N. 169 SENTENZA 10 - 14 maggio 1999

 
 
 Giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e regione.
 
 Caccia  - Regioni Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia
 - Specie cacciabili - Direttiva comunitaria 79/409/CE - Modalita'  di
 esercizio delle deroghe - Riferimento alla sentenza n. 272/1996 della
 Corte  -  Esigenza  di  tenere  distinto  il potere di modifica degli
 elenchi,  da  quello  di  deroga  -  Non  spettanza  allo   Stato   -
 Annullamento  del  d.P.C.M.  27 settembre 1997 - Spettanza allo Stato
 l'annullamento delle delibere della giunta  regionale  della  regione
 Veneto  nn. 3401 e 3402 del 7 ottobre 1997 in materia di applicazione
 delle  deroghe  al  regime  delle  specie  cacciabili   (periodo   11
 ottobre-31 dicembre 1997).
 
(GU n.20 del 19-5-1999 )
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,
 dott.   Cesare   RUPERTO,   dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,  prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.
 Fernanda  CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI  MODONA,  prof.  Piero Alberto
 CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nei giudizi per conflitto di attribuzione in relazione al decreto del
 Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,  datato 27 settembre 1997,
 recante "Modalita' di esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della
 direttiva 79/409/CEE,  concernente  la  conservazione  degli  uccelli
 selvatici",  nonche'  in  relazione  alle determinazioni n. 3242 e n.
 3243 del 20 ottobre 1997 della Commissione di  controllo  sugli  atti
 della  Regione  Veneto, con le quali sono state annullate le delibere
 della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997,  recanti
 "Direttiva  CEE n. 409/1979. Art. 9: applicazione deroghe (periodo 11
 ottobre-31  dicembre  1997)",  promossi  con  ricorsi  delle  Regioni
 Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia, notificati il 28
 novembre,  il 22 ed il 29 dicembre 1997, depositati in Cancelleria il
 4 e  il  29  dicembre  1997,  l'8,  il  9  ed  il  13  gennaio  1998,
 rispettivamente  iscritti  ai nn. 56 e 61 del registro conflitti 1997
 ed ai nn. 2, 3 e 5 del registro conflitti 1998.
   Visti gli atti di costituzione del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 9 dicembre 1998 il giudice relatore
 Massimo Vari;
   Uditi  gli  avvocati  Vito  Vacchi  per  la  Regione Toscana, Ivone
 Cacciavillani e Luigi  Manzi  per  la  Regione  Veneto,  Giandomenico
 Falcon  e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna, Maurizio Pedetta
 per la Regione Umbria e Beniamino Caravita di Toritto per la  Regione
 Lombardia,  nonche'  l'avvocato dello Stato Pier Giorgio Ferri per il
 Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Con ricorso in data 24 novembre 1997 (Reg. confl.  n.  56  del
 1997),  la Regione Toscana ha sollevato conflitto di attribuzione nei
 confronti dello Stato, in relazione al  decreto  del  Presidente  del
 Consiglio  dei  Ministri  27  settembre  1997,  recante "Modalita' di
 esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 79/409/CEE,
 concernente la conservazione degli uccelli selvatici".
   La Regione chiede che la Corte dichiari non spettare allo Stato  il
 potere  di  disciplinare  dette  modalita'  e che, quindi, annulli il
 predetto  decreto,  in  quanto  invasivo  delle  competenze  ad  essa
 costituzionalmente   garantite   dagli   artt.   117   e   118  della
 Costituzione, in  relazione  agli  artt.  6  e  99  del  decreto  del
 Presidente  della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della
 delega di cui all'art. 1 della  legge  22  luglio  1975,  n.  382)  e
 all'art.  1,  comma  2, del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143
 (Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative  in  materia
 di   agricoltura  e  pesca  e  riorganizzazione  dell'Amministrazione
 centrale).
   1.1. - La ricorrente - premesso che la legge 11 febbraio  1992,  n.
 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il
 prelievo venatorio), non contiene una specifica disciplina dei casi e
 delle   procedure  di  deroga  di  cui  all'art.  9  della  direttiva
 comunitaria - esclude, anzitutto,  che  il  decreto  impugnato  trovi
 fondamento  nell'art.  18, comma 3, della legge stessa; disposizione,
 questa, da reputare finalizzata alla stabile  variazione  dell'elenco
 delle  specie  cacciabili  sul territorio nazionale, mentre la deroga
 avrebbe, quale espressione di  un  potere  particolare,  specifico  e
 contingente,   il   diverso   scopo,   come   affermato  anche  dalla
 giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di giustizia 7 marzo 1996,  in
 causa  118/1994),  di  sospendere temporaneamente, ed alle condizioni
 stabilite, il regime di protezione  disposto  a  favore  della  fauna
 selvatica.
   Ne'  a giustificare l'adozione del censurato provvedimento varrebbe
 il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996:
 in primo luogo, la pronuncia si riferirebbe al  potere  statale  (non
 contestato)  di  variare  gli elenchi delle specie cacciabili, che e'
 diverso da quello avente ad oggetto la disciplina delle  deroghe;  in
 secondo  luogo,  la  pronunzia  sarebbe  stata resa prima del decreto
 legislativo n. 143 del 1997, che ha ampliato le competenze  regionali
 in  materia  di  caccia  (art.  1),  mantenendo  al  Ministro  per le
 politiche agricole compiti di disciplina generale e di  coordinamento
 in materia di specie cacciabili ai sensi dell'art. 18, comma 3, della
 legge n. 157 del 1992 (art. 2, comma 2).
   Rilevato  che  il  decreto  impugnato non puo' reputarsi rispettoso
 delle competenze regionali neppure in nome degli  interessi  unitari,
 richiamati  nelle  sue  premesse,  atteso  che  la  disciplina  delle
 specifiche deroghe rientra "nell'interesse differenziato di  ciascuna
 regione",  si  osserva  che,  in ogni caso, lo Stato, anche alla luce
 dell'art.   9, comma 6, della  legge  9  marzo  1989,  n.  86  (Norme
 generali  sulla  partecipazione  dell'Italia  al  processo  normativo
 comunitario  e  sulle  procedure   di   esecuzione   degli   obblighi
 comunitari),   avrebbe   dovuto,   in  ipotesi  comunque  contestata,
 ricorrere all'esercizio della funzione di indirizzo e  coordinamento,
 soggetta  all'osservanza  dei  necessari  requisiti  di sostanza e di
 forma, tali, tra l'altro, da esigere la delibera  del  Consiglio  dei
 ministri,  ai  sensi  dell'art. 2, comma 3, lettera d) della legge 23
 agosto  1988,  n.  400  (Disciplina  dell'attivita'  di   Governo   e
 ordinamento  della Presidenza del Consiglio dei ministri) e dell'art.
 9, comma 6, della legge 9 marzo 1989, n. 86, nonche' la previa intesa
 con la Conferenza permanente  Stato-Regioni,  ai  sensi  dell'art.  8
 della  legge  15  marzo  1997,  n.  59  (Delega  al  Governo  per  il
 conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e  agli  enti  locali
 per   la   riforma   della   pubblica   amministrazione   e   per  la
 semplificazione amministrativa).
   Nel   contestare   l'affermazione   contenuta   nel   provvedimento
 impugnato,  secondo cui le ipotesi di deroga contemplate alle lettere
 a) e b), del paragrafo 1, dell'art. 9 della direttiva sarebbero  gia'
 state  disciplinate  dagli  artt. 2, comma 3, e 19 della legge n. 157
 del  1992,  la  Regione  Toscana  lamenta,  inoltre,  la   violazione
 dell'art.    6  del d.P.R. n. 616 del 1977 e degli artt. 4 e 9, terzo
 comma,  della  legge  n.  86  del  1989,  che   avrebbero   richiesto
 l'attuazione della direttiva comunitaria eventualmente mediante legge
 comunitaria   o   altra  legge,  essendo  consentito  il  ricorso  al
 regolamento solo se cosi' dispone la legge comunitaria per le materie
 non coperte da riserva di legge. A tal riguardo,  nell'osservare  che
 il  vizio concernente il non corretto utilizzo della fonte del potere
 regolamentare si  risolve  in  violazione  dell'autonomia  regionale,
 viene,  al tempo stesso, reputata lesiva delle attribuzioni regionali
 la procedura di  "intesa  con  i  Ministri  dell'ambiente  e  per  le
 politiche  agricole"  prevista  dall'art.  2  del  decreto impugnato:
 l'introduzione di tale strumento costituirebbe, infatti, un modo  per
 attribuire  allo  Stato  una  potesta'  di codecisione su funzioni di
 competenza delle Regioni, dando, quindi, luogo ad un contrasto con il
 decreto legislativo n. 143 del 1997 che ha  attribuito  alle  Regioni
 tutte  le funzioni legislative e amministrative in materia di caccia;
 in tal guisa sarebbero, altresi', imposti  alle  Regioni  illegittimi
 "moduli  procedimentali  che condizionano in radice l'esercizio delle
 riconosciute attribuzioni (cfr. sentenza n. 483 del 1991)".
   Nel caso di specie, la dedotta lesione delle  competenze  regionali
 sarebbe  particolarmente  evidente  perche'  la  Regione Toscana, con
 legge regionale n. 70 del 21 agosto 1997 (sulla quale il  commissario
 del   Governo  non  ha  sollevato  rilievi),  ha  gia'  provveduto  a
 disciplinare l'esercizio delle deroghe stesse.
   1.2. - Ugualmente lesivi dell'autonomia  regionale  in  materia  di
 caccia sarebbero:
     l'art. 3 del provvedimento, la' dove estende, alla cattura per la
 cessione  a  fini di richiamo, la menzionata disciplina relativa alle
 condizioni  ed  alle  modalita'  di   applicazione   delle   deroghe,
 modificando  con  un  atto    dell'Esecutivo le disposizioni di legge
 statale e regionali;
     l'art. 4 che  individua  nell'Istituto  nazionale  per  la  fauna
 selvatica  l'unico  organo  abilitato  a dichiarare che le condizioni
 stabilite  dai  precedenti  artt.  2  e  3  sono   realizzate   senza
 considerare  che  si  tratta, invece, di un controllo che deve essere
 disciplinato dalle Regioni.
   2. - Anche la Regione Veneto ha sollevato conflitto di attribuzione
 (Reg. confl. n. 61 del 1997), oltre che in  relazione  al  menzionato
 decreto  presidenziale,  in  riferimento  alle due determinazioni (n.
 3242 e n. 3243 del 10  ottobre  1997),  con  cui  la  Commissione  di
 controllo  ha  annullato le delibere della Giunta regionale n. 3401 e
 n. 3402 del 7 ottobre 1997, aventi ad  oggetto  l'applicazione  delle
 deroghe  di cui all'art. 9 della direttiva 79/409/CEE, per il periodo
 11 ottobre-31 dicembre 1997.
   La ricorrente rileva che le  determinazioni  della  Commissione  di
 controllo  negano in radice la sussistenza in capo all'ente regionale
 di ogni attribuzione in materia, mentre il decreto del Presidente del
 Consiglio ammette e riconosce espressamente l'esistenza di un  potere
 spettante  "primariamente"  alle  Regioni,  sia pure subordinatamente
 alla previa intesa con i Ministri dell'ambiente e  per  le  politiche
 agricole.  Cio'  premesso, viene denunciata la violazione degli artt.
 117 e 118 della Costituzione e della normativa che ne costituisce  il
 completamento  (in  particolare,  gli artt. 6 e 99 del d.P.R. n.  616
 del 1977 e l'art. 9 della legge  n.  86  del  1989),  sostenendo  che
 spetta  in via esclusiva alla Regione, e non allo Stato, il potere di
 adottare i provvedimenti di deroga. Si osserva che -  pur  avendo  la
 sentenza  della  Corte  costituzionale  n.  272  del  1996  ravvisato
 nell'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del  1992  la  disposizione
 attributiva  allo  Stato  di  una competenza esclusiva per l'adozione
 delle deroghe - in effetti, la disposizione  stessa  non  conterrebbe
 alcun  espresso  riferimento all'art. 9 della direttiva CEE. Poiche',
 quindi, la relativa procedura sarebbe stata solo formalmente recepita
 (art.  1  della  legge  n.  157  del  1992),  ma  non   espressamente
 disciplinata,  il  soggetto  titolare  del  relativo  potere andrebbe
 individuato sulla base  delle  norme  generali  che  disciplinano  il
 riparto  di  attribuzioni  tra Stato e Regione, in sede di attuazione
 della  normativa  comunitaria  e, cioe', in particolare, dell'art. 9,
 commi 2 e 3, della legge n.   86 del 1989,  come  pure  dell'art.  1,
 comma 3, della legge n. 157 del 1992. Comunque, al di la' dei profili
 sistematici   concernenti   il  riparto  interno  delle  attribuzioni
 legislative, il procedimento volto alla concreta individuazione delle
 ipotesi di deroga avrebbe,  secondo  la  Regione  Veneto,  "carattere
 amministrativo  e non normativo", sicche' la competenza, alla stregua
 del disposto degli artt. 6 e 99 del d.P.R.   n.  616  del  1977,  non
 potrebbe non essere regionale.
   Ne'  la  sfera  di  attribuzioni spettanti alle Regioni, come sopra
 individuata,  potrebbe  essere  posta  in  discussione  dal  richiamo
 all'interesse  unitario,  che non puo' "giustificare il sovvertimento
 del riparto interno di competenze tra soggetti  dotati  di  autonomia
 costituzionalmente     riconosciuta".     Inoltre,     contrariamente
 all'orientamento espresso dalla Corte costituzionale, detto interesse
 si porrebbe non a  livello  nazionale,  bensi'  comunitario,  con  la
 ulteriore conseguenza che la sede "del coordinamento e del controllo"
 andrebbe individuata negli organi della Comunita' europea.
   Comunque,  anche  a  non  contestare  l'esistenza  di  un interesse
 unitario,  la  sua  salvaguardia  non  legittimerebbe  lo  Stato   ad
 interferire   indiscriminatamente   nella  sfera  delle  attribuzioni
 istituzionalmente spettanti  alle  Regioni,  ne'  sostituendosi  alle
 stesse   ne'   imponendo,  attraverso  l'intesa,  forme  di  gestione
 congiunta delle funzioni di loro esclusiva competenza.
   La legislazione vigente - segnatamente l'art. 6 del d.P.R.  n.  616
 del  1977 e l'art. 9 della legge n. 86 del 1989 -, consentirebbe allo
 Stato  soltanto  il  ricorso  agli  "strumenti  di  coordinamento   e
 controllo  (o  di  supplenza)",  tra  i  quali certamente non rientra
 l'intesa prevista dal decreto 27 settembre 1997; intesa che  potrebbe
 essere imposta solo da una fonte di rango legislativo.
   Il ricorso, nel rilevare, altresi', che l'art. 4 della legge n.  86
 del  1989  consente  l'attuazione  di  direttive comunitarie mediante
 regolamento, osserva come, tuttavia, a tal fine,  sia  indispensabile
 che cosi' sia previsto nella stessa legge comunitaria oppure in altra
 fonte  di  rango  legislativo;  fonte  che non puo' essere ravvisata,
 nella specie, nell'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992.
   A voler, inoltre, configurare il decreto  impugnato  come  atto  di
 indirizzo   e   coordinamento,  esso  sarebbe  comunque  illegittimo,
 quantomeno per essere stata omessa la consultazione della  Conferenza
 permanente  StatoRegioni,  secondo  quanto  prescritto  dall'art. 12,
 comma 5, della legge n. 400 del 1988.
   3. - Avverso il citato decreto ha sollevato conflitto, altresi', la
 Regione Emilia-Romagna (Reg.  confl.  n.  2  del  1998),  chiedendone
 l'annullamento in toto "e segnatamente nelle disposizioni di cui agli
 artt.   2,   3   e   4",   in   quanto   invasive   delle  competenze
 costituzionalmente ad essa garantite, all'uopo deducendo il contrasto
 del provvedimento impugnato con gli  artt.  117,  primo  comma,  118,
 primo  comma, e 125, primo comma, della Costituzione; con gli artt. 4
 e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86; con gli artt. 6 e 99 del  d.P.R.
 n. 616 del 1972; con l'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992;
 con  gli artt.   1, comma 2, e 2, comma 2, del decreto legislativo n.
 143 del 1997; con l'art. 8 della legge n. 59 del 1997; ed infine  con
 i principi e le regole costituzionali attinenti ai rapporti fra Stato
 e  Regioni,  tra  cui,  in  particolare, i principi di legalita' e di
 leale collaborazione.
   3.1. - Rappresenta, anzitutto, il ricorso che la Corte di giustizia
 delle  Comunita'  europee,  con  sentenza  7  marzo  1996  (in  causa
 118/1994) - nell'affermare che il  sistema  italiano  costituisce  in
 tema  di  deroghe  non  una  attuazione,  bensi' una violazione della
 direttiva  -  non   solo   non   avrebbe   contestato,   ma   avrebbe
 indirettamente  confermato la legittimita' della competenza regionale
 in  materia.   La   detta   pronunzia   avrebbe   rilevato,   invece,
 l'illegittimita'  della  legge statale n. 157 del 1992, per avere, da
 un  lato,  operato  un  non  consentito  ampliamento   delle   specie
 cacciabili  e  per  non avere, dall'altro, espressamente vincolato le
 Regioni a conformarsi all'art. 9 della direttiva.  In  quello  stesso
 periodo,  la  Corte costituzionale, con la sentenza n.  272 del 1996,
 sarebbe venuta ad assimilare le deroghe di cui  al  predetto  art.  9
 "all'estensione  delle specie cacciabili, da parte della legislazione
 nazionale, rispetto a quanto previsto dalla  normativa  comunitaria";
 assimilazione   che,   ammesso   che   si  possa  giustificare  quale
 interpretazione del sistema della legge n. 157 del  1992,  renderebbe
 tale  legge  "ancor  piu' contrastante con il sistema della direttiva
 comunitaria".
   La Regione, nel  rilevare  che,  per  conformarsi  alla  menzionata
 sentenza  della  Corte  di  giustizia,  fu  emanato il d.P.R. (recte:
 d.P.C.M.)   21  marzo  1997,  con  il  quale  l'elenco  delle  specie
 cacciabili,  di  cui  all'art.  18  della  legge  n. 157 del 1992, fu
 adeguato a quello previsto dalla direttiva comunitaria, ricorda  che,
 a  seguito  di  cio',  poteva  finalmente prendere vita il meccanismo
 delle deroghe vere e proprie, ovviamente nel  rispetto  dell'art.  9;
 sicche'  anche  la  ricorrente,  con  legge  25  agosto  1997, n. 30,
 stabili'  una  deroga  al  divieto  di  caccia  di   alcune   specie.
 Nell'osservare,  poi,  che  la  nozione di deroga si riferisce ad uno
 strumento avente caratteristiche antitetiche ad "un regime  normativo
 generale" - come conforta il parere, emesso dalla Commissione CE il 7
 agosto  1997, con il quale sono state ritenute non conformi al regime
 di divieto, salvo deroga, l'art. 4, comma 4, e l'art. 5  della  legge
 n.  157  del  1992  -  la  Regione Emilia-Romagna nega che il decreto
 impugnato possa trarre fondamento dall'art. 18, comma 3, della  legge
 n.  157  del  1992, concernendo quest'ultima disposizione soltanto un
 meccanismo di rapido recepimento delle variazioni degli elenchi delle
 specie   cacciabili,   intervenute   a    livello    comunitario    o
 internazionale.    Il decreto stesso non potrebbe essere giustificato
 nemmeno appellandosi all'interesse nazionale, dal  momento  che  alla
 cura  del  medesimo lo Stato deve provvedere attraverso gli strumenti
 apprestati dall'ordinamento, e non con atti extra ordinem. Secondo il
 ricorso l'atto non potrebbe giustificarsi  neppure  con  il  richiamo
 alla  necessita'  di  adeguarsi al predetto parere della Commissione,
 giacche' cio' deve avvenire  seguendo  le  procedure  previste  dalla
 legge  n.  86  del  1989;  e neppure con riferimento alla funzione di
 indirizzo e di coordinamento, mancando la minima base normativa,  non
 essendo  stata  espletata  la  procedura  di intesa di cui all'art. 8
 della legge n. 59 del 1997  e  non  essendo  consentito  limitare  le
 competenze  regionali mediante strumenti di cogestione e di controllo
 non previsti da alcuna norma,  cosi'  come  vorrebbero,  invece,  gli
 artt.  2,  3  e  4 del provvedimento impugnato.  La totale carenza di
 fondamento  giuridico  colpirebbe  anche  quella  parte  del  decreto
 presidenziale  che,  in  forma  impropria  ed  arbitraria,  recepisce
 letteralmente le disposizioni  di  cui  all'art.  9  della  direttiva
 79/409/CEE, peraltro gia' operanti nel nostro ordinamento, risultando
 esse sufficientemente dettagliate ed essendo scaduti i termini per il
 recepimento,  come  espressamente  rilevato in argomento dalla stessa
 Corte di giustizia, nella gia' citata sentenza 7  marzo  1996  (punto
 19).    Ferma l'applicabilita' diretta dell'art. 9 della direttiva (e
 comunque la facolta' delle Regioni di  darvi  esse  stesse  specifica
 attuazione),   la   ricorrente   deduce   la   lesivita'  dell'intero
 provvedimento ed in particolare dei poteri statali di cui agli  artt.
 2,  3 e 4 del decreto stesso, segnatamente con riguardo alla prevista
 procedura di intesa tra le Regioni ed i Ministri dell'ambiente e  per
 le politiche agricole, che realizzerebbe un illegittimo "procedimento
 di  codecisione",  comportante  una  sovrapposizione  dello  Stato in
 scelte  necessariamente  puntuali  e   specifiche,   correlate   alle
 condizioni   locali,   nonche'  alla  prevista  riserva  all'Istituto
 nazionale per la fauna selvatica del  potere  di  dichiarare  che  le
 condizioni  stabilite  ai  sensi  degli artt. 2 e 3 del d.P.C.m. sono
 realizzate.
   4. - Contro il menzionato decreto  ha  proposto  ricorso  anche  la
 Regione  Umbria  (Reg. confl. n. 3 del 1998), la quale, nel ricordare
 di aver gia' adottato una disciplina delle deroghe ex  art.  9  della
 gia'  citata  direttiva  comunitaria, con legge attualmente impugnata
 dal Governo innanzi alla  Corte,  deduce  che  la  relativa  potesta'
 rientra tra le competenze regionali, alla luce di quanto disposto, in
 tema  di  caccia,  dall'art.  117  della  Costituzione,  dall'art. 1,
 lettera o), del d.P.R. 15 gennaio 1972, n.  11  e  dall'art.  99  del
 d.P.R.  n.    616  del  1977 che, in attuazione degli artt. 117 e 118
 della Costituzione, operano una attribuzione totale delle funzioni in
 materia di caccia alle Regioni; nonche' dall'art. 6 del d.P.R. n. 616
 del 1977 e dall'art.   9 della legge n.  86  del  1989,  in  tema  di
 competenze    regionali   attuative   dell'ordinamento   comunitario;
 dall'art. 18, comma 3, della legge n.  157  del  1992  relativo  alla
 disciplina  degli  elenchi  delle  specie  cacciabili; dalla legge 15
 marzo 1997, n. 59, avuto riguardo, in particolare, agli artt. 1 e  4,
 che  prevedono  il  conferimento  alla  Regione  di tutte le funzioni
 riguardanti la promozione e lo  sviluppo  delle  relative  comunita',
 salvo quelle attribuite espressamente allo Stato, nell'osservanza del
 principio  di  sussidiarieta',  nonche' all'art.   8 che contempla la
 nuova  disciplina  dell'esercizio  della  funzione  di  indirizzo   e
 coordinamento;  dal decreto legislativo n. 143 del 1997, che conferma
 l'attribuzione alle Regioni di tutte le funzioni in materia di caccia
 (art. 1); dal decreto legislativo n. 281 del 1997, che ha  ridefinito
 ed ampliato le attribuzioni della Conferenza permanente Stato-Regioni
 (art. 2, comma 3).  La spettanza alla Regione, ai sensi dell'art. 117
 della  Costituzione,  dell'art.  99  del d.P.R. n. 616 del 1977 e ora
 anche dell'art. 1 del decreto legislativo n. 143 del 1997, del potere
 di disporre la deroga di cui all'art. 9 della  direttiva  comunitaria
 79/409/CEE  -  che, per la "sua puntualita'" puo' essere considerata,
 ad avviso della ricorrente, "come un  regolamento"  -  sarebbe  stata
 riconosciuta  dagli  stessi  organi  governativi  (v.  circolari  del
 Ministero dell'agricoltura e delle  foreste  e  del  Ministero  delle
 risorse   agricole   del   1993  e  del  1994),  in  conformita'  sia
 all'orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa sia  al
 parere  reso in argomento dal Consiglio di Stato.  Nell'escludere che
 la legge n.  157  del  1992  abbia  dato  attuazione  alla  direttiva
 comunitaria per quel che riguarda il regime di deroga e nel sostenere
 il  carattere  autoapplicativo dell'art. 9 della direttiva stessa, il
 ricorso osserva che, a  fini  sostanzialmente  differenti,  risponde,
 invece,  la  disciplina  nazionale  della individuazione delle specie
 cacciabili, introdotta con l'art. 18 della predetta legge n. 157  del
 1992,  e  spettante  allo  Stato.  Ne'  potrebbe  farsi richiamo agli
 interessi unitari, per sostenere che la potesta' di deroga appartiene
 allo Stato, non essendo cio' conforme ne' al  diritto  positivo,  ne'
 alle  stesse  finalita'  dell'istituto,  trattandosi  di "potesta' da
 esercitare per ambiti  definiti  nel  tempo,  nello  spazio  e  nelle
 modalita'".    Il  decreto  impugnato (assimilabile ad un regolamento
 ministeriale) sarebbe, comunque, in contrasto anche  con  l'art.  17,
 comma  3,  della  legge  n. 400 del 1988, che circoscrive la potesta'
 regolamentare  ministeriale  alle  sole  materie  di  competenza  del
 Ministro.    Rilevato,  quindi,  che  con  un semplice atto di natura
 regolamentare  vengono  dettate  disposizioni  che,  semmai,  avrebbe
 dovuto  emanare il legislatore, la Regione sostiene che, con riguardo
 all'attuazione dei  regolamenti  comunitari  inerenti  a  materie  di
 competenza   regionale,   come  andrebbe  considerata  la  disciplina
 dell'art. 9 della direttiva, lo  Stato  avrebbe  una  competenza  del
 tutto  residuale ed eccezionale.  L'art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977
 riserverebbe le funzioni relative  all'applicazione  dei  regolamenti
 comunitari  alle  Regioni,  mentre  la  legge  n.  86 del 1989 (avuto
 riguardo anche a  quanto  risulta  dai  commi  5  e  6  dell'art.  9)
 consentirebbe  il  ricorso,  da  parte delloStato, al regolamento nel
 solo caso dell'art. 4, vale a dire quando  cio'  sia  previsto  dalla
 legge  comunitaria per l'anno di riferimento e a condizione che venga
 seguita la procedura di cui all'art. 17 della legge n. 400  del  1988
 (cfr.  sentenze  n.  278  del  1993 e n. 304 del 1987).   Escluso che
 vengano in rilievo interessi unitari, si osserva che questi avrebbero
 dovuto eventualmente trovare soddisfazione attraverso la funzione  di
 indirizzo  e coordinamento, nell'osservanza, naturalmente, dei limiti
 formali  e  sostanziali  stabiliti  dalla  legge.    Fermo   restando
 comunque,  che  l'esercizio  di  quest'ultima  funzione  non potrebbe
 tradursi in disposizioni tanto puntuali da precludere ogni intervento
 alla Regione, si  evidenzia  la  mancata  acquisizione  della  previa
 intesa  con  la  Conferenza permanente Stato-Regioni, con conseguente
 violazione dell'art. 8 della legge n. 59  del  1997.  Sulla  medesima
 linea,  si  richiama, altresi', il disposto dell'art. 2, comma 3, del
 decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281,  che  prevede  il  parere
 della  Conferenza  Stato-Regioni  sugli  schemi  di regolamento nelle
 materie di competenza regionale.
   5. - Conflitto nei confronti dello Stato  (Reg.  confl.  n.  5  del
 1998),  in  relazione  al  menzionato decreto presidenziale, e' stato
 sollevato, infine, dalla Regione  Lombardia,  la  quale  chiede  che,
 previa   sospensione   dell'impugnato  provvedimento,  la  Corte:  a)
 dichiari non spettare al Presidente del Consiglio - se non a  seguito
 di  deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri nonche' a seguito di
 intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni l'adozione di  atti
 di  indirizzo  e  coordinamento  dell'attivita'  amministrativa delle
 Regioni in materia di caccia;  b)  al  tempo  stesso,  riconosca  che
 spetta  alla  Regione  Lombardia  il  potere  di  adottare le deroghe
 previste  dall'art.  9  della  direttiva  CEE  e  di  individuarne le
 modalita' di attuazione; c) in subordine, dichiari  che  spetta  alla
 Regione per lo meno il potere di individuare le modalita' concrete di
 attuazione delle deroghe stesse.
   5.1. - Nel far presente di aver disciplinato con legge regionale 30
 agosto  1997,  n.  34,  la  materia delle deroghe (di poi in concreto
 esercitate  dalla  Giunta  con  delibera  29  settembre   1997),   la
 ricorrente  Regione deduce la lesione delle sue competenze in materia
 di caccia, desumibili dagli artt. 97, 117 e 118  della  Costituzione,
 in  relazione  agli artt. 1 e 9 della legge 11 febbraio 1992, n. 157,
 al decreto legislativo 4 giugno 1997, n.  143,  ai  principi  fissati
 dalla  giurisprudenza  costituzionale ed all'art. 8 della legge n. 59
 del 1997.  Attese le competenze regionali in materia  di  caccia,  il
 ricorso  sostiene  che  lo  Stato  potrebbe  intervenire  in  materia
 avvalendosi  della  funzione  di  indirizzo  e   coordinamento,   nel
 rispetto,  tuttavia,  dei  necessari requisiti formali e sostanziali,
 tra cui la delibera del  Consiglio  dei  ministri,  senza  trascurare
 l'ulteriore   condizione   della  previa  intesa  con  la  Conferenza
 Stato-Regioni, introdotta dall'art.  8 della legge n. 59 del  1997  e
 confermata  dall'art.  2, comma 1, del decreto legislativo n. 143 del
 1997.
   5.2. - Con un secondo gruppo di censure  la  ricorrente  prospetta,
 sotto  ulteriori  profili,  la  violazione  degli artt. 97, 117 e 118
 della Costituzione, in  relazione  agli  artt.  1  e  2  del  decreto
 legislativo n. 143 del 1997, all'art. 18, comma 3, della legge n. 157
 del  1992  ed  alla legge della Regione Lombardia n. 34 del 1997.  Si
 afferma,  in  particolare,  che  la  disposizione  dell'art.  2   del
 provvedimento impugnato, nel disporre la previa intesa con i Ministri
 dell'ambiente  e per le politiche agricole, risulterebbe lesiva delle
 competenze attribuite alle Regioni, quali desumibili dagli artt.  117
 e 118 della Costituzione, dall'art. 18, comma 3, della  stessa  legge
 n.  157  del  1992  e dal decreto legislativo n. 143 del 1997, che ha
 trasferito alle Regioni stesse tutte  le  funzioni  gia'  svolte  dal
 soppresso  Ministero  delle risorse agricole, lasciando allo Stato le
 sole  funzioni  previste  dall'art.  2:  tra  queste  sarebbe  quindi
 ricompreso  - nell'impossibilita' di una interpretazione estensiva di
 detto art. 2 - il potere di individuazione delle specie cacciabili  e
 di  variazione del relativo elenco, secondo l'art. 18, comma 3, della
 legge n. 157 del 1992, ma non il potere  di  deroga.    Ne'  potrebbe
 indurre  a diverse conclusioni la sentenza di questa Corte n. 272 del
 1996, che, pur riconoscendo la  competenza  statale  in  ordine  alle
 deroghe di cui all'art. 9 della direttiva comunitaria, avrebbe posto,
 in  realta',  una  distinzione  tra  il  potere di deroga e quello di
 modifica delle specie cacciabili.  Si osserva, altresi', che, essendo
 stato il decreto legislativo n. 143 del 1997 emanato  successivamente
 a  tale  sentenza,  solo  un'esplicita attribuzione di competenza, da
 parte dell'art. 2 del decreto stesso,  avrebbe  potuto  far  ritenere
 sussistente  il  potere  statale in tema di deroghe. Tale conclusione
 risulterebbe  avvalorata  dal  fatto  che  la  legge  della   Regione
 Lombardia,  che  ha attribuito alla Giunta regionale sia il potere di
 adottare le deroghe  sia  quello  di  individuarne  le  modalita'  di
 attuazione,  non e' stata oggetto di rilievi da parte del commissario
 del Governo.
   5.3.  -  In  via subordinata, si deduce, infine, che, anche a voler
 seguire la tesi secondo cui, per l'adozione delle deroghe, le Regioni
 dovrebbero raggiungere l'intesa con i due Ministri interessati,  "non
 puo'  in ogni caso essere revocata in dubbio la potesta' regionale di
 autonoma individuazione delle modalita' di attuazione  delle  deroghe
 stesse";  sotto  questo profilo il decreto impugnato sarebbe comunque
 illegittimo,  per  violazione  degli  artt.  97,  117  e  118   della
 Costituzione,  nonche'  dell'art. 18, comma 4, della legge n. 157 del
 1992.
   6. - Il Presidente del  Consiglio  dei  Ministri,  rappresentato  e
 difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  si e' costituito in
 tutti i giudizi con il deposito di distinti  atti,  chiedendo  che  i
 ricorsi   siano   respinti   perche'  infondati;  formulate  puntuali
 controdeduzioni in ordine al ricorso proposto dalla Regione  Toscana,
 alle  medesime ha fatto rinvio nelle difese predisposte per gli altri
 giudizi.
   6.1.   -   Secondo   l'Avvocatura,   dall'esame   delle    premesse
 dell'impugnato  decreto  presidenziale  nonche'  dalla sentenza della
 Corte di giustizia 7 marzo 1996 (in causa 118/1994: vedi  punto  25),
 emergerebbe  la  necessita'  per  lo Stato - al fine di consentire un
 legittimo ingresso  nell'ordinamento  delle  deroghe  -  di  definire
 condizioni,  modalita'  e  procedure applicative in tutto rispondenti
 alle  previsioni  tassative  delle   norme   comunitarie.      Quanto
 all'ordinamento  nazionale,  si  sostiene che la Corte costituzionale
 avrebbe affermato che "il disposto dell'art. 18 della  legge  n.  157
 del  1992 sottende un interesse nazionale dotato di valore autonomo e
 non  mero   riflesso   dell'obbligo   di   conformarsi   al   dettato
 comunitario",  il  quale farebbe si' che l'introduzione delle deroghe
 comunitarie non possa  non  passare  attraverso  il  procedimento  di
 variazione  delle  specie cacciabili stabilito dal predetto articolo.
 Nell'escludere che il decreto  legislativo  n.  143  del  1997  abbia
 operato  un  trasferimento alle Regioni anche dei poteri previsti dal
 predetto art. 18, l'Avvocatura  nega  che  l'intesa  con  i  Ministri
 dell'ambiente  e  per  le  politiche  agricole  leda  le attribuzioni
 regionali,   rispondendo   essa   all'esigenza   di   garantire    la
 realizzazione   dell'interesse  nazionale  alla  conservazione  delle
 specie  protette,  come  pure  l'osservanza  degli  obblighi  imposti
 dall'art.  9  della  direttiva  CEE, al fine di evitare situazioni di
 responsabilita' dello Stato nei confronti della comunita' europea.
   7. - Indi,  con  un'unica  memoria  concernente  tutti  i  giudizi,
 l'Avvocatura   dello   Stato   ha  svolto  ulteriori  argomentazioni,
 osservando che la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996
 evidenzierebbe la  stretta  correlazione  esistente  tra  l'interesse
 unitario  dello  Stato  definito  dall'art. 18 della legge n. 157 del
 1992 e il potere di deroga contemplato dalla  direttiva  comunitaria,
 ponendosi,  cosi',  nel  solco  di  una costante giurisprudenza della
 Corte costituzionale, che  "ha  ravvisato  nell'elenco  delle  specie
 cacciabili  una norma fondamentale che individua un nucleo essenziale
 della tutela del patrimonio faunistico nazionale non derogabile e non
 disponibile dalle Regioni".  Quanto all'assunto della Regione Veneto,
 secondo il quale la dimensione transnazionale della protezione  delle
 specie migratorie escluderebbe l'interesse unitario dello Stato, esso
 non  terrebbe conto della circostanza che l'assetto istituzionale dei
 rapporti tra la comunita' e gli Stati membri in materia  di  ambiente
 e'  retto  dal  principio di sussidiarieta', per cui, comunque, viene
 fatta  salva  la  facolta'  degli  Stati  di  adottare misure per una
 protezione maggiore (ai  sensi  degli  artt.  3B,  130R  e  130T  del
 trattato  CE  e  dell'art.  14 della direttiva 79/409/CEE).  Osserva,
 ancora,  la  memoria  che,  pur  essendo  il  ricorso  alle   deroghe
 facoltativo,   sarebbe  obbligatoria  la  loro  regolamentazione  nel
 diritto nazionale,  a  garanzia  della  corretta  applicazione  delle
 stesse,  cosi' come risulta dalla sentenza della Corte di giustizia 7
 marzo 1996, dove e' sottolineato con  particolare  vigore  il  valore
 strettamente  vincolante delle condizioni stabilite dall'art. 9 della
 direttiva.  Pertanto la critica delle Regioni avrebbe colto nel segno
 se l'art.   18, comma 3, della legge n.  157  del  1992  fosse  stato
 utilizzato  dall'impugnato  decreto  presidenziale  per  disporre una
 specifica  deroga,  e  non  per   lo   svolgimento   della   funzione
 sostanzialmente  normativa prevista dallo stesso articolo, al fine di
 "garantire che le disposizioni dell'art. 9 della direttiva non  siano
 incorrettamente  utilizzate".    E  cio'  tenendo conto del fatto che
 l'interesse unitario messo in giuoco dalla introduzione delle deroghe
 vale non soltanto a  fondare  una  competenza  regolatrice  idonea  a
 soddisfare  le  esigenze imposte dal diritto comunitario, "ma anche a
 costituire una conseguenziale corresponsabilita'  dello  Stato  nella
 fase applicativa".
   8.  -  Anche la Regione Toscana, con memoria del 20 aprile 1998, ha
 svolto ulteriori argomentazioni a sostegno  delle  censure  formulate
 nel  ricorso,  ribadendo  che la legge n. 157 del 1992 non recherebbe
 alcuna disposizione in tema di deroga, lasciando,  quindi,  inattuata
 la  stessa  direttiva  79/409/CEE.    Lo  Stato  italiano - dopo aver
 inserito nell'elenco di cui all'art.  18 della legge n. 157 del  1992
 anche   alcune   specie   cacciabili  non  previste  dalla  normativa
 comunitaria, cosi' privando di significato l'istituto della deroga  -
 si sarebbe conformato al dettato comunitario con il d.P.C.M. 21 marzo
 1997,  soltanto a seguito della sentenza della Corte di giustizia del
 7 marzo 1996 (che tale difformita' aveva rilevato).    A  seguito  di
 tale  correzione  poteva  cosi'  iniziare  l'applicazione del sistema
 delle deroghe, di cui all'art. 9 della  direttiva  CEE,  disciplinato
 dalla  ricorrente  con la legge regionale 21 agosto 1997, n. 70.  Nel
 riaffermare che ne' la Corte di  giustizia,  con  la  sentenza  sopra
 menzionata  del  7 marzo 1996, ne' la Commissione CE, con il parere 7
 agosto 1997, mettono in dubbio che il potere di deroga  possa  essere
 legittimamente  svolto dalle Regioni, si rileva la non pertinenza del
 richiamo fatto dall'Avvocatura dello Stato alla sentenza della  Corte
 costituzionale n. 272 del 1996, atteso che il potere di integrare gli
 elenchi   delle   specie  cacciabili  e  il  potere  di  deroga  sono
 assolutamente diversi. In  conclusione  si  osserva  che,  alla  luce
 dell'attuale  normativa  e  in particolare del decreto legislativo n.
 143 del 1997, il potere di deroga, lungi dal poter essere  ricondotto
 in  capo allo Stato, spetterebbe alle Regioni che, in alcuni casi, lo
 hanno gia' esercitato e disciplinato con leggi  regolarmente  vistate
 dal commissario del Governo.
   9. - Con memoria del 21 aprile 1998 anche la Regione Veneto insiste
 nelle  conclusioni  gia'  formulate.    Nel  rimandare  a quanto gia'
 illustrato  nel  ricorso  "intorno  al   non   efficace   recepimento
 sostanziale  della  direttiva  attraverso le norme della legge n. 157
 del 1992", si osserva come, nelle disposizioni degli artt.  2,  comma
 3,  e  19 che, secondo il provvedimento impugnato, rappresenterebbero
 la disciplina attuativa delle previsioni di cui all'art. 9, paragrafo
 1,  lettere  a) e b), della direttiva, manchino prescrizioni relative
 alle condizioni, modalita' e procedure applicative  della  deroga;  e
 cioe'  proprio quegli elementi che, a detta dell'Avvocatura, lo Stato
 non poteva sottrarsi dal definire legislativamente, per assicurare un
 legittimo ingresso nell'ordinamento  interno  delle  deroghe  ammesse
 dall'art.  9  della  direttiva  medesima.    Secondo  la  memoria  e'
 singolare  constatare  come  le  invocate  necessita'   di   puntuale
 fissazione  dei criteri per un'adeguata attuazione della direttiva si
 manifestino  tanto  pressanti  con  riferimento  all'eventualita'  di
 regolamentazione  legislativa regionale quanto superflue, invece, per
 un'equivalente attivita' normativa  statale.    L'ovvia  spiegazione,
 secondo  il  ricorso, sarebbe che nessuna previsione generica operata
 da una  legge-quadro  quale  la  legge  n.  157  del  1992  manifesta
 sufficiente  flessibilita'  ad un impiego che, per intrinseca natura,
 deve rispondere ad esigenze contingenti e sempre mutevoli,  come  nel
 caso di un sistema di deroghe riconducibile a situazioni peculiari ed
 eccezionali.   Pertanto, prosegue la Regione, la portata prescrittiva
 dell'art.  18 della citata legge n. 157 del  1992  non  potrebbe  mai
 addentrarsi  nell'organizzazione  settoriale della materia, assegnata
 alla competenza primaria di altro soggetto disponente.
   10. - La Regione Emilia-Romagna, dal canto suo, con una memoria del
 20 aprile  1998,  ha,  del  pari  insistito  per  l'accoglimento  del
 ricorso,  sviluppando  ed illustrando le argomentazioni gia' addotte.
 Nell'escludere che la prevista intesa Stato-Regioni possa, cosi' come
 sostiene l'Avvocatura dello Stato, trovare fondamento nella  predetta
 sentenza  della  Corte  di  giustizia del 7 marzo 1996, la ricorrente
 rileva che, avendo il decreto legislativo n. 143 del  1997  riservato
 allo  Stato solo i poteri ex art. 18, comma 3, della legge n. 157 del
 1992, risulterebbe evidente che esso ha affidato il potere di deroga,
 per specifiche e contingenti  situazioni  locali,  alle  Regioni,  in
 conformita'  agli  artt.  117, primo comma, e 118, primo comma, della
 Costituzione.  Comunque, in presenza di un  interesse  nazionale,  lo
 Stato  avrebbe  dovuto provvedere, semmai, con un atto di indirizzo e
 coordinamento,  e  non  con  l'esercizio  congiunto  di   un   potere
 spettante,  invece, alle Regioni. E questo non senza rilevare che, se
 davvero l'eventualita' della responsabilita' statale  per  violazioni
 commesse  dalle  Regioni,  nel  dare  attuazione  amministrativa alle
 normative   comunitarie,   dovesse   esigere   "un'intesa   statale",
 risulterebbe stravolto l'assetto dei rapporti Stato-Regioni, quale e'
 configurato dall'art. 6 del d.P.R.  n. 616 del 1977.
   11.  -  Con memoria del 14 aprile 1998, la Regione Umbria eccepisce
 preliminarmente l'inammissibilita' della costituzione in giudizio del
 Presidente del Consiglio dei Ministri, per essere avvenuta  oltre  il
 termine  di  venti  giorni  dalla  data  di  notifica del ricorso (29
 dicembre 1997), in violazione del disposto dell'art. 27, terzo comma,
 delle  norme  integrative  per   i   giudizi   davanti   alla   Corte
 costituzionale  del  16 marzo 1956.  Quanto al merito, la ricorrente,
 nel ribadire e nell'illustrare ulteriormente i  motivi  del  ricorso,
 ricorda,  in  particolare, che la stessa natura del potere di deroga,
 corrispondente alla sussistenza di specifiche situazioni  locali,  ne
 escluderebbe   l'appartenenza   allo   Stato.   A   tali  conclusioni
 porterebbe, altresi', il principio di sussidiarieta',  sancito  dalla
 legge  15  marzo  1997,  n.  59 (art. 4, comma 3, lettera a), ma gia'
 insito  nella stessa Costituzione, con riguardo alle materie elencate
 nell'art. 117.
   11.1. - Con una seconda memoria,  in  data  19  novembre  1998,  la
 Regione    Umbria    sostiene   che   la   legislazione   intervenuta
 successivamente alla proposizione  del  ricorso    -  in  particolare
 l'art. 69 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento
 di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli
 enti  locali,  in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n.
 59) - e la giurisprudenza costituzionale piu' recente confermerebbero
 l'assunto che spetta alla Regione la competenza  a  disciplinare  con
 legge  e  ad  esercitare  in  via  amministrativa  la deroga prevista
 dall'art. 9, lettera c), della direttiva comunitaria. Il che sarebbe,
 d'altra parte, nell'ordine delle cose, non essendo dato  comprendere,
 secondo  la  Regione, quali ulteriori esigenze di disciplina unitaria
 si  riscontrino  a  proposito  di   un   istituto   gia'   totalmente
 disciplinato,   nei   suoi   aspetti   sostanziali,  dalla  normativa
 comunitaria.
   Si rileva, altresi',  che  la  competenza  piena  delle  Regioni  a
 legiferare in materia di deroghe e' stata affermata e riconosciuta da
 talune  mozioni del Senato (precisamente n. 1-00146 del 1997, nonche'
 n.   1-00286 e n. 1-00289  entrambe  del  1998).    Cio'  premesso  e
 ribadita  l'eccezione  di tardivita' nei confronti della costituzione
 in giudizio da parte del Presidente del Consiglio, la Regione  Umbria
 contesta la fondatezza delle difese svolte dal Governo, osservando in
 particolare  che, trattandosi di potesta' legislativa concorrente, lo
 Stato potrebbe in ipotesi emanare norme di principio  con  legge,  ma
 non  con  un  atto  di natura regolamentare, carente di ogni supporto
 legislativo, non adottato dal  Governo  nella  sua  collegialita',  e
 contenente, per di piu', una disciplina tale da privare le Regioni di
 qualsiasi autonomia anche a livello operativo.
   12.  -  Nell'imminenza  dell'udienza  anche la Regione Lombardia ha
 depositato, il 26 novembre 1998, una  memoria  secondo  la  quale  la
 previsione  dell'art.  2, comma 2, del decreto legislativo n. 143 del
 1997 varrebbe ad escludere la titolarita' del  potere  di  deroga  da
 parte  dello  Stato,  giacche' i poteri attribuiti al Ministro per le
 politiche  agricole  sono  poteri  di  disciplina   generale   e   di
 coordinamento  nazionale,  inconciliabili,  come  tali, con un potere
 derogatorio  legato  alla  realta'  locale.     Tale   tesi   sarebbe
 corroborata  anche dalle enunciazioni dell'art.  69, comma 1, lettera
 i), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.   112 (Conferimento  di
 funzioni  e  compiti  amministrativi dello Stato alle regioni ed agli
 enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo  1997,  n.
 59),  che  ha  previsto  la  spettanza allo Stato delle sole funzioni
 espressamente indicate, tra le  quali  e'  inserita  la  potesta'  di
 variazione  dell'elenco delle specie cacciabili, ex art. 18, comma 3,
 della legge n. 157 del 1992, quale compito di rilievo nazionale.  Nel
 confermare, infine, le considerazioni gia' svolte circa la  mancanza,
 nel   provvedimento   impugnato,  dei  presupposti  procedimentali  e
 sostanziali per configurarlo come atto di indirizzo e  coordinamento,
 si  rileva che l'art. 9 della direttiva comunitaria e' immediatamente
 applicabile,   senza   bisogno   di   alcun   atto   intermedio    di
 regolamentazione della deroga.
                        Considerato in diritto
   1.  - Il conflitto di attribuzione sollevato dalle Regioni Toscana,
 Veneto, Emilia-Romagna,  Umbria  e  Lombardia,  nei  confronti  dello
 Stato,  concerne,  in  primo  luogo,  il  decreto  del Presidente del
 Consiglio dei Ministri  27  settembre  1997,  recante  "Modalita'  di
 esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva comunitaria
 79/409/CEE,  concernente  la  conservazione degli uccelli selvatici",
 del quale viene chiesto  l'annullamento  e,  quanto  all'impugnazione
 della Regione Lombardia, anche la previa sospensione.
   La  predetta direttiva, nel porre a carico degli Stati membri della
 Comunita' europea una serie di  misure,  in  forma  per  lo  piu'  di
 divieti  e limitazioni (artt. 5, 6, 7 e 8), ne consente, tuttavia, il
 superamento in presenza di motivi di interesse generale dalla  stessa
 specificati.  Dispone, infatti, l'art. 9, paragrafo 1, che gli Stati,
 "sempre  che  non  vi  siano  altre soluzioni soddisfacenti", possono
 derogare ai precedenti articoli: a) per ragioni attinenti alla salute
 e sicurezza pubblica, alla sicurezza aerea, alla prevenzione di danni
 alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle  acque,  alla
 protezione  della flora e della fauna; b) per esigenze della ricerca,
 insegnamento, ripopolamento, ecc.; c)  per  consentire,  infine,  "in
 condizioni  rigidamente  controllate e in modo selettivo, la cattura,
 la detenzione o altri impieghi misurati  di  determinati  uccelli  in
 piccole  quantita'";  e  cio'  nell'osservanza, comunque, di puntuali
 condizioni specificate nel paragrafo 2.
   Il censurato provvedimento presidenziale,  al  dichiarato  fine  di
 "garantire l'omogeneita' di applicazione della normativa comunitaria"
 (art.  1, comma 1), dispone che le deroghe di cui alla lettera c) del
 paragrafo 1 del  predetto  art.  9  vengano  adottate  dalle  Regioni
 "d'intesa  con i Ministri dell'ambiente e per le politiche agricole",
 precisando, altresi', gli elementi che le Regioni stesse sono tenute,
 nella circostanza, ad indicare (art. 2). Nell'estendere (art.  3)  la
 disciplina delle condizioni e modalita' di applicazione delle deroghe
 anche  all'ipotesi  della cattura per la cessione a fini di richiamo,
 di cui all'art. 4, comma 4, della legge 11 febbraio 1992, n. 157,  il
 decreto  individua  nell'Istituto  nazionale  per  la fauna selvatica
 l'autorita' abilitata a dichiarare che  le  condizioni  stabilite  ai
 sensi degli artt. 2 e 3 sono realizzate (art. 4).
   1.1.  - La Regione Veneto propone conflitto in relazione, altresi',
 alle determinazioni (n. 3242 e n. 3243 del 20 ottobre 1997)  con  cui
 la  Commissione  di  controllo  sugli  atti  della  stessa Regione ha
 annullato le delibere della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del  7
 ottobre  1997,  che  avevano  provveduto  ad  applicare le deroghe al
 regime delle specie cacciabili, per il periodo 11 ottobre-31 dicembre
 1997.
   2. - Le Regioni, seguendo un  iter  argomentativo  in  larga  parte
 comune,  assumono  che il decreto presidenziale sopra menzionato, nel
 disciplinare le modalita' di esercizio delle  deroghe  in  questione,
 sia  invasivo  della loro sfera di attribuzione, perche' non terrebbe
 conto dell'ambito delle competenze ad esse spettanti in  materia  sia
 di caccia sia di attuazione delle direttive comunitarie.
   2.1.   -   Le   ricorrenti  rivendicano  le  attribuzioni  ad  esse
 costituzionalmente spettanti, quali e' dato desumere dagli artt.  117
 e 118 nonche', secondo taluna delle ricorrenti, dall'art. 97 (Regione
 Lombardia)    e    dall'art.    125   della   Costituzione   (Regione
 Emilia-Romagna).  A  ulteriore  supporto  delle  competenze  ad  esse
 spettanti,  le  ricorrenti  stesse  evocano, inoltre, con varieta' di
 richiami,  non   del   tutto   coincidenti,   un   quadro   normativo
 rappresentato  essenzialmente dall'art. 99 del d.P.R. 24 luglio 1977,
 n. 616, e dagli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n.
 143, deducendone, da un lato, che il Governo non aveva il  potere  di
 provvedere  in  materia  di  competenza regionale quale la caccia, e,
 dall'altro, che non  sussistevano,  comunque,  i  presupposti  legali
 perche'  alle  amministrazioni  regionali fossero imposte, attraverso
 l'intesa con due Ministri, posizioni di  codecisione  governativa  su
 funzioni    di   competenza   regionale   ed   attinenti   a   scelte
 necessariamente puntuali.
   Quanto poi alle competenze attuative dell'ordinamento  comunitario,
 a livello legislativo od amministrativo, le Regioni si appellano, per
 lo  piu', alle attribuzioni ad esse riservate, oltre che dall'art.  6
 del predetto d.P.R. n. 616 del 1977, dagli artt. 4 e 9 della legge  9
 marzo  1989,  n.  86, e dall'art. 1, comma 3, della legge 11 febbraio
 1992, n. 157.
   2.2.  -  Secondo  le  ricorrenti  la  lesione  delle   attribuzioni
 regionali    sarebbe    ulteriormente    avvalorata   -   oltre   che
 dall'impossibilita' di rinvenire, nell'art. 18, comma 3, della  legge
 11  febbraio  1992, n. 157, ovvero in esigenze di tutela di interessi
 unitari, il fondamento della potesta' che  lo  Stato  ha  preteso  di
 esercitare  dall'utilizzo  di  uno  strumento  extra ordinem quale si
 appalesa il censurato decreto presidenziale, che, anche con  riguardo
 ai  contenuti,  non  troverebbe  giustificazione ne' come espressione
 della funzione di indirizzo e coordinamento ne'  come  manifestazione
 di potere regolamentare.
   2.3.  -  Quanto  alla  potesta'  regolamentare,  secondo taluni dei
 ricorsi, il decreto sarebbe in contrasto:
     con l'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n.  400,  che
 circoscrive  la  potesta'  stessa alle sole materie di competenza del
 Ministro (partic. Regione Umbria);
     con le norme della legge 9 marzo 1989,  n.  86  (in  particolare,
 artt.  4,  6  e  9),  che  consentono  l'attuazione  delle  direttive
 attraverso lo strumento regolamentare solo quando cio'  sia  previsto
 dalla  legge comunitaria per l'anno di riferimento, fermo comunque il
 rispetto delle procedure di cui al predetto art. 17  della  legge  n.
 400 del 1988;
     con l'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.
 281,   che   prevede   il   parere   obbligatorio   della  Conferenza
 Stato-Regioni sugli schemi di regolamento del Governo  nelle  materie
 di  competenza  delle  Regioni  e  delle  Province  autonome (partic.
 Regione Umbria).
   2.4. - In ordine, poi, alla funzione di indirizzo e  coordinamento,
 a  parte  il  difetto di base legale sostanziale, viene denunciata la
 carenza dei requisiti di forma prescritti  dalla  normativa  vigente.
 Sotto  questo  aspetto, dall'insieme dei ricorsi, e' dato desumere il
 riferimento:
     alla deliberazione del  Consiglio  dei  ministri,  prevista,  tra
 l'altro,  dall'art.  9,  comma 6, della legge n. 86 del 1989 (partic.
 Regioni Toscana e Lombardia);
     all'intesa  con   la   Conferenza   Stato-Regioni,   alla   luce,
 principalmente,  delle  previsioni  dell'art.  8 della legge 15 marzo
 1997, n. 59 e dell'art.  2, comma 1, del decreto legislativo 4 giugno
 1997, n. 143 (partic.  Regione Lombardia).
   2.5.  -  Sulla  scorta degli accennati motivi le ricorrenti Regioni
 chiedono, pertanto, che questa Corte dichiari non spettare allo Stato
 l'emanazione  dell'impugnato  decreto  presidenziale,  sollecitandone
 l'annullamento  in  toto e, secondo le conclusive richieste di taluno
 dei ricorsi (EmiliaRomagna), anche con specifico riguardo agli  artt.
 2, 3 e 4.
   In subordine la Regione Lombardia chiede, altresi', che si dichiari
 spettare  ad  essa  il potere di individuare le modalita' concrete di
 attuazione delle deroghe.
   2.6. - Quanto, poi, alle due determinazioni (n. 3242 e n. 3243  del
 10  ottobre 1997) con cui la Commissione di controllo ha annullato le
 delibere della Giunta regionale del Veneto (n. 3401 e n. 3402  del  7
 ottobre  1997),  concernenti  le  deroghe ai divieti di caccia per il
 periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997, la Regione ricorrente,  oltre  a
 lamentare  la  lesione  delle  proprie  attribuzioni  nei  termini in
 precedenza ricordati, deduce specificamente che le  concrete  ipotesi
 di   deroga   possono   essere   definite   attraverso  provvedimenti
 amministrativi, con la conseguenza che la  competenza,  alla  stregua
 del  disposto  degli  artt.  6  e  99 del d.P.R. n. 616 del 1977, non
 potrebbe non essere regionale.
   3. - In via pregiudiziale va disposta la riunione dei giudizi, che,
 avendo, infatti, ad oggetto questioni in parte identiche e  in  parte
 connesse, possono essere decisi con un'unica sentenza.
   4.  - Sempre in via pregiudiziale, quanto al ricorso proposto dalla
 Regione  Umbria  (Reg.  confl.  n.  3  del   1998),   va   dichiarata
 inammissibile  la costituzione del Presidente del Consiglio, avvenuta
 oltre il termine prescritto (artt. 25 e 41 della legge 11 marzo 1953,
 n. 87, nonche' art. 27 delle norme integrative 16 marzo 1956).
   5. - Nel merito i ricorsi proposti dalle Regioni avverso il decreto
 presidenziale in epigrafe indicato sono fondati.
   6. - I problemi posti dai ricorsi stessi esigono,  in  vista  della
 delimitazione  della  sfera di attribuzione propria di ciascuna delle
 parti in causa, una breve  ricognizione  del  contesto  normativo  di
 riferimento, quale si desume, in particolare, dalla legge 11 febbraio
 1992,  n.  157,  il  cui art. 18, comma 3, risulta posto a fondamento
 dell'impugnato decreto. Tale legge, nel dettare nuove  norme  per  la
 protezione   della  fauna  selvatica  omeoterma  e  per  il  prelievo
 venatorio, ha espressamente disposto (art. 1,  comma  4)  l'integrale
 recepimento  ed  attuazione,  "nei modi e nei termini previsti" dalla
 medesima, delle direttive comunitarie  concernenti  la  conservazione
 degli uccelli selvatici (79/409/CEE del 2 aprile 1979, 85/411/CEE del
 25  luglio  1985  e  91/244/CEE  del  6  marzo  1991), con i relativi
 allegati.
   Appare da  cio'  chiaro  l'intento  del  legislatore  nazionale  di
 adeguare  all'ordinamento  comunitario  un  quadro di disciplina che,
 come risulta gia' dalla sentenza di questa Corte n. 1002 del 1988, si
 e' venuto componendo nel tempo sulla base di  principi,  riconfermati
 dalla piu' recente normativa, che sono quelli dell'appartenenza della
 fauna  selvatica  al  patrimonio  indisponibile  dello Stato (art. 1,
 comma 1, della citata legge);  dell'affievolimento  del  tradizionale
 "diritto  di  caccia",  che  viene subordinato all'istanza prevalente
 della conservazione del patrimonio faunistico  e  della  salvaguardia
 della  produzione  agricola  (art.  1,  comma  2);  della previsione,
 infine,  di  un  regime di caccia programmata per tutto il territorio
 nazionale (art. 14), cui fa  riscontro,  come  si  desume  anche  dal
 menzionato  art.  18,  comma  3, la puntuale indicazione delle specie
 cacciabili in un apposito elenco; elenco suscettibile,  peraltro,  di
 modifica, attraverso decreti emanati dal Presidente del Consiglio dei
 Ministri,   al   fine   di  realizzare  la  costante  consonanza  tra
 ordinamento nazionale e disciplina comunitaria e  internazionale  (v.
 sentenza n. 277 del 1998).
   7.  -  Nell'ambito  del descritto sistema, ispirato alla preminente
 finalita' della tutela della fauna, i ricorsi sollevano  il  problema
 della spettanza del potere di apportare le deroghe previste dall'art.
 9,  paragrafo  1, lettera c), della direttiva 79/409/CEE, al generale
 regime protettivo degli uccelli selvatici ivi stabilito.
   8. - Questa Corte, con la sentenza n. 272 del 1996,  esaminando  il
 problema dei limiti in cui la disposizione comunitaria concernente le
 deroghe  possa  reputarsi  immediatamente  efficace  nell'ordinamento
 interno, ha ritenuto che essa sia da considerare operativa  solo  nel
 senso  di  legittimare  le  autorita'  nazionali  ad adottare, ove lo
 ritengano, provvedimenti che consentano di superare i  divieti  della
 direttiva,  verificando  che  ricorrano  le  situazioni  ipotizzate e
 apprestando  specifiche  misure  comportanti,  in  armonia   con   le
 indicazioni   della  giurisprudenza  comunitaria,  un  circostanziato
 riferimento  agli  elementi  di  cui  ai  paragrafi  1  e   2   della
 disposizione   stessa.   Inoltre,  quanto  al  potere  di  variazione
 dell'elenco delle  specie  cacciabili,  affidato  al  Presidente  del
 Consiglio  dei Ministri dall'art. 18, comma 3, della legge n. 157 del
 1992, la sentenza medesima  ha  ribadito  il  principio,  accolto  in
 precedenza  dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, in
 considerazione del carattere di norme  di  riforma  economico-sociale
 proprio  delle disposizioni protettive della fauna selvatica, nonche'
 del carattere unitario degli interessi ad esse sottostanti, e'  data,
 attualmente,  alle  Regioni  la  facolta'  di modificare detto elenco
 soltanto in senso ulteriormente limitativo, e  non  estensivo,  delle
 eccezioni  al  divieto generale di caccia (sentenze n. 577 del 1990 e
 n. 1002 del 1988).
   9. - Cio' premesso, puo' osservarsi, venendo cosi' al merito  delle
 censure,  che  le  attribuzioni  che incontestabilmente spettano alle
 Regioni, in tema di caccia,  non  consentono,  anche  a  tener  conto
 dell'ulteriore trasferimento di competenze operato in loro favore dal
 decreto  legislativo  4 giugno 1997, n. 143, il disconoscimento delle
 competenze che, in materia di tutela della fauna selvatica,  restano,
 comunque,  affidate  allo Stato e che sono tali da riverberarsi, come
 questa Corte ha avuto occasione di affermare, anche sulla  disciplina
 delle modalita' della caccia stessa, nei limiti in cui prevede misure
 indispensabili  per  assicurare  la  sopravvivenza  e la riproduzione
 delle  specie  selvatiche  (sentenza  n.  323  del  1998).  Cio'  non
 significa,  pero',  che lo Stato sia legittimato ad intervenire sulla
 base  di  presupposti  e  secondo  modalita'  che  non  siano  quelli
 richiesti  dall'ordinamento. Ed e' proprio alla luce dei principi che
 lo  Stato  e'  tenuto  ad  osservare  che  il  decreto  presidenziale
 impugnato  va  reputato  illegittimo,  vuoi a considerarlo un atto di
 natura  regolamentare  vuoi  a  reputarlo  un  atto  di  indirizzo  e
 coordinamento.
   10.  -  Sotto  il  primo  profilo  occorre  rammentare,  anzitutto,
 l'orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale i
 regolamenti, governativi o ministeriali, non sono in via di principio
 legittimati a disciplinare,  in  ragione  della  distribuzione  delle
 competenze  normative  fra  Stato e Regioni di cui all'art. 117 della
 Costituzione, le materie di spettanza regionale.
   Tuttavia questa Corte non ignora (v.  anche  sentenza  n.  278  del
 1993)  come, negli anni piu' recenti, il legislatore abbia provveduto
 ad ampliare la possibilita' di ricorso a discipline dettate da  fonti
 normative  di  rango non legislativo, alla stregua di orientamenti di
 carattere generale che hanno trovato specifico accoglimento anche  in
 materia  di recepimento e di attuazione dell'ordinamento comunitario,
 con riguardo segnatamente  all'espressa  e  condizionante  disciplina
 della  legge  9  marzo  1989,  n.  86,  circa  casi  e  modalita' per
 l'esercizio del potere regolamentare (art. 4).
   Senza che occorra qui affrontare la problematica posta dalle regole
 che, come sopra accennato, riguardano il rapporto fra fonti statali e
 fonti regionali,  e'  sufficiente  considerare  che  tale  disciplina
 avrebbe,  in  ogni  caso, richiesto un procedimento diverso da quello
 seguito, secondo quanto specificato nei commi 4 e 5 dell'art. 4 della
 menzionata legge (e cioe', in particolare,  deliberazione  collegiale
 del  Governo,  parere  delle competenti Commissioni parlamentari, ove
 richiesto dalla legge comunitaria, e parere del Consiglio di  Stato);
 cio' a tacere della piu' recente previsione dell'art. 2, comma 3, del
 decreto legislativo n. 281 del 1997, il quale esige che la Conferenza
 Stato-Regioni   sia   obbligatoriamente   sentita  "sugli  schemi  di
 regolamento nelle materie di competenza regionale".
   Decisivo e', poi, il rilievo inerente all'avvenuto esercizio  della
 potesta'   regolamentare   in   assenza   del   necessario   supporto
 legislativo, considerato  che  l'opzione  a  favore  della  soluzione
 regolamentare  deve essere, in base al predetto art. 4 della legge n.
 86 del 1989, espressamente indicata nella legge comunitaria.  Il  che
 non  si  riscontra  nel  caso  del  provvedimento  in esame, che, tra
 l'altro, non puo' rinvenire la sua base legale nemmeno nell'art.  18,
 comma 3, della legge n.  157 del 1992, pur richiamato nelle premesse,
 dovendosi   tener  distinto,  cosi'  come  esattamente  avvertono  le
 ricorrenti, il potere di modifica degli elenchi, da tale disposizione
 disciplinato, dal potere di deroga di cui all'art.  9,  paragrafo  1,
 lettera  c),  della direttiva comunitaria; potere che, in effetti, la
 legge n.  157  del  1992,  nonostante  l'avvenuto  recepimento  della
 direttiva  comunitaria  (art.  1,  comma  4),  non  ha  in alcun modo
 disciplinato.
   A tale esigenza di  distinzione  non  contraddice  la  sentenza  di
 questa  Corte  n.  272  del  1996,  che,  benche'  invocata  in senso
 antitetico da quasi tutte le parti in causa a sostegno delle  proprie
 ragioni,  si  e'  soffermata sul potere di variazione, riservato allo
 Stato dal predetto  art.  18,  quale  strumento  per  recepire,  come
 risulta  dalla  disposizione  stessa,  i  nuovi  elenchi delle specie
 cacciabili,  a  seguito  dell'avvenuta  approvazione  comunitaria   o
 dell'entrata  in vigore delle convenzioni internazionali sottoscritte
 dall'Italia, ma in nessun modo ha asserito  che  detto  potere  possa
 reputarsi  espressivo anche di quello attinente alla disciplina delle
 deroghe, si' da legittimare il provvedimento oggetto  della  presente
 impugnativa.
   11.  - Non diverse appaiono le conclusioni, ove si riconduca l'atto
 contestato alla  funzione  di  indirizzo  e  coordinamento,  nel  cui
 esercizio  il  Governo  e'  tenuto,  del  pari,  a soddisfare precisi
 requisiti di forma  e  di  sostanza:  di  forma,  dovendo  la  stessa
 funzione  essere  svolta  per mezzo di una delibera del Consiglio dei
 ministri, adottata previa intesa  con  la  Conferenza  Stato-Regioni,
 secondo  le  regole  oggi desumibili dall'art. 8 della legge 15 marzo
 1997, n. 59 (nel testo risultante dalla sentenza di questa  Corte  n.
 408  del  1998);  di  sostanza,  attesa  la  necessita'  di un idoneo
 fondamento legislativo, consistente nella previa  determinazione  con
 legge dei principi ai quali il Governo deve attenersi.
   12.  -  Peraltro,  le  esposte considerazioni, dalle quali discende
 l'illegittimita' del censurato decreto presidenziale, non conducono a
 ritenere fondata la pretesa della Regione Veneto, nella parte in cui,
 impugnando  le  determinazioni  negative   dell'organo   statale   di
 controllo   sulle   delibere   adottate   dalla   Giunta,   rivendica
 sostanzialmente per se' la facolta' di applicare la  deroga,  per  di
 piu' attraverso provvedimenti di carattere amministrativo.
   Poiche',  come appare del resto condiviso dalle Regioni ricorrenti,
 la legge 11 febbraio 1992, n. 157, pur avendo recepito  espressamente
 (art.  1,  comma  4)  la  direttiva comunitaria, non ha in alcun modo
 disciplinato la facolta' di deroga prevista dall'art. 9, paragrafo 1,
 lettera c), ne discende necessariamente la conclusione che  l'assetto
 attualmente  dato  alla  materia dalla legislazione nazionale e', per
 questo aspetto, da reputare - anche in considerazione  del  carattere
 meramente  facoltativo  dell'attivazione  delle  deroghe - di per se'
 compiuto, con la sola  previsione  del  potere  di  variazione  degli
 elenchi  attraverso  i  quali  si  provvede  all'individuazione delle
 specie cacciabili.  Non e', d'altro canto, da ritenere che,  in  tale
 situazione,  le  Regioni possano provvedere ad attivare autonomamente
 le  deroghe,  in  quanto  l'esercizio  di  un  siffatto   potere   si
 rifletterebbe  sulla  tutela  minima  delle  specie  protette, il cui
 nucleo viene identificato dallo Stato sia con  la  legge  sia  con  i
 successivi  atti,  adottati  nell'esercizio  del potere di variazione
 previsto dall'art. 18, comma 3; potere espressamente  annoverato,  di
 recente,  dal  legislatore (art. 69, comma 1, lettera i), del decreto
 legislativo 31 marzo  1998,  n.  112),  fra  i  "compiti  di  rilievo
 nazionale  per  la  tutela  dell'ambiente"  (in  tal senso v.   anche
 sentenza n. 168 del 1999). Tale nucleo, nell'impedire alle Regioni di
 estendere la portata delle eccezioni al divieto generale  di  caccia,
 non  puo'  venire,  infatti, ricostruito - come questa Corte ha avuto
 cura di precisare e come e' il caso qui di ribadire - sulla sola base
 di una generica compatibilita' tra la regola del divieto di caccia  e
 un determinato numero di eccezioni (sentenza n. 577 del 1990).
   Esso  va,  in  realta',  visto  come  la risultante di una serie di
 opzioni qualitative concernenti le singole specie animali  cacciabili
 e   non  cacciabili,  che  non  puo'  essere  incisa  e  alterata  da
 contrastanti scelte  degli  enti  territoriali,  anche  ad  autonomia
 speciale,  se  non  a  condizione  di creare situazioni di incertezza
 sull'estensione della stessa sfera protetta come  interesse  unitario
 (sentenza  n.  577  del 1990 gia' citata). E questo senza che venga a
 configurarsi    un    inadempimento    degli    obblighi    derivanti
 dall'ordinamento   comunitario,  riscontrandosi,  nella  specie,  non
 esigenze di adeguamento ai vincoli da esso  positivamente  stabiliti,
 bensi'   soltanto   il   mancato   esercizio   di  una  facolta'  che
 consentirebbe,    attivando    la   deroga,   il   parziale   esonero
 dall'osservanza degli stessi vincoli.
   13. - Al di la' della specifica prospettiva, dalla quale muovono le
 ricorrenti, e cioe'  quella  delle  loro  competenze  in  materia  di
 caccia,  si  deve  inoltre considerare che, a tener presenti le varie
 situazioni che, secondo  la  direttiva  comunitaria,  autorizzano  il
 ricorso  allo  strumento  della  deroga,  si  evince  una varieta' di
 interessi che appaiono, per lo piu', di pertinenza  dello  Stato.  In
 questa  prospettiva  anche  la stessa locuzione della lettera c), la'
 dove richiama l'esigenza di  "consentire  in  condizioni  rigidamente
 controllate  e  in  modo  selettivo la cattura, la detenzione o altri
 impieghi misurati  di  determinati  uccelli  in  piccole  quantita'",
 parrebbe,   invero,  far  riferimento  a  ipotesi  che  non  appaiono
 compiutamente identificabili con l'attivita' venatoria.
   La molteplicita' di interessi ed esigenze che  vengono  in  rilievo
 dimostra,  dunque,  che si tratta di regole che spetta in primis allo
 Stato di dettare, sia perche'  titolare  degli  interessi  preminenti
 nella stessa gerarchia desumibile dall'art. 9 della direttiva sia per
 evidenti  esigenze  di  uniformita'  di  assetto e di organicita' del
 sistema,   che   non   tollererebbero,   come   e'    evidente,    la
 parcellizzazione di interventi affidati totalmente alle Regioni.
   14.  -  In  conclusione,  posto  che  la  disposizione dell'art. 9,
 paragrafo 1, lettera c), della direttiva comunitaria richiede, per la
 sua concreta attuazione nell'ordinamento interno, una legge nazionale
 che valuti e ponderi i vari interessi che vengono in  rilievo  e  che
 non sono certamente soltanto quelli connessi all'esercizio venatorio,
 la  Regione  Veneto  non  ha  motivo  di dolersi, quanto alla pretesa
 lesione  della   propria   sfera   di   attribuzioni,   dell'avvenuto
 annullamento,  da  parte  della  Commissione  di controllo sugli atti
 della  Regione,  dei  provvedimenti  con  i  quali  la  Giunta  aveva
 provveduto a disciplinare in via amministrativa le deroghe in tema di
 specie cacciabili per il periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997.
   15.  -  L'istanza cautelare avanzata dalla Regione Lombardia rimane
 assorbita dalla presente decisione di merito.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi, dichiara che:
     non spetta allo Stato disciplinare con il decreto del  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri  27  settembre  1997  le  modalita'  di
 esercizio delle deroghe di cui all'art. 9, paragrafo 1,  lettera  c),
 della  direttiva comunitaria 79/409/CEE, concernente la conservazione
 degli uccelli selvatici, e di conseguenza annulla detto decreto;
     spetta allo Stato, e per esso alla Commissione di controllo sugli
 atti  della  Regione  Veneto,  annullare  le  delibere  della  Giunta
 regionale  n.  3401  e  n. 3402 del 7 ottobre 1997, aventi ad oggetto
 l'applicazione delle deroghe al regime della specie cacciabili per il
 periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.
                        Il Presidente: Granata
                          Il redattore: Vari
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 14 maggio 1999.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
 99C0503