N. 590 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 luglio 1999

                                N. 590
  Ordinanza  emessa  il  12  luglio  1999  dal  tribunale di Monza nel
 procedimento civile vertente tra fallimento "Progetto CAM  S.r.l."  e
 Banca Popolare di Milano, Soc. coop. a r.l.
 Fallimento   -   Azione  revocatoria  fallimentare  -  Incidenza  sui
    pagamenti  di  debiti  liquidi  ed   esigibili,   effettuati   dal
    fallimento con mezzi "normali" nell'anno anteriore al fallimento -
    Disparita'   di   trattamento  fra  creditori  accipienti  (stante
    l'esenzione dalla revocatoria dei pagamenti  di  cui  beneficiano,
    secondo  il  diritto  vivente,  le  imprese in regime di monopolio
    legale) - Violazione del principio di eguaglianza  -  Lesione  dei
    diritti di azione e di difesa (non potendo l'accipiente evitare il
    rischio  di  restituzione,  se  non incorrendo in mora credendi) -
    Lesione della liberta' di iniziativa economica.
 (R.d.-l., 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, comma 2).
 (Cost., artt. 3, 24 e 41).
(GU n.43 del 27-10-1999 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza  nel  procedimento  civile  di
 primo  grado  rubricato al numero di  ruolo generale sopraindicato, e
 vertente tra fallimento della  societa'  "Progetto  CAM  S.r.l.",  in
 persona  del curatore fallimentare dott. Nelso Tilatti, rappresentato
 e  difeso  in  causa  dall'avv.  Marco  Terenghi   ed   elettivamente
 domiciliato  presso lo studio di quest'ultimo, in Monza, via Talamoni
 n. 3, giusta delega in atti, attore e la "Banca Popolare di Milano  -
 societa'  cooperativa  a  responsabilita'  limitata",  in persona del
 procuratore generale avv. prof. Vincenzo Mariconda,  rappresentata  e
 difesa  in  causa  dal  predetto  avv.  Vincenzo  Mariconda,  nonche'
 dall'avv. Edoardo Zucca ed elettivamente domiciliata presso lo studio
 di quest'ultimo, in Monza, via F. Crispi  n.  12,  giusta  delega  in
 atti, convenuta;
                           Rilevato in fatto
   Con  atto  di  citazione  notificato  in  data  16  giugno  1998 il
 fallimento della societa'  "Progetto  CAM  S.r.l.",  in  persona  del
 curatore fallimentare, ha convenuto in giudizio la "Banca Popolare di
 Milano"  chiedendo in via revocatoria la dichiarazione di inefficacia
 relativa e la restituzione delle rimesse - per l'importo  complessivo
 di  L.  760.548.266  -  affluite  su un conto corrente intestato alla
 societa' fallita (n.   122/08701) nel corso  dell'anno  anteriore  al
 fallimento (dichiarato, quest'ultimo, in data 12 luglio 1997).
   La  domanda  revocatoria  e'  stata  formulata,  in  tesi, ai sensi
 dell'art.  67, secondo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 ("Disciplina
 del  fallimento,  del  concordato  preventivo,   dell'amministrazione
 controllata  e  della  liquidazione coatta amministrativa"; breviter:
 L.F. ovvero legge fallimentare) ed in via  meramente  subordinata  ai
 sensi  del primo comma, n. 2, della stessa norma: nel primo caso come
 domanda avente ad oggetto  il  pagamento  (con  mezzi  "normali")  di
 debiti  scaduti; nel secondo, per l'ipotesi di ritenuta "anormalita'"
 dei predetti atti solutori.
   Si  e'  costituita  in  giudizio  la  banca  convenuta,  sollevando
 pregiudizialmente  eccezione  di nullita' dell'atto di citazione (per
 assunta indeterminatezza  del  suo  oggetto),  nonche'  eccezione  di
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  67, secondo comma, L.F. in
 relazione all'art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n. 52  (cd.  legge
 factoring)  per  assunta  violazione  del  principio  di  uguaglianza
 sancito dall'art. 3, primo  comma  della  Costituzione;  ha  comunque
 concluso  nel  merito chiedendo il rigetto delle avverse domande, per
 difetto dei relativi presupposti (prova della scientia decoctionis  e
 natura solutoria delle rimesse).
   Le  parti  si  sono  poi  scambiate comparse ex art. 180 c.p.c.; e'
 stato inutilmente esperito il tentativo di conciliazione e sono state
 depositate memorie istruttorie.
   Ritenendo influente e pregiudiziale ai fini  del  decidere  l'esame
 della  questione  di  costituzionalita'  sollevata  dalla  convenuta,
 questo giudice  ha  invitato  le  parti  a  precisare  le  rispettive
 conclusioni.
   Rassegnate   queste   ultime   all'udienza   del   15  aprile  1999
 (conformemente a quelle gia' assunte  negli  atti  introduttivi),  la
 causa e' stata quindi trattenuta in decisione, previa concessione dei
 termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito degli atti conclusionali.
                          Ritenuto in diritto
   1. - La questione di costituzionalita' dell'art. 67, secondo comma,
 L.F.  sollevata  dalla  banca  convenuta e' senza dubbio rilevante ai
 fini del giudizio.
   Questo  giudice  ha  infatti  gia'  ritenuto  di  non   accogliere,
 ritenendola  infondata,  l'altra eccezione pregiudiziale (di nullita'
 della citazione) sollevata dalla "Banca Popolare di Milano" e quindi,
 se si prescindesse dalla  questione  di  costituzionalita',  dovrebbe
 procedersi  direttamente  all'esame del merito facendosi applicazione
 proprio della norma censurata (art. 67, secondo comma, L.F.).
   1.a) Quanto all'infondatezza dell'eccezione di  nullita'  dell'atto
 introduttivo,  essa e' dimostrata dallo stesso tenore letterale della
 citazione, nella quale il curatore ha analiticamente individuato -  a
 dispetto   dell'immotivata   critica  rivoltagli  dalla  convenuta  -
 ciascuna rimessa da lui ritenuta revocabile.   Peraltro la  citazione
 e' stata anche integrata da una comparsa ex art. 180 c.p.c. in cui il
 curatore  ha  indicato  ancor piu' precisamente l'importo di ciascuna
 rimessa, le relative date di contabilizzazione  ed  esecuzione  (data
 per   valuta,   data   di   annotazione,   data  di  disponibilita'),
 raffrontando persino ogni singola operazione  di  accredito  con  gli
 antecedenti  prelievi  al  fine  di  determinare  in modo completo ed
 irrefutabile  il  saldo esistente al momento di ciascuna rimessa.  Il
 petitum della domanda risulta quindi espresso in modo chiaro, certo e
 determinato; da cio' l'infondatezza dell'eccezione di nullita'  della
 citazione,  che,  di  conseguenza,  non puo' precludere l'esame della
 domanda nel merito.
   1.b) Non v'e' dubbio, peraltro, che, decidendo nel  merito,  dovra'
 farsi applicazione della norma censurata.
   La  domanda  revocatoria  proposta  dal  curatore  e' stata infatti
 formulata in via principale proprio ai sensi  dell'art.  67,  secondo
 comma, L.F.  e siccome i suoi presupposti, in base ad una delibazione
 meramente  incidentale,  sembrerebbero  effettivamente sussistenti in
 concreto, non sarebbe nemmeno ragionevole ipotizzarne il  rigetto  de
 plano,  potendo  semmai  giudicarsene piu' verosimile l'accoglimento.
 Del resto il curatore ha gia' prodotto adeguata documentazione sia  a
 riprova de scientia decoctionis della convenuta (pendenza certificata
 di  numerose  procedure  esecutive mobiliari a partire dai primi mesi
 del 1996; esistenza certificata di numerosi  protesti  di  assegni  e
 cambiali  a  partire  dal  2  ottobre  1996; situazioni, queste, che,
 essendo  note  ed  ampiamente  pubblicizzate,  potrebbero  integrare,
 unitamente  alla qualita' professionale della banca convenuta, quelle
 presunzioni  gravi,  precise  e  concordanti  da  cui  desumere   con
 affidante  tranquillita' - secondo gli insegnamenti della S. Corte di
 Cassazione - il factum  demonstrandum  ed  ignoto  consistente  nella
 consapevolezza  circa  lo stato di insolvenza della fallita: v. Cass.
 28 aprile 1998, n. 4318; Cass. 13 settembre 1997, n. 9075;  Cass.  20
 agosto 1997, n. 7757; Cass. 28 maggio 1997, n. 4731; Cass. 23 gennaio
 1997, n. 699; Cass.  11 febbraio 1995, n. 1545; Cass. 29 aprile 1994,
 n.  4169;  Cass.  6 novembre 1993, n. 11013; Cass. 20 maggio 1993, n.
 5742); sia della natura solutoria  delle  rimesse  medesime  (essendo
 incontroverso  che  il conto corrente su cui sono confluite fosse non
 affidato, e che i singoli accrediti  oggetto  di  revoca,  in  quanto
 avvenuti  volta a volta in presenza di "scoperti", costituenti - come
 tali - crediti  scaduti  ed  immediatamente  esigibili  della  banca,
 tendessero a ripianarli con funzione solutoria).  Inevitabile sarebbe
 dunque   l'applicazione   dei   consolidati  principi  interpretativi
 prospettati dalla S. Corte  di  Cassazione  in  subiecta  materia,  e
 ricostruendosi  l'andamento  del  conto  in  base al piu' accreditato
 criterio del cd. "saldo disponibile" (Cass. 3 gennaio  1996,  n.  12;
 Cass.  15  novembre  1994,  n.  9591;  Cass. 22 marzo 1994, n. 2744),
 pressocche' tutti i versamenti in conto di cui il curatore ha chiesto
 la revoca risulterebbero effettuati volta  a  volta  in  presenza  di
 scoperti  di  variabile  entita'.    Donde, di conserva, la rilevanza
 della questione, non potendo attribuirsi nemmeno alcun  significativo
 rilievo,  ai fini del decidere, a quella tesi della giurisprudenza di
 merito invocata dalla convenuta - e rimasta peraltro  finora  isolata
 (trib. Milano 1 febbraio 1996) - che, facendo ricorso ad un'opinabile
 amplificazione  della  nozione  di  contestualita' logica al posto di
 quella  di  contemporaneita'  cronologica,  ha  prospettato  la   non
 revocabilita'  delle  cd.  "operazioni  bilanciate",  ossia di quelle
 operazioni rientranti nella programmata esecuzione  -  da  parte  del
 correntista,  con  l'assenso  della  banca  -  di prelievi con valuta
 anteriore a quella dei versamenti, ma nella  ragionevole  convinzione
 della certa disponibilita' a breve dei secondi.
   Non  solo, infatti, tale prospettazione contrasta in essenza con il
 ricordato e consolidato orientamento della Cassazione  nel  punto  in
 cui  presume,  a differenza di questo, che i prelievi effettuati allo
 scoperto (alla luce del cd. saldo "disponibile") non  determinino  un
 credito  immediatamente  esigibile  della  banca, rispetto al quale i
 successivi versamenti abbiano funzione solutoria; ma presuppone anche
 una differenza concettuale, per la verita' del  tutto  insussistente,
 con le cd. anticipazioni "precarie" o "di fatto", gia' ben note nella
 prassi bancaria, della cui natura creditizia pero' - equivalendo esse
 a  null'altro  che a singole operazioni di mutuo o di anticipazione -
 non si e' mai seriamente dubitato, non potendo di conseguenza nemmeno
 dubitarsi  della  natura  solutoria  dei  versamenti  successivamente
 effettuati per ripianare lo scoperto da esse determinato.  Perdippiu'
 la predetta tesi sembra presupporre che le operazioni bilanciate, per
 essere    qualificate   come   tali,   oltre   a   succedersi   quasi
 contestualmente sul  piano  oggettivo,  debbano  essere  state  anche
 programmate  come  tali, sul piano soggettivo, per un mutuo, anche se
 tacito, accordo fra le parti (ammesso e non concesso che  un  accordo
 non  formalizzato  per  iscritto  sia  ancora  ammissibile dinanzi al
 vigente testo dell'art. 117 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385,  cd.
 "legge  bancaria",  che  invece  prevede la forma scritta per tutti i
 contratti bancari, nessuno escluso): ma la prova di tale  consapevole
 programma   e'   rimasta  del  tutto  carente  nel  caso  di  specie,
 derivandone per questa via anche la pratica impossibilita' - ai  fini
 di  escludere  la  positiva  applicazione dell'art. 67, secondo comma
 L.F. - di fare  ricorso  a  questa  tanto  nuova,  quanto  opinabile,
 proposta interpretativa.
   2.  -  Deve  poi  ritenersi  che la questione di costituzionalita',
 oltre che rilevante, sia  anche  non  manifestamente  infondata,  per
 quanto  non  gia'  in  ragione  dei  profili  suggeriti  dalla  banca
 convenuta, bensi' alla luce di  ulteriori  criteri  di  giudizio  che
 questo giudice intende rilevare ex officio.
   2.a)  La convenuta sospetta una lesione al principio costituzionale
 di uguaglianza confrontando il diverso  e  deteriore  trattamento  ad
 essa riservato dall'art. 67, secondo comma, L.F. rispetto a quello di
 maggior favore riservato dall'art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n.
 52  alle  societa'  finanziarie che svolgano attivita' di acquisto di
 crediti d'impresa: cio' perche', mentre la prima  norma  sottopone  a
 revocatoria  le  rimesse  di  conto  corrente  anche  se  destinate a
 ripianare scoperti determinati da mera anticipazione di  provvista  a
 favore  del  cliente (poi fallito); la seconda, al contrario, esonera
 le societa' di factoring dalla revocatoria dei  pagamenti  effettuati
 dal  fallito  per  estinguere  crediti  che  esse abbiano acquistato,
 individuando in tal caso un diverso legittimato passivo  dell'azione,
 vale  a  dire il creditore cedente.  Secondo la convenuta la predetta
 discriminazione   sarebbe   irragionevole   dinanzi   a    situazioni
 sostanzialmente,  anche  se  non  formalmente, identiche, non potendo
 ravvisarsi alcuna differenza di  rilievo  fra  la  posizione  di  una
 societa'  di  factoring  che,  avendo  acquistato un credito verso il
 fallito, venga poi pagata da quest'ultimo, e quella di una banca che,
 per consentire al fallito di pagare i suoi  creditori  (ivi  comprese
 anche   le  societa'  di  factoring),  ne  anticipi  il  controvalore
 ricevendo  successivamente  rimesse  meramente   ripianatorie   della
 provvista.    Cosi'  brevemente  illustrato  l'iter logico in base al
 quale la convenuta ha impostato il dubbio di costituzionalita', se ne
 desume  pero'  come  la  denunciata disparita' di trattamento, pur in
 apparenza  sussistente,  tuttavia  da  un  lato   non   sia   affatto
 determinata  dall'art.  67,  secondo comma, L.F., e come, dall'altro,
 essa non ridondi direttamente in danno delle banche.  Quanto al primo
 aspetto,  e'  infatti  evidente  che  una  discriminazione   potrebbe
 giudicarsi  semmai prodotta dalla diversa norma invocata come termine
 di confronto, vale a dire dall'art. 6 della legge 21  febbraio  1991,
 n.  52, che pero' non e' oggetto di diretta applicazione in casu e la
 cui eventuale incostituzionalita', di conseguenza,  non  puo'  essere
 oggetto  di  valutazione  nel  presente giudizio.   E' infatti questa
 recente norma speciale  a  determinare,  esonerando  le  societa'  di
 factoring  dalla  revocatoria dei pagamenti, un trattamento di favore
 per tali societa' in deroga alla generale applicabilita'  del  regime
 revocatorio.  Di conseguenza solo questa norma potrebbe giudicarsi in
 contrasto  con il principio costituzionale di uguaglianza, non invece
 l'altra, com'e' dimostrato, peraltro, dalla considerazione  che,  per
 eliminare  il  vulnus  inferto  a tale principio, sarebbe sufficiente
 abrogare la norma speciale, lasciando in vita l'art. 67 L.F.   Quanto
 al secondo aspetto, non le banche, ma semmai i creditori che cedano i
 propri crediti verso il fallito alle societa' di factoring dovrebbero
 dolersi  della  disparita'  di trattamento loro riservata dalla norma
 speciale, visto che la revocatoria si rivolge nei  loro  confronti  e
 non   nei  confronti  delle  societa'  di  factoring,  pur  ricevendo
 materialmente queste ultime, e non i primi, i pagamenti del  fallito.
 Le  banche  invece,  una  volta  accertata  la natura solutoria delle
 rimesse affluite su conti scoperti del fallito, non subiscono  alcuna
 effettiva  discriminazione  rispetto  a  tutti  gli  altri  creditori
 assoggettati dall'art. 67 L.F., per il medesimo titolo,  alla  revoca
 dei  pagamenti  (cfr.  Cass. 25 gennaio 1997, n. 778).  Il profilo di
 non conformita' a Costituzione segnalato dalla convenuta deve  quindi
 giudicarsi  non pertinente.   Nondimeno, proprio l'esistenza di norme
 che, come l'art. 6 della legge 21 febbraio l99l, n. 526 (ma non  solo
 di  essa),  in  progresso  di  tempo  hanno sempre piu' incisivamente
 "eroso" l'area di applicabilita'  della  revocatoria  dei  pagamenti,
 estendendo   a   dismisura   quella   delle  esenzioni,  cosi'  quasi
 invertendo, in  fatto,  il  rapporto  tra  regola  ed  eccezione  che
 sembrava  caratterizzare  questo istituto e giustificarne l'esistenza
 alla luce della ratio egualitaristica che lo ispirava  (tutela  della
 parita'  di trattamento fra i creditori in sede satisfattiva), appare
 come il sintomo e, in parte, anche come  la  causa  di  quel  diffuso
 "disagio"  e  di quella "reazione di rigetto" che - come segnalato da
 avvertita  dottrina  -  ormai  da  non  pochi  anni   si   registrano
 nell'applicazione  pratica  dell'istituto medesimo.  Esso e' peraltro
 apparso tanto piu' "odioso" per quanto arbitraria si e' rivelata,  in
 fatto,  la  selezione  perpetrata  in  danno  di  soggetti  economici
 ritenuti non gia' piu' immeritevoli, ma solo piu'  solvibili  (e  tra
 questi  in  primo luogo le banche, proprio attraverso la revoca delle
 rimesse di conto corrente,  sintomaticamente  sempre  perseguita,  ma
 sulla   base   di   tanto   variabili,   quanto   anche   eccentriche
 interpretazioni).  Fattori tutti, questi, che inducono di conseguenza
 a riesaminare la revocatoria dei pagamenti  nel  contesto  della  sua
 attuale  ragion d'essere, alla luce degli approfondimenti teorici che
 ne hanno rivelato con maggior precisione l'intima struttura e di  una
 piu' matura sensibilita' verso i valori costituzionali.
   3.  -  Quest'indagine  consente  di  individuare  alcuni profili di
 sospetta non conformita' a Costituzione dell'art. 67, secondo  comma,
 LF.  che  questo  giudice  reputa  non manifestamente infondati e che
 pertanto intende rimettere, d'ufficio, alla conclusiva decisione  del
 giudice delle leggi.
   3.a)  Il primo profilo di sospetta incostituzionalita' va ravvisato
 ancora nella lesione al principio di  uguaglianza  sancito  dall'art.
 3, primo comma, della Costituzione, sebbene per ragioni evidentemente
 diverse da quelle che sono state invocate dalla convenuta.
    Quest'ultima  aveva  infatti inefficacemente assunto, come termine
 di confronto, una norma speciale  derogatoria  rispetto  all'art.  67
 L.F.    Come  pero'  si  e'  detto  poc'anzi, in tal caso l'eventuale
 lesione al principio di uguaglianza non potrebbe affatto  addebitarsi
 all'art.  67 L.F., bensi' alla norma speciale di confronto, in quanto
 disciplinante,  in  ipotesi  irragionevolmente,  in un certo modo e a
 favore soltanto di certi soggetti,  un'esenzione  dalla  revocatoria.
 La  soluzione  esattamente  contraria  dovrebbe invece trarsi qualora
 ricorresse anche un solo caso in cui non gia' l'operare di una  norma
 speciale,  ma  proprio la diretta ed immediata applicazione dell'art.
 67 L.F. desse luogo ad un  disparitario  trattamento  tra  creditori,
 consentendo  soltanto  per taluno, senza alcun ragionevole motivo, in
 presenza  delle  medesime  situazioni  sostanziali,  l'esonero  dalla
 revocatoria.  In  tal  caso  andrebbe  infatti  assunta, come tertium
 comparationis,  proprio  una  fattispecie  derogatoria   direttamente
 disciplinata   dalla   norma   censurata   e,   ammessa   l'esistenza
 dell'ipotizzata   discriminazione,    il    vulnus    al    principio
 costituzionale   di   uguaglianza   rileverebbe  anche  nel  presente
 giudizio, come in ogni altro in cui il  trattamento  riservato  a  un
 qualunque  creditore,  in  quanto  assoggettato  alla revocatoria dei
 pagamenti, appaia immotivatamente  deteriore  rispetto  al  beneficio
 dell'esenzione attribuito a qualcun altro.  Ebbene e' dato registrare
 effettivamente  l'esistenza  di  almeno  un  caso  di  questo genere.
 Infatti, secondo l'orientamento  interpretativo  della  S.  Corte  di
 cassazione,  da reputarsi ormai consolidato sul punto, l'art. 67 L.F.
 deve leggersi come se contenesse,  per  implicito,  una  disposizione
 intesa  ad  esonerare  dalla revocatoria dei pagamenti le imprese che
 agiscano in regime  di  monopolio  legale  e  siano  conseguentemente
 tenute,  a  norma  dell'art.  2597  codice civile, a "contrattare con
 chiunque richieda le prestazioni che  formano  oggetto  dell'impresa,
 osservando la parita' di trattamento".
   L'interpretazione  della S. Corte di cassazione va qualificata come
 diritto vivente in subiecta materia, perche', al cospetto di una sola
 pronuncia di segno contrario (Cass. 21 aprile 1993, n. 4712), essa ha
 poi definitivamente adottato la soluzione  che  afferma  l'esclusione
 del  legalmonopolista  dalla  revocatoria fallimentare dei pagamenti,
 esprimendo  tale  orientamento  anche  a  sezioni  unite,  a  maggior
 dimostrazione  della  volonta'  di garantire ed attuare, in tal modo,
 l'uniforme applicazione di questa soluzione di diritto  (Cass.,  sez.
 un.  11  novembre 1998, n. 11350; Cass. 6 aprile 1990, n. 2913; Cass.
 31 luglio 1990, n.  5051; Cass. 10 gennaio 1991, n.  186).    Per  la
 verita'  la  stessa  Cassazione,  nel  prospettare  la  soluzione  in
 oggetto, ha  ritenuto  di  poterne  escludere  il  contrasto  con  il
 principio  costituzionale  di  uguaglianza,  alla  luce della diversa
 posizione in cui il legalmonopolista, a causa dell'obbligo  legale  a
 contrarre su di lui incombente, assertivamente verserebbe rispetto ad
 ogni  altro  creditore, anche quando riceva pagamenti dall'utente poi
 fallito.   Cio'  in  quanto  il  monopolista,  oltre  a  non  potersi
 rifiutare  di  contrarre  con chiunque, nemmeno quando il richiedente
 del servizio sia insolvente (fase della genesi contrattuale), per  la
 medesima   ragione   non  potrebbe  rifiutarsi  di  eseguire  la  sua
 prestazione a favore di quest'ultimo nemmeno nella fase esecutiva del
 rapporto:  la richiesta di contrattazione sarebbe, in sostanza,  gia'
 una  "pretesa  a tale prestazione", vale a dire una pretesa rilevante
 al tempo stesso sia nella fase genetica del rapporto, sia nella  fase
 esecutiva,  che  priverebbe  in  entrambe  il  monopolista  della sua
 liberta' di "autodeterminazione".  Da questa premessa, la S. Corte ne
 ha desunto che sarebbe dunque "ingiusto", al punto da costituire  una
 lesione al principio costituzionale di uguaglianza, non gia' il fatto
 che  il  monopolista  possa  sottrarsi alla revocatoria, ma che debba
 effettuare la sua prestazione pur sapendo di non poter ricevere o  di
 non   poter  conservare  (per  effetto  di  un'eventuale  revocatoria
 promossa successivamente dal  curatore  in  caso  di  fallimento  del
 debitore)    la    controprestazione    costituita   dal   pagamento.
 All'orientamento in tal  modo  prospettato  dalla  Cassazione  devono
 riconoscersi i seguenti caratteri:
     1) esso costituisce, come s'e' detto, diritto vivente nella parte
 in  cui  esige  che l'art. 67, secondo comma, L.F. vada letto come se
 prevedesse per implicito una  esenzione  del  legalmonopolista  dalla
 revocatoria dei pagamenti;
     2)  non  vincola  invece  il giudice di merito nella parte in cui
 esclude  che  tale  esenzione  sia  in  contrasto  con  il  principio
 costituzionale di uguaglianza;
     3)  di  converso,  siccome  quest'ultima  tesi appare intimamente
 contraddittoria  laddove  tende  a  delineare  l'esistenza   di   una
 differenza sostanziale tra la posizione del legalmonopolista e quella
 di  ogni  altro  creditore  nella  fase esecutiva del rapporto in cui
 l'uno e gli  altri  ricevono  pagamenti  da  parte  del  fallito,  ma
 nell'argomentarla  la  Cassazione  ha  per  la prima volta indicato i
 profili in presenza dei quali potrebbe ritenersi che l'art.  67  L.F.
 violi  i  principi  costituzionali;  proprio  la dimostrazione che in
 realta' nessuna differenza esiste - rispetto ai pagamenti  -  fra  il
 monopolista   ed   ogni   altro  creditore  induce  a  fare  positiva
 applicazione dei criteri di giudizio  indicati  dalla  S.  Corte  per
 ritenere  violate  le  norme  costituzionali, a partire da quella che
 sancisce il principio di uguaglianza.    Che  rispetto  ai  pagamenti
 nessuna  differenza  esista  fra  il  legalmonopolista  ed ogni altro
 creditore, e' dimostrato dalla considerazione che, trattandosi  della
 revoca  di  atti  solutori,  e  non della revoca del contratto che il
 legalmonopolista e' tenuto per legge a stipulare con chiunque,  anche
 con  chi  sia in ipotesi insolvente (contratto la cui irrevocabilita'
 potrebbe dunque in ipotesi ammettersi, stante l'impossibilita' per il
 legalmonopolista  di  rifiutarne  la   stipula),   e'   semplicemente
 incongruo  discriminare,  rispetto  ai  pagamenti,  fra questo o quel
 creditore, giacche' tutti soggiacciono sempre ad un  obbligo  cogente
 di  pagamento,  sia esso derivante dal negozio-fonte (che ha forza di
 legge fra le parti), sia che derivi da una fonte giudiziale o  legale
 (come  accade  per  i cd. pagamenti coattivi, anch'essi concordemente
 ritenuti soggetti a revoca).   Superfluo ricordare che,  per  diritto
 ricevuto,  tale  autonomia  tra i due piani non soltanto sussiste, ma
 qualifica  specificamente  la  revocatoria  fallimentare  rispetto  a
 quella  ordinaria  (disciplinata  dall'art.  2901 c.c.), poiche' solo
 nella revocatoria fallimentare puo' essere revocato il  pagamento  di
 un debito liquido ed esigibile e puo' esserlo indipendentemente dalla
 revoca  del negozio-fonte.  Merita semmai rimarcare che la ragione di
 tale autonomia va ricercata proprio nella diversita' dei  presupposti
 sostanziali  che  sottendono l'esercizio della revocatoria nell'uno e
 nell'altro tipo di azione, nonche' a seconda che ne siano oggetto gli
 atti  dispositivo-attributivi,  o  piuttosto  i  semplici   pagamenti
 "normali".    La revocatoria fallimentare risponde infatti non ad uno
 scopo soltanto, o ad una ratio unitaria, ma ad un duplice presupposto
 sostanziale:  che e', al pari  della  revocatoria  ordinaria,  quello
 della  conservazione  dell'integrita'  patrimoniale (art. 2740 c.c.),
 quando vengono sanzionati gli atti dispositivi del fallito rivolti  a
 diminuirla  (siano  essi  qualificabili come atti onerosi o gratuiti,
 oppure come atti onerosi "normali" o  "anomali");  e  che  e'  invece
 quello   dell'attuazione   della   par  condicio  (art.  2741  c.c.),
 presupposto del tutto peculiare alla revocatoria fallimentare, quando
 vengono sanzionati invece i pagamenti "normali" (di debiti liquidi ed
 esigibili) effettuati alla prevista scadenza, ma al  di  fuori  delle
 regole  ripartitorie  e  perequative del procedimento concorsuale.  I
 pagamenti, infatti, essendo atti dovuti, atti  di  mero  adempimento,
 nulla sottraggono al patrimonio del debitore che gia' non fosse prima
 dovuto  al  creditore, e sono percio' revocabili solo in quanto hanno
 l'autonoma attitudine a ledere quel distinto principio della  parita'
 di  trattamento  dei creditori che non avrebbe ragion d'essere, o che
 non potrebbe comunque mai trovare completa e coerente attuazione,  al
 di  fuori del procedimento concorsuale.  Quanto pero' al carattere di
 doverosita', esso sussiste in ogni ipotesi di pagamento  ed  in  modo
 identico  per  qualunque  contraente,  e non solo per il monopolista,
 derivando tale  doverosita'  dall'esistenza  di  un  obbligo  la  cui
 attuazione  e'  imposta  dalla  lex  contractus  o da qualunque altra
 fonte, legale o giudiziale,  che  parimenti  imponga  un  obbligo  di
 prestazione o di pagamento.
   Resta  certo  opinabile  se,  posto  il  carattere  doveroso  di un
 pagamento, la sua revoca sia in re  ipsa  un  evento  ingiusto,  come
 afferma  la  Cassazione  e come e' lecito in effetti ritenere, per le
 ragioni che fra poco si diranno; solo che, una volta ammesso  che  lo
 sia,  allora essa costituira' sempre un evento ingiusto, di qualunque
 pagamento si tratti e a qualunque creditore effettuato, in quanto  la
 revocatoria  tende  sempre  a  colpire atti invariabilmente doverosi,
 costituenti  la   controprestazione   di   attribuzioni   altrettanto
 doverose,  escludendo  di  conserva sempre e comunque una liberta' di
 autodeterminazione sia per il debitore solvens, sia per il  creditore
 accipiens.  E' percio' giocoforza concludere che tale ingiustizia, se
 sussistente, ricorra in ogni caso, e cioe' non solo nei confronti del
 monopolista, ma verso qualunque creditore.
   Occorre peraltro considerare che al  di  fuori  del  fallimento  il
 legalmonopolista  non gode di alcuna preferenza satisfattiva, nemmeno
 in un'eventuale procedura  esecutiva  singolare;  nessuna  preferenza
 potrebbe  vantare neppure se, non essendo stato pagato, si insinuasse
 al passivo per il suo credito insoddisfatto.  Ne deriva la duplice ed
 incongrua  conseguenza  che,  mentre  da  una  parte   il   pagamento
 intervenuto    spontaneamente   da   parte   del   debitore   sarebbe
 irrevocabile, per contro, ove esso fosse avvenuto nel  corso  di  una
 procedura  esecutiva  anteriore  al  fallimento,  sarebbe  soggetto a
 revoca come qualunque altro pagamento coattivo; se poi  il  pagamento
 non  ci  fosse  stato,  il  legalmonopolista  dovrebbe  insinuarsi al
 passivo come qualunque altro creditore, con  il  rischio,  del  tutto
 comune   (rischio  tanto  piu'  prevedibile  trattandosi  di  credito
 chirografario) di restare  insoddisfatto.  Non  si  comprende  allora
 perche'   la   deroga   alla   par   condicio  debba  per  lo  stesso
 legalmonopolista valere solo  in  caso  di  pagamento  spontaneo  del
 debitore,  e  non  invece  negli altri casi ora considerati.   Per la
 verita' questa sfasatura e' comune anche a  tutte  le  altre  ipotesi
 (previste   da  leggi  speciali)  in  cui  determinate  categorie  di
 creditori beneficiano dell'esenzione dalla revocatoria dei pagamenti.
   Cio'  tuttavia,  lungi  dal  rendere  legittima  questa  sfasatura,
 imporrebbe  semmai  di verificare, con riferimento a tutte le ipotesi
 stesse, se davvero esse siano conformi a Costituzione e  ancor  prima
 se  davvero  il legislatore sia libero di stabilire deroghe al regime
 revocatorio dei pagamenti.
   Se e' vero, infatti, che l'art. 67,  terzo  comma,  ultimo  inciso,
 L.F.  sembra  prevedere  in  via di principio la possibilita' che con
 leggi  speciali   vengano   stabilite   deroghe   all'operare   della
 revocatoria,  resta  tuttavia  ancora  tutto da dimostrare che questa
 possibilita'  riguardi  anche  la  revocatoria  dei  pagamenti  quale
 sanzione  volta  ad  attuare la par condicio (regola che dovrebbe per
 definizione rifiutare qualunque trattamento disparitario  di  favore,
 ancorche' regolato da leggi speciali), e non piuttosto o non soltanto
 le altre fattispecie di revocatoria regolate dalla norma ed aventi ad
 oggetto   atti   dispositivi   del   fallito   idonei   ad   incidere
 sull'integrita' della garanzia patrimoniale.  In conclusione, vi sono
 sufficienti ragioni per  sospettare  che  il  trattamento  di  favore
 riservato  al  monopolista  rispetto  a  quello destinato a tutti gli
 altri creditori nell'ambito della revocatoria dei pagamenti  non  sia
 conforme  con  il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo
 comma, della Costituzione.
   3.b) Mentre l'orientamento  di  favore  della  S.  Corte  verso  il
 legalmonopolista autorizza il sospetto di costituzionalita' alla luce
 dell'art.     3,    primo    comma,    Costituzione;    il    profilo
 dell'"ingiustizia",  soggiacente  ad  un'azione  volta  a  sanzionare
 d'inefficacia  relativa  atti  leciti  e  doverosi compiuti quando un
 fallimento non sia stato ancora dichiarato, autorizza  un  dubbio  di
 incostituzionalita'  della  predetta  norma  in  relazione ai diritti
 d'azione e di difesa,  nonche'  di  tutela  della  libera  iniziativa
 economica,  come  rispettivamente  sanciti  dagli artt.   24, primo e
 secondo comma, e 41, primo comma, della Costituzione.
   3.c) Quanto alla sospetta non conformita' con l'art.  24,  primo  e
 secondo   comma,   della  Costituzione,  essa  emerge  in  base  alla
 considerazione che nessun creditore e' munito di  un'adeguata  tutela
 processuale  di  carattere  "preventivo"  contro  il  rischio  di una
 revocatoria dei pagamenti.
   In alcune decisioni giurisprudenziali, per il vero, si e' sostenuta
 la tesi contraria invocandosi l'art. 1461 c.c., nel punto in cui tale
 norma accorda a una delle due parti contrattuali una speciale tutela,
 la  cd.  facolta'  di  sospensione  della  prestazione,   quando   le
 condizioni  patrimoniali  dell'altra  siano divenute tali da porre in
 evidente pericolo il conseguimento della controprestazione.
   Si e' cosi' ritenuto che tale norma possa essere invocata anche dal
 contraente che rischi di essere  pregiudicato  dal  fallimento  della
 controparte  nell'ipotesi  in  cui sussista il pericolo di perdita di
 cio' che ha ricevuto, o deve ricevere e viene offerto, in conseguenza
 del (possibile) esercizio di un'azione revocatoria  (Cass.  30  marzo
 1994, n. 3165; App. Milano 25 marzo 1986).
   Se  ne e' dedotto che, potendo avvalersi del potere di sospensione,
 il creditore potrebbe anche "sottrarsi agli effetti della revocatoria
 fallimentare attraverso il debito rifiuto del  pagamento  dell'utente
 fallito,  il  conseguente inadempimento dello stesso e la risoluzione
 del contratto" (Cass. 21 aprile 1993, n. 4712).
   Questa interpretazione e' stata peraltro richiamata dalla S.  Corte
 anche  quando  si  e'  accinta  a  valutare  se    l'esenzione  dalla
 revocatoria  da  essa  prospettata  a  favore  del   monopolista   si
 traducesse  in violazione al principio costituzionale di uguaglianza.
 Essa ha ritenuto di poter escludere tale lesione sul presupposto  che
 il  potere  di sospensione della prestazione possa essere invocato da
 qualunque creditore e che sia di per  se'  sufficiente  a  garantirlo
 contro il rischio di revocatoria.
   Si tratta, pero', di un'interpretazione manifestamente incongrua.
   Il  problema  della  tutela  preventiva  del  creditore del fallito
 rispetto alla  revocatoria  si  pone  infatti  se  ed  in  quanto  un
 pagamento  venga  effettuato dal debitore poi fallito, laddove invece
 la tutela preventiva, di cui in  assetto  potrebbe  fruire  qualunque
 creditore del fallito (anche in asserto il monopolista)  ex art. 1461
 c.c.;   presupporrebbe   il   realizzarsi   dell'ipotesi  esattamente
 contraria, che cioe' sia prevedibile che l'utente  non  possa  o  non
 voglia pagare.
   Nessun   creditore,  dunque,  potrebbe  mai  avvalersi  del  potere
 sospensivo di cui all'art. 1461 c.c. quando  l'altro  contraente  sia
 regolarmente  adempiente,  a  prescindere  dallo stato di difficolta'
 finanziaria in cui egli possa per avventura trovarsi.
   Cio' perche' la facolta' di sospendere l'esecuzione  della  propria
 prestazione  e'  espressamente subordinata alla condizione che sia in
 pericolo il conseguimento della controprestazione,  mentre  non  puo'
 essere  invocata quando il contraente tema semplicemente di non poter
 conservare  la  controprestazione  gia'  ricevuta   o   quella   gia'
 offertagli, non potendo avere alcun rilievo, in tal caso, l'eventuale
 stato  di  dissesto  della  controparte  adempiente:  il rifiuto o la
 sospensione della prestazione  ex  altero  latere  non  potrebbe  che
 configurare  allora,  secondo i principi generali, una fattispecie di
 inadempimento colpevole.
   D'altra  parte,  il  fatto  stesso  che  l'altro  contraente  possa
 impedire   l'effetto  della  sospensione  prestando  idonea  garanzia
 dimostra come, a fortiori, l'offerta di  adempimento  sia  preclusiva
 della possibilita' di sospendere la prestazione.
   Le  due  ipotesi  considerate, quella dell'adempimento e quella del
 rischio dell'inadempimento, sono evidentemente opposte, ed e' percio'
 semplicemente  impensabile   sussumerle   entrambe   nella   medesima
 disciplina apprestata dall'art. 1461 c.c.
   Peraltro  non e' dubitabile che la facolta' di autotutela accordata
 dall'art. 1461 c.c. non implichi  assolutamente  la  risoluzione  del
 contratto,  cosi' come non e' dubitabile che la risoluzione non possa
 essere affatto richiesta  adducendo  l'insolvenza  della  controparte
 quando  essa,  invece, risulti adempiente, volta che, nell'attuazione
 dei rapporti obbligatori privati, l'adempimento di una  parte  -  per
 definizione - non puo' che privare di qualunque rilievo l'eventuale e
 piu'  generale  stato di dissesto in cui versi il contraente medesimo
 (Cass. 11 febbraio 1966 n. 419; Cass. 21 marzo 1983, n.  1990;  Cass.
 28 marzo 1988, n. 2615).
   Infine,  ipotizzare  che l'autotutela accordata dall'art. 1461 c.c.
 possa estendersi contra tenorem rationis fino a coprire il rischio di
 revocatoria di un  pagamento  potrebbe  a  sua  volta  dar  luogo  ad
 un'ulteriore  profilo  di  lesione  al  principio  costituzionale  di
 uguaglianza, riservandosi un trattamento irragionevolmente diverso ai
 creditori di un imprenditore commerciale insolvente rispetto a quelli
 di un  insolvente  civile  (cui  la  revocatoria  dei  pagamenti  non
 potrebbe   applicarsi),   in   presenza   di  un'identica  situazione
 sostanziale e della medesima causa obligandi.
   Cio' induce in conclusione a ritenere che, se proprio non v'e', ne'
 puo' esservi, a maggior  conforto  di  quanto    gia'  detto,  alcuna
 rilevante  differenza  tra il monopolista e qualunque altro creditore
 rispetto all'adempimento o all'offerta  di  pagamento  del  debitore,
 cio'  derivi  dal  fatto  che  non soltanto il monopolista, ma nessun
 altro  creditore  ha  mai  la  possibilita'  di  invocare  la  tutela
 sospensiva  di  cui  all'art.  1461  c.c.  (o  addirittura una tutela
 risolutiva) quando  gli  sia  stato  offerto  dalla  controparte,  in
 periodo  anteriore  al  fallimento,  il  regolare  pagamento  del suo
 credito.
   In realta' l'unico modo per sottrarsi agli effetti  restitutori  di
 tale azione sarebbe quello di ... rinunciare a ricevere il pagamento,
 l'unica  facolta'  che,  salvi  i  pur non secondati effetti negativi
 della  mora  credendi,  dovrebbe  sempre   riconoscersi   a   ciascun
 contraente.
   Ma  nessun  creditore puo' mai considerarsi addirittura obbligato a
 rifiutare un  pagamento  che  gli  sia  dovuto,  anche  perche'  tale
 pagamento  -  come ammette la stessa Cassazione - resta pur sempre un
 atto valido e lecito sul piano sostanziale ed e'  idoneo  a  produrre
 effetti  del  tutto legittimi, come del pari legittimo e lecito e' il
 pagamento del corrispettivo (Cass. 24 gennaio 1998, n. 690).
   Ciascun contraente e' invece sempre obbligato ad effettuare la  sua
 prestazione  se la controparte offra di adempiere a sua volta la sua,
 anche qualora possa sospettarne lo stato di decozione e  pur  essendo
 dunque consapevole del rischio di una futura revocatoria.
   E'  ben  comprensibile  che  questa  situazione senza apparente via
 d'uscita  possa  apparire  "ingiusta"   (come   afferma   la   stessa
 Cassazione)    e    suggerire,   di   conseguenza,   un   dubbio   di
 costituzionalita':  sarebbe  infatti  difficile  negare  che  per   i
 creditori  non sia un valido rimedio contro il rischio di revocatoria
 il dover adempiere  la  propria  prestazione,  rinunciando  al  tempo
 stesso   a  ricevere  il  pagamento  cui  sia  tenuta  l'altra  parte
 contraente ed incorrendo perdippiu' nei negativi effetti  della  mora
 credendi|
   Solo che, sgombrato il capo dall'equivoco annidato nel ragionamento
 della   S.   Corte,  laddove  essa  ha  postulato  una  (inesistente)
 differenza di posizione del monopolista rispetto  a  qualunque  altro
 contraente,  quest'ingiustizia  si  ripropone  allo  stesso  modo per
 qualunque creditore del fallito.
   Si diceva poc'anzi che l'unica facolta' di cui dispone il creditore
 per sottrarsi alla revocatoria e' quella di rinunciare a ricevere  un
 pagamento  che  pure  avrebbe  il  diritto  di ricevere; essa, com'e'
 evidente, non puo' pero' considerarsi un valido mezzo di tutela,  ne'
 sul piano sostanziale, ne' su quello processuale.
   E'  peraltro  significativo  che  finora non sia stato mai addotto,
 nemmeno docendi causa, un solo caso  concreto  in  cui  un  creditore
 abbia  rifiutato  un  pagamento  sul  presupposto che il suo debitore
 fosse insolvente; ed un precetto giuridico che  per  un  malinteso  e
 male  applicato  solidarismo  pretenda  dai  consociati comportamenti
 inesigibili o inattuabili sarebbe gia' solo per questo in  potenziale
 conflitto con i principi costituzionali.
   Perdippiu' questo sempre piu' evanescente solidarismo, cui dovrebbe
 considerarsi  ispirata  la  regola della par condicio, non ha nemmeno
 alcuna dignita' costituzionale: la par condicio e' infatti  solo  una
 modalita'  processuale di soddisfazione dei creditori che si attua in
 sede concorsuale,  ma  non  invece  nei  rapporti  comuni  (ove  vige
 l'opposta  regola della priorita' di scadenza del credito), modalita'
 che il legislatore e' del tutto libero di stabilire  preferendola  ad
 altre  modalita'  diverse,  benche'  pur  sempre  con  il  limite del
 rispetto dei principi costituzionali.
   Pertanto non deve meravigliare che tale regola, in  quanto  dettata
 da  una  semplice  legge  ordinaria, possa eventualmente confliggere,
 nella sua essenza o nel suo modo di porsi, con tali principi.
   Quanto al principio costituzionale che tutela i diritti d'azione  e
 di  difesa,  la limitazione che l'art. 67, secondo comma, L.F. sembra
 produrre in  loro  danno  non  sembra  in  effetti  trovare  adeguato
 bilanciamento   in  alcun  altro  valido  contrappeso.  Il  pagamento
 sottoposto a revoca dall'art. 67, secondo  comma,  L.F.  e'  infatti,
 come  si  e'    ripetuto,  un  atto lecito e doveroso; la fattispecie
 revocatoria ad esso applicabile non rinviene percio'  la  sua  ragion
 d'essere  in quella presunzione di "frode" alle ragioni dei creditori
 che sembra invece giustificare  la  revocatoria  di  tutti  gli  atti
 dispositivi  tesi a disperdere la garanzia patrimoniale del debitore,
 perche' altrimenti non avrebbe neppure senso  revocare  un  pagamento
 ricevuto  in  sede  esecutiva,  la cui liceita' e' senza alcun dubbio
 dimostrata dal fatto stesso che, a disporlo, e' addirittura un organo
 dell'esecuzione, un giudice dello Stato.
   Non sembra poi costituire  adeguato  bilanciamento  del  sacrificio
 imposto   ai   creditori   assoggettati  a  revocatoria,  nemmeno  la
 condizione, cui e' subordinato l'accoglimento dell'azione revocatoria
 dei pagamenti normali, che venga dimostrata dal curatore la  scientia
 decoctionis dell'accipiens.
   L'essere  o  meno  a  conoscenza  dello  stato  di insolvenza della
 controparte,  infatti,  non  rappresenta  null'altro  che  un  limite
 sovrastrutturale (processuale) all'esercizio dell'azione, mentre cio'
 che  conta e' che, sia quando il creditore abbia tale conoscenza, sia
 quando non l'abbia, in entrambi i casi l'unica scelta a cui  egli  si
 trova  astretto  per  non  subire  l'azione  e'  di  rinunciare  a un
 pagamento che pure sarebbe legittimato a ricevere in base al  diritto
 sostanziale   della   lex  contractus.     Non  costituisce  adeguato
 bilanciamento  nemmeno  l'utilita'  perequativa  (tutela  della   par
 condicio) cui l'azione dovrebbe essere finalizzata.
   A  ben  vedere  il  fine che dovrebbe ispirare quest'ultima, quello
 cioe' di sottoporre il creditore soddisfatto ad un concorso con tutti
 gli altri  creditori  secondo  la  gerarchia  della  graduazione,  si
 traduce  in  realta'  in un'immeritata sanzione per il creditore piu'
 diligente, ma meno forte: perche' solo il creditore  piu'  diligente,
 realizzando  la  sua  pretesa a scadenza, o sinanche in via esecutiva
 dopo essersi munito di apposito titolo,  vede  poi  redistribuito  il
 pagamento da lui ricevuto a favore anche dei creditori meno diligenti
 che  non  abbiano  ricevuto pagamenti per aver omesso di coltivare in
 tempo le proprie pretese; e perche' solo il creditore meno forte puo'
 rischiare  di  restare  poi   del   tutto   insoddisfatto   in   sede
 ripartitoria,  per  effetto  di  una  redistribuzione  del  pagamento
 attuata a vantaggio di creditori magari meno diligenti, o titolari di
 crediti incerti, illiquidi o  non  scaduti,  ma  tuttavia  muniti  di
 prelazione.
   Il  sacrificio  imposto  ai  creditori  in funzione dell'attuazione
 della par condicio potrebbe  in  ultima  analisi  giustificarsi  solo
 quando  una procedura concorsuale sia gia' iniziata e per i pagamenti
 successivi a tale momento.
   Solo allora, infatti, ha senso sostituire alla  regola  di  diritto
 comune del pagamento dei debiti a scadenza (prior in tempore), quella
 del  pagamento  secondo le regole della graduazione e del riparto nel
 rispetto delle cause di  prelazione,  essendo  questa  una  modalita'
 satisfattiva  connaturata solo ad un procedimento esecutivo (generale
 ed universale) gia' in essere, e non essendo riproducibile - se non a
 costo di un irragionevole forzatura - quando invece il fallimento non
 sia stato ancora dichiarato.
   Per tale ragione, mentre appare del tutto coerente con le finalita'
 del sistema concorsuale  e  con  le  regole  del  diritto  comune  la
 sanzione obiettiva di inefficacia dei pagamenti prevista dall'art. 44
 L.F.  con riferimento a quelli effettuati o ricevuti dal fallito dopo
 la   dichiarazione   di   fallimento   (sanzione   la   cui  ritenuta
 "obbiettivita'",   peraltro,   siccome    derivante    dall'immediata
 compressione  dei  poteri  dispositivi  del  fallito  determinata dal
 fallimento, prescinde dallo stato di buona o mala fede dell'accipiens
 e da' per cio' stesso, di conseguenza, la garanzia che  l'inefficacia
 colpisca  indiscriminatamente  e paritariamente qualunque creditore);
 non pare esserlo altrettanto  l'azione  revocatoria  che  colpisce  i
 pagamenti  compiuti  in  un  periodo  in  cui, mancando una procedura
 concorsuale, il debitore  ha  ancora  la  piena  capacita',  ed  anzi
 l'obbligo,  di compierli, ed il creditore ha la piena legittimazione,
 ed anzi il diritto, di riceverli.  La conclusione sostanzialmente non
 cambia nemmeno a voler ipotizzare che l'obblio di  pagamento  secondo
 le   regole  della  par  condicio  possa  retroagire  ad  un  periodo
 antecedente al fallimento in  funzione  non  gia'  del  dato  formale
 costituito  dalla  pendenza della procedura fallimentare, ma del dato
 sostanziale costituito dallo stato  d'insolvenza in cui gia' versi il
 debitore.  L'insolvenza di un debitore, nel diritto  comune,  sarebbe
 infatti  il presupposto per una maggior tutela del singolo creditore,
 e non per un trattamento deteriore: e' previsto ad esempio,  come  si
 e'  detto,  che  egli  possa sospendere la sua prestazione (art. 1461
 c.c.)    o che possa invocare la decadenza del debitore dal beneficio
 del termine  "esigendo  immediatamente  la  prestazione"  (art.  1186
 c.c.),  regola,  quest'ultima, evidentemente opposta a quella in base
 alla quale egli dovrebbe invece rifiutare il pagamento.  Inoltre,  se
 l'anteatta  insolvenza  puo'  giustificare,  come  fenomeno meramente
 sostanziale (per definizione non  accertato  dal  giudice  prima  che
 intervenga  la  dichiarazione  di fallimento), il prodursi di effetti
 retroattivi ricollegabili ad uno stato psicologico caratterizzato  da
 "frode"  (revoca  degli  atti  dispositivi),  al  contrario  non puo'
 affatto giustificare, da sola, la retroattivita'  di  un  obbligo  di
 pagamento  secondo  quelle  regole  della  par  condicio  che possono
 trovare coerente applicazione solo a fallimento gia'  pendente.    In
 primo  luogo perche' la soddisfazione dei creditori secondo le regole
 della par condicio puo' essere per definizione attuata  solo  per  il
 tramite  di organi giudiziari e non potrebbe mai invece demandarsi al
 debitore in bonis.  Costui in verita' non sarebbe nemmeno in grado di
 effettuare i pagamenti secondo la  par  condicio  e  nemmeno  ciascun
 singolo  creditore  sarebbe  in grado di valutare quando il pagamento
 ricevuto sia rispettoso di tale principio: la stessa Cassazione,  del
 resto,   afferma   che  nemmeno  il  curatore,  quando  esperisce  la
 revocatoria, sia in grado di  provare  (e  di  conseguenza  non  deve
 provare),  che  il pagamento oggetto di revoca sia in concreto lesivo
 della par condicio, giacche' solo  al  momento  del  riparto  finale,
 redigendosi  il  progetto  di  graduazione,  e'  possibile in effetti
 stabilire  se  i  singoli  creditori  abbiano   diritto   ad   essere
 soddisfatti.
   Dal  che  consegue,  con  ragionamento  a  fortiori,  che sarebbe a
 maggior ragione impossibile esigere che,  dell'eventuale lesione alla
 parita' di trattamento,  possano  essere  consapevoli,  ex  ante,  il
 debitore o il creditore  accipiens.
   Cio'  di  fatto  trasforma  il  preteso  obbligo del fallito di non
 pagare i suoi creditori  ledendo  la  par  condicio  (ed  il  preteso
 obbligo  di  questi  ultimi  di  non  ricevere  pagamenti che abbiano
 quest'attitudine lesiva), in un obbligo piu' generale di non pagare e
 di non ricevere.
   Ma sarebbe del tutto ragionevole imporre al debitore insolvente  un
 vero  e proprio obbligo di non pagare senza scriminarlo, al contempo,
 dall'obbligo opposto (di pagare) sanzionato dal diritto comune. Ed e'
 appena  il caso di ricordare che nessuna norma scrimina il  debitore,
 benche'   insolvente,   dall'obbligo   di   pagamento,   ad   esempio
 sottraendolo al rischio di risoluzione del contratto  o  esonerandolo
 dalla mora debendi.
   Al contrario, la stessa legge fallimentare prevede che il debitore,
 assoggetto  a  fallimento perche' insolvente, sia comunque tenuto, in
 quanto inadempiente,  a  ristorare  i  creditori  per  gli  interessi
 moratori  maturati prima del fallimento a causa del suo inadempimento
 (artt. 54 e 55 L.F.).
   In ogni caso l'insolvenza non  potrebbe  mai  da  sola,  sul  piano
 civilistico,  rendere attuale un obbligo per il fallito di non pagare
 secondo le regole del trattamento  paritario  (con  il  corrispettivo
 obbligo  per  i creditori di rifiutare il pagamento) o addirittura un
 obbligo  di  non  pagare  tout  court:  occorrerebbe  in   piu'   che
 sussistesse  ancor prima un obbligo, incombente non solo sul fallito,
 ma anche e soprattutto sui suoi creditori, di richiederne  subito  il
 fallimento in presenza dei primi sintomi d'insolvenza, obbligo la cui
 esistenza,  pero',  e' semplicemente indimostrabile.   Non basterebbe
 che un obbligo di tale natura facesse carico solo al fallito, perche'
 allora non sarebbe sufficiente a spiegare, ex altero latere, il venir
 meno del diritto del creditore a ricevere un pagamento in  base  alla
 lex  contractus.  Inoltre, almeno finche' il debitore non richiedesse
 il suo fallimento, il  suo  obbligo  contrattuale  di  pagamento  non
 potrebbe   comunque   ritenersi  caducato.    Che  poi  l'obbligo  di
 richiedere il fallimento non possa far  carico  ai  creditori  e'  di
 intuitiva  evidenza,  anche  perche',  tra l'altro, non avrebbe senso
 imporlo anche quando i creditori fossero impossibilitati  a  proporre
 istanza di fallimento: essi, ad esempio, potrebbero non essere muniti
 di  una  sentenza  che avesse accertato la loro pretesa o di un altro
 titolo esecutivo che fosse stato gia' inutilmente  azionato  in  sede
 espropriativa  e  quindi potrebbero non essere in grado di comprovare
 con successo il presunto stato di decozione del debitore, pur  quando
 esso  esista. Sarebbe peraltro contraddittorio chiedere il fallimento
 del proprio debitore quando costui, benche'  in  ipotesi  insolvente,
 offrisse  di  adempiere.    In  conclusione,  nessun  creditore  puo'
 considerarsi  munito  di  adeguata  tutela  contro  il   rischio   di
 revocatoria,   mentre   e'   costretto,   in  caso  di  esercizio  di
 quest'ultima, a restituire un pagamento che era prima  legittimato  a
 ricevere,  avendone  il  diritto.    Da  cio'  appunto  il dubbio, da
 reputarsi non manifestamente infondato, di  contrasto  dell'art.  67,
 secondo  comma,  L.F.  con  l'art.  24,  primo  e secondo comma della
 Costituzione.
   3.c) In via  meramente  consequenziale  emerge  peraltro  anche  il
 dubbio  di  un  contrasto  di  tale norma con l'art. 41, primo comma,
 della Costituzione, per  sospetta  lesione  al  principio  di  libera
 intrapresa  economica.    Basti  al  riguardo considerare che, con la
 revoca dei pagamenti, si pretende di dare una peculiare attuazione ad
 un  evanescente  principio  di  solidarismo  commerciale  (perdippiu'
 facendo  salve  alcune  categorie  di  creditori  con  vari esoneri e
 discriminazioni) imponendolo,  retroattivamente  e  forzosamente,  in
 danno  di  atti  solutori  che in nessun caso potrebbero qualificarsi
 come atti  illeciti  o  riprovevoli.    L'attuazione  di  una  regola
 siffatta  sembra  percio'  tradursi  in  una  lesione  alla  liberta'
 economica, proprio in  quanto  pone  un  limite  insormontabile  alla
 autodeterminazione  dei terzi contraenti del fallito anche nel libero
 esercizio di un'attivita' economica perfettamente  lecita,  non  gia'
 impedendola  direttamente  nella  fase  della  genesi  negoziale,  ma
 sanzionandola successivamente nella  fase  del  rapporto  riguardante
 l'esecuzione  satisfattiva,  si'  da  giocare,  per  questa via, come
 deterrente  anche  rispetto  alla  prima:  non  potendo  negarsi  che
 stipulare  un contratto (in ipotesi irrevocabile perche' ricadente in
 periodo non sospetto), senza poter poi ricevere l'atteso pagamento  o
 poterlo  conservare,  impedisca  gia'  ex  ante una libera scelta del
 terzo contraente nella fase genetica del rapporto ed anzi lo sospinga
 verso una scelta di segno negativo.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio  1948,  n.  1,
 nonche' l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Ritenuto  che  il  presente  giudizio  non  possa  essere  definito
 indipendentemente  dall'esame   della   questione   di   legittimita'
 costituzionale nei sensi di cui in motivazione;
   Dichiara  rilevante  nel  presente  giudizio  e  non manifestamente
 infondata, in relazione agli  artt.  3,  primo  comma,  24,  primo  e
 secondo  comma  e 41, primo comma, della Costituzione, la quetione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 67, secondo comma, del r.d.  16
 marzo  1942, n. 267, nella parte in cui quest'ultima norma assoggetta
 a revocatoria atti leciti e  doverosi  come  i  pagamenti  di  debiti
 liquidi  ed  esigibili  effettuati  dal  fallito  con mezzi "normali"
 nell'anno anteriore al fallimento a  favore  di  creditori  che,  per
 evitare il rischio di doverli restituire, hanno solo l'alternativa di
 rifiutarli,  cosi'  peraltro  incorrendo  nella mora credendi; con la
 sola esclusione, comunque apparentemente ingiustificata  per  il  suo
 carattere  disparitario,  dei  creditori  che  agiscano  in regime di
 monopolio legale;
   Sospende il presente giudizio;
   Dispone che la presente ordinanza, a cura  della  cancelleria,  sia
 notificata  alle  parti  in  causa  e al Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  sia  comunicata  ai  Presidenti  delle  due   Camere   del
 Parlamento  e  trasmessa,  insieme  a tutti gli atti del procedimento
 (con la prova delle predette notificazioni e  comunicazioni,  secondo
 il  disposto dell'art. 1 della delibera della Corte costituzionale 16
 marzo 1956) alla Corte costituzionale.
   Cosi' deciso in Monza, addi' 12 luglio 1999.
                       Il giudice unico: Lamanna
 99C1050