N. 330 SENTENZA 14 - 20 luglio 1999

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Costituzione  in giudizio - Legittimazione del Coordinamento italiano
 dei  medici  ospedalieri-Associazione  sindacale   medici   dirigenti
 (Cimo-Asmd).  Oggetto  del  giudizio  - Individuazione entro i limiti
 fissati dall'ordinanza di rimessione  -  Esclusione  di  questioni  o
 profili  ulteriori  dedotti  dalle parti. Sanita' pubblica - Servizio
 sanitario nazionale - Medici in regime di tempo pieno, che esercitino
 attivita' libero-professionale all'esterno delle strutture  pubbliche
 -  Riduzione della indennita' di tempo pieno, limitatamente al 15 per
 cento del suo importo - Denunciata irragionevolezza della disciplina,
 in contrasto con il principio di proporzionalita' della  retribuzione
 alla  quantita'  e  qualita' del lavoro svolto, nonche' disparita' di
 trattamento tra i medici che svolgono attivita' intra o  estramuraria
 e lesione del diritto al lavoro - Non fondatezza della questione.
 
 (Legge 23 dicembre 1994, n. 724, art. 4, comma 3).
 
 (Cost., artt. 3, 4 e 36).
 
(GU n.30 del 28-7-1999 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici: prof. Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv. Massimo VARI,
 dott. Cesare RUPERTO, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
 prof. Carlo MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI
 MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 4, comma 3,
 della legge 23 dicembre 1994, n.  724  (Misure  di  razionalizzazione
 della  finanza pubblica), promossi con ordinanze emesse il 22 ottobre
 1997 (n. 8 ordinanze) dal Tribunale amministrativo regionale  per  la
 Puglia,  sezione  staccata  di  Lecce,  ed  il  5  novembre  1997 dal
 Tribunale   amministrativo   regionale    per    l'Emilia    Romagna,
 rispettivamente iscritte ai nn. 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 126 e 531
 del  registro  ordinanze  1998  e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica nn. 6, 10 e  29,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1998.
   Visti  gli  atti  di  costituzione  di  G. D. R., del Coordinamento
 italiano  dei  medici   ospedalieri-associazione   sindacale   medici
 dirigenti  (Cimo-Asmd), nonche' gli atti di intervento del Presidente
 del Consiglio dei Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 23 marzo 1999 il  giudice  relatore
 Piero Alberto Capotosti;
   Uditi  gli  avv.ti Angelo Vantaggiato per G. D. R., Alberto Marconi
 per il Cimo-Asmd e l'Avvocato dello Stato Francesco Guicciardi per il
 Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Il Tribunale amministrativo regionale per la  Puglia,  sezione
 staccata di Lecce, con otto ordinanze in data 22 ottobre 1997, emesse
 in  altrettanti giudizi, ed il Tribunale amministrativo regionale per
 l'Emilia-Romagna, prima sezione di Bologna, con ordinanza in  data  5
 novembre    1997,   hanno   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n.
 724  (Misure  di  razionalizzazione  della   finanza   pubblica)   in
 riferimento  agli artt. 3 e 36 della Costituzione, nonche', il t.a.r.
 per l'Emilia-Romagna, anche all'art. 4 della Costituzione.
    2. - Le ordinanze di rimessione  del  t.a.r.  per  la  Puglia,  di
 contenuto  sostanzialmente  identico, sono state emesse nel corso dei
 giudizi instaurati da medici dipendenti di Aziende sanitarie locali e
 di  enti  ospedalieri  di  detta  regione.  I  ricorrenti  esercitano
 attivita'   libero-professionale   extra   moenia  ed  hanno  chiesto
 l'accertamento del proprio diritto a percepire  la  retribuzione  non
 decurtata ai sensi della norma impugnata, proponendo altresi' domanda
 cautelare, accolta "in via meramente interinale e provvisoria e nelle
 more  della  decisione da parte della Corte costituzionale". Identico
 oggetto ha  il  giudizio  innanzi  al  t.a.r.  per  l'Emilia-Romagna,
 promosso da alcuni medici in servizio presso l'azienda ospedaliera di
 Bologna, policlinico S. Orsola Malpighi.
   3.  -  I giudici del t.a.r. per la Puglia premettono che essi hanno
 gia' sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art.  4,
 comma 3, della legge n. 724 del 1994 in riferimento agli artt.   3  e
 36  della Costituzione e che la Corte, con ordinanza n. 255 del 1997,
 ha disposto la restituzione degli atti, affinche'  ne  riesaminassero
 la  perdurante  rilevanza  alla luce delle sopravvenute modificazioni
 del quadro normativo, indicate nell'art. 1, commi 7-15 della legge 23
 dicembre 1996, n. 662, nel d.-l. 20 giugno 1997, n.  175,  convertito
 nella  legge  7  agosto  1997,  n.  272,  concernenti  la  disciplina
 dell'attivita' libero-professionale espletata dai  medici  dipendenti
 dal  Servizio  sanitario  nazionale (S.S.N.), tenendo anche conto dei
 decreti del Ministro della sanita' 28 febbraio 1997 e 11 giugno  1997
 e   del  contratto  collettivo  nazionale  di  lavoro  relativo  alla
 dirigenza medica e veterinaria del comparto  sanitario,  sottoscritto
 in  data  5  dicembre  1996.  Secondo  il  t.a.r.  per  la Puglia, la
 modificazione del quadro normativo  di  riferimento  non  influirebbe
 sulla perdurante rilevanza della questione, in quanto i giudizi hanno
 ad  oggetto l'accertamento del diritto dei ricorrenti ad ottenere per
 l'anno 1996 una retribuzione non "decurtata del  15%  dell'indennita'
 di  tempo  pieno"  sicche'  essi  devono  applicare  proprio la norma
 denunciata.
   3.1. - I giudici a quibus sostengono che la  ratio  dell'indennita'
 prevista  dall'art.  110,  comma 1, del d.P.R.   28 novembre 1990, n.
 384, decurtata dalla norma denunziata,  e'  di  retribuire  "la  piu'
 intensa  partecipazione  alle  attivita'  istituzionali  collegate al
 rapporto di lavoro a tempo pieno" incentivando  "l'opzione  per  tale
 tipo  di  rapporto"  in  considerazione  della  maggiore durata della
 prestazione  lavorativa.   L'indennita'   avrebbe,   quindi,   natura
 retributiva,  costituendo  "il  corrispettivo  sinallagmatico  di una
 particolare prestazione di lavoro prestabilita" erogato  "in  maniera
 fissa  e  continuativa". La disposizione in esame, decurtandola senza
 prevedere una proporzionale riduzione della prestazione lavorativa, a
 loro  avviso,  avrebbe  "alterato  il  rapporto  sinallagmatico   tra
 prestazione  e  controprestazione"  in  violazione dell'art. 36 della
 Costituzione, il quale garantisce una retribuzione proporzionata alla
 quantita' e qualita'  del  lavoro,  anche  perche'  il  parametro  di
 valutazione  della  sufficienza della retribuzione sarebbe costituito
 dalla indennita' nell'importo non ridotto  attribuita  al  "personale
 medico tempo-pienista".
   I giudici amministrativi deducono che la norma censurata recherebbe
 vulnus  anche  all'art.  3  della  Costituzione, il quale, secondo la
 giurisprudenza costituzionale, garantisce la "parita' di  trattamento
 quando  uguali  siano  le  condizioni  soggettive  ed  oggettive e le
 situazioni obbiettivamente omogenee" (sentenze n. 3 del 1957;  n.  28
 del  1957;  n.  85 del 1979; n. 11 del 1981). La disposizione, a loro
 avviso, realizzerebbe una ingiustificata  disparita'  di  trattamento
 tra  i  medici ospedalieri in regime di tempo pieno, in quanto riduce
 l'indennita'   in   danno   di   quelli   che   svolgono    attivita'
 libero-professionale   extra   moenia  nonostante  essi  rendano  una
 prestazione  identica  a  quella  dei  loro  colleghi  che   non   la
 esercitano.  Inoltre,  la norma discriminerebbe ingiustificatamente i
 medici   che   esercitano   la   libera   professione   extramuraria,
 penalizzando  "una  ''scelta''  che  spesso  non  e'  tale" in quanto
 l'attivita' intra moenia in molti casi non  puo'  essere  svolta  per
 carenze ascrivibili all'amministrazione.
   4.   -   Il   t.a.r.  per  l'Emilia-Romagna  svolge  argomentazioni
 sostanzialmente analoghe a  quelle  sviluppate  nelle  ordinanze  del
 t.a.r.  per  la  Puglia in riferimento al parametro dell'art. 3 della
 Costituzione. Inoltre, il giudice a quo eccepisce che la  prestazione
 resa  dai  medici  ospedalieri  a  tempo  pieno  non  potrebbe essere
 diversamente valutata secondo che essi  espletino  o  meno  attivita'
 libero-professionale extra-moenia sicche' non sarebbe giustificata la
 differente  retribuzione  stabilita  dalla  norma  impugnata. Infine,
 secondo il Collegio, la circostanza  che  la  libera  professione  e'
 penalizzata  soltanto  qualora  sia  esercitata  al  di  fuori  della
 struttura pubblica violerebbe anche l'art. 4 della Costituzione.
   5. - Il Presidente del  Consiglio  dei  Ministri,  rappresentato  e
 difeso  dall'Avvocatura generale dello Stato, e' intervenuto in tutti
 i giudizi. In  sette  di  essi,  con  altrettanti  atti  di  identico
 contenuto,  ha  chiesto  sia  reiterata  la decisione di restituzione
 degli atti adottata con l'ordinanza n. 255  del  1997;  nel  giudizio
 relativo  al  provvedimento  di  rimessione  r.o. n. 126 del 1998, ha
 invece eccepito che la questione e' infondata.  La  difesa  erariale,
 nella  memoria depositata in prossimita' dell'udienza pubblica in uno
 dei giudizi, alla quale ha fatto rinvio negli analoghi atti difensivi
 depositati  negli  altri,  ha  svolto   argomentazioni   a   conforto
 dell'eccezione di infondatezza.
   La  difesa erariale premette che, secondo un principio generale del
 pubblico impiego, l'impiegato non puo' esercitare  nessuna  attivita'
 al  di  fuori di tale rapporto, fatta eccezione per casi particolari.
 La disciplina del regime dell'incompatibilita' dei medici ospedalieri
 risale alla legge 12  febbraio  1968,  n.  132,  che  distingueva  il
 rapporto  di  lavoro  in rapporto a tempo pieno ed a tempo definito e
 soltanto dalla scelta per il primo derivava la rinuncia all'esercizio
 dell'attivita' libero-professionale extra  ospedaliera.  I  medici  a
 tempo  pieno  potevano svolgere la "libera professione nelle camere a
 pagamento"; quelli a tempo definito potevano esercitarla al di  fuori
 delle  strutture  ospedaliere,  purche'  non  "in concorrenza con gli
 interessi dell'ospedale"  e  soltanto  ai  primi  era  attribuito  un
 "premio  di  servizio". Il d.P.R.   20 dicembre 1979, n. 761, secondo
 l'interveniente, avrebbe confermato siffatti  principi,  esplicitando
 che  finalita' dell'indennita' di tempo pieno e' quella di retribuire
 il medico a tempo  pieno  per  l'attivita'  resa  oltre  l'orario  di
 servizio  e  di indennizzarlo per il mancato esercizio dell'attivita'
 extramuraria.
   La legge 30 dicembre  1991,  n.  412,  ad  avviso  dell'Avvocatura,
 permettendo   ai  medici  a  tempo  pieno  di  esercitare  la  libera
 professione extramuraria avrebbe posto il problema della legittimita'
 dell'indennita' in esame ed il Consiglio di Stato avrebbe prospettato
 l'opportunita'  di  una  reductio  ad  equitatem  da  realizzare   in
 occasione  del  rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro.
 Pertanto,   eccepisce   la   difesa   erariale,    il    legislatore,
 nell'esercizio della propria discrezionalita', con la norma impugnata
 avrebbe  inteso  conservare una ragionevole diversita' di trattamento
 esistente da trent'anni.
   La  disposizione - sostiene, inoltre, l'interveniente - costituisce
 parte di un piu' ampio disegno di riforma, avviato con il d.lgs.   30
 dicembre   1992,   n.   502,   che   mira  a  ricondurre  l'esercizio
 dell'attivita'  libero-professionale  dei  medici  all'interno  delle
 strutture pubbliche, soprattutto dopo che e' stata loro attribuita la
 qualifica  dirigenziale  e la sanita' e' stata organizzata secondo un
 modello  aziendale,  che  agisce  in  concorrenza  con  le  strutture
 private.   Infatti,   i   medici,   proprio   in   quanto  dirigenti,
 contribuiscono alle scelte strategiche  ed  operative  delle  aziende
 nelle  quali  operano,  sicche'  la  disciplina del rapporto e' stata
 ispirata dalla finalita'  di  controbilanciare  le  nuove  regole  in
 materia di incompatibilita' e di garantire nuove entrate alle aziende
 ospedaliere.
   L'incentivazione  dell'attivita'  intra  moenia e' stata confermata
 dall'art. 1, comma 12, della  legge  23  dicembre  1996,  n.  662,  e
 perfezionata dall'art. 72, commi 4, 5, 6 e 7, della legge 23 dicembre
 1998,  n.  448, all'interno di una equilibrata valutazione di opzioni
 che hanno grande rilievo  strategico  per  lo  sviluppo  del  sistema
 sanitario  nazionale.    L'art.  36  della Costituzione, eccepisce la
 difesa erariale, neppure risulta leso, sia perche',  in  presenza  di
 circostanze   particolari,   e'  legittima  la  differenziazione  del
 trattamento  economico  di  lavoratori  subordinati   che   espletano
 identiche  mansioni,  sia  perche'  la norma riguarda la retribuzione
 complessiva  e  non  le  singole   voci   della   medesima.   Secondo
 l'interveniente,   neppure   sarebbe   vulnerato  l'art.     3  della
 Costituzione, dato che non e' ragionevole attribuire l'indennita'  di
 tempo   pieno   ai  medici  i  quali  possono  esercitare  la  libera
 professione extra moenia.
   La  norma  impugnata,  conclude  l'Avvocatura,   assolve   ad   una
 importante  funzione  in  vista dell'attuazione del nuovo assetto del
 sistema sanitario e mira ad incentivare  la  scelta  per  l'attivita'
 intramuraria. Pertanto, essa non realizza affatto una non ragionevole
 disparita'  di  trattamento,  anche  perche'  le  situazioni poste in
 comparazione non sono neppure omogenee tra loro.
   6. - In uno dei giudizi sollevati dal t.a.r. per la Puglia, sezione
 staccata di Lecce (r.o. n. 126 del 1998),  si  sono  costituiti,  con
 separati  atti,  il ricorrente, nonche' il Coordinamento italiano dei
 medici   ospedalieri-associazione    sindacale    medici    dirigenti
 (Cimo-Asmd),  i  quali  hanno  svolto argomentazioni a sostegno delle
 censure di costituzionalita'.
   6.1. - Il ricorrente, nell'atto di  costituzione  e  nella  memoria
 depositata  in  prossimita' dell'udienza pubblica, fa sostanzialmente
 proprie  le  argomentazioni  svolte  dai   giudici   rimettenti.   In
 particolare,   egli   sostiene   che   l'indennita'  di  tempo  pieno
 costituirebbe il corrispettivo per il maggiore impegno richiesto  dal
 rapporto  di  lavoro  a  tempo  pieno  e  la  sua quantificazione non
 potrebbe essere influenzata  dall'eventuale  esercizio  della  libera
 professione extra moenia. Inoltre, secondo la parte privata, la norma
 violerebbe   l'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto  il  diverso
 trattamento economico non tiene conto  del  fatto  che  molto  spesso
 l'esercizio  della  libera professione intramuraria e' impedita dalla
 mancata predisposizione da parte della pubblica amministrazione delle
 strutture necessarie a tal fine.
   Il    ricorrente    nel   giudizio   principale   svolge,   infine,
 argomentazioni dirette a dimostrare che la norma denunziata  si  pone
 in contrasto anche con gli artt. 97 e 4 della Costituzione, parametri
 non indicati nell'ordinanza del t.a.r. per la Puglia.
   6.2.   -  Il  Cimo-Asmd,  dopo  che  la  Corte  aveva  ordinato  la
 restituzione degli atti ai  giudici  amministrativi  per  il  riesame
 della  perdurante  rilevanza della questione di costituzionalita', ha
 dispiegato intervento innanzi al t.a.r. e si e'  poi  costituito  nel
 giudizio  promosso  dall'ordinanza  con  la quale e' stata nuovamente
 sollevata la questione di legittimita' costituzionale.
   L'associazione, in linea  preliminare,  svolge  argomentazioni  per
 dimostrare  di  essere legittimata a spiegare intervento nel giudizio
 di costituzionalita'.
   Nel merito, l'interveniente ricostruisce l'evoluzione normativa che
 ha  condotto  all'affermazione  del  diritto  di  svolgere  attivita'
 libero-professionale da parte del medico-pubblico dipendente e che, a
 suo  avviso,  avrebbe  inteso  incentivare  le  esperienze di pratica
 professionale, nell'interesse degli  utenti  e  della  collettivita'.
 Nel  corso  di  siffatta  evoluzione, l'art. 35 del d.P.R. n. 761 del
 1979 ha previsto che il medico con rapporto di lavoro a  tempo  pieno
 potesse    esercitare   l'attivita'   libero-professionale   soltanto
 nell'ambito  dei  servizi  e  delle  strutture  della  u.s.l.,  fatta
 eccezione  per  i  consulti  e per le consulenze non continuative; il
 medico con rapporto  di  lavoro  a  tempo  definito  poteva,  invece,
 svolgerla  anche  al  di  fuori  di  dette strutture, nel rispetto di
 determinate prescrizioni.
   L'attenuazione delle differenze tra le due tipologie  di  rapporto,
 osserva  il  Cimo-Asmd, spiegherebbe il successivo riconoscimento del
 diritto dei medici con rapporto di lavoro a tempo pieno  di  svolgere
 attivita'  libero-professionale extra moenia (4, comma 7, della legge
 30 dicembre 1991, n. 412). L'obbligo di riservare spazi adeguati  per
 l'esercizio  della  libera  professione intramuraria, da reperire, in
 casi determinati, anche mediante contratti tra  le  unita'  sanitarie
 locali  e  case  di  cura  ovvero altre strutture sanitarie pubbliche
 (artt. 4, comma 10, d.lgs. n. 502 del 1992, 1, comma 8,  della  legge
 23  dicembre  1996,  n. 662, ed art. 2 del decreto del Ministro della
 sanita' del 31 luglio  1997),  mirerebbe,  quindi,  a  garantirne  lo
 svolgimento,     bilanciando     la    piu'    rigorosa    disciplina
 dell'incompatibilita'  ed  assicurando  nuove  entrate  alle  aziende
 ospedaliere,  dotate  di  autonomia  finanziaria (sentenza n. 355 del
 1993).
   La norma denunziata, come pure l'art. 1, comma 12, della  legge  n.
 662   del   1996,   disposizione   non  censurata  nell'ordinanza  di
 rimessione,   ad   avviso   del   Cimo-Asmd,   contrasterebbero   con
 l'evoluzione   del   sistema  e  realizzerebbero  una  ingiustificata
 disparita' di trattamento, discriminando altresi'  i  medici  secondo
 che  essi  possano esercitare attivita' professionale extramuraria in
 ambulatorio,  ovvero  debbano  svolgerla  all'interno  di   strutture
 attrezzate   tecnologicamente.   Infatti,   in   quest'ultimo   caso,
 nonostante  essi  sostengano  maggiori  spese,   non   soltanto   non
 beneficiano   di   agevolazioni,  ma  subiscono  anche  la  riduzione
 dell'indennita' di tempo pieno. In tal modo, conclude  il  Cimo-Asmd,
 non  sarebbe neppure possibile trattenere nella struttura pubblica il
 medico migliore, con conseguente lesione del diritto dei singoli alla
 salute e dell'interesse della collettivita' al bene salute.
                         Considerato in diritto
   1. -  La questione di legittimita' costituzionale, sollevata con le
 ordinanze  indicate  in  epigrafe,  riguarda l'art. 4, comma 3, della
 legge 23 dicembre 1994, n. 724  (Misure  di  razionalizzazione  della
 finanza  pubblica),  nella  parte  in cui stabilisce per i medici del
 Servizio  sanitario  nazionale  in  regime  di  tempo  pieno  che  "a
 decorrere  dal  1  gennaio  1996 la corresponsione dell'indennita' di
 tempo pieno (...) e' sospesa, limitatamente al 15 per cento  del  suo
 importo,  per il personale dipendente che esercita l'attivita' libero
 professionale (...) all'esterno delle strutture sanitarie pubbliche".
   Secondo i giudici  rimettenti,  tale  decurtazione  violerebbe  gli
 artt.  3  e  36 della Costituzione, in quanto avrebbe, in modo di per
 se'  irragionevole,  alterato   "il   rapporto   sinallagmatico   tra
 prestazione  e controprestazione", rendendo cosi' la retribuzione non
 proporzionata alla quantita' e  qualita'  del  lavoro  svolto,  anche
 perche'  i  giudici a quibus ritengono che il criterio di valutazione
 della sufficienza della retribuzione sia costituito proprio da  detta
 indennita'  attribuita al "personale medico tempo-pienista". Inoltre,
 ad  avviso  dei  rimettenti,  la  disposizione  realizzerebbe   anche
 un'ingiustificata  disparita' di trattamento tra i medici ospedalieri
 con rapporto di lavoro a tempo pieno, dato che  la  riduzione  appare
 stabilita  esclusivamente  in  danno  di  quanti  di  essi esercitano
 attivita' libero-professionale extra moenia nonostante la  situazione
 sia  omologa  rispetto  a  quella dei loro colleghi che la esercitano
 intra moenia. Tale disparita' di trattamento  non  sarebbe  in  alcun
 modo  giustificata, anche perche' la norma impugnata finirebbe con il
 penalizzare "una ''scelta'' che spesso non  e'  tale",  dato  che  in
 molti  casi  l'opzione  per  l'esercizio  dell'attivita' intramuraria
 sarebbe   impedita   dalla   mancata   predisposizione,   da    parte
 dell'amministrazione, degli spazi e delle strutture necessarie a tale
 scopo.
   Infine,   secondo   il  t.a.r.  per  l'Emilia-Romagna,  l'attivita'
 libero-professionale  costituirebbe  esplicazione  del   diritto   al
 lavoro,  cosicche' la sua penalizzazione, qualora essa sia esercitata
 al di fuori della struttura pubblica sanitaria, determinerebbe  anche
 la lesione dell'art. 4 della Costituzione.
   I  predetti giudizi riguardano una medesima norma, sotto profili in
 larga parte coincidenti, cosicche' appare opportuno che siano riuniti
 per essere decisi con un'unica sentenza.
   2. - In via  preliminare  va  riconosciuta  la  legittimazione  del
 Cimo-Asmd  a costituirsi nel giudizio innanzi a questa Corte, poiche'
 tale associazione ha dispiegato  intervento  in  uno  dei  giudizi  a
 quibus  anche se successivamente alla ordinanza di restituzione degli
 atti n. 255 del 1997, ma comunque prima  della  rimessione  a  questa
 Corte delle ordinanze ora in esame.
   Ancora  in via preliminare va osservato che il t.a.r. per la Puglia
 ha  plausibilmente  argomentato  sulla  perdurante  rilevanza   della
 questione, oggetto della predetta ordinanza di questa Corte.
   3. - Nel merito, la questione non e' fondata.
   Va  innanzi  tutto  precisato  che il thema decidendum del presente
 giudizio deve limitarsi esclusivamente all'art.  4,  comma  3,  della
 legge  23  dicembre  1994,  n.724 in riferimento agli artt. 3, 4 e 36
 della   Costituzione,   poiche'   non   possono   essere   presi   in
 considerazione,  oltre i limiti fissati dall'ordinanza di rimessione,
 ulteriori  questioni  o  profili  di  costituzionalita' dedotti dalle
 parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a
 quo  sia  che  siano  comunque  diretti  ad  ampliare  o   modificare
 successivamente  il  contenuto  della  stessa ordinanza (ex plurimis:
 sentenze n. 49 del 1999 e n.  63 del 1998).
   4. - L'ordinanza  di  rimessione,  in  primo  luogo,  prospetta  la
 violazione  dell'art.  36  della Costituzione sotto il profilo che la
 norma impugnata avrebbe imposto ad una sola categoria  del  personale
 medico  la riduzione di una delle voci della retribuzione, stabilendo
 cosi' un trattamento  economico  peggiorativo,  senza  prevedere  una
 proporzionale riduzione della prestazione lavorativa.
   In  proposito,  va  osservato,  innanzi  tutto, che l'art. 36 della
 Costituzione, secondo la giurisprudenza costituzionale, garantisce al
 lavoratore una retribuzione che, nella sua globalita',  gli  assicuri
 un'esistenza  libera  e  dignitosa,  cosicche'  la  riduzione  di una
 singola componente della retribuzione non  puo',  di  per  se'  sola,
 costituire una lesione della disposizione costituzionale (sentenze n.
 15  del  1995,  n.  164  del  1994  e n. 1 del 1986). Tanto piu' che,
 secondo un  consolidato  principio  della  giurisprudenza  di  questa
 Corte,  il  divieto  di  reformatio  in peius rappresenta un criterio
 ermeneutico del tutto inidoneo, in assenza di una specifica copertura
 costituzionale, a vincolare il legislatore (cfr. da  ultimo  sentenza
 n.  219  del 1998), al quale quindi non e' vietato di approvare norme
 le quali modifichino sfavorevolmente, senza che per questo  solo  sia
 vulnerato  l'art.  36, primo comma, della Costituzione, la disciplina
 dei rapporti di durata neppure nel caso  in  cui  riguardino  diritti
 soggettivi  perfetti,  purche'  tali  modifiche  non trasmodino in un
 regolamento irrazionale o incidano arbitrariamente  sulle  situazioni
 sostanziali  poste  in essere da leggi precedenti (sentenze nn. 417 e
 179 del 1996, n. 390 del 1995).
   Secondo l'indirizzo di  questa  Corte,  dunque,  l'art.  36,  primo
 comma,  della  Costituzione garantisce al lavoratore una retribuzione
 proporzionata alla quantita'  e  qualita'  del  lavoro,  senza  pero'
 impedire  che  si  possa procedere a nuove valutazioni e a variare di
 conseguenza l'entita' delle singole voci retributive (sentenza n.  32
 del  1986), poiche' rientrano nella discrezionalita' del legislatore,
 fermo il limite della ragionevolezza, tanto la  differenziazione  del
 trattamento  economico  di  categorie  prima  egualmente  retribuite,
 quanto l'attribuzione in maniera uniforme di  determinate  componenti
 della  retribuzione  o  di particolari indennita' (sentenze n. 63 del
 1998, n. 65 del 1997).
   Alla  luce  di  questi  principi  giurisprudenziali,  pertanto,  la
 riduzione  dell'indennita' in questione, di per se', non viola l'art.
 36 della Costituzione, anche se  occorre  accertare,  in  riferimento
 all'ulteriore  parametro dell'art. 3 della Costituzione, che la norma
 impugnata non abbia un contenuto arbitrario e preveda una ragionevole
 giustificazione  della  diversita'  di  trattamento   rispetto   alle
 situazioni poste a raffronto.
   5.  -  Ai fini di una piu' precisa individuazione della ratio della
 norma censurata puo' essere utile il  suo  inquadramento  nell'ambito
 dell'evoluzione   legislativa   del   rapporto   di  lavoro  e  delle
 incompatibilita'  inerenti  ai   medici   dipendenti   pubblici.   In
 proposito,  questa  Corte aveva considerato che "gia' la preesistente
 normativa (art. 19 del r.d. 30 settembre 1938, n. 1631;  art.  13-bis
 del  d.lgs.  3  maggio  1948, n. 949, ratificato con modificazioni ed
 aggiunte dalla legge 4 novembre 1951 n. 1188; art. 3 della  legge  10
 maggio  1964, n. 336) vietava al personale sanitario ospedaliero ogni
 forma di esercizio  professionale  esterno  in  concorrenza  con  gli
 interessi   dell'ospedale"   (sentenza   n.  103  del  1977).  Ma  e'
 specialmente con l'art. 43, lett.  d) della legge 12  febbraio  1968,
 n.  132  che  veniva stabilito il principio dell'incompatibilita' tra
 rapporto di servizio "a tempo definito"  del  medico  ospedaliero  ed
 esercizio  professionale  in  case  di cura private, proprio perche',
 rispetto alla scelta legislativa di potenziare con nuove strutture il
 servizio pubblico di assistenza ospedaliera, avrebbe avuto -  secondo
 la  ricordata  sentenza  n.  103  del  1977  -  "effetti  negativi ed
 impeditivi   il   consentire    alla    collaterale    organizzazione
 dell'assistenza  sanitaria  privata  di  assorbire, con impegni quasi
 sempre non accidentali, il personale sanitario ospedaliero".
   Questa scelta legislativa veniva confermata dal decreto delegato 27
 marzo 1969, n. 130, che, dando attuazione al  suddetto  principio  di
 incompatibilita',  definiva  compiutamente  due  diverse tipologie di
 rapporti. Esso infatti stabiliva, all'art.  24,  che  il  rapporto  a
 "tempo  pieno"  -  al quale il medico e' ammesso "a domanda" comporta
 l'attribuzione di un "premio di servizio", ma  anche  "rinuncia  alla
 attivita'    libero-professionale    extra-ospedaliera"   e   "totale
 disponibilita'"  per  i  compiti  d'istituto  dell'ente  ospedaliero,
 mentre  il  rapporto  a  "tempo  definito"  comporta "la facolta' del
 libero esercizio professionale, anche fuori  dell'ospedale",  purche'
 non  in  contrasto con le incompatibilita' disposte dal predetto art.
 43, lett. d) della citata legge n. 132.
   L'impianto di  tale  disciplina  neppure  e'  stato,  sotto  questi
 profili,  sostanzialmente  modificato  dalla  riforma sanitaria della
 fine degli anni Settanta, la quale anzi ha espressamente ribadito  il
 diritto   dei   medici   a  "tempo  pieno"  di  esercitare  attivita'
 libero-professionale intramurale, e cioe' esclusivamente "nell'ambito
 dei servizi, presidi e strutture dell'unita' sanitaria locale,  sulla
 base  di  norme  regionali",  limitandola,  fuori di essa, soltanto a
 "consulti e consulenze non continuativi", autorizzati "sulla base  di
 norme regionali" (art.  35, secondo comma, lettere c) e d) del d.P.R.
 20  dicembre  1979,  n.    761).  Restava confermata per i medici con
 rapporto di servizio a "tempo definito" la  facolta'  di  svolgere  -
 purche'  in orari compatibili e non in contrasto con gli interessi ed
 i   fini   istituzionali   dell'unita'   sanitaria-libera   attivita'
 professionale  extramuraria,  cioe' al di fuori dell'unita' sanitaria
 locale,  anche  "in  regime  convenzionale",  in   conformita'   alle
 direttive degli accordi nazionali (art. 35, comma 5, lett. c) e d).
   L'evoluzione  legislativa  del  sistema sanitario pubblico compiuta
 fino a quel momento indicava dunque una precisa  distinzione  in  due
 tipi  del  rapporto  di  servizio  dei  medici,  sulla  base  di  una
 diversita' di impegni, modalita' ed  orario  di  lavoro,  nonche'  in
 relazione   alla   peculiare   disciplina  della  libera  professione
 intramuraria.
   5.1.  -  In  questo  quadro  normativo,  si  e'  inserito  in  modo
 innovativo  l'art.  4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412,
 con il quale il legislatore, secondo questa Corte, ha inteso  sancire
 "con  rigore  il  principio di unicita' del rapporto di lavoro con il
 Servizio  sanitario  nazionale,  avendolo  ritenuto   particolarmente
 valido al fine di soddisfare l'esigenza, costituzionalmente protetta,
 di  restituire massima efficienza ed operativita' alla rete sanitaria
 pubblica" (sentenza n.  457  del  1993).  Con  questa  disciplina  il
 legislatore  vietava  ai  medici  a  "tempo  definito" prestazioni di
 lavoro in regime convenzionale o presso strutture  convenzionate,  ma
 in   compenso   veniva   a   liberalizzare   del   tutto  l'esercizio
 dell'attivita'  professionale  sia  extra  che  intramuraria   e   ad
 "incentivare   la  scelta  per  il  rapporto  di  lavoro  dipendente,
 assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal  "tempo
 definito"  al  "tempo  pieno" anche in soprannumero" (sentenza n. 457
 del  1993),  con   conseguente   incremento   di   retribuzione.   La
 liberalizzazione  dell'esercizio  della  attivita'  professionale  in
 regime esclusivamente privatistico per tutto il  personale  sanitario
 comportava,  d'altra  parte,  che  anche  i  medici  a  "tempo pieno"
 potessero  svolgere  attivita'  extramuraria,  senza  la   precedente
 limitazione ai soli consulti e consulenze non continuativi.
   5.2.  -  La  nuova  disciplina  delle  incompatibilita'  mediche  e
 dell'attivita' libero-professionale, disposta dalla citata  legge  n.
 412,   si   conformava,   per   certi   aspetti,  alla  logica  della
 aziendalizzazione del Servizio sanitario  e  della  "privatizzazione"
 del rapporto di lavoro del personale dipendente accolta dagli artt. 1
 e  2  della  legge 23 ottobre 1992, n. 421. Logica che si evidenziava
 piu' chiaramente con  i  decreti  delegati  n.  502  del  1992  (come
 modificato  dal  d.lgs.  n.  517  del 1993) e n. 29 del 1993, i quali
 fissavano il  principio  dell'unicita'  del  ruolo  dirigenziale  del
 personale  sanitario  in  un  quadro di progressiva aziendalizzazione
 delle unita' sanitarie locali e degli ospedali.   Si veniva  cosi'  a
 determinare una situazione in cui soggetti - pubblici e privati - che
 erogavano  prestazioni  per  conto  del Servizio sanitario nazionale,
 potevano  essere  scelti  liberamente  dal   cittadino   e   venivano
 retribuiti  in base alle prestazioni rese. In questo modo si veniva a
 ribadire il principio di concorrenzialita'  tra  strutture  sanitarie
 pubbliche   e  strutture  sanitarie  private,  alla  cui  luce  pero'
 rischiava di apparire contraddittoria la  facolta',  riconosciuta  al
 sanitario    dipendente    pubblico,    di   esercitare   l'attivita'
 professionale anche  all'esterno  della  struttura  di  appartenenza.
 Tanto  piu', se si considera che il dirigente medico, in questo nuovo
 modello organizzativo, appariva in grado di contribuire efficacemente
 a determinare sia le scelte strategiche  ed  operative  dell'azienda,
 attraverso  la  partecipazione  al Consiglio dei sanitari, sia quelle
 specifiche del dipartimento o del servizio, cui era preposto.
   Esistevano quindi le premesse per il profilarsi di  una  situazione
 di  conflitto  di  interessi,  qualora  il  medico  svolgesse  libera
 attivita' professionale extramuraria. E proprio  per  evitare  questa
 situazione,  il  legislatore, nella sua discrezionalita', da un lato,
 ha adottato misure per estendere il  divieto  di  svolgere  attivita'
 extramuraria  anche riguardo a istituzioni e strutture private, delle
 quali  l'unita'  sanitaria  locale  si   avvaleva   per   prestazioni
 specialistiche,  di  diagnostica  strumentale  e  di  laboratorio  ed
 ospedaliere (art. 8, commi 5  e  9  del  d.lgs.  n.  502  del  1992).
 Dall'altro  lato,  ha  adottato  misure  per  incentivare l'attivita'
 professionale intramuraria, che questa Corte aveva  gia'  considerato
 elemento   qualificante  della  riforma  sanitaria,  in  quanto,  tra
 l'altro, permette  che  "le  aziende  ospedaliere,  dotate  di  piena
 autonomia  finanziaria,  possano  effettivamente beneficiare di nuove
 entrate" (sentenza n. 355 del 1993). In effetti la libera professione
 intramuraria, che si  e'  sempre  piu'  venuta  caratterizzando  come
 tertium  genus  per  la compresenza, accanto agli elementi propri del
 rapporto d'opera professionale,  di  altri  propri  del  rapporto  di
 lavoro  subordinato  -  quali, ad esempio, il trattamento fiscale, la
 fissazione delle tariffe e la determinazione del riparto dei compensi
 da parte dell'amministrazione - puo' apparire uno strumento utile per
 il conseguimento  degli  scopi  assegnati  alle  strutture  sanitarie
 pubbliche.
   In  questo  ordine  di  idee  si  colloca  la  norma censurata, che
 prevedendo una riduzione dell'indennita' per i medici a "tempo pieno"
 che svolgono attivita' professionale extramuraria, si  inserisce  nel
 prospettato  disegno  legislativo  diretto  a  disincentivare,  anche
 attraverso la dichiarata incompatibilita' tra i due tipi di attivita'
 professionale (art. 1, comma 5, della legge  n.  662  del  1996),  la
 scelta  per  la  libera  professione  extramuraria e diretto invece a
 funzionalizzare  l'attivita'  intramuraria  rispetto  agli  obiettivi
 delle  strutture sanitarie pubbliche, prevedendo forme di conversione
 dell'interesse esclusivo del singolo  medico  all'espletamento  della
 professione  in  interesse  concorrente dell'azienda ospedaliera, che
 potrebbe accrescere la propria capacita' di offerta anche "attraverso
 il ricorso all'attivita' libero-professionale intramuraria" (art.  3,
 comma  12,  lett. a) del d.lgs. n. 124 del 1998). In questo modo tale
 attivita' appare in grado non solo di assicurare al servizio pubblico
 sanitario maggiori entrate, ma di realizzare  anche,  in  conseguenza
 dell'innovazione del sistema di remunerazione delle prestazioni (art.
 4,  comma  7-ter,  del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto dall'art. 6
 della legge n.  724 del 1994), economie di gestione.
   6. - Nel quadro di una evoluzione legislativa diretta  a  conferire
 maggiore  efficienza,  anche  attraverso  innovazioni del rapporto di
 lavoro dei  dipendenti,  all'organizzazione  della  sanita'  pubblica
 cosi'  da  renderla  concorrenziale  con quella privata, non solo non
 appare  irragionevole   la   previsione   di   limiti   all'esercizio
 dell'attivita'  libero-professionale da parte dei medici del Servizio
 sanitario nazionale (ordinanze n. 450 e  n.  214  del  1994),  ma  si
 giustifica  anche  una diversa incidenza delle componenti retributive
 delle  varie  forme  nelle  quali  tale  attivita'  si  esplica,   in
 proporzione  alla  differente  attitudine  a realizzare gli obiettivi
 fissati dalla legge.
   Ne',  in  particolare,  viola  gli  artt.  3  e  36  la   riduzione
 dell'indennita'  di  tempo  pieno, disposta dalla norma censurata, in
 quanto  tale  misura,  mentre  appare  coerente  con   le   finalita'
 legislative  di incentivazione dell'attivita' intramuraria non sembra
 incongrua sul piano applicativo, poiche' incide sulla  indennita'  di
 tempo  pieno,  la  quale,  come  e'  noto,  ha  anche  la funzione di
 compensare   i   mancati   proventi   derivanti   dallo   svolgimento
 dell'attivita'  professionale  extramuraria. D'altronde, la riduzione
 dell'indennita' e' stata disposta con decorrenza differita nel tempo,
 nell'ambito di precise modalita'  di  opzione  a  favore  dell'uno  o
 dell'altro  regime  di lavoro, cosicche' la situazione in cui viene a
 trovarsi il medico  a  "tempo  pieno"  che  espleta  anche  attivita'
 extramuraria  e'  del  tutto peculiare, costituendo la conseguenza di
 una sua libera scelta; il che rappresenta un ulteriore profilo di non
 irragionevolezza della disposizione (sentenza n. 457 del 1993).
   D'altra   parte,   l'operativita'   delle  molteplici  disposizioni
 dirette, sulla base di diversi modelli organizzativi, a  garantire  -
 anche attraverso la previsione di specifici obblighi e di correlative
 responsabilita'   gravanti   sui  direttori  generali  delle  aziende
 sanitarie - ai medici dipendenti dal Servizio sanitario nazionale  la
 concreta   possibilita'   di   esercitare   la   libera   professione
 intramuraria non puo'  essere  vanificata  da  difficolta'  attuative
 generalmente  riconducibili  ad inadempimenti delle aziende sanitarie
 locali.
   7. - Una volta accertato che la  disposizione  censurata  non  puo'
 ritenersi  irragionevole  e che anzi essa e' ispirata dall'intento di
 garantire l'efficienza  dell'organizzazione  sanitaria  pubblica,  va
 esclusa  anche  la violazione dell'art. 4 della Costituzione. Innanzi
 tutto va considerato che questa disposizione  concerne  precipuamente
 l'accesso  al  mercato  del  lavoro (tra le piu' recenti, sentenza n.
 293 del 1997). In secondo luogo, va rilevato che la  denunciata  -  e
 comunque   indiretta   -   limitazione   all'esercizio  della  libera
 professione, peraltro frutto di una precisa scelta del medico,  viene
 posta  quale forma di tutela di altri valori, pure costituzionalmente
 garantiti, a  seguito  di  un  bilanciamento  non  irragionevole  tra
 interessi  contrapposti  (sentenza  n. 457 del 1993). In ogni caso va
 rilevato che dal riconoscimento  dell'importanza  costituzionale  del
 lavoro,  non deriva l'impossibilita' di prevedere condizioni e limiti
 per l'esercizio del relativo diritto  (sentenza  n.  103  del  1977),
 anche  nelle  forme  dell'incentivazione  di taluni tipi di rapporto,
 purche' essi siano preordinati alla tutela di altri  interessi  e  di
 altre  esigenze  sociali  parimenti  fatti  oggetto, come nel caso in
 esame, di protezione costituzionale.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti  i  giudizi,  dichiara  non   fondata   la   questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  comma 3, della legge  23
 dicembre 1994, n. 724  (Misure  di  razionalizzazione  della  finanza
 pubblica),  sollevata  in  riferimento  agli  artt.  3,  4 e 36 della
 Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale  per  la  Puglia,
 sezione  staccata  di Lecce, e dal Tribunale amministrativo regionale
 per l'Emilia-Romagna, prima sezione  di  Bologna,  con  le  ordinanze
 indicate in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.
                        Il Presidente: Granata
                        Il redattore: Capotosti
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 20 luglio 1999.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
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