N. 311 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 febbraio 1999

                                N. 311
  Ordinanza emessa l'11 febbraio 1999 dalla Corte militare di appello,
 sezione  distaccata  di  Verona  nel  procedimento penale a carico di
 Borghi Tiziano
 Servizio militare - Obiezione di coscienza  -  Reato  di  rifiuto  di
    prestare  servizio  militare  per  motivi di coscienza - Lamentata
    soggezione alla giurisdizione ordinaria anziche' a quella militare
    - Disparita' di trattamento rispetto  a  quanto  previsto  per  il
    reato di mancanza alla chiamata.
 (Legge 8 luglio 1998, n. 230, art. 14, comma 3).
 (Cost., artt. 3 e 103, terzo comma).
(GU n.22 del 2-6-1999 )
                     LA CORTE MILITARE DI APPELLO
   Ha  pronunciato  in  pubblica  udienza  la  seguente  ordinanza nel
 procedimento penale a carico di Borghi Tiziano, nato a Firenze, il 20
 novembre 1966 (atto di nascita n. 5140 p. 1, s. A) ed  ivi  residente
 in  via  delle  Oche  n.  13.  Elettivamente  domiciliato  presso  il
 difensore di fiducia avv. Maurizio Corticelli  del  foro  di  Verona.
 Libero.
   In  seguito  all'appello proposto dal difensore avverso la sentenza
 in data 24 marzo 1998 emessa dal tribunale militare di Verona.
   Sentito  il  pubblico  ministero,   il   quale   ha   eccepito   la
 illegittimita'  costituzionale  della  norma  contenuta nell'art. 14,
 comma 3, della legge n. 230/1998, a  tenore  della  quale  appartiene
 alla  competenza  del  pretore la cognizione del reato di rifiuto del
 servizio militare previsto dal comma 2  dell'anzidetta  disposizione,
 con  riferimento  ai  parametri  costituiti  dall'art.  3 e 103 terzo
 comma, secondo periodo, della Costituzione.
   Sentita la difesa che si e' opposta, sul  rilievo  della  manifesta
 infondatezza   della   prospettata   questione,   e  che  ha  chiesto
 dichiararsi  ai  sensi  dell'articolo  129  c.p.p.   la   intervenuta
 prescrizione del reato.
                             O s s e r v a
   1.  -  Borghi  Tiziano  e'  stato  rinviato  a  giudizio dinanzi al
 tribunale militare di Verona per rispondere del reato di rifiuto  del
 servizio   militare  per  motivi  di  coscienza,  previsto  e  punito
 dall'art. 8, comma 2 della legge 15 dicembre 1972, n.  772,  "perche'
 al  di  fuori  dei  casi  di ammissione ai benefici della legge sopra
 indicata, contrario all'uso delle armi per imprescindibili motivi  di
 coscienza  attinenti  ad una concezione generale della vita basati su
 profondi convincimenti filosofici e  morali,  rifiutava  il  servizio
 militare  di  leva  prima  di assumerlo. Fatto commesso il 12 ottobre
 1994 in Arezzo.
   Con sentenza in data 24 marzo 1998, il tribunale militare di Verona
 dichiarava l'imputato responsabile dell'ascrittogli reato di  rifiuto
 del  servizio militare di leva e, previa concessione delle attenuanti
 generiche  e  di  quella  consistente  nell'aver  commesso  il  fatto
 allorquando  non  erano  ancora  decorsi  trenta  giorni  di servizio
 militare (art.  48 n. 2 c.p.m.p.), lo  condanna  alla  pena  di  mesi
 quattro  di  reclusione.    A  motivo  della  intervenuta sentenza n.
 47/1997,  della  Corte   costituzionale,   che   aveva   escluso   la
 possibilita'  che  gli  autori  del  reato  di  rifiuto  del servizio
 militare per  motivi  di  coscienza  venissero  assoggettati  ad  una
 ulteriore  condanna  per il caso di persistenza nell'atteggiamento di
 radicale contrarieta' all'ordinamento delle Forze  armate,  il  primo
 giudice  non  ravvisava  ostacolo alcuno ad una prognosi favorevole e
 pertanto concedeva il beneficio della sospensione della pena.
   Avverso la sentenza di condanna  proponeva  tempestivo  appello  la
 difesa  dell'imputato,  dolendosi  in  primo  luogo del fatto che non
 fosse stata dichiarata la prescrizione del reato ed in secondo  luogo
 per  la  eccessiva  pena  inflitta.  Infine  si  lamentava la mancata
 concessione del beneficio  della  non  menzione  della  condanna  nel
 certificato del casellario giudiziale.
   Nelle  more  del  procedimento di appello ed esattamente in data 30
 luglio 1998, e' entrata in vigore la legge n. 230/1998, recante nuove
 norme  in  materia  di  obiezione  di  coscienza,  che  ha  in  parte
 ridisegnato  la  fisionomia  del  tradizionale  reato  di rifiuto del
 servizio militare per motivi di coscienza ed espressamente attribuito
 alla autorita' giudiziaria ordinaria la competenza a conoscerne,  con
 cio'  radicalmente  discostandosi  dalla disciplina pregressa, che ne
 aveva attribuito la cognizione alla autorita' giudiziaria militare.
   In conseguenza di tale novazione  legislativa  ed  a  motivo  della
 assoluta  inesistenza  di  norme  intese  a disciplinare la sorte dei
 procedimenti pendenti, ritiene  questa  Corte  territoriale  che  sia
 doveroso  applicare  il  principio  generale del tempus regit actum e
 concludere, senza porsi in alcun modo il problema  di  quale  sia  la
 norma   sostanziale   piu'   favorevole,   che  la  nuova  disciplina
 processuale si applichi anche ai procedimenti in corso e trasmetterne
 gli atti al giudice divenuto competente (Cass., sez. I.  sentenze  n.
 02487 e 01737 del 25 e 24 giugno 1992, in C.E.D.)
   2.  -  A  parere  di questo Collegio, la norma processuale che deve
 trovare applicazione, e che costituisce l'indispensabile  presupposto
 del  provvedimento di declinatoria di giurisdizione, appare essere in
 contrasto con le disposizioni contenute negli articoli 3 e 103, terzo
 comma, ultimo periodo, della Costituzione.
   E' certo noto come in varie occasioni la Corte costituzionale abbia
 fornito una interpretazione dell'ultimo degli indicati parametri  nel
 senso   di  escludere  che  con  essa  si  sia  inteso  garantire  la
 giurisdizione  militare   nella   sua   configurazione   preesistente
 all'entrata   in   vigore   della  Carta  fondamentale  ed  abbia  di
 conseguenza rimarcato come la sua  essenziale  ragion  d'essere  vada
 ravvisata   nella   esigenza   di  circoscrivere  i  limiti  massimi,
 soggettivi ed oggettivi, della suddetta giurisdizione ed impedire che
 gli stessi possano essere superati a detrimento della competenza  del
 giudice  ordinario, espressamente considerato come l'organo su cui e'
 incardinata la giurisdizione normale in tempo di pace.
   La predetta linea giurisprudenziale nasce con la sentenza numero 29
 del 1958 e trova modo di essere ulteriormente ribadita nell'arco  del
 successivo  periodo  di tempo, si' da concludersi con la fondamentale
 sentenza 429 del 1992, che ha chiaramente espresso il concetto che la
 giurisdizione normalmente da adire e' quella dei giudici ordinari  ed
 ancora una volta affermato che la giurisdizione militare ha carattere
 eccezionale ed e' circoscritta entro limiti rigorosi.
   Nel  periodo che collega le due sentenze, il giudice delle leggi ha
 avuto piu' volte modo di affrontare una serie di questioni  attinenti
 alle  evenienze  in  cui si consumava una sottrazione alla competenza
 del giudice speciale di reati militari ed ogni volta ha concluso  nel
 senso  che  costituisse  insindacabile  prerogativa  del legislatore,
 entro i limiti della ragionevolezza, rinvenire e sottoporre a  tutela
 preminenti  ragioni  di  interesse generale ed optare in tali ipotesi
 per la giurisdizione ordinaria.
   Lasciando da parte i casi in cui si  e'  appurato  che  mancava  il
 presupposto  soggettivo, (sentenze 112 e 113 del 1986, 207 del 1987),
 torna in questa sede utile, per  meglio  impostare  i  termini  della
 sollevata questione, soffermarsi sulle decisioni che hanno affrontato
 situazioni in cui era indubbia la ricorrenza di entrambi gli indicati
 presupposti  e  concluso per la legittimita' delle norme di legge che
 avevano statuito la competenza in merito del giudice ordinario.
   Buona  parte  degli  anzidetti  quesiti  ruotavano   attorno   alla
 disciplina  della  connessione  e  miravano  ad  ottenere che venisse
 dichiarata la illegittimita' delle  disposizioni  che  in  tali  casi
 stabilivano  la  assorbente  ed  esclusiva competenza della Autorita'
 giudiziaria ordinaria.
   Come  e' noto, la Corte costituzionale ha in tali casi decretato la
 infondatezza delle medesime ed ogni volta sulla base del rilievo  che
 la  norma  costituzionale invocata come parametro non consacrasse una
 assoluta riserva di giurisdizione a favore del giudice  speciale,  ma
 ponesse   rigorosi   limiti  al  suo  legittimo  delinearsi  e  fosse
 preordinata ad una funzione di garanzia contro  la  eventualita'  che
 essa ne valicasse i confini massimi.
   3.  - La valutazione d'insieme delle predette decisioni consente di
 enuclearne il motivo ispiratore e di intendere appieno il significato
 degli argomenti posti direttamente a base della conclusione cui  sono
 pervenute.  E'  agevole rilevare come il filo conduttore consista nel
 principio secondo cui la disposizione  contenuta  nell'articolo  103,
 terzo comma, ultimo periodo, non configura una ineludibile riserva di
 giurisdizione  a  favore  del giudice militare, ma detti soltanto una
 norma  di  carattere  tendenziale,  da  calare  nel  contesto   delle
 concorrenti  disposizioni processuali e sostanziali e da contemperare
 con le esigenze alla cui tutela quest'ultime risultano preordinate.
   Da cio' deriva la conseguenza che, anche  con  limitato  e  stretto
 riferimento  ai  reati  militari  commessi  da  militari  in servizio
 attivo, non potra' giammai sostenersi la esistenza di una invincibile
 riserva di giurisdizione, ma andra' di volta in  volta  stabilito  se
 tali reati coinvolgano interessi ulteriori rispetto a quelli militari
 ed   indi   chiedersi  se  questi  ultimi  manifestino  una  spiccata
 attitudine ad essere tutelati in forme o con congegni procedurali che
 comportano la attribuzione alla autorita' giudiziaria ordinaria della
 competenza a conoscere dei fatti che li abbiano violati.
   Esattamente questo e' accaduto ed accade tuttora con riguardo  alla
 disciplina  del  fenomeno della connessione di procedimenti e proprio
 questa argomentazione ha ispirato la declaratoria  di  illegittimita'
 costituzionale  della  norma  che  sottrasse  al  giudice speciale la
 cognizione dei reati militari commessi da  militari  minorenni  e  la
 attribui'  al  tribunale  dei  minori. Venne in tale ultima evenienza
 espressamente detto che "non puo'  essere  impedito,  per  principio,
 alla  giurisdizione  ordinaria  d'assumere  la  cognizione  di  reati
 militari allorche' esistano preminenti ragioni d'interesse  generale"
 e  si  sottolineo', con intuizione che si rivela di determinante peso
 ai fini che interessano in questa sede, che debba essere di "volta in
 volta stabilito se particolari esigenze, beni o valori (come  ad  es.
 quelli  a  garanzia  dei  quali e' stato istituito il tribunale per i
 minorenni)  possano  essere  considerati   preminenti   rispetto   ad
 esigenze, beni e valori tutelati attraverso la speciale giurisdizione
 dei tribunali di pace".
   4.  -  Come  puo' dunque agevolmente notarsi, non e' in realta' mai
 stato affermato, ancorche' incomplete massime ne  abbiano  alimentato
 l'equivoco,  che l'unico significato della norma costituzionale sulla
 giurisdizione dei tribunali militari sia rappresentato dalla rigorosa
 predisposizione di cio' che ad essi e' precluso e come per contro  si
 sia  chiaramente  asserito  che esistono beni e valori tutelati dalla
 speciale giurisdizione militare. Va da se' che la suddetta tutela non
 assume carattere assoluto e che debba di volta in volta darsi rilievo
 alle concorrenti esigenze che si palesino meritevoli  di  particolare
 protezione,  con la conseguenza che senza alcun dubbio potranno darsi
 deroghe  al   principio   tendenziale   e   quindi   previsioni   che
 legittimamente  sottraggano  al  giudice  militare  la  competenza  a
 conoscere  dei reati militari commessi dai soggetti che pur abbiano i
 necessari requisiti soggettivi.
   Sotto  quest'ultimo  profilo  merita  particolare   attenzione   la
 sentenza  della  Corte  costituzionale n. 429 del 10 novembre 1992. A
 prima vista essa appare esaltare la sola funzione di  limite  massimo
 contenuta nella disposizione di cui all'art. 103 della Costituzione e
 quindi  escludere che in questa sia ravvisabile anche una garanzia di
 speciale giurisdizione per i  militari  che  abbiano  commesso  reati
 lesivi  di  interessi militari. Ove le cose stessero in tali termini,
 la disposizione costituzionale avrebbe la  connotazione  di  un  mero
 divieto  e  l'unica  sua  funzione  sarebbe  quella  di precludere la
 eventualita' che  la  speciale  giurisdizione  sia  attivata  per  la
 cognizione  di  reati non rientranti nella prefigurata tipologia. Con
 la singolare conseguenza che basterebbe  una  articolata  sequela  di
 leggi  ordinarie  per trasformare in un guscio vuoto la giurisdizione
 militare ed azzerare totalmente la sua competenza.
   Ma se si va oltre la apparenza, non si tardera' a comprendere  come
 la  indicata  sentenza  non  abbia  affatto  invertito la rotta delle
 precedenti, ma soltanto calibrato alla specificita' del caso concreto
 la decisione adottata. In essa si esaminava se  fosse  conforme  alla
 Costituzione la norma che assegnava al giudice militare la competenza
 ad  occuparsi dei reati militari commessi da persone che, pur facendo
 parte delle Forze armate erano  cessate  dal  servizio  attivo  e  si
 trovavano  nella  posizione  intermedia  tra  questo  ed  il  congedo
 assoluto  (congedo  illimitato,  ausiliaria,  riserva).   La   Corte,
 muovendo  dall'ispirazione  che presiedette il processo formativo del
 parametro costituzionale invocato e sottolineando come  la  norma  in
 esso racchiusa fosse nata con il piu' volte menzionato duplice limite
 oggettivo   e  soggettivo,  espresse  l'avviso  che  i  militari  ivi
 contemplati non potessero essere altri che  coloro  che  avessero  le
 stellette  e  quindi  fossero  in  "servizio  attuale  alle  armi"  o
 legittimamente considerati tali al momento  del  commesso  reato.  In
 sede   di   motivazione   asseri'  che  la  diversita'  di  piani  di
 giurisdizione e legge confortasse il principio che  la  giurisdizione
 normalmente  da  adire  e'  quella  dei  giudici ordinari anche nella
 materia militare e ribadi'  che  la  giurisdizione  ordinaria  e'  da
 considerare,  per  il  tempo  di pace, come la giurisdizione normale.
 Infine aggiunse che  la  indicata  relazione  logica  tra  regola  ed
 eccezione  verrebbe scompensata se si assumesse che la cognizione dei
 reati militari commessi da coloro che sono  assoggettati  alla  legge
 penale  militare  spetti  esclusivamente  ai  giudici militari e, nel
 sottolineare il principio  che  essa  compete  invece  di  regola  ai
 giudici ordinari, espressamente pose la importante riserva "salvo che
 non si tratti di reati commessi "sotto le armi".
   A  parere  di  questa Corte remittente, dall'insieme delle indicate
 pronunce del giudice delle leggi puo' trarsi il seguente  corollario,
 nel contempo misura e limite della disposizione contenuta nella norma
 di cui all'art. 103, terzo comma Cost.
   La  giurisdizione  militare  contemplata  e  protetta  dalla  norma
 costituzionale  concerne  soltanto  i  reati  militari  commessi   da
 militari  in  servizio  attivo,  o  considerati tali, e' circoscritta
 entro rigorosi confini soggettivi ed oggettivi  e  non  ha  carattere
 assoluto  ed  indeclinabile,  potendo  essere  derogata  da una legge
 ordinaria che risulti preordinata alla  tutela  di  preminenti  beni,
 interessi  e  valori.  Cio'  sta  a  significare che la giurisdizione
 militare, correttamente eccezionale rispetto al generico universo dei
 reati commessi da tutti coloro che appartengono alle Forze armate, e'
 invece da considerarsi normale rispetto ai reati militari commessi da
 militari in servizio attivo (o considerati tali).
   In riferimento a questa ristretta tipologia di reati, essa non solo
 e'  giurisdizione  normale  ma  e'  anche  giurisdizione   di   rango
 costituzionale.   Ed  e'  proprio  per  tali  ragioni  che  la  Corte
 costituzionale ha di recente (ordinanza numero 441 del 14-23 dicembre
 1998)  dichiarato  la  manifesta  infondatezza  della  questione   di
 legittimita'  dell'articolo  13,  comma  2,  del  codice di procedura
 penale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione
 e nella parte in cui non prevede la operativita' dell'istituto  della
 connessione  in  tutte  le  ipotesi  in  cui tra reati comuni e reati
 militari sussista il particolare vincolo delineato  dall'articolo  12
 del codice di rito.
   A  prescindere dalle ulteriori argomentazioni adoperate dal giudice
 delle  leggi  per  escludere  la  ipotizzata  lesione   ai   principi
 costituzionali,  torna  qui utile considerare e soffermarsi su quello
 che appare contrassegnato da una valenza generale e che  e'  espresso
 nei  seguenti  testuali termini:   "con riferimento ai rapporti tra i
 procedimenti per reati comuni e militari, non puo' dirsi imposto  dal
 principio  di  ragionevolezza  un  assetto  normativo  che,  in vista
 dell'interesse dell'imputato a un (del tutto  eventuale)  simultaneus
 processus  travalichi  in ogni caso i limiti entro cui ordinariamente
 si esercitano le due distinte giurisdizioni".
   A parere di questo Collegio, l'espresso riferimento al principio di
 ragionevolezza, cioe' ad uno dei fondamentali criteri di  valutazione
 della  legittimita'  costituzionale  delle  norme di legge ordinaria,
 chiarisce  il  significato  della  successiva  proposizione   (quella
 sull'ordinario  riparto  delle giurisdizioni) e consente di affermare
 che con essa il  giudice  delle  leggi  ha  inteso  sottolineare  che
 l'ambito  entro  cui  si  esercita  la  giurisdizione militare ha una
 diretta tutela costituzionale.  Solo in tal modo  acquista  pregnanza
 la  affermazione della Corte e solo in tal modo si comprende come non
 possa  dirsi  imposto  dal  principio  di  ragionevolezza  un  quadro
 normativo  che, per il fatto di comportare una immotivata deroga alla
 competenza del  giudice  militare  per  i  reati  militari,  viene  a
 risolversi  in  una  violazione  dei  limiti  entro cui si esercitano
 ordinariamente le due distinte giurisdizioni.
   5. - La recente legge 8 luglio  1998,  n.  230,  (pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  n.  163  del  15 luglio 1998), contenente "nuove
 norme in materia di obiezione di  coscienza"  contempla,  al  secondo
 comma  dell'art.  14;  una  fattispecie  penale che recupera l'intero
 contenuto di quella prevista dall'art.  8  della  abrogata  legge  n.
 772/1972  e configura altresi' ulteriori ipotesi tipiche. Essa amplia
 lo spettro dei motivi di coscienza  che  possono  porsi  a  base  del
 rifiuto e consente che quest'ultimo possa intervenire anche nel corso
 dello svolgimento del servizio militare.
   Il  comma  3  del  medesimo  art.  14  attribuisce  la competenza a
 giudicare del predetto reato al pretore  del  luogo  nel  quale  deve
 essere svolto il servizio militare.
   A  parere di questo Collegio, la norma che stabilisce la competenza
 del  pretore  e'  in  contrasto  con  le  previsioni   costituzionali
 contenute negli artt. 103, terzo comma, e 3 della Costituzione.
   E'  indubbio  che i militari chiamati a presentarsi alle armi siano
 militari in servizio attivo. Lo sono a partire dal momento  stabilito
 per  la  loro  presentazione  e  permangono in tale posizione fino al
 giorno in cui vengono inviati in congedo illimitato. La qualifica  di
 militare  in servizio attivo discende dalla oggettiva circostanza che
 risulta emanato un provvedimento che ne dispone  la  precettazione  e
 stabilisce il giorno ed il luogo di presentazione al reparto. Essa e'
 del  tutto  indipendente dall'eventuale ottemperanza a tale ordine ed
 in  alcun  modo  subisce  modifiche  in  dipendenza   della   mancata
 presentazione   o   delle  particolari  ragioni  che  possono  averla
 determinata.
   In ordine al suddetto profilo, e'  incontestabile  che  il  giovane
 Borghi   era   stato  chiamato  alle  armi,  a  seguito  di  regolare
 procedimento di arruolamento, ed aveva l'obbligo  di  presentarsi  al
 reparto di assegnazione alla data del 12 ottobre 1994.
   Quanto alla natura del reato in tal modo commesso, e' convincimento
 unanime  che sia da qualificarsi come reato militare. Esso offende un
 interesse esiziale per un ordinamento incentrato sulla ferma di  leva
 e  si  profila,  come sottolineato nella fondamentale sentenza n. 409
 del 1989  della  Corte  costituzionale,  ontologicamente  identico  a
 quello  di mancanza alla chiamata e come questo lesivo, con identiche
 modalita',  dello  stesso  interesse,   "quello   ad   una   regolare
 incorporazione     degli    obbligati    al    servizio    di    leva
 nell'organizzazione del servizio militare". Le ragioni  di  coscienza
 addotte  a spiegazione del contegno di oggettiva omessa presentazione
 non intaccano la natura dell'interesse leso e non attenuano in  alcun
 modo  i  suoi  connotati di fondamentale interesse delle Forze armate
 dello Stato.
   Questa  Corte,  allo  scopo  di  sottolineare  come  i   dubbi   di
 costituzionalita'   investano  la  norma  sulla  giurisdizione  nella
 totalita' della sua sfera di efficacia e non solo nella parte in  cui
 si  presta  a  disciplinare  i  fatti pregressi, ritiene che anche il
 nuovo reato di rifiuto del servizio militare sia  reato  militare  ed
 abbia  una  struttura  sostanzialmente  identica a quello di cui alla
 abrogata legge ed oggetto del presente giudizio di gravame. Le uniche
 modifiche  introdotte  dalla  nuova  normativa  sul  punto  specifico
 costituiscano  puntuali  riscontri  di  importanti decisioni rese dal
 giudice delle leggi con  riguardo  all'abrogato  reato  e  l'impianto
 complessivo,  soprattutto  per  il  fatto  di  aver reso possibile il
 rifiuto dopo la assunzione del servizio, consente senza alcun  dubbio
 di  affermare  che  sono  stati addirittura accentuati i connotati di
 militarita'  della  fattispecie  incriminatrice  e  che   questa   e'
 diventata  una  variante  applicativa  non solo del reato di mancanza
 alla chiamata, ma anche di quello di diserzione.
   Sia il vecchio reato, quindi,  che  quello  delineato  dalla  nuova
 legge  costituiscono  tipici ed evidenti reati militari, tanto che in
 relazione ad entrambi e' stata prevista  e  continua  ad  operare  la
 particolare causa di estinzione rappresentata dall'accoglimento della
 domanda  di prestare servizio nelle Forze armate (art. 14, commi 6 ed
 8 legge  n.  230/1998),  a  definitiva  conferma  di  come  non  solo
 l'interesse leso faccia capo all'ordinamento militare, ma addirittura
 sia  stato considerato talmente importante e delicato da giustificare
 una previsione che  assegna  un  radicale  effetto  estintivo  ad  un
 contegno  che  risolvendosi  in  un  fattivo ed operoso ripensamento,
 annulla la lesione in un primo momento inflitta al bene protetto.
   6.  -  Acclarato  che  e'  fuori  discussione  la  rilevanza  della
 questione  prospettata dalla Procura generale militare e chiarito che
 in relazione ai fatti commessi sono il vigore  della  abrogata  legge
 non  si  ravvisa  alcun  ragionevole motivo per la brusca deroga alla
 giurisdizione del giudice  militare,  rimane  da  verificare  se  nel
 passaggio  dalla vecchia alla nuova normativa la fisionomia del reato
 di rifiuto del  servizio  militare  abbia  per  caso  fatto  emergere
 necessita'   di  tutela  che  si  prestano  ad  essere  adeguatamente
 realizzate soltanto con la previsione della giurisdizione  ordinaria.
 E cio' nella condivisibile prospettiva che assegna carattere relativo
 alla  giurisdizione del giudice speciale e la espone alla soccombenza
 nel caso  in  cui  il  reato  militare  commesso  coinvolga  beni  ed
 interessi  di  preminente  valore  e  suscettibili  di  tutela per il
 tramite di una deroga alla giurisdizione militare.
   Questa Corte ritiene che  all'interrogativo  debba  darsi  risposta
 negativa.
   Nessun ruolo svolge la circostanza che la previsione delittuosa sia
 contenuta  in  un  contesto normativo che si distingue dal precedente
 per il piu' ampio respiro assegnato  al  fenomeno  dell'obiezione  di
 coscienza e per la configurazione di un servizio civile in termini di
 sostanziale  alternativa  al  servizio  militare.  Cio'  inerisce  al
 diverso profilo delle condizioni in presenza delle quali  puo'  darsi
 una   valida  ed  efficace  scelta  a  favore  del  servizio  civile,
 trasformate  in  presupposti  rigorosamente  delimitati  e  privi  di
 qualsivoglia  elemento  di discrezionalita'. Ma in alcun modo ne sono
 derivate ripercussioni in ordine alla struttura del particolare reato
 di rifiuto, che e' rimasto  ancorato  alle  tradizionali  formule  di
 adduzione dei motivi e che continua a profilarsi come un illecito che
 si  commette a prescindere dalla verosimiglianza e autenticita' delle
 ragioni della obiezione e che non  tollera  in  alcun  modo  disamine
 intese ad accertare che vi sia corrispondenza tra quanto dichiarato e
 gli autentici convincimenti della propria coscienza.
   Soltanto  in quest'ultimo caso, e cioe' ove la norma incriminatrice
 avesse richiesto come elemento essenziale del reato la sincerita' dei
 motivi di coscienza addotti a sostegno del rifiuto, si sarebbe potuto
 ipotizzare il coinvolgimento di un piu' ampio interesse, direttamente
 correlato  alla  manifestazione  dei   fondamentali   diritti   della
 personalita', e coerentemente concludere per la sottrazione della sua
 cognizione al giudice militare.
   Ma  questo  non  e' accaduto ed il reato, oggi come nel passato, e'
 rimasto del tutto agganciato alla mera adduzione dei rituali motivi e
 continua quindi a delinearsi come un oggettivo fatto di mancanza alla
 chiamata, accompagnato da espressioni che rilevano per il  sol  fatto
 di  essere  state  pronunciate  e  rispetto  alla  cui veridicita' ed
 attendibilita' l'ordinamento rimane indifferente.  Non  solo  non  si
 richiede  alcuna  preliminare  valutazione  della verosimiglianza dei
 motivi addotti, ma e' finanche possibile che il reato venga  commesso
 da  persone  che risultino aver riportato condanna per reati commessi
 con l'uso delle armi o con contegni di violenza e quindi in  presenza
 di  quei rigorosi presupposti che rendono inammissibile la istanza di
 svolgimento del servizio civile.
   7  - Per ragioni in parte coincidenti con quelle sopra esposte, non
 sembra altresi' manifestamente infondata la questione  sollevata  con
 riferimento all'art. 3 della Costituzione.
   La  identita'  sostanziale  tra  il  reato  di  rifiuto e quello di
 mancanza alla chiamata e la circostanza che entrambi ledono lo stesso
 interesse rendono del tutto priva di giustificazione la norma che  li
 discrimina ai fini della giurisdizione e lasciano emergere profili di
 intrinseca ed insanabile contraddittorieta' nell'ambito delle diverse
 statuizioni in ordine al giudice competente. Anche a tacere delle non
 lievi  ripercussioni  che  si  avrebbero nel caso si ritenesse che la
 nuova normativa abbia trasformato in  reato  comune  un  tradizionale
 reato militare (si pensi alla conseguente impossibilita' di concedere
 la  attenuante  prevista  dall'art. 48 n. 2 c.p.m.p.) rimane priva di
 adeguate ragioni giustificatrici una disposizione che, a fronte della
 identita' sostanziale delle fattispecie in  raffronto,  sottrae  alla
 giurisdizione  del giudice speciale e collegiale uno dei due identici
 reati e lo assegna al giudice ordinario.
   In conclusione, la norma contenuta  nell'art.  14  comma  3,  della
 legge 230/1998 appare costituzionalmente illegittima in quanto, senza
 che  sussista  alcuna  necessita'  di  tutela di beni ed interessi di
 preminente valore e in difetto  di  qualsiasi  ulteriore  ragionevole
 motivo,   sottrae  alla  cognizione  del  giudice  costituzionalmente
 competente per i reati militari commessi da militari in  servizio  il
 reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza.
                               P. Q. M.
   Visti gli artt. 1, legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, 23 , legge 11
 marzo 1953, n. 87;
   Sentito  il  p.g.m.  che  ha  sollevato  questione  di legittimita'
 costituzionale dell'art. 14 comma 3, legge 8  luglio  1998,  n.  230,
 nella  parte in cui sottrae alla giurisdizione militare la cognizione
 del reato di rifiuto del servizio militare per motivi  di  coscienza,
 ed in riferimento agli artt. 3 e 103, terzo comma della Costituzione;
   Sentito il difensore che si e' opposto;
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art.  14,  comma  3  della  legge  8
 luglio  1998, n. 230 per contrasto con gli artt. 3 e 103, terzo comma
 della Costituzione;
   Sospende il giudizio in corso nei  confronti  dell'imputato  Borghi
 Tiziano;
   Ordina  la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la
 risoluzione della questione;
   Dispone che la presente ordinanza, a cura  della  cancelleria,  sia
 notificata  al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata
 ai Presidenti delle due Camere del Parlamento della Repubblica;
   Dispone  altresi'  che  sia  notificata  all'imputato  ed  al   suo
 difensore.
     Verona, addi' 11 febbraio 1999
                          Il presidente: Diana
                                        Il consigliere est.re: Santoro
 99C0534