N. 658 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 settembre 1999
N. 658 Ordinanza emessa il 21 settembre 1999 dal tribunale di Bari sui ricorsi riuniti proposti da Ibrahimi Haziz ed altri contro il prefetto della provincia di Bari Sicurezza pubblica - Espulsione amministrativa di straniero (apolide o cittadino extracomunitario) - Ricorso al pretore - Procedimento - Termini per la definizione - Eccessiva brevita' - Lesione del diritto di difesa e del diritto di azione - Violazione dei diritti fondamentali dell'uomo. Sicurezza pubblica - Espulsione amministrativa di straniero (apolide o cittadino extracomunitario) - Ricorso al pretore - Procedimento - Sospensione cautelare del decreto impugnato - Omessa previsione - Lesione del diritto di difesa e del diritto di azione - Violazione dei diritti fondamentali dell'uomo. Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 11, comma 9; d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 9, sostituito dal d.lgs. 13 aprile 1999, n. 113, art. 3. Costituzione, artt. 3, 10 e 24.(GU n.50 del 15-12-1999 )
IL TRIBUNALE Letti i ricorsi depositati in data 11 settembre 1999 nell'interesse di Ibrahimi Haziz, Ibrahimi Sabahete, Gasi Nehrut e Gasi Seljvete, aventi ad oggetto l'annullamento - previa sospensione del giudizio e rimessione alla Corte costituzionale delle questioni di legittimita' della legge n. 40/1998 e dell'art. 3 del d.lgs. n. 113/1999 dei quattro decreti di espulsione emessi da prefetto della provincia di Bari il 6 settembre 1999 nei confronti di ciascuno dei ricorrenti, perche' entrati nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, e ad essi notificati in pari data dalla Questura di Bari ufficio stranieri, in uno all'intimazione di lasciare il territorio italiano entro quindici giorni; Fissata la comparizione delle parti con decreto del 13 settembre 1999 e costituito il contraddittorio mediante la notifica al prefetto della provincia di Bari, a cura della cancelleria, del ricorso e del decreto di comparizione; Sentiti all'udienza in camera di consiglio del 17 settembre 1999, per i ricorrenti (non comparsi personalmente), la dott.ssa M. C. Angiuli, in sostituzione del difensore costituito, e, per il prefetto, l'ispettore di P. S. G. Mazzini, funzionario delegato; Sciolta la riserva di cui al verbale dell'udienza del 17 settembre 1999; O s s e r v a 1. - I ricorsi, separatamente proposti, vanno riuniti d'ufficio ai sensi dell'art. 274 c.p.c., in ragione dell'identita' di gran parte delle questioni con essi sollevate e, quindi della loro connessione oggettiva. 2. - Le eccezioni preliminari di incostituzionalita' della legge delega n. 40/1998 (per violazione dell'art. 76 Cost., stante la genericita' delle direttive impartite al Governo, evincibile dal contenuto dell'art. 47, comma 2) e dell'art. 3, d.lgs. n. 113/1999 (per fissazione della competenza territoriale per la proposizione del ricorso nel foro del luogo in cui ha sede l'autorita' che ha disposto l'espulsione), sollevate dai ricorrenti, vanno rigettate perche' prive dei requisiti della non manifesta infondatezza e della rilevanza. 2.1. - La legge 6 marzo 1998 n. 40, invero, lungi dall'essere carente di uno dei contenuti tipici indicati dalla norma costituzionale di riferimento (determinazione di principi e criteri direttivi), conferiva al Governo, anzitutto, la delega ad emanare un decreto legislativo contenente il testo unico delle disposizioni concernenti la condizione giuridica degli stranieri immigrati, nel quale dovevano essere riunite e coordinate, fra loro e con le norme della stessa legge-delega, le previgenti leggi in materia (comma 1); in secondo luogo, delegava il Governo ad emanare le disposizioni correttive necessarie per realizzare pienamente i principi della legge-delega o per assicurarne la migliore attuazione (comma 2). E' bene evidente, dunque, che la seconda parte della delega era, per cosi' dire, di carattere meramente tecnico e strettamente conseguenziale alla prima, essendo inevitabile che ogniqualvolta si proceda al riordino normativo di una materia mediante l'emanazione di un testo unico avente valore di legge (ipotesi classica del ricorso allo strumento della delegazione legislativa), occorra contestualmente adottare disposizioni di coordinamento che servano a fondere tra loro le discipline succedutesi nel tempo, le quali, per diventare un unico corpus chiaro e coerente, non possono essere puramente e semplicemente giustapposte, ne' ritagliate ed incollate l'une alle altre, ma richiedono un'intervento di elevato tecnicismo giuridico, volto ad armonizzare le vari componenti normative, limandole ed integrandole dove occorre. In tale quadro, il rinvio ai "principi" tout court della legge-delega e delle altre leggi da riunire e trasfondere nel testo unico (quale quello operato dal censurato art. 47, legge n. 40/1998) non solo e' idoneo ad assolvere formalmente alla prescrizione contenutistica di cui all'art. 76 Cost., ma appare, nella sostanza, pure legittimamente formulato in modo ampio e generico, atteso che l'opera di raccolta e riordino normativo di una materia comporta, almeno in linea teorica, non la creazione ad libitum di nuove regole, bensi' l'organica sistemazione di norme di legge gia' esistenti nell'ordinamento positivo, integrandole li' dove si renda indispensabile per superare le oggettive disarmonie ed incongruenze, senza esorbitare dai limiti concettuali della materia stessa e da quegli altri specificamente imposti dal legislatore delegante. Diversa questione e' se, nell'attuare una delega siffatta, il Governo abusi del potere di legiferazione conferitogli ad hoc dal Parlamento, inserendo nel testo unico norme "nuove", del tutto estranee o incoerenti rispetto alla ratio, ai principi ed alle norme di dettaglio delle discipline da unificare, ovvero non collocabili nel genus delle disposizioni correttive o di coordinamento "necessarie" (come sarebbe accaduto, ad avviso dei ricorrenti, con l'adozione in via delegata della norma sulla competenza territoriale introdotta con il d.lgs. n. 113/1999). Ma tale questione, a ben vedere, involge, semmai, la costituzionalita' della legge delegata, e non quella della legge-delega. In conclusione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 47, comma 2, legge n. 40/1998, per violazione dell'art. 76 Cost., deve ritenersi manifestamente infondata. 2.2. - Priva della non manifesta infondatezza e, congiuntamente, della rilevanza appare, poi, l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 3, d.lgs. n. 113/1999, il quale, avendo comportato lo spostamento della competenza territoriale in ordine al ricorso avverso il provvedimento di espulsione, avrebbe, secondo i ricorrenti, innovato radicalmente la materia per cio' che attiene alla fase processuale e, quindi, ecceduto dai limiti della delega legislativa. Rileva, di contro, che il Governo era stato espressamente delegato ad emanare, entro due anni dall'entrata in vigore della legge-delega (27 marzo 1998), "uno o piu' decreti legislativi recanti le disposizioni correttive che si dimostrino necessarie per realizzare pienamente i principi della presente legge o per assicurarne la migliore attuazione". Ma se e' vero che, nella legge n. 40/1998, all'art. 11, era specificamente previsto che il ricorso avverso il decreto di espulsione fosse presentato al "pretore del luogo di residenza o di dimora dello straniero" (norma integralmente riprodotta nell'originaria formulazione della legge delegata n. 286/1998, all'art. 13, comma 9) e che tale disposizione e stata sostituita dall'art. 3, d.lgs. 13 aprile 1999 n. 113, prevedendo la competenza sul ricorso de quo del "pretore del luogo in cui ha sede l'autorita' che ha disposto l'espulsione", e' altrettanto vero che la previgente disposizione sulla competenza, ora abrogata dal Governo nel tempestivo esercizio della delega conferitagli dall'art. 47, comma 2 cit., per un verso non sembra integrare, atteso il suo contenuto, alcun principio o criterio direttivo impartito dal legislatore delegante ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 76 Cost. e, per altro verso, ben puo' atteggiarsi a norma "correttiva" necessaria per assicurare la migliore attuazione della delega legislativa e, quindi, rientrare nei limiti in cui quest'ultima e' stata disegnata dal Parlamento. Non sfugge, infatti, che la previgente disposizione, siccome ancorata al criterio della "residenza" o della "dimora" dello straniero ricorrente ossia ad elementi astrattamente oggettivi ed individuabili, ma concretamente privi di possibilita' effettive di individuazione e di verifica, in quanto riferiti, almeno prevalentemente, a persone introdottesi in modo clandestino nel territorio italiano e di solito prive di residenza come di dimora fissa, esponeva a notevoli incertezze applicative il fondamentale presupposto processuale della competenza, la quale avrebbe finito di fatto, per radicarsi in modo per lo piu' accidentale ovvero arbitrariamente stabilito dall'interessato all'impugnativa. Sicche', la novella disposizione sulla competenza di cui al d.lgs. n. 113/1999, avendo l'indiscusso pregio di offrire un criterio certo per fissare il giudice competente a decidere il ricorso, razionalizza il momento della tutela giurisdizionale e, per cio' stesso, consente obiettivamente una migliore attuazione della legge sull'immigrazione, ponendosi cosi' nel pieno rispetto del contenuto espresso della delega legislativa, come innanzi richiamato. Sotto questo profilo, dunque, si apprezza la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, d.lgs. n. 113/1999, per violazione dell'art. 76 Cost., cosi' come sollevata dai ricorrenti. Invero la stessa questione, semmai astrattamente provvista del requisito attinente al "merito" costituzionale, non potrebbe comunque generare la rimessione al giudice delle leggi, in quanto palesemente priva, in concreto, dell'ulteriore requisito della rilevanza. Risulta pacificamente dagli atti del procedimento che il luogo di dimora dei ricorrenti (il campo profughi di Bari-Palese, ove erano stati provvisoriamente ricoverati dopo lo sbarco nel porto di Bari) coincideva, al momento della notifica del decreto di espulsione, esattamente con quello dell'autorita' che lo aveva emanato (il prefetto della provincia di Bari): sicche', pur nell'ipotesi in cui la norma sulla competenza non fosse stata modificata, come e' avvenuto con il d.lgs. n. 113/1999, il giudice competente a decidere su ricorso sarebbe stato comunque quello di Bari (luogo della dimora risultante ex actis) e non quello del diverso luogo (Firenze) in cui gli stessi ricorrenti hanno dedotto, senza minimamente provarlo, di avere trasferito, nientemeno, il prorio "domicilio" nel brevissimo lasso di tempo (cinque giorni) intercorrente fra la notifica dell'espulsione e la proposizione del gravame. 3. - Negativamente valutate le questioni di legittimita' costituzionale sollevate su eccezione di parte, ritiene il giudicante, nell'ercizio del potere d'ufficio riconosciuto dall'art. 23, comma 3, legge n. 87/1953, di rilevare, sotto distinto profilo, l'incostituzionalita' della normativa in esame e, segnatamente, dell'art. 13, comma 9, ultima parte, del d.lgs. n. 286/1998, come sostituito dall'art. 3 del d.lgs. n. 113/1999, nei sensi qui di seguito esposti. La disposizione ora menzionata, che, componendo il testo unico sull'immigrazione, riproduce pedissequamente in parte qua l'art. 11 della legge n. 40/1998 (l'art. 3 d.lgs. n. 113/1999, pur avendo sostituito l'intero comma 9 dell'art. 13 cit., ne ha, di fatto, modificato solo la prima parte, relativa alla competenza), prevede che "il pretore" - in luogo del quale deve ora leggersi il "tribunale in composizione monocratica", per effetto dell'art. 244 del d.lgs. n. 51/1998, entrato in vigore il 2 giugno 1999 - "accoglie o rigetta il ricorso decidendo con unico provvedimento adottato, in ogni caso, entro dieci giorni dalla data di deposito del ricorso, sentito l'interessato, nei modi di cui agli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile". 3.1. - Della disposizione citata risaltano, ai fini de quibus non tanto la previsione del rito camerale in se' e per se', evidentemente rispondente a scelte discrezionali insindacabili poiche' afferenti alla sfera della politica legislativa, quanto l'imposizione di un termine particolarmente esiguo per l'esaurimento del procedimento giurisdizionale mediante la decisione definitiva, termine fissato "in ogni caso" in dieci giorni dalla data di deposito del ricorso. La norma si appalesa, secondo il giudicante, irrispettosa o, comunque, irragionevolmente lesiva del diritto di agire in giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi nonche' del diritto di difesa, che la Carta fondamentale (art. 24, in primis, e art. 10, con riferimento alla titolarita' ed all'esercizio, da parte dello straniero, dei diritti fondamentali generalmente riconosciuti dal diritto internazionale), nell'interpretazione datane dalla Corte costituzionale, garantisce a "tutti", senza distinzioni di condizioni personali e sociali (C. cost. 29 novembre 1960, n. 67; ma ora e' lo stesso t.u. sull'immigrazione che, all'art. 2, riconosce allo straniero parita' di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi), anche nell'ambito dei procedimenti giurisdizionali civili aventi contenuto decisorio (fra le molte, C. cost. 2 luglio 1966 n. 83, 27 gennaio 1974, n. 267), quale deve ritenersi, nella sostanza, il procedimento conseguente all'impugnazione del decreto prefettizio di espulsione, delineato dagli artt. 13 e 13-bis t.u. n. 286/1998, ad onta della sua strutturazione secondo il rito camerale (evincibile sia dal richiamo espresso agli artt. 737 ss. c.p.c. sia dalla previsione della fissazione dell'udienza in camera di consiglio), tipicamente riservato alla giurisdizione volontaria o non contenziosa, normalmente non mirante alla composizione dei conflitti di interessi fra parti contrapposte. Elementi normativi univoci per la qualificazione del procedimento giurisdizionale ex art. 13. cit. in termini contenziosi si rinvengono: nella previsione dell'obbligatoria costituzione del contraddittorio nei confronti dell'autorita' emanante il provvedimento impugnato; nel contenuto (almeno verosimilmente, stante il silenzio della norma sul punto) e, comunque, nell'effetto di annullamento della sanzione amministrativa dell'espulsione, scaturente dalla decisione di accoglimento del ricorso; nella ricorribilita' per cassazione del provvedimento giudiziale che definisce l'impugnazione (la prima e l'ultima delle norme appena elencate sono state inserite nel t.u. n. 286/1998, all'art. 13-bis, mediante il d.lgs. n. 113/1999). La tendenza, non nuova nel nostro ordinamento, ad estendere il rito camerale, per sua natura semplificato, agile e rapido, ad ipotesi di vera e propria giurisdizione contenziosa (c.d. cameralizzazione della tutela giurisdizionale), in cui si faccia questione di diritti soggettivi o di status individuali fra parti portatrici di interessi in contrasto, vieppiu' connotati da rilevanti profili pubblicistici - cio' appare innegabile nel caso del ricorso al giudice ordinario disciplinato dal t.u. sull'immigrazione e sulla condizione giuridica dello straniero, che potenzialmente involge, con il diritto alla permanenza nel territorio italiano, la tutela di beni essenziali e primari della persona, quali la salute, la vita, l'abitazione, il lavoro, l'educazione, tutti fortemente compromessi o a rischio nei paesi di provenienza, interessati, vuoi per endemiche condizioni di arretratezza e poverta' vuoi per contingenti ed eccezionali situazioni belliche o dittatoriali, da fenomeni migratori di massa verso i paesi "ricchi" in cui albergano le c.d. democrazie occidentali - se, come innanzi cennato, e' insindacabile in linea di principio, non puo' risolversi in un'attenuazione della garanzia di tutela giurisdizionale, la quale, per essere seria, adeguata ed effettiva, deve sempre assicurare a chi agisce ovvero si difende in giudizio un minimo irrinunciabile. In generale - come e stato piu' volte osservato nella giurisprudenza costituzionale (sent. n. 202/1975, ord. n. 748/1988 ed altre) - la sommarieta' delle forme processuali e l'urgenza dell'accertamento giurisdizionale, che tipicamente ineriscono ai procedimenti in camera di consiglio, non sono di per se' incompatibili con l'art. 24 Cost., laddove esse non precludano alle parti, soggette all'autorita' ed agli effetti del provvedimento finale, la preventiva possibilita' di difendersi, sebbene secondo le modalita' ritenute, caso per caso, piu' adatte alla struttura ed alle finalita' dei singoli procedimenti, e non si risolvano nella violazione di specifici precetti costituzionali, ne' del generale canone della ragionevolezza, insito nell'art. 3 Cost. Sennonche' il presidio minimale del diritto di azione e di difesa in giudizio, da garantirsi anche in sede di procedura camerale a contenuto contenzioso, non puo' non comprendere, fra l'altro, il diritto alla prova, coessenziale alla tutela giurisdizionale, nella misura in cui esso rappresenta lo strumento imprescindibile per l'accertamento dei fatti, la ricerca della verita' e l'attuazione della giustizia. La valenza del diritto alla prova rispetto alla garanzia dell'art. 24 Cost. e' attestata da svariati precedenti giurisprudenziali, fra i quali Corte cost. n. 53/1966, n. 132/1972, n. 56/1980, nonche' n. 202/1975, in cui si dichiarava l'illegittimita' costituzionale della normativa di un procedimento camerale di tipo contenzioso, sull'espresso rilievo che esso, limitando le possibilita' di accertamento istruttorio all'assunzione di mezzi atipici e non formali di indagine, non consentiva il normale esercizio della facolta' di prova. Da tale specifico profilo deve convenientemente trarsi spunto per meglio illustrare, nel dettaglio, i motivi fondanti il sospetto d'incostituzionalita' che col presente provvedimento s'avanza. Il sistema di tutela giurisdizionale dello straniero nei confronti dell'amministrazione competente ad adottare il provvedimento espulsivo previsto dall'art. 13, comma 2, t.u. n. 286/1998 e' incentrato sul ricorso al giudice ordinario e si snoda attraverso un procedimento regolato da poche e scarne norme speciali (quelle poste dallo stesso art. 13 e dal successivo art. 13-bis) nonche', in via generale, e nei limiti della compatibilita', dalla disciplina comune ai procedimenti in camera di consiglio (artt. 737-742-bis c.p.c.). Dalla combinazione fra disposizioni speciali e disposizioni generali si ricava che: a) l'impugnativa proposta dallo straniero deve decisa dal giudice con un provvedimento definitorio (di accoglimento o di rigetto, secondo l'espresso dettato normativo; ma, ovviamente, anche di rito, come nell'ipotesi, pure espressamente prevista, dell'inammissibilita' per tardivita') da adottarsi "in ogni caso entro dieci giorni dalla data del deposito del ricorso"; b) l'unica attivita' istruttoria contemplata consiste nell'audizione dell'interessato (art. 13, comma 9) o nell'assunzione di informazioni (art. 738, comma 3, c.p.c.). In altre parole, nel disegno emergente dal dettato legislativo, il procedimento, nel passaggio attraverso le fasi necessarie dell'introduzione (deposito del ricorso), della fissazione dell'udienza in camera di consiglio, della costituzione del contraddittorio (notifica del ricorso e del decreto di fissazione al prefetto), della celebrazione dell'udienza di comparizione, dell'assunzione delle dichiarazioni del ricorrente, della deliberazione del giudice e del deposito della decisione, deve compiersi in appena dieci giorni. Premesso che, in assoluto, la previsione legislativa circa la durata massima di un procedimento giurisdizionale rappresenta un caso eccezionale nel nostro ordinamento e che esso, laddove si verifichi (come nella disciplina del riesame delle misure cautelari adottate nel procedimento penale), costituisce una forma di garanzia nell'interesse esclusivo della parte negativamente incisa dal provvedimento impugnato (mediante la sanzione di inefficacia della misura soggetta al riesame tardivamente definito), nella fattispecie del procedimento di opposizione al decreto di espulsione prefettizio accade, di contro, che l'eventuale inutile decorso del termine di dieci giorni per la decisione del ricorso si risolve esclusivamente in danno dello straniero, il quale, allo scadere dell'intimazione a lasciare il territorio italiano, notificata in uno con l'espulsione e commisurata in un tempo di quindici giorni, esattamente coincidente con l'estensione temporale massima della fase processuale eventualmente attivata (cinque giorni per la proposizione del ricorso piu' dieci giorni per la pronuncia del provvedimento che lo decide), resta esposto all'esecuzione dell'espulsione mediante l'accompagnamento coatto alla frontiera, affidato alla forza pubblica (art. 13, comma 4, t.u. n. 286/1998), essendo, da un lato, il ricorso giurisdizionale di per se' privo di efficacia sospensiva del decreto del prefetto e mancando, dall'altro, una norma che attribuisca al giudice adito il potere di disporre, anche d'ufficio, la sospensione dell'esecuzione del provvedimento amministrativo impugnato (non diversamente, per esempio, da quanto previsto dall'art. 22, legge n. 689/1981, che, del tutto analogamente all'art. 13 cit., disciplina un'ipotesi di giurisdizione di annullamento di provvedimenti sanzionatori della p.a. affidata al giudice ordinario). Siffatto rilievo toglie pregio a qualunque discussione circa la natura del termine per la definizione del procedimento ex art. 13 t.u. n. 286/1998, poiche', in disparte l'effettivo valore precettivo dell'inciso "in ogni caso", con il quale il legislatore ha accompagnato la previsione del tempo massimo in cui deve intervenire la decisione del ricorso, e' certo che, al di fuori della durata legale del procedimento giurisdizionale, la sanzione prefettizia, ineseguibile legittimamente prima del compiersi di quel tempo, possa spiegare per intero i suoi effetti. Ne deriva che la ristrettezza del citato termine di dieci giorni, esaltata nell'importanza dalla non neutralita' dello stesso per gli interessi del sanzionato e della impossibilita' di paralizzare in via cautelare il provvedimento espulsivo, comporta un'evidente incidenza negativa sulla pienezza e sull'effettivita' della garanzia del diritto di azione, quante volte esso risulti annullato o sacrificato in una delle sue componeti essenziali, quali, ad esempio il diritto alla prova. E' infatti impensabile o, quanto meno, assai difficilmente realizzabile che, qualora insorga la necessita' di un approfondimento istruttorio circa un fatto rilevante al fine della verifica della legittimita' dell'azione amministrativa censurata, il giudice riesca a provvedervi adeguatamente nel nullo o risicatissimo spazio temporale che residua, rispetto al tetto massimo dei dieci giorni, dal compimento di tutte le attivita' procedurali e decisorie minime ed indispensabili, susseguenti al deposito del ricorso, e dal trascorrere dei tempi tecnici ad esse inevitabilmente connessi (da quelli per l'assegnazione del ricorso e per la sua materiale trasmissione al giudice assegnatario, a quelli per gli adempimenti di cancelleria inerenti la notifica del decreto di comparizione, a quelli, infine, per lo studio e la decisione della controversia). Non e' neppure necessario, al fine di cogliere l'incostituzionalita' della disposizione in esame, echeggiare la dibattuta questione teorica relativa all'ammissibilita', nei procedimenti camerali a struttura plurilaterale imperniata su almeno due parti sostaziali in conflitto, di mezzi di istruttori tipici, che si sostituiscano o integrino quelli atipici (assunzione di informazioni) propri della giurisdizione non contenziosa. Essenziale e sufficiente appare invece evidenziare che, formale o informale, tipica o atipica che sia, l'attivita' istruttoria nell'ambito di un procedimento giurisdizionale, per di piu' a forte connotazione inquisitoria, quale il procedimento con rito camerale (su tale linea sembra schierarsi, oltre ad una nutrita parte della dottrina, la giurisprudenza di legittimita', allorquando spinge l'iniziativa ufficiosa del giudice oltre i limiti dell'assunzione delle informazioni: Cass., 25 maggio 1982 n. 3180 e 16 giugno 1983 n. 4128), risulta grandemente menomata dall'autonomo operare e, comunque, dall'effetto combinato di due dati normativi emergenti dalla disciplina in oggetto: l'uno positivo, consistente nella fissazione, persino in termini assoluti (l'inciso "in ogni caso"), di un termine brevissimo per la definizione complessiva del procedimento; l'altro negativo, consistente nell'omessa previsione di un poter sospensivo dell'esecuzione del provvedimento di espulsione impugnato, che consenta al giudice, quanto meno per gravi motivi, apprezzabili o ab initio (il fumus boni juris del ricorso) o in corso di procedimento (l'effettiva necessita' di svolgere attivita' istruttoria ulteriore rispetto alla mera audizione dell'interessato), di rendere sostanzialmente neutro per il ricorrente lo spirare del termine per emettere la decisione finale, impedendo il dispiegarsi di un'attivita' amministrativa probabilmente illegittima, oltre che immancabilmente foriera, per il sanzionato, di intuibili conseguenze pregiudizievoli non (o non integralmente) riparabili. E tanto basta ad integrare la violazione dei precetti costituzionali sopra richiamati. 3.2. - Alla non manifesta infondatezza della questione nei sensi sin qui illustrati si coniuga la concreta rilevanza della stessa nell'ambito del procedimento dal quale essa scaturisce. In proposito ci si puo' limitare a rimarcare che, fra i profili di illegittimita' dei provvedimenti prefettizi denunciati con i ricorsi introduttivi, quelli che si presentano, prima facie, giuridicamente piu' convincenti attengono alla violazione dei divieti espressi di espulsione stabiliti dall'art. 19 t.u. n. 286/1998: in particolare, il divieto di espulsione verso uno Stato in cui lo straniero possa esere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali (comma 1); il divieto di espulsione nei confronti delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono (comma 2). Tutti i ricorrenti, costituenti due distinti nuclei familiari, hanno allegato l'appartenenza all'etnia Rom, notoriamente soggetta, almeno sino a tempi recentissimi, a vendette e persecuzioni in alcuni dei territori della ex Jugoslavia: sennonche' l'identita' etnica, che non risulta da alcun documento acquisito al giudizio, ne' e' stata confermata dall'autorita' amministrativa resistente, costituisce un dato fattuale sicuramente determinante ai fini dell'applicabilita' del divieto in questione, ma attualmente indimostrato in giudizio, ancorche' concretamente dimostrabile mediante l'assunzione di informazione da terzi (per esempio, profughi sbarcati a Bari con i ricorrenti il 19 agosto 1999) circa le origini, le abitudini di vita, la cultura o la religione degli Ibrahimi e dei Gasi. Parimenti un adeguato approfondimento istruttorio, conseguibile o con la produzione di certificati medici in originale o con l'espletamento di una c.t.u., merita la crcostanza dell'avanzato stato di gravidanza in cui verserebbero sia Ibrahimi Sabahete sia Gasi Seljvete, stante la contraddittorieta' delle attuali risultanze del procedimento, concentrate, da un lato, nella produzione, da parte della difesa delle ricorrenti, di due certificati medici in copia fotostatica e non perfettamente leggibili quanto all'autore e, dall'altro, la dichiarazione resa dal funzionario di p.s. comparso in rappresentanza del prefetto, secondo cui le gravidanze non furono ne' notate dal personale della questura, ne' dichiarate all'infermeria del campo di Bari-Palese, ove le ricorrenti avevano soggiornato per oltre due settimane. Le suevidenziate esigenze istruttorie, obiettivamente indispensabili per l'accertamento, anche per iniziativa d'ufficio, di fatti dalla cui sussistenza dipende la fondatezza dei ricorsi, risultano pero' frustrate dalla disposizione che impone l'adozione del provvedimento definitorio del merito entro dieci giorni dall'introduzione del giudizio, in quanto richiedono provvedimenti interlocutori ed attivita' procedurali sicuramente conducenti al superamento del limite temporale di legge e, con esso, all'eseguibilita' coatta dei provvedimenti di espulsione, non evitabile, neppure in via cautelare e provvisoria, da un ordine giudiziale di sospensione, sconosciuto al sistema di tutela giurisdizionale dello straniero secondo l'art. 13, t.u. n. 286/1998. 4. - La questione di legittimita' costituzionale della disposizione da ultimo menzionata va espressamente estesa, per le medesime ragioni di non manifesta infondatezza e di rilevanza, all'art. 11, comma 9, ultima parte, della legge 6 marzo 1998, n. 40, costituente la fonte originaria della disciplina censurata, trasfusa integralmente nel testo unico emanato per delega legislativa.
P. Q. M. Applicato l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Rigetta le eccezioni di illegittimita' costituzionale sollevate dai ricorrenti; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 9, della legge 6 marzo 1998, n. 40 e dell'art. 13, comma 9, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, come sostituito dall'art. 3 del d.lgs. 13 aprile 1999 n. 113, in riferimento agli artt. 3, 24 e 10 Cost., nella parte in cui prevedono che il pretore (ora il tribunale in composizione monocratica) decide sul ricorso dello straniero contro il decreto di espulsione del prefetto con unico provvedimento, di accoglimento o di rigetto, adottato, in ogni caso, entro dieci giorni dalla data di deposito del ricorso, nonche' nella parte in cui non prevedono il potere cautelare del giudice adito di sospendere per gravi motivi l'esecuzione del provvedimento impugnato; Sospende il procedimento in corso; Ordina la trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che il presente provvedimento sia notificato al Presidente del Consiglio dei Ministri e alle parti (ricorrenti e prefetto della provincia di Bari), nonche' comunicato ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, a cura della cancelleria. Bari, addi' 21 settembre 1999. Il giudice: Ruffino 99C1181