N. 189 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 luglio 2014
Ordinanza del 14 luglio 2014 emessa dal Tribunale di sorveglianza di Napoli nel procedimento di sorveglianza nei confronti di F.A.. Esecuzione penale - Procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza nelle materie di competenza - Svolgimento, su istanza degli interessati, nelle forme dell'udienza pubblica - Preclusione - Violazione del principio del giusto processo - Contrasto con il principio di pubblicita' dei procedimenti giudiziari, sancito dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - Inosservanza degli obblighi internazionali - Richiamo alle sentenze n. 93 del 2010 e n. 135 del 2014 della Corte costituzionale. - Codice di procedura penale, artt. 678, comma 1, e 666, comma 3. - Costituzione, artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.46 del 5-11-2014 )
TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI NAPOLI Il Tribunale L'anno 2014 giorno 30 del mese di giugno in Napoli si e' riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei componenti: Dott. Di Giovanni Angelica, Presidente "Spinelli Giovanna, Giudice relatore "Casello Domenico, Esperto "D'Aniello Luisa, Esperto con la partecipazione dei dott. Piccirillo Alessandro Sost. Procuratore Generale presso la Certe di Appello di Napoli e con l'assistenza del sottoscritto Cancelliere per deliberare sulla domanda di: Detenzione Domiciliare art. 47-ter O.P. presentata da F. A. nato a N. (Prov. ...) (Italia) il 5 febbraio 1951, libero, condannato con Sentenza n. 2011/1513 Reg. Gen., emessa in data 8 giugno 2011 da Gip Presso il Tribunale Ordinario Napoli, confermata in data 23 novembre 2011 da Corte d'Appello Napoli, definitiva il 16 novembre 2012, alla pena di anni 2 mesi 8 di reclusione per i seguenti reati: Reato 1: art. 110 C.P. data consumazione: 4 ottobre 2010 - luogo: Napoli, art. 81 c. 2 C.P., art. 73 decreto del Presidente della Repubblica del 1990 n. 309. Letti gli atti; Nel procedimento di sorveglianza innanzi il TS Napoli per l'esecuzione della pena ex artt. 656, 5 comma c.p.p. e artt 47, 47-ter e 50 l.p. fissato all'udienza odierna nei confronti di F. A., condannata alla pena della reclusione di anni due e mesi 8 in rif. sent. 8 giugno 2011, GIP Trib. Napoli, la difesa chiedeva che la procedura venisse trattata in forma pubblica. L'istanza non puo' trovare accoglimento alla luce della normativa vigente. Sul punto, ritiene questo collegio eccepire l'illegittimita' costituzionale degli articoli dell'ordinamento vigente, che regolamentano il procedimento di sorveglianza. Ed invero, l'art. 678, comma 1, c.p.p. dispone che «Il tribunale di sorveglianza nelle materie di competenza e il magistrato di sorveglianza nelle materie attinenti ...., procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell'interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell'art. 666». A sua volta, l'art. 666, comma 3, c.p.p. sul punto sancisce espressamente che ..... «il giudice o il presidente del collegio, designato il difensore fissa la data della camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e al difensore». Il dettato normativo risulta, pertanto, inequivoco nello stabilire che il procedimento di sorveglianza abbia luogo «in camera di consiglio»: formula che - alla luce di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita', nonche' di espresso dettato normativo - implica attualmente un rinvio alla disciplina generale dettata dall'art. 127 c.p.p., il quale prevede espressamente, al comma 6, che l'udienza in camera di consiglio - e, dunque, anche quella del procedimento che interessa - si svolga «senza la presenza del pubblico». La previsione per cui la procedura si svolge «in camera consiglio» comporta, infatti, - in conformita' ad un indirizzo interpretativo avallato anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 28 maggio 2003-18 giugno 2003, n. 26156) per cui, il descritto dall'art. 127 c.p.p., deve «applicarsi anche nei casi in cui il legislatore, nel prescrivere che il procedimento si svolga in "camera di consiglio", senza regolamentarne particolari diversita' di struttura, ometta di fare espresso riferimento alle forme dell'art. 127 del codice di rito» - l'operativita', ove non diversamente disposto, della disciplina generale in materia di "procedimento in camera di consiglio" dettata dall'art. 127 c.p.p.: e, dunque - in mancanza di previsioni derogatorie sul punto - anche della disposizione del comma 6 di tale articolo, in forza della quale «l'udienza si svolge senza la presenza del pubblico». Pertanto, non puo' ragionevolmente escludersi che le norme censurate - prevedendo che la procedura di sorveglianza per la esecuzione della pena si svolga, senza alcuna eccezione, in camera di consiglio e, dunque, senza la partecipazione del pubblico - violino l'art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di pubblicita' dei procedimenti giudiziari, sancito dall'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), cosi' come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ed invero, l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: parametro rispetto al quale - secondo quanto chiarito dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, Corte costituzionale - le disposizioni della CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, assumono il ruolo di «norme interposte». Come ribadito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 93 del 2010, nell'analizzare il contrasto tra la normativa interna e i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali di fonte convenzionale e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle disposizioni della CEDU, «il giudice comune, sempre alla luce dei dicta delle citate sentenze n. 348 e 349 del 2007, non e' abilitato a disapplicare la disciplina interna contrastante con quella convenzionale»; onde non resta altra via, per rimuovere il rilevato contrasto, che quella di sollevare questione di legittimita' costituzionale. Infatti, a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, la giurisprudenza della Corte e' costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) - integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e 311 del 2009, n. 38 del 2008). Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve, quindi, preventivamente verificare la praticabilita' di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sent. n. 239 del 2009) e, ove tale soluzione risulti impercorribile (non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante), deve denunciare la rilevata incompatibilita' proponendo questione di legittimita' costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato. A sua volta, nel procedere al relativo scrutinio, la Corte Costituzionale, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione, come da quella Corte interpretata - norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovra' essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare il parametro considerato (sentenze n. 311 del 2009 e n. 348 e n. 349 del 2007). Nel caso di specie, le norme richiamate non consentono una lettura diversa all'interno del vigente quadro normativa, dal quale emerge con chiarezza che il procedimento di sorveglianza - procedimento del quale e' indiscutibile e ormai costituzionalizzato il carattere giurisdizionale - si svolge in camera di consiglio, senza la partecipazione del pubblico, ex art 666, comma 3, 678, comma 1, e 127, comma 6, c.p.p. Le enunciate affermazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo inducono, inoltre, a dubitare della legittimita' costituzionale delle norme censurate anche con riferimento all'art. 111, primo comma, Cost., in forza del quale la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Le norme sottoposte a scrutinio, infatti, vengono a ledere, altresi', l'art. 111, primo comma, Cost., in quanto - a causa della gravita' e specificita' delle misure adottabili dall'autorita' giudiziaria a seguito della procedura considerata - l'attribuzione agli interessati della facolta' di richiederne la trattazione in udienza pubblica risulterebbe indispensabile ai fini dell'attuazione di un «equo processo». Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dagli artt. 666, 678 e 127 c.p.p. appaia strutturato, nel complesso, in maniera tale da assicurare l'effettivita' del diritto di difesa, la previsione del suo svolgimento nella forma dell'udienza camerate non si presenta idoneo a garantire un controllo sull'esercizio dell'attivita' giurisdizionale adeguato alla gravita' dei provvedimenti adottabili, atti ad incidere in modo definitivo, diretto e immediato sulla liberta' personale dell'interessato. In tale prospettiva, anche ai fini dell'attuazione di un «equo processo», dovrebbe essere prevista la possibilita' di svolgere il procedimento in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati. In particolare, se risponde a verita' che il legislatore puo' dettare diverse e differenti procedure processuali, purche' resti garantito il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., non puo' revocarsi in dubbio che la gravita' dei provvedimenti adottabili dalla magistratura di sorveglianza nel procedimento di specie necessiti la pubblicita' dell'udienza, quale garanzia di trasparenza dell'attivita' giurisdizionale e attuazione del giusto processo. Quanto, infine, alla rilevanza della questione, essa risulta indubbia, giacche' il difensore dell'interessato ha espressamente chiesto che il procedimento potesse svolgersi in pubblica udienza. La Corte Costituzionale, nella citata sentenza, n. 93 del 2010, precisava che «Tale assetto (in materia di misure di prevenzione) induce, pertanto, a dubitare della compatibilita' della disciplina italiana del procedimento applicativo delle misure di sicurezza con l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il quale stabilisce - per la parte conferente - che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata [...], pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale [...]", soggiungendo, altresi', che «il giudizio deve essere pubblico, ma l'ingresso nella sala di udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una societa' democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicita' puo' pregiudicare gli interessi della giustizia». Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, alla luce di una ormai consolidata giurisprudenza, - pur a fronte dell'elevato grado di tecnicismo proprio di taluni procedimenti e delle esigenze, in essi sovente presenti, di protezione della vita privata di terzi indirettamente interessati - l'entita' della «posta in gioco» e gli effetti che le procedure stesse possono produrre impongono di ritenere che il controllo del pubblico sull'esercizio della giurisdizione rappresenti una condizione necessaria ai fini del rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti, onde dovrebbe essere offerta ai medesimi «almeno la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello» competenti. Cio' premesso, occorre rilevare che, con recenti pronunce - la sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, sentenza 8 luglio 2008, Pierre ed altri contro Italia, nonche', sentenza 14 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia - la Corte europea dei diritti dell'uomo, decidendo per altre materie, ha affermato che la procedura «in camera di consiglio», ovvero senza pubblicita', si pone in contrasto, sotto il profilo considerato, con l'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui prescrive che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, il quale decidera' sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni causa penale che le venga rivolta... » Richiamando la propria giurisprudenza, la Corte di Strasburgo ribadiva, peraltro, in tema di misure di prevenzione, che la pubblicita' delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma della Convenzione, tutela le persone soggette ad una giurisdizione contro una «giustizia segreta», che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici. Con particolare riguardo a taluni procedimenti, la Corte non ha negato validita' ai rilievi svolti, per giustificare la deroga alla pubblicita' delle udienze: e, cioe' -nel caso allora in esame-che le procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione - in specie patrimoniali - possono assumere un carattere altamente tecnico, in quanto basate essenzialmente su documenti e indagini finanziarie, e possono implicare, al tempo stesso, esigenze di protezione della vita privata di terze persone, anche minori, coinvolte quali intestatari formali dei beni. La Corte europea ha rilevato, tuttavia, che e' necessario tener conto della «posta in gioco» nelle procedure in esame, le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», nonche' degli effetti che esse possono produrre sulle persone coinvolte: in questa prospettiva non e' possibile affermare che il controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato. Di conseguenza, ha giudicato «essenziale», ai fini del rispetto del citato art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, che i soggetti coinvolti nelle procedure stesse «si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». Se la Corte Europea, infatti, si esprimeva in tal modo in tema di misure di prevenzione, che mirano alla confisca di beni e di capitali, a maggior ragione dovrebbe convenirsi che, nel caso di specie, dinanzi a procedure che investono direttamente la "liberta' personale del soggetto", trattandosi di applicazione di misure detentive o non detenive - non carcere-differimento della pena, carcere o misure alternative alla detenzione - debba ritenersi ancor piu' «essenziale» il controllo del pubblico, atto a rappresentare una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato. Cio' premesso, occorre rilevare che con recentissima sentenza del 19 maggio 2014, n. 135 del 2014, la Corte Costituzionale accogliendo l'eccezione di incostituzionalita' proposta dal MS Napoli dichiarava la illegittimita' costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell'udienza pubblica.» Ricorda la Corte Costituzionale che: «Con la sentenza n. 93 del 2010, questa Corte ha gia' dichiarato costituzionalmente illegittimi, per contrasto con il secondo dei parametri indicati, l'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralita') e l'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. Considerazioni analoghe a quelle svolte in detta decisione - successivamente recepita dal legislatore negli artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) - valgono anche agli odierni fini. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) - integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (ex plurimis, sentenze n. 30 del 2014, n. 264 del 2012, n. 236, n. 113 e n. 80 del 2011). Ne deriva che, ove si profili un contrasto - non superabile a mezzo di una interpretazione «adeguatrice» - fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune, non potendo rimuoverlo tramite la semplice non applicazione della norma interna, deve denunciare la rilevata incompatibilita' tramite la proposizione di una questione incidentale di legittimita' costituzionale per violazione del suddetto parametro». E piu' da presso, sul procedimento di sicurezza, nella recentissima sentenza la Corte rileva che il procedimento in camera di consiglio ex artt. 666, comma 3, e 678, punto 1, c.p.p ".... "Siffatto regime non appare, tuttavia, compatibile con l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il quale stabilisce -per la parte conferente - che "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata [...] pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale [...]", soggiungendo, altresi', che «la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso nella sala di udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una societa' democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicita' possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia». La Corte europea dei diritti dell'uomo ha reiteratamente ravvisato una simile situazione di contrasto con riguardo al procedimento applicativo delle misure di prevenzione, del quale la disciplina italiana vigente all'epoca prevedeva parimenti la trattazione in forma camerale (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, sulla cui scia sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altricontro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia). A tale conclusione la Corte europea e' pervenuta richiamando la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo cosi' a realizzare lo scopo dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l'equo processo. Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita' giudiziarie di derogare al principio di pubblicita' dell'udienza. La stessa Corte europea ha, d'altra parte, ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare - quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso - possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica. In ogni caso, tuttavia, l'udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa». Con riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte europea non ha contestato che il procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione possa presentare «un elevato grado di tecnicita'», in quanto tendente - nel caso di misure patrimoniali - al controllo «delle finanze e dei movimenti di capitali», o che possa talora coinvolgere «interessi superiori», quale la protezione della vita privata di terze persone indirettamente interessate da detto controllo. Non e' tuttavia possibile - secondo la Corte europea - non tener conto dell'entita' della «posta in gioco» nelle procedure in questione - le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», incidendo cosi' direttamente sulla situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione - nonche' degli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione a fronte della quale «non si puo' affermare che il controllo del pubblico» - almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto - «non sia una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato». Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Strasburgo ha, quindi, ritenuto «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone [...] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». La Corte, sent. 135/2014, sottolinea ancora che in termini analoghi la Corte europea si e' espressa, piu' di recente, con riferimento al procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione, del quale la legge processuale italiana (art. 315, comma 3, in relazione all'art. 646, comma 1, cod. proc. pen.) egualmente prevede lo svolgimento nelle forme dell'udienza camerale (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia). «Anche in questo caso, la Corte di Strasburgo ha ritenuto essenziale che i singoli coinvolti nella procedura fruiscano almeno della facolta' di richiedere la trattazione in forma pubblica dell'udienza innanzi la corte d'appello (competente nel merito in unico grado), non ravvisando alcuna circostanza eccezionale che valga a giustificare una deroga generale e assoluta al principio di pubblicita' dei giudizi. Nell'ambito della procedura considerata, infatti, i giudici interni sono chiamati essenzialmente a valutare se l'interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicche' non si discute di «questioni di natura tecnica che possono essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo». «Con la sentenza n. 93 del 2010, questa Corte ha gia' avuto modo di escludere che la norma convenzionale, cosi' come interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione: ipotesi nella quale la norma stessa - che si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale - rimarrebbe inidonea a integrare il parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 113 del 2011, n. 311 del 2009, n. 349 e n, 348 del 2007). L'assenza di un esplicito richiamo, non scalfisce, infatti, il valore costituzionale del principio di pubblicita' delle udienze giudiziarie, peraltro consacrato anche in altre carte internazionali dei diritti fondamentali. La pubblicita' del giudizio - specie di quello penale - rappresenta, in effetti, un principio connaturato ad un ordinamento democratico (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purche', tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971). Cio' posto, conclude la Corte, le conclusioni raggiunte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in rapporto ai procedimenti per l'applicazione delle misure di prevenzione e per la riparazione dell'ingiusta detenzione non possono non valere anche in relazione al procedimento di applicazione delle misure di sicurezza, oggetto dell'odierna questione. L'obiettivo precipuo di detto procedimento e', infatti, quello di accertare la concreta pericolosita' sociale del soggetto che dovrebbe essere sottoposto alla misura: accertamento al quale il magistrato di sorveglianza e' chiamato non solo nell'ipotesi in cui sia egli stesso a provvedere alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato o all'applicazione di una misura di sicurezza nei casi previsti dall'art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti dal giudice con la sentenza di condanna o di proscioglimento che definisce il processo penale. Cio', in ossequio al principio che esige - una volta rimosse le presunzioni legali prefigurate dall'originaria disciplina del codice penale - un giudizio sulla pericolosita' effettiva dell'interessato non solo nel momento in cui la misura di sicurezza e' applicata, ma anche in quello nel quale essa deve essere concretamente eseguita. Avuto riguardo all'evidenziato oggetto dell'accertamento, non si e', dunque, di fronte ad un contenzioso a carattere meramente e altamente «tecnico», rispetto al quale il controllo del pubblico sull'esercizio dell'attivita' giurisdizionale - richiesto dall'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, cosi' come interpretato dalla Corte di Strasburgo - possa ritenersi non necessario alla luce della peculiare natura delle questioni trattate. Quanto, poi, alle esigenze di riservatezza che, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, giustificherebbero la sottrazione dell'udienza di sicurezza al regime della pubblicita', esse vengono riferite allo stesso soggetto nei cui confronti il procedimento si svolge, in correlazione ai mezzi istruttori richiesti ai fini del giudizio sulla sua personalita'. Ma, a prescindere da ogni altra possibile obiezione, e' dirimente al riguardo il rilievo che siffatte esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al petitum, che mira a lasciare allo stesso interessato la valutazione dell'opportunita' di rendere pubblica la trattazione della procedura Fin qui la Corte Costituzionale sent. 135/2014. Ritiene questo Collegio sottolineare che tali affermazioni e tali conclusioni debbano estendersi anche al procedimento di sorveglianza innanzi il Tribunale di sorveglianza. Appare necessario, all'uopo, fare il punto sulla attuale giurisdizione del Tribunale di sorveglianza che nel corso degli anni ha avuto una evoluzione sorprendente non sempre inequivocabilmente riconosciuta. Non e' superfluo ricordare che il Tribunale di Sorveglianza nasce nel 1975 come Sezione di Sorveglianza per la concessione delle misure alternative alla detenzione ai condannati ristretti negli istituti penitenziari. La svolta giurisdizionale, che dapprima trasforma la Sezione di Sorveglianza in Tribunale di sorveglianza, risale al 1986, legge Gozzini, ampliandone la giurisdizione, e prosegue con la novella del 1998, la legge Simeone-Saraceni, che attribuisce la nuova ed esclusiva competenza alla esecuzione della pena per i liberi in sospensione, ex art. 656, comma 5 c.p.p. e success. modifiche. Il vecchio giudice di sorveglianza, competente sui soli condannati ristretti in istituto penitenziario diventa Giudice della pena, chiamato a pronunziarsi nella veste di Tribunale di Sorveglianza, sull'An, Quando, Quomodo e Quantum della pena, deputato a decidere sin ab inizio sull'eventuale differimento della pena ex art. 147 c.p. per il libero, (An e Quando) di poi sulla modulazione della pena da eseguirsi per il libero in sospensione, con possibilita' di spaziare dall'affidamento in prova per le pene sino a 4 anni e sino a 6 anni ex art. 94 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, attraverso la semiliberta' e la detenzione domiciliare per giungere alla carcerazione o all'ergastolo, (Quomodo e Quando), cui si aggiunge la competenza per la esecuzione della pena per i condannati-detenuti attraverso l'ammissione alle misure alternative nonche' la riduzione della pena per liberazione anticipata (Quantum). Il tutto evidentemente con una incidenza immediata e diretta e con limitazioni di notevole spessore alla liberta' personale dell'istante. Tutto cio' evidentemente puo' accadere e accade nella consapevolezza che il giudizio innanzi il Tribunale di Sorveglianza fonda secondo giurisprudenza e dottrina costante, nonche' sulla scorta del dettato letterale, sull'esame della pericolosita' sociale dell'istante, quale prognosi sulla futura probabilita' di astensione o reiterazione della commissione di reati; testualmente occorre che il provvedimento emesso «assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.» Ragion per cui si ritiene che non possa non riconoscersi anche a tale giudizio, - il procedimento di sorveglianza aperto ad una giurisdizione abbastanza vasta che, spazia dalla carcerazione al differimento della esecuzione della pena, e ingloba una casistica sanzionatoria, che oscilla dal singolo giorno di detenzione all'ergastolo, passando attraverso una modulistica di misure alternative tra le piu' varie alla luce del vigente ordinamento penal-penitenziario, - il ragionamento perseguito e le conclusioni raggiunte dalla Corte Costituzionale nella pronunzia 135/2014. Ed infatti la Corte fonda la declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme che regolano il procedimento di sicurezza sulla natura giuridica e sulla ratio del procedimento di sicurezza, laddove evidenzia che: «L'obiettivo precipuo di detto procedimento e', infatti, quello di accertare la concreta pericolosita' sociale del soggetto che dovrebbe essere sottoposto alla misura: accertamento al quale il magistrato di sorveglianza e' chiamato non solo nell'ipotesi in cui sia egli stesso a provvedere alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato o all'applicazione di una misura di sicurezza nei casi previsti dall'art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti dal giudice con la sentenza di condanna o di proscioglimento che definisce il processo penale. Cio', in ossequio al principio che esige - una volta rimosse le presunzioni legali prefigurate dall'originaria disciplina del codice penale - un giudizio sulla pericolosita' effettiva dell'interessato non solo nel momento in cui la misura di sicurezza e' applicata, ma anche in quello nel quale essa deve essere concretamente eseguita». Nel caso in esame infatti, il Tribunale di Sorveglianza, deputato a decidere tra non esecuzione, esecuzione intramoenia o esecuzione extramoenia, deve prima di tutto pronunziarsi sull'attualita' nonche' sul grado di pericolosita' sociale dell'istante, in sede di concreta esecuzione dei provvedimenti emessi dal giudice con la sentenza di condanna: ipotesi del tutto analoga e per nulla «altra» dall'accertamento della pericolosita' sociale che compie il magistrato di sorveglianza del procedimento di sicurezza, - «accertamento al quale il magistrato di sorveglianza e' chiamato non solo nell'ipotesi in cui sia egli stesso a provvedere alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato o all'applicazione di una misura di sicurezza nei casi previsti dall'art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti dal giudice con la sentenza di condanna o di proscioglimento che definisce il processo penale». D'altro canto, vanno colte le specifiche peculiarita' del procedimento di sorveglianza, che valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali. Si' tratta, infatti, di un procedimento all'esito del quale il giudice e' chiamato ad esprimere un giudizio di merito, inerente la sussistenza e l'attualita' della pericolosita' sociale del prevenuto, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale sulla liberta' personale, bene primario e diritto fondamentale dell'individuo, costituzionalmente tutelato. Il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicita' delle udienze e' preordinato. Vale appena il caso di ricordare, del resto, che la pronunzia del Tribunale di sorveglianza non segue immediatamente la commissione di fatti-reato, ma puo' intervenire anche dopo notevole lasso di tempo dai fatti commessi e si attualizza previo accertamento della pericolosita' sociale dell'interessato. Accade, pertanto, che l'aggressione al soggetto avvenga anche a distanza di anni dai fatti commessi con evidente oltremodo traumatica incidenza sulla liberta' personale, della quale non puo' non tenersi conto ai fini della tutela della garanzia dei diritti della persona, alla luce dei consolidati orientamenti giurisprudenziali, sia nazionali che sovranazionali. Ancora richiamando la giurisprudenza europea, non e', peraltro, possibile - secondo la Corte europea - non considerare l'entita' della «posta in gioco» nelle procedure di prevenzione, le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», coinvolgendo cosi' direttamente la situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione, nonche' gli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione, questa, a fronte della quale «non si puo' affermare che il controllo del pubblico» - almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto - «non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato». Se questo vale per le misure di prevenzione, quando la «posta in gioco» e' la confisca di «beni e capitali», ancor piu' doverosamente dovrebbe valere quando la «posta in gioco» attiene alla liberta' personale del soggetto a giudizio. Quanto, poi, alle esigenze di riservatezza che potrebbero motivare la sottrazione dell'udienza di sicurezza al regime della pubblicita', come gia' la Corte Costituzionale nella sent. 135/2014, esse vengono riferite allo stesso soggetto nei cui confronti il procedimento si svolge, in correlazione ai mezzi istruttori richiesti ai fini del giudizio sulla sua personalita'. Ma, a prescindere da ogni altra possibile obiezione, e' dirimente al riguardo il rilievo che siffatte esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al petitum, che mira a lasciare allo stesso interessato la valutazione dell'opportunita' di rendere pubblica la trattazione della procedura. Potrebbero, invero, richiamarsi le conclusioni gia' proprie della Corte nella sentenza 135/2014 citata: «Al pari del procedimento di prevenzione e del procedimento di sicurezza,... (anche il procedimento di sorveglianza)... presenta specifiche particolarita' che valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali e che conferiscono specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicita' delle udienze e' preordinato. Si tratta, infatti, di un procedimento all'esito del quale il giudice e' chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell'individuo, costituzionalmente tutelato, quale la liberta' personale. Si deve, pertanto, concludere che, anche nel caso in esame, sia indispensabile, ai fini della realizzazione della garanzia prevista dall'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che le persone coinvolte nel procedimento abbiano la possibilita' di chiedere il suo svolgimento in forma pubblica.» Al riguardo, peraltro, va senz'altro escluso che la norma internazionale, cosi come interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione. L'assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di' pubblicita' delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009. La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 93/2010, puntualizza che ha avuto modo, in effetti, di affermare in piu' occasioni che la pubblicita' del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare, cui deve conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale - in forza dell'art. 101, primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua legittimazione (sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991; n. 50 del 1989 ; n. 212 del 1986..). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purche', tuttavia, obiettive e razionali, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale. Sotto diverso profilo, deve altrettanto correttamente escludersi che sia possibile allineare la disciplina censurata alle pronunce della Corte europea per via d'interpretazione. In particolare, va escluso che a tale risultato si possa pervenire per il tramite dell'applicazione analogica - al procedimento di sorveglianza - dell'art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale prevede che il giudizio abbreviato - normalmente trattato in camera di consiglio - si svolga in udienza pubblica, quando ne facciano richiesta tutti gli imputati. Va rilevato, infatti, che difettano le condizioni legittimanti tale operazione ermeneutica, sia perche' il ricorso all'analogia presuppone il riconoscimento di un vuoto normativa, qui non ravvisabile in presenza di una specifica disposizione contraria (il citato art. 127, comma 6, c.p.p.); sia a fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali dei procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di sorveglianza). Rebus sic stantibus si deve trarre la necessaria conseguenza che le norme censurate violano, in parte qua, l'art. 117, primo comma, Cost. e 111, primo comma, Cost. Sentito il conforme parere del PG.;
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. legge 11 marzo 1953 n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 117, primo comma, Cost., e 111, primo comma, Cost., la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 678, punto 1, e 666, punto 3, c.p.p., nella parte in cui non consentono che il procedimento innanzi il Tribunale di Sorveglianza nelle materie di competenza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme della pubblica udienza. Sospende la procedura e ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. Manda alla Cancelleria per adempimenti di rito. Napoli, 30 giugno 2014 Il Presidente estensore: Di Giovanni