa di
 uso  di  una  norma  con   funzione   esclusivamente   acceleratoria,
 pretendendo di usare i termini del procedimento impositivo ordinario:
 cade  la  stessa ragione d'essere   dall'art. 36-bis.  La nuova norma
 dell'art. 28, legge n. 119/1997 non  e',  quindi,  interpretativa  ma
 innovativa  e  non  puo'  avere  valore  retroattivo.    Ma  e' anche
 innovativa    in    senso    anticostituzionale.          L'artificio
 dell'autoqualificazione di norma interpretativa e' nient'altro che un
 tentativo  degenere  di autoattribuzione  alla funzione esercitata di
 caratteri e qualita' che non ha; ma proprio il conclamare  qualifiche
 che non sussistono e' confessorio dell'intento di crearle a parole.
   8.  -  La  disposizione  dell'art.  28,  legge  n. 449/1997 pone il
 legislatore in contrasto con se stesso ed anche sotto questo  profilo
 si  presenta  come  espediente.    Infatti,  rendendosi  conto  della
 situazione creatasi, sopra delineata, il legislatore  con  l'art.  13
 decreto  legislativo  9 luglio 1997, n.  241, in vigore dal 1 gennaio
 1999, ha sostituito il testo dell'art.  36-bis (e dell'art.  36-ter):
 pur  restando  un  procedimento  impositivo  semplificato, la fase di
 accertamento viene separata da  quella  di  riscossione  perdendo  la
 caratteristica  di attivita' meramente interna dell'A.F.: l'A.F. deve
 comunicare al contribuente l'esito  del  controllo  formale  e  della
 liquidazione  entro  il  31  dicembre  del 2 anno dalla presentazione
 della dichiarazione, che e' termine certamente di decadenza.  Orbene,
 e palese da un canto che si e' voluto dare maggior  respiro  all'A.F.
 ampliando  il termine del 31 dicembre dal 1 al 2 anno successivo alla
 dichiarazione,  ma,  dall'altro,  si  e'   dato   il   riconoscimento
 legislativo  pieno della perentorieta' del termine indicato dall'art.
 36-bis,  che  e'  anche  l'adesione   alla   chiara   interpretazione
 giudiziale,  in tal   senso cioe'  al "diritto vivente". Si tratta in
 buona sostanza di  un'interpretazione  autenticata  dell'art.  36-bis
 secondo   il   "diritto  vivente",  che  viene  posta  a  presupposto
 indefettibile della nuova norma.  E' chiaro che l'art. 28,  legge  n.
 449/1997  e'  in  pieno  inammissibile contrasto con l'art. 13 d.lgs.
 esaminato.
   Questa condotta legislativa contraddittoria  e'  costituzionalmente
 irrazionale  ed  illegittima.    A  salvarlo  non vale la limitazione
 temporale dell'interpretazione autentica fino all'entrata  in  vigore
 del  d.lgs.  n.  241/1997,  perche'  si  tratta  di un intervento che
 irrazionalmente (e si sono visti e si vedranno anche  altri  aspetti)
 contrasta  sia col "diritto vivente" sia con la modifica recentissima
 della norma.
   9.  -  La  nuova  norma  dell'art.  28,  pertanto,  e'  affetta  da
 intrinseca  irrazionalita'  giuridica.    Se  ce ne fosse bisogno, la
 stessa espressione letterale  ne  da'  riprova.    Allorche',  vi  si
 afferma  che l'art. 36-bis "deve essere interpretato nel senso che il
 termine  in  esso  indicato  avendo  carattere  ordinatorio,  non  e'
 stabilito  a pena di decadenza", pone un sillogismo irrimediabilmente
 errato perche'  parte  da  premesse  anch'esse  irremediabilmente  ed
 istituzionalmente errate, che si danno per vere e per certe.  Da cio'
 deriva,   oltre   che   la   violazione   di   principi   essenziali,
 l'irrazionalita'.  Infatti, sostanzialmente si afferma:  a)  premessa
 maggiore/dato  certo:  i termini ordinatori non possono essere a pena
 di decandenza; b) premessa minore/dato certo:  il  termine  dell'art.
 36-bis  e' ordinatorio; c) ergo: il termine dell'art. 36-bis non e' a
 pena di decadenza.  Senonche', proprio le due premesse, cioe'  i  due
 dati di base certi, sono erratamente affermate tali, per cui anche la
 conseguenza e' errata. Infatti:
     a)  e'  inesatto  che i termini ordinatori alla loro scadenza non
 producano decadenza.   Evidentemente si  fa  confusione  fra  termini
 ordinatori  e  termini  dilatori.    Come  e'  ben  noto,  i  termini
 riguardano il diritto in via generale e, quindi, tutti  i  suoi  rami
 con regole comuni (eguali i criteri di computo, decorrenza, scadenza,
 natura,  effetti,  ecc.).  Le  norme  che  li  riguardano,  anche  se
 contenute in testi  legislativi  diversi,  hanno  carattere  generale
 (tranne  eccezioni  proprie  nel  quadro del campo in cui operano.  I
 termini ordinatori, allorche' scadono, producono decadenza a meno che
 non siano prima prorogati. La norma  dell'art.  154  c.p.c.    e'  di
 carattere  generale.    Tuttavia,  le  conclusioni non mutano anche a
 distinguere i termini processuali da quelli di  diritto  sostanziale,
 in  quanto:  1)  solo  per  i  primi  si  ha  una  presunzione di non
 perentorieta' che tuttavia non deve risultare esplicitamente:  v.  in
 seguito  mentre  per  i secondi si ha la presunzione opposta (Cass. 2
 ottobre  1987,  n.  7374,  secondo  cui  e'  attribuito  al   giudice
 individuarne  la  natura);  2)  anche  i termini ordinatori danno gli
 stessi effetti dei perentori, se prima della scadenza non sono  stati
 prorogati  (art.  154  c.p.c.;  Cass.  25  luglio  1992,  n. 8976, in
 relazione all'art. 201 per la  nomina  del  C.T.  di  parte;  Id.  23
 gennaio  1991,  n.  651,  in  relazione  all'art.   203, u.c., per le
 rogatorie di prove; ecc.);  ma  a  prorogarli  puo'  essere  solo  il
 giudice,  in  quanto terzo fra le parti, non una parte, anche se essa
 e' una p.a.  (in  mancanza  resta  leso  il  principio  della  eguale
 posizione delle parti (c.d. par condicio), in violazione dell'art.  3
 Cost.,  che  e'  la norma base, e dell'art. 24 della Costituzione sul
 diritto di difesa;
     b) l'art.  28  pone  de  plano,  come  dato  esistente  certo  ed
 incontroverso,   premessa   necessaria   su   cui   fonda   la  norma
 interpretativa (non frutto della statuizione  legislativa,  si  noti)
 che  il  termine  ex  art.  36-bis  sia  ordinatorio.   L'assunto non
 corrisponde  alla  verita',  non  foss'altro  perche',  come  si   e'
 dimostrato, contrasta col "diritto vivente".  Ma ancora:
     a) l'espressione letterale della norma non lascia dubbi. Infatti,
 dispone che gli uffici "procedono entro il 31/12 dell'anno successivo
 a  quello  di  presentazione  (della dichiarazione) alla liquidazione
 delle imposte..."  e  l'uso  dell'indicativo  presente  e  del  verbo
 "procedere" indica l'obbligo e non la mera facolta' del comportamento
 prescritto.    Il riscontro immediato si ha nel contestuale contrasto
 con   la   facolta',   e   non    obbligo,    ("possono")    prevista
 nell'immediatamente  successivo  comma  2.  La  stessa norma in unico
 contesto  ha  formulato  le  prescrizioni   obbligatorie   e   quelle
 facoltative,  distinguendole.   L'obbligo e' correlato soprattutto al
 termine in cui va adempiuto, posto appositamente subito dopo il verbo
 e  prima  anche  dell'indicazione   del   suo   oggetto.      Ancora,
 contrariamente  a  quanto  si  assume  da  parte dell'A.F., non e' un
 termine che riguarda l'attivita' interna della stessa A.F.   A  parte
 che  tutto quanto attiene all'organizzazione interna del lavoro di un
 ufficio va posta ai piu' in norme regolamentari e non in  una  legge,
 per   cui   l'assunto   appare   infondato   gia'   sotto   l'aspetto
 sistematico/formale, bisogna  ricordare  che  l'art.  36-bis  obbliga
 l'A.F.  anche,  e  nello  stesso  termine,  ad  "effettuare  rimborsi
 eventualmente spettanti in base  alle  dichiarazioni  presentate  dai
 contribuenti",  con  conseguente  decorrenza  degli  interessi  e con
 facolta' del contribuente di  agire  nei  confronti  dell'A.F.,  come
 questa  stessa ha riconosciuto nella circolare 21 aprile 1984, n. 14,
 in cui si ribadisce quest'obbligo,  specificando  che,  trascorso  il
 detto   termine,   "l'Amministrazione   diventa  inadempiente  ed  il
 contribuente puo' far valere il suo diritto al rimborso, azionando le
 procedure previste dalla legge".  E' quindi, ben chiaro che si tratta
 di  norma  che  ha  efficacia  esterna  e  riguarda  direttemente  il
 contribuente  e  che  si  tratta  di termine di decadenza perentorio,
 scaduto il  quale  l'A.F.  da  un  canto  e'  responsabile  verso  il
 contribuente   per  i  rimborsi,  dall'altro  decade  dal  potere  di
 imposizione di cui all'art. 36-bis.
     b) la natura dell'attivita' alla quale il termine  e'  collegato,
 cioe'  l'imposizione  tributaria, impone secondo stretta razionalita'
 che esso sia di decadenza.
     c)  un  termine  piu'   lungo,   addirittura   per   multipli   e
 sostanzialmente  vicino  a  quello  del  procedimento  ordinario  non
 spiegherebbe l'art.  36-bis con i suoi caratteri, la sua  emanazione,
 il suo mantenimento (la contraddittorieta' e' stata posta in evidenza
 gia' sopra).
     d)   non  ha  rilievo  che  la  legge  non  dichiari  espressante
 perentorio il termine, bastando le sue caratteristiche a dimostrarlo.
 E' noto che il tempo passando  fa  perdere  o  decadere  da  diritti,
 facolta',  poteri, ecc.  Si insegna (v. Torrente) che la prescrizione
 "produce  l'estinzione  del  diritto  per  effetto  dell'inerzia  del
 titolare  che non lo esercita per il tempo determinato dalla legge" e
 che il suo fondamento sta "nell'esigenza della certezza dei  rapporti
 giuridici",  sia  perche'  "per  il  fatto  che  un diritto non viene
 esercitato si forma nella generalita' delle persone la convizione che
 esso non esiste o e' stato abbandonato", sia perche' "d'altro  canto,
 sorgendo contestazioni, riesce difficile, quando sia decorso un certo
 tempo,    la   dimostrazione   della   nascita   e   correlativamente
 dell'estinzione di un rapporto giuridico".  Si aggiunge che,  se  "il
 fondamento  della  prescrizione  e'  l'inerzia  del  titolare  che fa
 ritenere abbandonato, il diritto, alla base della  decadenza  sta  la
 necessita'  obiettiva  che l'esercizio del diritto sia compiuto entro
 un termine perentorio, senza riguardo alle circostanze subiettive che
 abbiano determinato l'inutile decorso del  termine  e  ribadisce  che
 "resta   esclusa   ogni   considerazione   relativa  alla  situazione
 soggettiva del titolare".  I principi esposti sono generali,  e  gia'
 in  passato  Santi  Romano  scriveva  per  il  diritto  pubblico (cui
 appartiene il diritto  tributario)  che  "la  prescrizione  determina
 l'estinzione   di   un  diritto,  la  decadenza  l'impossibilita'  di
 esercitare un potere".   Ancora piu' specificamente  per  il  diritto
 amministrativo  (di cui, come si e' detto, il tributario e' un ramo),
 l'attuale   dottrina    (Sandulli)    scrive,    riferendosi    anche
 all'imposizione  tributaria,  come  si  vedra'  in  seguito,  che "la
 decadenza ricorre quando l'esercizio delle potesta' e delle  facolta'
 inerenti  ad un diritto sia dalla legge ammesso soltanto per un certo
 tempo e tale tempo sia trascorso senza che  alcun  esercizio  ne  sia
 stato fatto; il mancato esercizio fa si' che il diritto si estingue".
 Ed  esemplificativamente per l'art. 36-bis aggiunge che "l'A.F... non
 puo'  per  le  imposte  liquidate  in  base  alle  dichiarazioni  dei
 contribuenti...  effettuare  l'iscrizione a ruolo delle imposte al di
 la' del 31 dicembre dell'anno successivo a  quello  di  presentazione
 della  dichiarazione".  Ed  analogamente  (Virga)  si afferma che "il
 potere di accertamento dell'A.F. (ed  il  potere  di  rettificare  le
 dichiarazioni  dei  contribuenti)  e'  legato  a  rigorosi termini di
 decadenza".  Orbene, i termini di decadenza  sono  perentori.  Si  e'
 visto  che  se  in  campo  processuale  civile  la perentorieta' deve
 risultare espressamente dalla legge, come dispone l'art. 152  c.p.c.,
 negli  altri  campi,  compreso  il sostanziale, spetta all'interprete
 accertarne la natura secondo la funzione loro assegnata, il  contesto
 normativo in cui sono indicati, il rapporto sistematico che hanno con
 altre  norme,  ecc..    Cosi',  ad  es.,  nonostante  non  dichiarati
 espressamente perentori,  sono  stati  ritenuti  tali  i  termini  di
 decadenza:
     di 5 giorni prima dell'udienza, entro il quale secondo l'art.  98
 legge  fallimentare  debbono  costituirsi  i  creditori esclusi dallo
 stato   passivo   e   la   sua   inosservanza    importa    decadenza
 dall'opposizione  ed  estinzione del giudizio (Cass., 27 maggio 1995,
 n. 5908);
     di   1  anno  dalla  scadenza  del  quinquennio  successivo  alla
 registrazione  del  contratto  di  acquisto  del   terreno   per   la
 realizzazione   o   ampliamento  di  impianto  industriale  sito  nel
 mezzogiorno, ai fini delle agevolazioni (imposta fissa  di  registro)
 dell'art.  109  l.u.  30 giugno 1967, modificato dall'art. 13 legge 6
 ottobre 1971, n. 85 (Cass. 17 dicembre 1994, n. 10853);
     di 20 giorni dalla comunicazione per la proposizione del  ricorso
 contro  decreto di liquidazione del compenso al consulente tecnico di
 cui all'art. 11, comma 5, legge 8  luglio  1980,  n.  319  (Cass.  21
 aprile 1994, n. 3812);
     di  3  anni per la certificazione dei requisiti dell'imprenditore
 agricolo a titolo principale (art. 12 legge 9 maggio  1975,  n.  153)
 (Cass. 23 febbraio 1993, n. 2216);
     di  6 mesi dalla comunicazione che riconosce la causa di servizio
 per la menomazione dell'integrita' fisica  per  la  domanda  di  equo
 indennizzo  per i ferrovieri di cui all'art. 4 decreto ministeriale 2
 luglio 1983 (Cass. lav. 8 agosto 1994, n. 7339);
     v. anche per la contestazione delle violazioni degli obblighi  in
 materia  di  accertamento  di  imposta a cui si applica il termine di
 decadenza perentorio dell'art. 43;
     e tanti altri).
   La dichiarazione dei redditi con i documenti ad essa allegati e  le
 ricevute  dei  versamenti, prodotta dal contribuente, e' sottoposta a
 controllo da parte dell'ufficio imposte e dai centri di servizio;
     e) ne' giova sostenere che il legislatore, se avesse voluto cosi'
 qualificarlo, lo avrebbe dichiarato perentorio e di  decadenza  cosi'
 come  ha  fatto nell'art. 43, perche' le due norme sono state emanate
 in tempi diversi da organi legislativi impersonati da persone fisiche
 diverse (a parte che, come si e' rilevato, in tutta la  normativa  e'
 considerevolmente carente il coordinamento);
     f)  si  richiamano  gli  argomenti  esposti  nella sentenza della
 Commissione trib.  centrale  e  nelle  due  della  Cassazione,  sopra
 riportate nelle massime, cioe' "il diritto vivente".
   10.  -  Proprio  in base a questi principii generali la nuova norma
 dell'art. 28 legge 27 dicembre 1997, n. 449, a prescindere dal  resto
 si  presenta,  per se stesso, come di scarsa efficacia e di marginale
 applicazione. Sulla base della perentorieta' del termine  ordinatorio
 scaduto  e  non  prorogato nuova giurisprudenza ha ritenuto (v. Comm.
 trib. prov.  Brindisi  9  febbraio  1998,  n.  77)  l'A.F.  decaduta.
 Ancora, negli altri casi in cui la decadenza si e' gia' verificata la
 pronuncia  giudiziale e' meramente dichiarativa/constatativa di essa,
 per cui si tratta di situazioni gia' definite che neanche  una  norma
 retroattiva  puo' fare rivivere. Infatti, a prescindere dal resto, si
 tratterebbe di far rivivere rapporti definiti ed esauriti, con  altri
 risvolti  di incostituzionalita'.   Cosi' e' nel caso in esame in cui
 il potere dell'A.F. e' gia' estinto  e  non  puo'  rivivere  per  una
 (pretesa) interpretazione autentica.
   II.  -  Queste  constatazioni  provano  la  plurima  illegittimita'
 costituzionale della norma creata  appositamente  in  favore  di  una
 parte (non interessa se pubblica o privata) ed a danno dell'altra con
 violazione,  anche  sotto  questo  aspetto,  dell'art.  3  Cost.   Le
 insufficienze  organizzative  ed  operative   dell'A.F.   comprovanti
 cattivo  andamento  e  non  imparzialita'  della  p.a., per se stesso
 violano l'art. 97 Cost., non possono sanarsi o ridursi con violazioni
 di  principi  giuridici  fondamentali,  e con l'irrazionalita'.   Sui
 suddetti aspetti di incostituzionalita'  occorre  ricordare  che  per
 consolidata  giurisprudenza  (v.  Cass.  civ. 4 luglio 1983, n. 4485;
 Cass. pen. 29 settembre 1982, Sartoris; Cass. civ. 12 giugno 1975, n.
 2342; ecc.) e dottrina (v. autori cit.), peraltro  secondo  un  ovvio
 principio,  fra  piu'  interpretazioni  bisogna seguire quella che e'
 piu' conforme alla Costituzione scartando le altre. Questo  principio
 e'  stato  rigorosamente  seguito  dalle sentenze suddette, com'e' in
 esse espressamente attestato; esse hanno, di conseguenza, scartato le
 altre, precisamente anche quella sostenuta dall'A.F., recepita  dalla
 nuova  norma  spacciata  per  interpretativa,  che  si  presenta come
 incostituzionale.   Lo scopo surrettizio  della  nuova  norma  appare
 evidente,   perche'   e'   impensabile  ed  impossibile  che  si  dia
 un'interpretazione contraria alla Costituzione  e  che  si  crei  una
 norma in tal senso.  Questo vincolo sussiste anche per il legislatore
 e  per l'interpretazione autentica delle norme ad esso demandata, nei
 casi in cui e' possibile, e non puo' essere  superato  da  scelta  ad
 libitum del legislatore stesso.
   11.  -  Col  procedimento semplificato dell'art. 36-bis la cartella
 esattoriale assume una funzione ben  diversa  dalla  sua  originaria:
 diventa atto cumulativo di accertamento o rettifica e di riscossione.
 Ed  e' anche recettizio, perche' solo con la sua notifica si attua il
 potere  impositivo  dell'A.F.     Ma,   emanato   l'art.   36-bis   e
 successivamente  le sue modifiche ed integrazioni, il legislatore non
 si e' mai preoccupato di modificare le norme che regolano la cartella
 esattoriale, che era ed e'  rimasta  un  mero  atto  di  riscossione,
 peraltro  deficitariamente  regolato.   L'art. 26 d.P.R. 29 settembre
 1973, n. 602, che indica gli  elementi  che  la  debbono  costituire,
 omette  di  indicare la firma, che e' elemento costitutivo essenziale
 di ogni atto giuridico, indicante l'autenticita' e la provenienza dal
 suo autore, cioe' dall'organo competente della p.a.  La violazione ha
 assunto e  va  assumendo  sempre  maggior  peso  per  il  diffondersi
 dell'uso  della  cartella  esattoriale  in  campo  estraneo  a quello
 tributario (dal pagamento  delle  sanzioni  pecuniarie  ex  legge  24
 novembre  1981,  n.  689,  sulle "modifiche del sistema penale", alle
 violazioni amministrative del codice della strada (ove puo' anche non
 essere    preceduta    dalla    emissione    e     dalla     notifica
 dell'ordinanza/ingiunzione,   anche   secondo  sentenze  della  Corte
 cost.), ecc.).  Secondo la costante giurisprudenza  l'atto  privo  di
 firma  e'  piu'  viziato  da nullita', assolutamente inesistente.  Si
 tratta oltre che di un vizio  dell'atto,  di  un  vizio  della  legge
 manchevole,  con  violazione  dell'art. 97 Cost. perche' determina il
 cattivo andamento dell'A.F. che emana atti di imposizione  tributaria
 inesistenti,  dell'art.  24  Cost., perche' lede il diritto di difesa
 profittando della buona fede del contribuente spinto ad adempiere e/o
 comunque a sottostare all'atto dell'A.F. per l'affidamento che fa sul
 corretto comportamento della p.a.  Con la sostanziale sua inesistenza
 in base ad una norma per se' viziata, a nulla  vale  che  vi  sia  un
 "modulo"  ministeriale,  che  non  prevede  la  firma,  perche'  cio'
 costituisce un'ennesima indicazione  della  violazione  dell'art.  97
 Cost.).  Queste illegittimita' caratterizzano la cartella esattoriale
 notificata al contribuente nel caso in esame.
   III.  - Analoghe violazioni produce la mancanza di previsione della
 dovuta motivazione.  E' inesatto che, applicandosi l'art.  36-bis  ad
 errori  materiali,  la  motivazione  non  sia  necessaria.   Infatti,
 l'imposizione ex art. 36-bis riguarda anche altre ipotesi;  comunque,
 quali   che   siano   i  rilievi  impositivi  dell'A.F.,  e'  diritto
 ragionevole del contribuente  conoscerli  per  potere  esercitare  il
 diritto  di difesa.   La necessita' della motivazione e' riconosciuta
 dal legislatore, che nell'art. 36-ter, secondo comma, introdotto  con
 l'art.  1 d.P.R.   14 aprile 1982, n. 309, per casi analoghi a quelli
 di cui si occupa l'art. 36-bis fa obbligo della motivazione  ("devono
 essere  indicati  i  motivi  che  hanno  dato luogo alla liquidazione
 dell'imposta...").  La mancanza di motivazione in un atto  recettizio
 e' ancora di maggiore gravita'.
   IV.  -  La  nuova  norma dell'art. 28 legge n. 449/1997 viola senza
 dubbio anche l'art. 25 Cost. (v. sopra in S 4)  ed  il  principio  di
 irretroattivita'  delle  norme  in  materia  punitiva, perche' mira a
 raggiungere l'effetto retroattivo anche per le sanzioni applicate con
 l'art. 36-bis cit. a decadenza gia' avvenuta come avviene nel caso in
 esame.  Da quanto esposto emerge sia la fondatezza sia la rilevanza e
 la  necessita',  ai  fini  della  decisione,  della  soluzione  delle
 questioni di costituzionalita' degli artt. 36-bis d.P.R. 29 settembre
 1973,  n.  600,  e  26 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in relazione
 agli artt. 3, 24, 25 e  97  Cost.  ed  ai  principi  giuridici  e  di
 ragionevolezza fondamentali che questa informano.
                               P. Q. M.
   Dispone  che  gli  atti  siano  immediatamente trasmessi alla on.le
 Corte costituzionale e che il giudizio in corso sia sospeso,  nonche'
 che  a cura della segreteria copia di questa ordinanza sia notificata
 alle parti in causa, all'on.le Presidente del Consiglio dei  Ministri
 e  comunicata  agli  on.li Presidenti della Camera dei deputati e del
 Senato.
     Caltanissetta, addi' 4 aprile 1998
                       Il presidente est.: Patane
 99C0128