N. 286 SENTENZA 5 - 9 luglio 1999

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Impiego   pubblico   -   Condanna   del  dipendente  (nella  specie,
 dell'ENPAS) passata in giudicato, che importi l'interdizione perpetua
 dai pubblici uffici - Automatica destituzione dall'impiego -  Dedotta
 violazione  del  principio  di  ragionevolerza  - Questione meramente
 ipotetica - Inammissibilita'.
 
 (D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 85, lettera b)).
 
 (Cost., art. 3).
 
 Impiego  pubblico  -  Condanna  alla  reclusione  per  un  tempo non
 inferiore a cinque  anni  -  Conseguente  interdizione  perpetua  del
 condannato  dai pubblici uffici - Dedotta violazione del principio di
 ragionevolezza - Non fondatezza della questione.
 
 (C.P., art. 29, primo comma).
 
 (Cost., art. 3).
 
(GU n.28 del 14-7-1999 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, avv. Massimo  VARI,  dott.  Cesare  RUPERTO,  dott.
 Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo  ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
 prof. Carlo MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI
 MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 29, primo
 comma, del codice penale, e 85, lettera b),  del  d.P.R.  10  gennaio
 1957,  n.  3  (Testo  unico delle disposizioni concernenti lo statuto
 degli impiegati civili dello Stato), promosso  con  ordinanza  emessa
 l'8 maggio 1998 dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria
 sul ricorso proposto da Trapasso Gabriele contro l'ENPAS, iscritta al
 n.  588  del  registro  ordinanze  1998  e  pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 36,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1998.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio  del  12  maggio  1999  il  giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel  corso  di un giudizio amministrativo per l'annullamento
 della delibera commissariale  del  5  marzo  1992  con  la  quale  un
 dipendente dell'ENPAS era stato destituito dall'impiego, il Tribunale
 amministrativo  regionale  della  Calabria  ha sollevato questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 29,  primo  comma,  del  codice
 penale;  e,  "per  quanto occorra" (ove la norma si ritenga vigente),
 dell'art. 85, lettera b), del d.P.R. 10 gennaio  1957,  n.  3  (Testo
 unico  delle  disposizioni  concernenti  lo  statuto  degli impiegati
 civili dello Stato).
   Premette in fatto il giudice a quo che il ricorrente - operatore di
 esercizio in attivita' presso l'ufficio di Arezzo  -  veniva  sospeso
 dal  servizio, con decorrenza 4 ottobre 1986, a seguito dell'adozione
 nei  suoi  confronti  di  una  misura  restrittiva   della   liberta'
 personale.   Il processo, per i reati di cui agli artt. 71 e 74 della
 legge n.  685 del 1975, si concludeva con la condanna dell'imputato a
 cinque anni e sei mesi di reclusione  e  di  11.000.000  di  lire  di
 multa,  nonche'  alla  interdizione  perpetua  dai  pubblici  uffici.
 Ridotta la pena detentiva, per successivi condoni e benefici,  il  22
 aprile 1992 il condannato veniva affidato al servizio sociale.
   Il  provvedimento dell'ENPAS, impugnato dal ricorrente, ha disposto
 la destituzione dall'impiego in applicazione dell'art.  108,  lettera
 b), del regolamento organico del personale. Ma la norma regolamentare
 applicata   dall'ente   non   sarebbe  piu'  in  vigore,  secondo  il
 ricorrente,  in  quanto  ricompresa   nella   previsione   abrogativa
 dell'art.  9,  comma 1, ultima parte, della legge 7 febbraio 1990, n.
 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale  della
 pena e destituzione dei pubblici dipendenti).
   Il  Collegio  rimettente  osserva  che  l'art. 108, lettera b), del
 regolamento organico dell'ENPAS statuisce la destituzione di  diritto
 del  dipendente  a  seguito  di  condanna,  passata in giudicato, che
 importi  l'interdizione  perpetua   dai   pubblici   uffici   (ovvero
 l'applicazione  di una misura di sicurezza detentiva o della liberta'
 vigilata).  La norma costituirebbe una integrale  replica  del  testo
 dell'art.   85, lettera b) del d.P.R. n. 3 del 1957, attuando un vero
 e proprio rinvio materiale alla disposizione di  legge,  si'  che  la
 vigenza  della  previsione regolamentare dipenderebbe da quella della
 disposizione legislativa teste' indicata.
   Il  giudice  a  quo  ricorda  che  alla sentenza n. 971 del 1988 di
 questa Corte, dichiarativa dell'illegittimita' della lettera  a)  del
 citato  art.  85  del  d.P.R.  n.  3  del  1957,  ha fatto seguito la
 menzionata legge n. 19 del 1990, che ha abrogato,  all'art.  9,  ogni
 disposizione  attinente  alla  destituzione  di  diritto dei pubblici
 impiegati (comma  1),  imponendo  alle  amministrazioni  l'onere  del
 preventivo  procedimento  disciplinare (comma 2). Tuttavia e' dubbio,
 secondo il Collegio rimettente, se la  destituzione  di  diritto  sia
 stata  abrogata  nei  contesti  legislativi  antecedenti,  anche  con
 riferimento alla commissione di delitti accertati nei  confronti  del
 dipendente  con  pronunce  passate  in  giudicato;  ovvero se essa e'
 pienamente in vigore specie per le  ipotesi  normative,  come  quella
 dell'art.  85,  lettera  b),  del d.P.R. n. 3 del 1957, non esaminata
 dalla giurisprudenza costituzionale.
   La prima  interpretazione  troverebbe  riscontro  nell'intento  del
 legislatore  di recepire le considerazioni esposte nella pronuncia n.
 971 del 1988, e nelle successive nn. 40 e 158 del 1990, 16 del 1991 e
 197 del 1993. In esse la Corte  avrebbe  posto  in  evidenza  sia  la
 necessita'  di  garantire la proporzionalita' fra il fatto concreto e
 la  sanzione  da  applicare,  sia  l'esigenza  di   ricondurre   ogni
 valutazione  nel  merito  alla  sua  sede  naturale:  il procedimento
 disciplinare.    La  diversa  ipotesi  della  sanzione   destitutoria
 correlata alla condanna penale esulerebbe peraltro, con riguardo alla
 interdizione  perpetua dai pubblici uffici, dall'assunto delle citate
 sentenze. In tal caso il rapporto di impiego cesserebbe  per  effetto
 di una decisione giudiziale che renderebbe superflua ogni valutazione
 in  sede  amministrativa;  sotto  questo  profilo  sarebbe esclusa la
 riconducibilita' della lettera b), del citato art. 85 del d.P.R. n. 3
 del 1957, dall'effetto abrogativo operato dall'art. 9, comma 1, della
 legge n. 19 del 1990. Sennonche' siffatta abrogazione -  conclude  su
 questo  punto  il  giudice  a  quo - potrebbe riferirsi anche al caso
 della condanna alla interdizione dai  pubblici  uffici,  in  modo  da
 stabilire  un  generale principio di obbligatorieta' del procedimento
 disciplinare.
   I dubbi di legittimita' costituzionale della normativa  concernente
 la  risoluzione  automatica del rapporto di impiego in conseguenza di
 fattispecie penalmente rilevanti non si supererebbero adottando tanto
 l'una quanto l'altra soluzione ermeneutica. Di qui,  la  lesione  del
 principio  di ragionevolezza, con riferimento ai casi di destituzione
 senza procedimento disciplinare, essendo impedito sia al giudice  che
 all'amministrazione  ogni giudizio di proporzionalita' tra il fatto e
 la sanzione. Ne' le perplessita' si dissolverebbero riconoscendo - in
 base a una interpretazione letterale dell'art. 9 -  l'obbligatorieta'
 del   procedimento   disciplinare   pure  a  seguito  della  condanna
 definitiva alla interdizione perpetua dai  pubblici  uffici;  e  cio'
 perche'  il  procedimento  in  sede amministrativa non potrebbe avere
 conclusione diversa dalla destituzione. L'irrazionalita' dell'effetto
 di automatica  risoluzione  dell'impiego,  continua  l'ordinanza,  si
 verificherebbe   altresi'  per  i  reati  che,  per  l'oggetto  e  le
 circostanze dell'azione,  hanno  un  rilievo  marginale  o  nullo  in
 relazione al rapporto di servizio con l'amministrazione.
   La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo precisa infine il
 rimettente,  poiche'  si  riproporrebbe l'automatismo della sanzione,
 sia  escludendo  l'onere  del  procedimento  disciplinare  preventivo
 rispetto  alla  pronuncia  di  destituzione,  sia  ammettendolo: onde
 l'obbligo dell'amministrazione di tener  conto  della  condanna  alla
 interdizione  inflitta  dal giudice penale, e di comminare percio' la
 sanzione destitutoria.
   2. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
 l'inammissibilita' o, in subordine, per l'infondatezza.
   La  giurisprudenza  costituzionale  richiamata  nell'ordinanza   di
 rimessione  non  riguarderebbe  l'ipotesi della sanzione destitutoria
 correlata alla condanna, con sentenza del giudice penale,  alla  pena
 accessoria  dell'interdizione  perpetua  dai pubblici uffici. Perche'
 questa  Corte  si  sarebbe  chiaramente  espressa  per  l'estraneita'
 dell'art.  9  della  legge n. 19 del 1990 all'applicazione delle pene
 accessorie, anche di carattere  interdittivo  (sentenza  n.  363  del
 1996),  escludendo ch'esso abbia prodotto l'abrogazione dell'art. 85,
 lettera b), del testo  unico  degli  impiegati  civili  dello  Stato.
 Qualora  vi  sia  condanna  alla  pena  accessoria, l'amministrazione
 dovrebbe  infatti  disporre  la  destituzione  del   dipendente   dal
 servizio. Si tratterebbe d'un provvedimento di natura dichiarativa di
 status  conseguente  al  giudizio penale definitivo, peraltro emanato
 senza  procedimentalizzazione  e,  quindi,  senza   compiere   alcuna
 valutazione dell'impiegato.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Viene  all'esame  della  Corte  la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 29, primo comma, del codice  penale,  "nella
 parte  in  cui statuisce che la condanna alla reclusione per un tempo
 non inferiore a  cinque  anni  importa  l'interdizione  perpetua  del
 condannato  dai pubblici uffici"; e, "per quanto occorra (cioe' se la
 norma deve ritenersi vigente)", dell'art. 85, lettera b), del  d.P.R.
 10  gennaio 1957, n. 3, "nella parte in cui prescrive che l'impiegato
 incorre nella destituzione, escluso il procedimento disciplinare, per
 condanna passata in giudicato che importi l'interdizione dai pubblici
 uffici".
   Stando alla prospettazione del rimettente, si tratta in realta'  di
 due  distinte  questioni  sollevate  in  riferimento all'art. 3 della
 Costituzione.  Le  norme  censurate  sarebbero  in  contrasto  con  i
 principi  di  ragionevolezza  e di proporzionalita' tra il fatto e la
 sanzione, perche' produttive dell'automatica risoluzione del rapporto
 di impiego nei  confronti  dei  dipendenti  pubblici  condannati  con
 sentenza passata in giudicato.
   2.  - Preliminarmente si deve dichiarare inammissibile la questione
 sollevata con riferimento all'art. 85, lettera b), del d.P.R. n.    3
 del 1957, non solo perche' posta come meramente ipotetica, ma perche'
 e'  perplessa  la  motivazione,  non  risultando  chiaro se, rispetto
 all'altra, essa si collochi in linea subordinata,  o  alternativa,  o
 successiva.
   3.  -  La  questione  sollevata  con  riferimento alla disposizione
 codicistica e', invece, non fondata.
   L'art. 29, primo comma, del codice penale  statuisce,  come  si  e'
 gia'  anticipato,  che  "la condanna all'ergastolo e la condanna alla
 reclusione per  un  tempo  non  inferiore  a  cinque  anni  importano
 l'interdizione   perpetua   del   condannato  dai  pubblici  uffici".
 Disposizione,   questa,  che  il  rimettente  non  censura  nei  suoi
 presupposti, ma nelle conseguenze giuridiche: non  sotto  il  profilo
 generale,  dunque,  bensi'  con  riguardo  al  rapporto  di  pubblico
 impiego, implicando l'automatica risoluzione di esso in  ragione  del
 carattere perpetuo della misura.
   Il  giudice a quo  vorrebbe che dalla pena accessoria - applicabile
 secondo i principi generali  solo  in  base  a  una  condanna  penale
 definitiva  -  non  scaturisse  l'automatismo  della rimozione, ma si
 affermasse nella sua  ineludibilita'  l'interposizione  del  giudizio
 disciplinare.    A  tal  fine  viene  richiamata,  nell'ordinanza  di
 rimessione, la ratio decidendi su cui si fondano le sentenze nn.  363
 e  239 del 1996 e 197 del 1993 e le ordinanze nn. 201 e 137 del 1994;
 ma l'affermazione del principio  della  necessita'  del  procedimento
 disciplinare,  in  luogo  della  destituzione di diritto dei pubblici
 dipendenti,  non   concerne   le   pene   accessorie   di   carattere
 interdittivo,  in  genere, ne' l'interdizione dai pubblici uffici, in
 particolare. La risoluzione del rapporto  d'impiego  costituisce,  in
 questo  caso,  soltanto  un  effetto  indiretto della pena accessoria
 comminata in perpetuo.
   Di la' dai dubbi espressi  dal  Collegio,  e'  appena  il  caso  di
 soggiungere  che,  nella  sua  discrezionalita', il legislatore resta
 libero - sia pure con  l'osservanza  del  principio  di  razionalita'
 normativa  -  di  determinare  i presupposti, i contenuti e la durata
 della misura, assolvendo  la  pena  accessoria  finalita'  di  difesa
 sociale e di prevenzione speciale.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
     a)   Dichiara   inammissibile   la   questione   di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 85, lettera b) del d.P.R. 10  gennaio  1957,
 n.  3  (Testo  unico  delle disposizioni concernenti lo statuto degli
 impiegati civili dello Stato), sollevata dal Tribunale amministrativo
 regionale della Calabria, con l'ordinanza in epigrafe;
     b)  Dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale   dell'art.   29,  primo  comma,  del  codice  penale,
 sollevata,  in  riferimento  all'art.  3  della   Costituzione,   dal
 Tribunale amministrativo regionale della Calabria, con l'ordinanza in
 epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1999.
                        Il Presidente: Granata
                         Il redattore: Guizzi
                       Il cancelliere: Fruscella
   Depositata in cancelleria il 9 luglio 1999.
                       Il cancelliere: Fruscella
 99C0741