N. 189 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 luglio 2014

Ordinanza del 14 luglio 2014 emessa dal Tribunale di sorveglianza  di
Napoli nel procedimento di sorveglianza nei confronti di F.A.. 
 
Esecuzione penale - Procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza
  nelle  materie  di  competenza  -  Svolgimento,  su  istanza  degli
  interessati, nelle forme  dell'udienza  pubblica  -  Preclusione  -
  Violazione del principio del giusto processo  -  Contrasto  con  il
  principio  di  pubblicita'  dei  procedimenti  giudiziari,  sancito
  dall'art. 6 della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
  diritti dell'uomo (CEDU), come interpretato dalla Corte europea dei
  diritti dell'uomo - Inosservanza degli  obblighi  internazionali  -
  Richiamo alle sentenze n. 93 del 2010 e n. 135 del 2014 della Corte
  costituzionale. 
- Codice di procedura penale, artt. 678, comma 1, e 666, comma 3. 
- Costituzione, artt. 111,  primo  comma,  e  117,  primo  comma,  in
  relazione all'art. 6 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
  diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
(GU n.46 del 5-11-2014 )
 
                 TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI NAPOLI 
                            Il Tribunale 
 
    L'anno 2014 giorno 30 del mese di giugno in Napoli si e'  riunito
in Camera di Consiglio nelle persone dei componenti: 
    Dott. Di Giovanni Angelica, Presidente 
    "Spinelli Giovanna, Giudice relatore 
    "Casello Domenico, Esperto 
    "D'Aniello Luisa, Esperto 
    con la  partecipazione  dei  dott.  Piccirillo  Alessandro  Sost.
Procuratore Generale presso la Certe  di  Appello  di  Napoli  e  con
l'assistenza  del  sottoscritto  Cancelliere  per  deliberare   sulla
domanda di: 
      Detenzione Domiciliare art. 47-ter O.P. 
    presentata da F. A. nato a N. (Prov. ...) (Italia) il 5  febbraio
1951, libero, condannato con Sentenza n. 2011/1513 Reg. Gen.,  emessa
in data 8 giugno 2011 da Gip Presso il  Tribunale  Ordinario  Napoli,
confermata in data  23  novembre  2011  da  Corte  d'Appello  Napoli,
definitiva il 16 novembre 2012,  alla  pena  di  anni  2  mesi  8  di
reclusione per i seguenti reati: 
      Reato 1: art. 110 C.P. data  consumazione:  4  ottobre  2010  -
luogo: Napoli, art. 81 c. 2 C.P.,  art.  73  decreto  del  Presidente
della Repubblica del 1990 n. 309. 
    Letti gli atti; 
    Nel  procedimento  di  sorveglianza  innanzi  il  TS  Napoli  per
l'esecuzione della pena ex artt. 656,  5  comma  c.p.p.  e  artt  47,
47-ter e 50 l.p. fissato all'udienza odierna nei confronti di F.  A.,
condannata alla pena della reclusione di anni due e mesi  8  in  rif.
sent. 8 giugno 2011, GIP Trib. Napoli,  la  difesa  chiedeva  che  la
procedura venisse trattata in forma pubblica. 
    L'istanza non puo' trovare accoglimento alla luce della normativa
vigente. 
    Sul punto,  ritiene  questo  collegio  eccepire  l'illegittimita'
costituzionale   degli   articoli   dell'ordinamento   vigente,   che
regolamentano il procedimento di sorveglianza. 
    Ed invero, l'art. 678, comma 1, c.p.p. dispone che «Il  tribunale
di sorveglianza nelle  materie  di  competenza  e  il  magistrato  di
sorveglianza nelle materie attinenti ...., procedono, a richiesta del
pubblico ministero, dell'interessato, del difensore o di  ufficio,  a
norma dell'art. 666». 
    A sua volta, l'art. 666,  comma  3,  c.p.p.  sul  punto  sancisce
espressamente che ..... «il giudice o  il  presidente  del  collegio,
designato il difensore fissa la data della camera di consiglio  e  ne
fa dare avviso alle parti e al difensore». 
    Il  dettato  normativo  risulta,   pertanto,   inequivoco   nello
stabilire che il procedimento di sorveglianza abbia luogo «in  camera
di consiglio»: formula che - alla luce di un consolidato orientamento
della giurisprudenza di legittimita',  nonche'  di  espresso  dettato
normativo - implica attualmente un rinvio  alla  disciplina  generale
dettata dall'art. 127 c.p.p.,  il  quale  prevede  espressamente,  al
comma 6, che l'udienza in camera di  consiglio  -  e,  dunque,  anche
quella del procedimento che interessa - si svolga «senza la  presenza
del pubblico». 
    La  previsione  per  cui  la  procedura  si  svolge  «in   camera
consiglio» comporta,  infatti,  -  in  conformita'  ad  un  indirizzo
interpretativo avallato anche dalle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione (sentenza 28 maggio 2003-18 giugno  2003,  n.  26156)  per
cui, il descritto dall'art. 127 c.p.p., deve  «applicarsi  anche  nei
casi in cui il legislatore, nel prescrivere che  il  procedimento  si
svolga in "camera di  consiglio",  senza  regolamentarne  particolari
diversita' di struttura, ometta di  fare  espresso  riferimento  alle
forme dell'art. 127 del codice di rito»  -  l'operativita',  ove  non
diversamente  disposto,  della  disciplina  generale  in  materia  di
"procedimento in camera di consiglio" dettata dall'art.  127  c.p.p.:
e, dunque - in mancanza di previsioni derogatorie sul punto  -  anche
della disposizione del comma 6 di tale articolo, in forza della quale
«l'udienza si svolge senza la presenza del pubblico». 
    Pertanto,  non  puo'  ragionevolmente  escludersi  che  le  norme
censurate - prevedendo  che  la  procedura  di  sorveglianza  per  la
esecuzione della pena si svolga, senza alcuna eccezione, in camera di
consiglio e, dunque, senza la partecipazione del pubblico  -  violino
l'art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi  in  contrasto
con il principio di pubblicita' dei procedimenti giudiziari,  sancito
dall'art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), cosi' come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    Ed invero, l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nel  nuovo  testo
introdotto  dalla  legge  costituzionale  18  ottobre  2001,   n.   3
(Modifiche al titolo  V  della  parte  seconda  della  Costituzione),
impone  al  legislatore  il  rispetto  dei  vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali: parametro rispetto al quale - secondo quanto
chiarito dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, Corte costituzionale -
le disposizioni della CEDU, nell'interpretazione datane  dalla  Corte
di Strasburgo, assumono il ruolo di «norme interposte». 
    Come ribadito dalla Corte Costituzionale nella  sentenza  93  del
2010, nell'analizzare il contrasto  tra  la  normativa  interna  e  i
vincoli   derivanti   dagli   obblighi   internazionali   di    fonte
convenzionale e, in  particolare,  con  gli  obblighi  imposti  dalle
disposizioni della CEDU, «il giudice comune,  sempre  alla  luce  dei
dicta delle citate sentenze n. 348 e 349 del 2007, non e' abilitato a
disapplicare  la   disciplina   interna   contrastante   con   quella
convenzionale»; onde non resta altra via, per rimuovere  il  rilevato
contrasto,  che  quella  di  sollevare  questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Infatti, a partire dalle sentenze n.  348  e  349  del  2007,  la
giurisprudenza della Corte e' costante  nel  ritenere  che  le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della
Convenzione) - integrano,  quali  «norme  interposte»,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317  e
311 del 2009, n. 38 del 2008). 
    Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra  una  norma
interna e una norma della CEDU, il  giudice  nazionale  comune  deve,
quindi,  preventivamente  verificare   la   praticabilita'   di   una
interpretazione  della  prima  conforme  alla  norma   convenzionale,
ricorrendo a tutti  i  normali  strumenti  di  ermeneutica  giuridica
(sent. n. 239 del 2009) e, ove tale soluzione risulti  impercorribile
(non potendo egli disapplicare la norma interna  contrastante),  deve
denunciare  la  rilevata  incompatibilita'  proponendo  questione  di
legittimita'  costituzionale  in  riferimento  al  parametro   dianzi
indicato. 
    A sua volta,  nel  procedere  al  relativo  scrutinio,  la  Corte
Costituzionale, pur non  potendo  sindacare  l'interpretazione  della
CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata  a  verificare
se la norma della Convenzione, come da quella  Corte  interpretata  -
norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si
ponga eventualmente in conflitto con altre norme della  Costituzione:
ipotesi eccezionale nella quale dovra' essere  esclusa  la  idoneita'
della  norma  convenzionale  a  integrare  il  parametro  considerato
(sentenze n. 311 del 2009 e n. 348 e n. 349 del 2007). 
    Nel caso di  specie,  le  norme  richiamate  non  consentono  una
lettura diversa all'interno del vigente quadro normativa,  dal  quale
emerge  con  chiarezza  che  il  procedimento   di   sorveglianza   -
procedimento del quale e' indiscutibile e  ormai  costituzionalizzato
il carattere giurisdizionale - si  svolge  in  camera  di  consiglio,
senza la partecipazione del pubblico, ex art 666, comma 3, 678, comma
1, e 127, comma 6, c.p.p. 
    Le  enunciate  affermazioni  della  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo  inducono,   inoltre,   a   dubitare   della   legittimita'
costituzionale delle norme censurate anche con  riferimento  all'art.
111, primo comma, Cost., in forza del quale la giurisdizione si attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge. 
    Le norme sottoposte  a  scrutinio,  infatti,  vengono  a  ledere,
altresi', l'art. 111, primo comma, Cost., in quanto - a  causa  della
gravita'  e  specificita'  delle  misure  adottabili   dall'autorita'
giudiziaria a seguito della procedura  considerata  -  l'attribuzione
agli interessati della facolta'  di  richiederne  la  trattazione  in
udienza pubblica risulterebbe indispensabile ai fini  dell'attuazione
di un «equo processo». 
    Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dagli  artt.  666,
678 e 127 c.p.p. appaia strutturato, nel complesso, in  maniera  tale
da assicurare l'effettivita' del diritto di difesa, la previsione del
suo svolgimento nella forma dell'udienza  camerate  non  si  presenta
idoneo  a  garantire  un  controllo   sull'esercizio   dell'attivita'
giurisdizionale adeguato alla gravita' dei provvedimenti  adottabili,
atti ad incidere  in  modo  definitivo,  diretto  e  immediato  sulla
liberta' personale dell'interessato. 
    In tale prospettiva, anche ai fini dell'attuazione  di  un  «equo
processo», dovrebbe essere prevista la possibilita'  di  svolgere  il
procedimento in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati. 
    In particolare, se risponde a verita'  che  il  legislatore  puo'
dettare diverse e differenti  procedure  processuali,  purche'  resti
garantito il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., non puo'  revocarsi
in  dubbio  che  la  gravita'  dei  provvedimenti  adottabili   dalla
magistratura di sorveglianza nel procedimento di specie necessiti  la
pubblicita'   dell'udienza,    quale    garanzia    di    trasparenza
dell'attivita' giurisdizionale e attuazione del giusto processo. 
    Quanto, infine, alla  rilevanza  della  questione,  essa  risulta
indubbia, giacche' il  difensore  dell'interessato  ha  espressamente
chiesto che il procedimento potesse svolgersi in pubblica udienza. 
    La Corte Costituzionale, nella citata sentenza, n. 93  del  2010,
precisava che «Tale assetto (in materia  di  misure  di  prevenzione)
induce, pertanto, a dubitare della  compatibilita'  della  disciplina
italiana del procedimento applicativo delle misure di  sicurezza  con
l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il quale stabilisce - per la parte
conferente - che "ogni persona  ha  diritto  che  la  sua  causa  sia
esaminata [...], pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di
un  tribunale  indipendente  e   imparziale   [...]",   soggiungendo,
altresi', che «il giudizio deve essere pubblico, ma l'ingresso  nella
sala di udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante
tutto o parte del processo nell'interesse della  morale,  dell'ordine
pubblico o della sicurezza nazionale  in  una  societa'  democratica,
quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa, o nella misura  giudicata  strettamente
necessaria  dal  tribunale,  quando  in   circostanze   speciali   la
pubblicita' puo' pregiudicare gli interessi della giustizia». 
    Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, alla luce di  una  ormai
consolidata giurisprudenza, - pur  a  fronte  dell'elevato  grado  di
tecnicismo proprio di taluni procedimenti e delle esigenze,  in  essi
sovente  presenti,  di  protezione  della  vita  privata   di   terzi
indirettamente interessati - l'entita' della «posta in gioco»  e  gli
effetti  che  le  procedure  stesse  possono  produrre  impongono  di
ritenere  che  il  controllo  del   pubblico   sull'esercizio   della
giurisdizione rappresenti  una  condizione  necessaria  ai  fini  del
rispetto dei diritti dei soggetti  coinvolti,  onde  dovrebbe  essere
offerta ai  medesimi  «almeno  la  possibilita'  di  sollecitare  una
pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei  tribunali  e
delle corti d'appello» competenti. 
    Cio' premesso, occorre rilevare che, con recenti  pronunce  -  la
sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia,  sentenza
8 luglio 2008, Pierre ed altri contro Italia,  nonche',  sentenza  14
aprile 2012, Lorenzetti contro Italia - la Corte europea dei  diritti
dell'uomo, decidendo per altre materie, ha affermato che la procedura
«in camera di  consiglio»,  ovvero  senza  pubblicita',  si  pone  in
contrasto, sotto il profilo considerato, con l'art. 6,  paragrafo  1,
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il  4  novembre  1950  e
resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte
in cui prescrive che «ogni persona ha diritto a che la sua causa  sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da
un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, il quale
decidera' sia  delle  controversie  sui  suoi  diritti  e  doveri  di
carattere civile, sia della fondatezza di ogni causa  penale  che  le
venga rivolta... » 
    Richiamando la propria giurisprudenza,  la  Corte  di  Strasburgo
ribadiva,  peraltro,  in  tema  di  misure  di  prevenzione,  che  la
pubblicita' delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma
della Convenzione, tutela le persone soggette  ad  una  giurisdizione
contro una «giustizia segreta», che sfugge al controllo del pubblico,
e costituisce uno dei mezzi idonei  per  preservare  la  fiducia  nei
giudici. Con particolare riguardo a taluni procedimenti, la Corte non
ha negato validita' ai rilievi svolti,  per  giustificare  la  deroga
alla  pubblicita'  delle  udienze:  e,  cioe'  -nel  caso  allora  in
esame-che le procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione
- in specie patrimoniali - possono assumere  un  carattere  altamente
tecnico, in quanto basate  essenzialmente  su  documenti  e  indagini
finanziarie, e  possono  implicare,  al  tempo  stesso,  esigenze  di
protezione  della  vita  privata  di  terze  persone,  anche  minori,
coinvolte quali intestatari formali dei beni.  La  Corte  europea  ha
rilevato, tuttavia, che e' necessario tener  conto  della  «posta  in
gioco» nelle procedure in esame, le quali  mirano  alla  confisca  di
«beni e capitali», nonche' degli effetti che  esse  possono  produrre
sulle persone coinvolte:  in  questa  prospettiva  non  e'  possibile
affermare  che  il  controllo  del  pubblico  non   rappresenti   una
condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato.  Di
conseguenza, ha giudicato «essenziale»,  ai  fini  del  rispetto  del
citato art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione,  che  i  soggetti
coinvolti  nelle  procedure  stesse  «si  vedano  almeno  offrire  la
possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». 
    Se la Corte Europea, infatti, si esprimeva in tal modo in tema di
misure di  prevenzione,  che  mirano  alla  confisca  di  beni  e  di
capitali, a maggior ragione dovrebbe  convenirsi  che,  nel  caso  di
specie, dinanzi a procedure che investono direttamente  la  "liberta'
personale  del  soggetto",  trattandosi  di  applicazione  di  misure
detentive o non  detenive  -  non  carcere-differimento  della  pena,
carcere o misure alternative alla detenzione - debba ritenersi  ancor
piu' «essenziale» il controllo del pubblico, atto a rappresentare una
condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato. 
    Cio' premesso, occorre rilevare che con recentissima sentenza del
19 maggio 2014, n. 135 del 2014, la Corte Costituzionale  accogliendo
l'eccezione di incostituzionalita' proposta dal MS Napoli  dichiarava
la illegittimita' costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma
1, e 679,  comma  1,  cod.  proc.  pen.,  «nella  parte  in  cui  non
consentono che, su istanza degli  interessati,  il  procedimento  per
l'applicazione delle  misure  di  sicurezza  si  svolga,  davanti  al
magistrato di sorveglianza e  al  tribunale  di  sorveglianza,  nelle
forme dell'udienza pubblica.» 
    Ricorda la Corte Costituzionale che: «Con la sentenza n.  93  del
2010, questa Corte ha gia' dichiarato costituzionalmente illegittimi,
per contrasto con il secondo dei parametri indicati, l'art.  4  della
legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei  confronti
delle  persone  pericolose  per  la  sicurezza  e  per  la   pubblica
moralita') e  l'art.  2-ter  della  legge  31  maggio  1965,  n.  575
(Disposizioni contro la mafia), nella parte  in  cui  non  consentono
che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione
delle misure di prevenzione si svolga, davanti al  tribunale  e  alla
corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. 
    Considerazioni analoghe a quelle  svolte  in  detta  decisione  -
successivamente recepita dal legislatore negli artt. 7,  comma  1,  e
10, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice
delle leggi antimafia e delle misure di  prevenzione,  nonche'  nuove
disposizioni in materia di documentazione antimafia,  a  norma  degli
articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136)  -  valgono  anche
agli odierni fini. 
    Secondo la giurisprudenza di questa  Corte,  costante  a  partire
dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le norme della  CEDU  -  nel
significato  loro  attribuito  dalla  Corte   europea   dei   diritti
dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione)  -  integrano,
quali  «norme  interposte»,  il  parametro  costituzionale   espresso
dall'art. 117, primo comma, Cost.,  nella  parte  in  cui  impone  la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
«obblighi internazionali» (ex plurimis, sentenze n. 30 del  2014,  n.
264 del 2012, n. 236, n. 113 e n. 80 del 2011). Ne deriva che, ove si
profili un contrasto - non superabile a mezzo di una  interpretazione
«adeguatrice» - fra una norma interna e  una  norma  della  CEDU,  il
giudice comune,  non  potendo  rimuoverlo  tramite  la  semplice  non
applicazione  della  norma  interna,  deve  denunciare  la   rilevata
incompatibilita' tramite la proposizione di una questione incidentale
di  legittimita'   costituzionale   per   violazione   del   suddetto
parametro». 
    E  piu'  da  presso,  sul  procedimento   di   sicurezza,   nella
recentissima sentenza la Corte rileva che il procedimento  in  camera
di consiglio ex artt. 666, comma 3, e 678, punto 1, c.p.p ".... 
    "Siffatto regime non appare, tuttavia, compatibile con l'art.  6,
paragrafo 1, della CEDU, il quale stabilisce -per la parte conferente
- che "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata [...]
pubblicamente  ed  entro  un  termine  ragionevole  da  un  tribunale
indipendente e imparziale [...]",  soggiungendo,  altresi',  che  «la
sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso nella  sala  di
udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o
parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine  pubblico
o della sicurezza nazionale in una societa'  democratica,  quando  lo
esigono gli interessi dei minori o la protezione della  vita  privata
delle  parti  in  causa,  o,  nella  misura  giudicata   strettamente
necessaria  dal  tribunale,  quando  in   circostanze   speciali   la
pubblicita'  possa   portare   pregiudizio   agli   interessi   della
giustizia». 
    La  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo   ha   reiteratamente
ravvisato  una  simile  situazione  di  contrasto  con  riguardo   al
procedimento applicativo delle misure di prevenzione,  del  quale  la
disciplina  italiana  vigente  all'epoca   prevedeva   parimenti   la
trattazione in forma camerale (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e
Rizza contro Italia, sulla cui scia sentenza 17 maggio 2011, Capitani
e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio  2010,  Leone  contro
Italia; sentenza 5 gennaio  2010,  Bongiorno  e  altricontro  Italia;
sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia). 
    A tale conclusione la Corte europea e' pervenuta  richiamando  la
propria costante giurisprudenza,  secondo  la  quale  la  pubblicita'
delle  procedure  giudiziarie  tutela  le   persone   soggette   alla
giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge  al  controllo
del pubblico, e costituisce anche uno  strumento  per  preservare  la
fiducia  nei  giudici,  contribuendo  cosi'  a  realizzare  lo  scopo
dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l'equo processo. 
    Come attestano le eccezioni previste dalla  seconda  parte  della
norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita'  giudiziarie
di derogare al principio di pubblicita' dell'udienza. La stessa Corte
europea  ha,  d'altra   parte,   ritenuto   che   alcune   situazioni
eccezionali, attinenti alla natura  delle  questioni  da  trattare  -
quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso -
possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica.  In
ogni caso, tuttavia, l'udienza a porte  chiuse,  per  tutta  o  parte
della durata, deve essere  «strettamente  imposta  dalle  circostanze
della causa». 
    Con riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame,  la  Corte
europea non ha contestato che il procedimento per  l'applicazione  di
misure  di  prevenzione  possa  presentare  «un  elevato   grado   di
tecnicita'», in quanto tendente - nel caso di misure  patrimoniali  -
al controllo «delle finanze e dei movimenti di capitali», o che possa
talora coinvolgere «interessi superiori», quale la  protezione  della
vita privata di terze persone  indirettamente  interessate  da  detto
controllo. Non e' tuttavia possibile - secondo la Corte europea - non
tener conto dell'entita' della «posta in gioco»  nelle  procedure  in
questione - le quali mirano  alla  confisca  di  «beni  e  capitali»,
incidendo cosi'  direttamente  sulla  situazione  patrimoniale  della
persona soggetta a giurisdizione - nonche'  degli  effetti  che  esse
possono produrre sulle persone: situazione a fronte della quale  «non
si puo'  affermare  che  il  controllo  del  pubblico»  -  almeno  su
sollecitazione del soggetto  coinvolto  -  «non  sia  una  condizione
necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato». 
    Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di  Strasburgo  ha,
quindi, ritenuto «essenziale»,  ai  fini  della  realizzazione  della
garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone [...]
coinvolte  in  un  procedimento  di  applicazione  delle  misure   di
prevenzione si vedano almeno offrire la possibilita'  di  sollecitare
una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali
e delle corti d'appello». 
    La Corte,  sent.  135/2014,  sottolinea  ancora  che  in  termini
analoghi la Corte europea  si  e'  espressa,  piu'  di  recente,  con
riferimento  al  procedimento  per   la   riparazione   dell'ingiusta
detenzione, del quale la legge processuale italiana (art. 315,  comma
3, in relazione all'art. 646, comma 1, cod.  proc.  pen.)  egualmente
prevede lo svolgimento nelle forme dell'udienza camerale (sentenza 10
aprile 2012, Lorenzetti contro Italia). 
    «Anche in  questo  caso,  la  Corte  di  Strasburgo  ha  ritenuto
essenziale che i singoli coinvolti nella procedura  fruiscano  almeno
della  facolta'  di  richiedere  la  trattazione  in  forma  pubblica
dell'udienza innanzi la corte d'appello  (competente  nel  merito  in
unico grado), non ravvisando alcuna circostanza eccezionale che valga
a giustificare  una  deroga  generale  e  assoluta  al  principio  di
pubblicita' dei giudizi.  Nell'ambito  della  procedura  considerata,
infatti, i giudici interni sono chiamati essenzialmente a valutare se
l'interessato  abbia  contribuito  a  provocare  la  sua   detenzione
intenzionalmente o  per  colpa  grave:  sicche'  non  si  discute  di
«questioni di natura tecnica che possono essere regolate  in  maniera
soddisfacente unicamente in base al fascicolo». 
    «Con la sentenza n. 93 del 2010, questa Corte ha gia' avuto  modo
di escludere che la  norma  convenzionale,  cosi'  come  interpretata
dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla
nostra Costituzione: ipotesi nella quale la norma  stessa  -  che  si
colloca pur sempre  a  un  livello  sub-costituzionale  -  rimarrebbe
inidonea a integrare il parametro dell'art. 117, primo  comma,  Cost.
(ex plurimis, sentenze n. 113 del 2011, n. 311 del 2009, n. 349 e  n,
348 del 2007). 
    L'assenza di un esplicito richiamo, non  scalfisce,  infatti,  il
valore costituzionale del  principio  di  pubblicita'  delle  udienze
giudiziarie, peraltro consacrato anche in altre carte  internazionali
dei diritti fondamentali. La pubblicita' del  giudizio  -  specie  di
quello penale - rappresenta, in effetti, un principio connaturato  ad
un ordinamento democratico (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n.
69 del 1991 e n. 50 del 1989). Il principio non ha  valore  assoluto,
potendo cedere in presenza  di  particolari  ragioni  giustificative,
purche', tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del  1986),
e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di  tutela
di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971). 
    Cio' posto, conclude la Corte,  le  conclusioni  raggiunte  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo in rapporto ai  procedimenti  per
l'applicazione delle misure  di  prevenzione  e  per  la  riparazione
dell'ingiusta detenzione non possono non valere anche in relazione al
procedimento di  applicazione  delle  misure  di  sicurezza,  oggetto
dell'odierna questione. 
    L'obiettivo precipuo di detto procedimento e', infatti, quello di
accertare la concreta pericolosita' sociale del soggetto che dovrebbe
essere sottoposto alla misura: accertamento al quale il magistrato di
sorveglianza e' chiamato non solo nell'ipotesi in cui sia egli stesso
a provvedere alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel
reato o all'applicazione di una misura di sicurezza nei casi previsti
dall'art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di
dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti  dal  giudice
con la sentenza di condanna o di  proscioglimento  che  definisce  il
processo penale. Cio', in ossequio al principio che esige - una volta
rimosse le presunzioni legali prefigurate dall'originaria  disciplina
del  codice  penale  -  un  giudizio  sulla  pericolosita'  effettiva
dell'interessato non solo nel momento in cui la misura  di  sicurezza
e'  applicata,  ma  anche  in  quello  nel  quale  essa  deve  essere
concretamente eseguita. 
    Avuto riguardo all'evidenziato oggetto dell'accertamento, non  si
e', dunque, di fronte ad  un  contenzioso  a  carattere  meramente  e
altamente «tecnico», rispetto al  quale  il  controllo  del  pubblico
sull'esercizio dell'attivita' giurisdizionale -  richiesto  dall'art.
6, paragrafo 1, della CEDU, cosi' come interpretato  dalla  Corte  di
Strasburgo - possa ritenersi non necessario alla luce della peculiare
natura delle questioni trattate. 
    Quanto,  poi,  alle  esigenze  di  riservatezza  che,  ad  avviso
dell'Avvocatura  dello  Stato,  giustificherebbero   la   sottrazione
dell'udienza di sicurezza al regime della pubblicita',  esse  vengono
riferite allo stesso soggetto nei cui confronti  il  procedimento  si
svolge, in correlazione ai mezzi istruttori  richiesti  ai  fini  del
giudizio sulla sua personalita'. Ma,  a  prescindere  da  ogni  altra
possibile obiezione, e' dirimente al riguardo il rilievo che siffatte
esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al petitum, che
mira   a   lasciare   allo   stesso   interessato   la    valutazione
dell'opportunita' di rendere pubblica la trattazione della procedura 
    Fin qui la Corte Costituzionale sent. 135/2014. 
    Ritiene questo Collegio sottolineare che tali affermazioni e tali
conclusioni debbano estendersi anche al procedimento di  sorveglianza
innanzi il Tribunale di sorveglianza. 
    Appare  necessario,  all'uopo,  fare  il  punto   sulla   attuale
giurisdizione del Tribunale di sorveglianza che nel corso degli  anni
ha avuto una evoluzione sorprendente  non  sempre  inequivocabilmente
riconosciuta. 
    Non e' superfluo ricordare che il Tribunale di Sorveglianza nasce
nel 1975 come Sezione di Sorveglianza per la concessione delle misure
alternative alla detenzione ai condannati  ristretti  negli  istituti
penitenziari. 
    La svolta giurisdizionale, che dapprima trasforma la  Sezione  di
Sorveglianza in Tribunale di  sorveglianza,  risale  al  1986,  legge
Gozzini, ampliandone la giurisdizione, e prosegue con la novella  del
1998,  la  legge  Simeone-Saraceni,  che  attribuisce  la  nuova   ed
esclusiva competenza alla esecuzione  della  pena  per  i  liberi  in
sospensione, ex art. 656, comma 5 c.p.p. e success. modifiche. 
    Il  vecchio  giudice  di  sorveglianza,   competente   sui   soli
condannati ristretti in istituto penitenziario diventa Giudice  della
pena,  chiamato  a  pronunziarsi  nella   veste   di   Tribunale   di
Sorveglianza, sull'An, Quando, Quomodo e Quantum della pena, deputato
a decidere sin ab inizio sull'eventuale differimento  della  pena  ex
art. 147 c.p. per il libero, (An e Quando) di poi  sulla  modulazione
della  pena  da  eseguirsi  per  il  libero   in   sospensione,   con
possibilita' di spaziare dall'affidamento in prova per le pene sino a
4 anni e sino a 6 anni  ex  art.  94  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990, attraverso la semiliberta'  e  la  detenzione
domiciliare per giungere alla carcerazione o all'ergastolo,  (Quomodo
e Quando), cui si aggiunge la competenza per la esecuzione della pena
per  i  condannati-detenuti  attraverso  l'ammissione   alle   misure
alternative  nonche'  la  riduzione  della   pena   per   liberazione
anticipata (Quantum). 
    Il tutto evidentemente con una incidenza immediata  e  diretta  e
con  limitazioni  di  notevole  spessore  alla   liberta'   personale
dell'istante. 
    Tutto  cio'  evidentemente   puo'   accadere   e   accade   nella
consapevolezza che il giudizio innanzi il Tribunale  di  Sorveglianza
fonda secondo  giurisprudenza  e  dottrina  costante,  nonche'  sulla
scorta del dettato letterale, sull'esame della pericolosita'  sociale
dell'istante, quale prognosi sulla futura probabilita' di  astensione
o reiterazione della commissione di reati; testualmente  occorre  che
il provvedimento emesso «assicuri la  prevenzione  del  pericolo  che
egli commetta altri reati.» 
    Ragion per cui si ritiene che non possa non riconoscersi anche  a
tale giudizio, -  il  procedimento  di  sorveglianza  aperto  ad  una
giurisdizione abbastanza vasta  che,  spazia  dalla  carcerazione  al
differimento della esecuzione della pena,  e  ingloba  una  casistica
sanzionatoria,  che  oscilla  dal  singolo   giorno   di   detenzione
all'ergastolo,  passando  attraverso  una   modulistica   di   misure
alternative tra le piu'  varie  alla  luce  del  vigente  ordinamento
penal-penitenziario, - il ragionamento perseguito  e  le  conclusioni
raggiunte dalla Corte Costituzionale nella pronunzia 135/2014. 
    Ed infatti la  Corte  fonda  la  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale delle norme che regolano il procedimento di  sicurezza
sulla natura giuridica e sulla ratio del procedimento  di  sicurezza,
laddove evidenzia che: «L'obiettivo precipuo  di  detto  procedimento
e', infatti, quello di accertare la  concreta  pericolosita'  sociale
del soggetto che dovrebbe essere sottoposto alla misura: accertamento
al  quale  il  magistrato  di  sorveglianza  e'  chiamato  non   solo
nell'ipotesi in cui sia egli stesso a provvedere  alla  dichiarazione
di abitualita' o professionalita' nel reato o all'applicazione di una
misura di sicurezza nei casi previsti dall'art. 205,  secondo  comma,
cod.  pen.,  ma  anche  quando  si  tratti  di  dare  esecuzione   ai
corrispondenti provvedimenti assunti dal giudice con la  sentenza  di
condanna o di proscioglimento che definisce il processo penale. Cio',
in ossequio al principio che esige - una volta rimosse le presunzioni
legali prefigurate dall'originaria disciplina del codice penale -  un
giudizio sulla pericolosita' effettiva dell'interessato non solo  nel
momento in cui la misura di  sicurezza  e'  applicata,  ma  anche  in
quello nel quale essa deve essere concretamente eseguita». 
    Nel caso in esame infatti, il Tribunale di Sorveglianza, deputato
a decidere tra non esecuzione, esecuzione  intramoenia  o  esecuzione
extramoenia, deve prima di tutto pronunziarsi sull'attualita' nonche'
sul grado di pericolosita' sociale dell'istante, in sede di  concreta
esecuzione dei provvedimenti emessi dal giudice con  la  sentenza  di
condanna:  ipotesi  del   tutto   analoga   e   per   nulla   «altra»
dall'accertamento  della  pericolosita'   sociale   che   compie   il
magistrato  di  sorveglianza  del  procedimento   di   sicurezza,   -
«accertamento al quale il magistrato di sorveglianza e' chiamato  non
solo  nell'ipotesi  in  cui  sia  egli  stesso  a   provvedere   alla
dichiarazione  di  abitualita'  o  professionalita'   nel   reato   o
all'applicazione  di  una  misura  di  sicurezza  nei  casi  previsti
dall'art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di
dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti  dal  giudice
con la sentenza di condanna o di  proscioglimento  che  definisce  il
processo penale». 
    D'altro  canto,  vanno  colte  le  specifiche  peculiarita'   del
procedimento di sorveglianza, che  valgono  a  differenziarlo  da  un
complesso di altre procedure camerali. Si'  tratta,  infatti,  di  un
procedimento all'esito del quale il giudice e' chiamato ad  esprimere
un giudizio di merito, inerente la sussistenza e  l'attualita'  della
pericolosita' sociale del  prevenuto,  idoneo  ad  incidere  in  modo
diretto, definitivo e  sostanziale  sulla  liberta'  personale,  bene
primario e diritto  fondamentale  dell'individuo,  costituzionalmente
tutelato. 
    Il che  conferisce  specifico  risalto  alle  esigenze  alla  cui
soddisfazione  il  principio  di   pubblicita'   delle   udienze   e'
preordinato. 
    Vale appena il caso di ricordare, del resto, che la pronunzia del
Tribunale di sorveglianza non segue immediatamente la commissione  di
fatti-reato, ma puo' intervenire anche dopo notevole lasso  di  tempo
dai  fatti  commessi  e  si  attualizza  previo  accertamento   della
pericolosita'  sociale  dell'interessato.   Accade,   pertanto,   che
l'aggressione al soggetto avvenga anche a distanza di anni dai  fatti
commessi con evidente oltremodo traumatica incidenza  sulla  liberta'
personale, della quale non puo'  non  tenersi  conto  ai  fini  della
tutela della garanzia  dei  diritti  della  persona,  alla  luce  dei
consolidati  orientamenti  giurisprudenziali,   sia   nazionali   che
sovranazionali. 
    Ancora richiamando la giurisprudenza europea, non  e',  peraltro,
possibile - secondo la Corte  europea  -  non  considerare  l'entita'
della «posta in gioco»  nelle  procedure  di  prevenzione,  le  quali
mirano  alla  confisca  di  «beni  e  capitali»,  coinvolgendo  cosi'
direttamente la situazione  patrimoniale  della  persona  soggetta  a
giurisdizione, nonche' gli effetti che esse  possono  produrre  sulle
persone: situazione, questa,  a  fronte  della  quale  «non  si  puo'
affermare che il controllo del pubblico» - almeno  su  sollecitazione
del soggetto coinvolto - «non  sia  una  condizione  necessaria  alla
garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato». 
    Se questo vale per le misure di prevenzione, quando la «posta  in
gioco» e' la confisca di «beni e capitali», ancor piu'  doverosamente
dovrebbe valere quando la «posta  in  gioco»  attiene  alla  liberta'
personale del soggetto a giudizio. 
    Quanto,  poi,  alle  esigenze  di  riservatezza  che   potrebbero
motivare la sottrazione dell'udienza di  sicurezza  al  regime  della
pubblicita', come gia' la Corte Costituzionale nella sent.  135/2014,
esse vengono riferite allo  stesso  soggetto  nei  cui  confronti  il
procedimento si svolge, in correlazione ai mezzi istruttori richiesti
ai fini del giudizio sulla sua personalita'.  Ma,  a  prescindere  da
ogni altra possibile obiezione, e' dirimente al riguardo  il  rilievo
che siffatte esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al
petitum, che mira a lasciare allo stesso interessato  la  valutazione
dell'opportunita' di rendere pubblica la trattazione della procedura. 
    Potrebbero, invero, richiamarsi le conclusioni gia' proprie della
Corte nella sentenza 135/2014 citata: «Al pari  del  procedimento  di
prevenzione  e  del   procedimento   di   sicurezza,...   (anche   il
procedimento di sorveglianza)... presenta  specifiche  particolarita'
che valgono a differenziarlo  da  un  complesso  di  altre  procedure
camerali e che conferiscono specifico risalto alle esigenze alla  cui
soddisfazione  il  principio  di   pubblicita'   delle   udienze   e'
preordinato. Si tratta, infatti, di  un  procedimento  all'esito  del
quale il giudice e' chiamato ad  esprimere  un  giudizio  di  merito,
idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e  sostanziale  su  un
bene primario dell'individuo, costituzionalmente tutelato,  quale  la
liberta' personale. 
    Si deve, pertanto, concludere che, anche nel caso in  esame,  sia
indispensabile, ai fini della realizzazione della  garanzia  prevista
dall'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che le  persone  coinvolte  nel
procedimento abbiano la possibilita' di chiedere il  suo  svolgimento
in forma pubblica.» 
    Al  riguardo,  peraltro,  va  senz'altro  escluso  che  la  norma
internazionale, cosi come interpretata dalla Corte europea, contrasti
con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione. 
    L'assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce,
in effetti, il valore costituzionale del  principio  di'  pubblicita'
delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in  altri
strumenti   internazionali,   quale,   in   particolare,   il   Patto
internazionale di New York relativo ai  diritti  civili  e  politici,
adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con  legge  25  ottobre
1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art.  47,
paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo  1,  del
Trattato sull'Unione europea, nella  versione  consolidata  derivante
dalle modifiche ad esso apportate dal  Trattato  di  Lisbona  del  13
dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009. 
    La  stessa  Corte   Costituzionale,   nella   sentenza   93/2010,
puntualizza che ha avuto modo,  in  effetti,  di  affermare  in  piu'
occasioni che la pubblicita' del giudizio, specie di  quello  penale,
costituisce  principio  connaturato  ad  un  ordinamento  democratico
fondato   sulla   sovranita'   popolare,   cui    deve    conformarsi
l'amministrazione della giustizia, la quale - in forza dell'art. 101,
primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua legittimazione
(sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991; n. 50 del 1989  ;  n.  212
del 1986..). 
    Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere  in  presenza
di particolari ragioni giustificative, purche', tuttavia, obiettive e
razionali, collegate ad  esigenze  di  tutela  di  beni  a  rilevanza
costituzionale. 
    Sotto diverso profilo, deve altrettanto correttamente  escludersi
che sia possibile allineare la  disciplina  censurata  alle  pronunce
della Corte europea per via  d'interpretazione.  In  particolare,  va
escluso che a tale  risultato  si  possa  pervenire  per  il  tramite
dell'applicazione analogica  -  al  procedimento  di  sorveglianza  -
dell'art. 441, comma 3, cod. proc. pen.,  il  quale  prevede  che  il
giudizio abbreviato - normalmente trattato in camera di  consiglio  -
si svolga in udienza pubblica, quando ne facciano richiesta tutti gli
imputati. 
    Va rilevato, infatti, che difettano  le  condizioni  legittimanti
tale operazione ermeneutica,  sia  perche'  il  ricorso  all'analogia
presuppone  il  riconoscimento  di  un  vuoto  normativa,   qui   non
ravvisabile in presenza di una specifica disposizione  contraria  (il
citato art. 127,  comma  6,  c.p.p.);  sia  a  fronte  delle  marcate
differenze strutturali e funzionali  dei  procedimenti  in  questione
(giudizio abbreviato e procedimento di sorveglianza). 
    Rebus sic stantibus si deve trarre la necessaria conseguenza  che
le norme censurate violano, in parte qua, l'art.  117,  primo  comma,
Cost. e 111, primo comma, Cost. 
    Sentito il conforme parere del PG.; 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. legge 11 marzo 1953 n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione
degli artt. 117, primo comma, Cost., e 111, primo  comma,  Cost.,  la
questione di legittimita' costituzionale degli artt. 678, punto 1,  e
666, punto 3, c.p.p., nella  parte  in  cui  non  consentono  che  il
procedimento innanzi il Tribunale di Sorveglianza  nelle  materie  di
competenza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme della
pubblica udienza. 
    Sospende la procedura e ordina la trasmissione  degli  atti  alla
Corte Costituzionale; 
    Ordina che a cura della Cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia  comunicata
ai  Presidenti  del  Senato  della  Repubblica  e  della  Camera  dei
Deputati. 
    Manda alla Cancelleria per adempimenti di rito. 
 
      Napoli, 30 giugno 2014 
 
                Il Presidente estensore: Di Giovanni