N. 204 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 maggio 2015

Ordinanza del  22  maggio  2015  della  Corte  d'appello  di  Palermo
sull'istanza proposta da R.V.. 
 
Reati e pene - Pene accessorie - Ritiro della patente di  guida  sino
  ad anni tre disposto dal giudice con la sentenza  di  condanna  per
  determinati reati previsti dal testo unico in materia di disciplina
  degli stupefacenti - Denunciata eseguibilita' della pena accessoria
  solo dopo l'espiazione della pena principale detentiva - Disparita'
  di trattamento rispetto a situazioni analoghe -  Contrasto  con  il
  principio della finalita' rieducativa della pena. 
- Decreto del Presidente della Repubblica 9  ottobre  1990,  n.  309,
  art. 85. 
- Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo. 
(GU n.41 del 14-10-2015 )
 
                    LA CORTE D'APPELLO DI PALERMO 
                        Sezione Terza Penale 
 
    Composto da: 
      Dott. Filippo Messana - Presidente; 
      Dott. Egidio La Neve - Consigliere; 
      Dott.ssa Claudia Rosini - Consigliere; 
    Riunito in camera di consiglio, nel  proc.  pen.  n.  93/15  reg.
camerali ha pronunciato la seguente 
 
                              Ordinanza 
 
    Letta l'istanza avanzata personalmente  da  R.  V.,  nonche'  dal
difensore, finalizzata ad ottenere la revoca  della  pena  accessoria
del ritiro della patente di guida per anni tre, disposta ex art.  87,
DRP 309/90, con sentenza del GUP presso il Tribunale di  Palermo  del
16 aprile 2004, parzialmente riformata con sentenza di  questa  Corte
di Appello del 7 giugno 2005, irrevocabile il 7 ottobre 2009; 
    Lette  le  conclusioni  rassegnate  dal  PM   e   dal   difensore
all'udienza camerale del 10 aprile 2015; 
    Rilevato che  l'istante  e'  stato  condannato  con  la  suddetta
sentenza, alla pena di anni 11 e  mesi  4  di  reclusione,  oltre  la
multa, perche'  dichiarato  colpevole  del  delitto  di  associazione
finalizzata al  traffico  di  sostanze  stupefacenti  e  altri  reati
previsti  dalla  disciplina  degli  stupefacenti,  e  gli  e'   stata
applicata la pena accessoria del ritiro della patente  di  guida  per
anni tre, eseguita a  far  data  dal  22  gennaio  2014,  data  della
notifica del provvedimento, da parte  della  Prefettura  di  Palermo,
dopo che l'istante aveva cessato  il  regime  detentivo  in  data  25
novembre 2011; 
 
                               Osserva 
 
    Il condannato istante deduce di  avere  assoluta  necessita'  del
documento di guida, avendo intrapreso un  percorso  di  reinserimento
sociale  attraverso  la  costituzione  di  una  societa'  cooperativa
operante  nel  settore  dei  trasporti  e  del   soccorso   stradale,
nell'ambito della quale e' chiamato  ad  esercitare  le  mansioni  di
autista. 
    Il difensore deduce a  sua  volta,  a  sostegno  dell'istanza  di
revoca anticipata  della  pena  accessoria,  il  potere  del  giudice
dell'esecuzione di incidere sulla stessa,  alla  luce  del  principio
sancito dalla Suprema Corte a S.U., n. 18821 depositata il  4  maggio
2014, al fine di rendere conforme ai valori costituzionali  anche  il
regime delle pene  accessorie,  incidendo  anch'esse  sulla  liberta'
personale.  In  subordine,  censura  l'irrazionalita'   del   sistema
ordinamentale  che  prevedrebbe,  per  le  misure  di  sicurezza,  la
rivalutazione  della  pericolosita',  per  le  pene   principali   la
possibilita' di fruire di  misure  alternative  e  ridurre  la  pena,
mentre nulla sarebbe previsto per  adeguare  le  pene  accessorie  al
percorso risocializzante intrapreso dal condannato ed  alla  funzione
rieducativa prevista dall'art. 27, co. III Cost. 
    Per tal via, il difensore pone un  problema  di  superamento  del
giudicato, da parte del giudice investito di incidente di esecuzione,
anche con riferimento alle pene  accessorie,  in  "analogia"  -  come
esplicitato nell'istanza di revoca - con quanto statuito  dalla  nota
sentenza a S.U. "Gatto", che ha statuito sul  tema,  con  riferimento
alle  pene  principali,  e  in  relazione  alle  modifiche  normative
intervenute in materia di stupefacenti, a seguito della  sentenza  n.
32/2014 della Corte costituzionale. 
    Le argomentazioni dedotte, pur suggestive, sono del tutto erronee
nel  merito  e  contengono  un'inammissibile  confusione,  sul  piano
concettuale, tra la nozione di pena e quella di misura di  sicurezza.
Cio' in quanto si richiede a questo decidente  la  revisione,  quanto
alla durata, di una pena accessoria,  conforme  alla  "pericolosita'"
del condannato, gia' avviato verso un percorso  di  risocializzazione
alla prosecuzione del quale sarebbe ostativa la perdurante esecuzione
della pena accessoria in parola. 
    Per tal via, invero, il difensore, confondendo i piani della pena
(vincolata dal giudicato salvo che siffatto  giudicato  sia  divenuto
"illegale") e la misura di sicurezza (revocabile per  definizione  se
non assistita dalla "pericolosita'" attuale del reo), chiede  che  la
pena accessoria [della  revoca  della  patente  di  guida  per  reati
associativi in materia di stupefacenti] sia modificata, nella natura,
da questo giudice dell'esecuzione e venga caducata, in virtu'  di  un
sopravvenuto percorso di reinserimento del reo nel  tessuto  sociale,
in ossequio al principio per il quale la pene, e dunque anche  quelle
accessorie,  devono  essere   finalizzate   alla   rieducazione   del
condannato. 
    Con l'evidente, insostenibile corollario che, secondo la proposta
teoria di adeguamento, ogni qual volta una pena divenuta irrevocabile
dovesse trovare  esecuzione  solo  a  distanza  di  tempo  dalla  sua
irrogazione, essa dovrebbe, per cio' solo, essere rivalutata all'atto
della sua concreta praticabilita'. 
    Analogamente  a  quanto  statuito  in  materia   di   misure   di
prevenzione personali, dalla Corte Cost. che, con la sentenza n.  291
del 2 dicembre 2013, depositata il 6  dicembre  2013,  ha  dichiarato
parzialmente illegittimi l'art. 12, della legge 27 dicembre 1956,  n.
1423 (recante disposizioni in materia di misure  di  prevenzione  nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica
moralita')  e,  in  via  consequenziale,  l'art.   15   del   decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione), che ha sostituito la prima norma, nella
parte in cui non prevedono che, nel caso in cui l'esecuzione  di  una
misura di prevenzione personale resti sospesa - a causa  dello  stato
di detenzione  della  persona  ad  essa  sottoposta,  per  simultanea
espiazione di pena - l'organo che ha  adottato  il  provvedimento  di
applicazione debba valutare, anche d'ufficio,  la  persistenza  della
pericolosita'   sociale   dell'interessato,   nel   momento    stesso
dell'esecuzione della misura. 
    La  portata  dirimente  della  questione,   quindi,   sembrerebbe
consistere non tanto nella pena decisa (in se'), ma in  quello  della
sua esecuzione differita nel tempo, quando essa, cioe', avvenga a una
tale distanza temporale dall'irrogazione, da porsi  in  irragionevole
contrasto  con  le  inalienabili  finalita'  rieducative  della  pena
ovvero, piuttosto, momento in  cui  l'esecuzione  di  essa  si  pone,
piuttosto, come ostacolo al reinserimento sociale del condannato,  in
ipotesi gia' avviato, in quanto causa  della  perdita  del  posto  di
lavoro, nel frattempo reperito. 
    Come nella fattispecie sub judice, dove l'esecuzione e'  iniziata
nel 2014, a distanza di ben nove  anni  dalla  sentenza  che  l'aveva
disposta e dopo tre anni dalla cessazione dello stato detentivo,  per
avvenuta espiazione della pena principale. 
    A  ben  vedere,  risalendo  a  monte,  il  problema  e',  invero,
costituito dalla stessa natura giuridica della  pena  accessoria  del
ritiro della patente di guida di cui all'art.  85,  DRP  309/90,  che
appare avere, in realta', una natura  ibrida,  a  meta'  tra  pena  e
misura di sicurezza,  appartenendo  alla  categoria  di  quelle  pene
accessorie  aventi  funzione  di  prevenzione  speciale  mediante  un
impedimento. 
    Essa, cioe', tende a privare il condannato di  quella  situazione
di diritto o di fatto in relazione alla quale e' stata  possibile  la
commissione  del  reato,  sul  presupposto  della   omogeneita'   tra
contenuto sanzionatorio e caratteristiche strutturali del reato. 
    Una deprivazione che manca di senso logico, allorche'  si  compia
quando il condannato ha gia' espiato la propria pena ed ha dato prova
di reinserimento. 
    Orbene, la questione dell'esecuzione della pena accessoria de qua
e dei poteri del giudice dell'esecuzione  e'  gia'  stata  affrontata
dalla Corte costituzionale, nell'ordinanza n. 293 del 9 luglio  2008,
con riferimento all'art. 139 c.p., il quale  impone  di  eseguire  la
pena accessoria incompatibile con il  regime  carcerario,  una  volta
scontata quella principale. 
    In quel giudizio era, giustappunto, stata sollevata questione  di
legittimita'   costituzionale,   con   riferimento   alla    suddetta
previsione, ritenuta in contrasto con le finalita' rieducative  della
pena e dunque dell'alt 27, terzo  comma,  della  Costituzione  e  con
l'art. 3 della Costituzione, sul presupposto che la norma in  oggetto
determinerebbe una disparita'  di  trattamento  rispetto  all'ipotesi
formata dall'art. 62 della legge 24 novembre 1981, n. 689  (Modifiche
al sistema penale); secondo cui, invece, era consentito al magistrato
di  sorveglianza  di  disciplinare  il  regime  di  esecuzione  della
semidetenzione e della liberta' controllata, quanto all'impiego della
patente  di  guida,  "in  modo  da  non  ostacolare  il  lavoro   del
condannato". 
    Per  tali  ragioni,  il  rimettente  demandava  alla   Corte   di
configurare,  in  capo  al  giudice  dell'esecuzione  -  mediante  la
declaratoria di illegittimita' dell'art. 139 cod. pen. - il potere di
differimento della pena accessoria in questione, altrimenti connotata
da una tendenziale "impermeabilita'", rispetto all'esito del percorso
di rieducazione compiuto, proprio  nel  corso  dell'esecuzione  della
pena principale. Tuttavia la questione non e' stata affrontata  dalla
Corte stessa, che l'ha dichiarata manifestamente  inammissibile,  pur
osservando  come  la  giurisprudenza   costituzionale   avesse   gia'
rimarcato che «tutto il tema relativo alle  pene  accessorie  avrebbe
forse  bisogno  di   precisazioni   e   chiarimenti   legislativi   e
dottrinali». 
    La Corte aveva,  infatti,  sottolineato  la  necessita'  "che  il
legislatore ponesse  mano  a  una  riforma  del  sistema  delle  pene
accessorie, tale da renderlo pienamente compatibile  con  i  principi
espressi, ed  in  particolare  con  l'art.  27,  terzo  comma,  della
Costituzione", concludendo che il giudice a quo  dovesse,  piuttosto,
richiedere una addizione normativa sui propri poteri  di  intervento,
altrimenti "impingendo in scelte affidate alla  discrezionalita'  del
legislatore". Ivi si postulava, quindi,  un'anomala  prerogativa  del
giudice dell'esecuzione di paralizzare sine die l'applicazione di una
pena definitivamente inflitta,  laddove  solo  "il  legislatore  puo'
determinare forme e condizioni,  in  presenza  delle  quali  incidere
sull'esecuzione della pena accessoria, per adeguarla al principio  di
progressivita' del trattamento sanzionatorio penale". 
    Per altro verso, ritiene il Collegio che  l'avanzata  istanza  di
revoca anticipata della pena accessoria in parola  non  possa  essere
accolta, in quanto per tal via si postula il potere di travolgere  il
giudicato, in  capo  al  giudice  dell'esecuzione,  davvero  estraneo
all'ordinamento giuridico vigente. 
    Invero, come statuito da Cass. S.U. n. 6240 del 27 novembre 2014,
l'applicazione di una pena accessoria extra o contea legem, dal parte
del giudice della cognizione, puo' essere  rilevata,  anche  dopo  il
passaggio in giudicato della sentenza, dal  giudice  dell'esecuzione,
purche' essa sia determinata per  legge  ovvero  determinabile  senza
alcuna discrezionalita', nella specie e nella durata e neppure derivi
da errore valutativo del giudice della cognizione. 
    Non sarebbero consentiti,  invece,  interventi  manipolatori  del
giudicato che comportino  l'esercizio  di  poteri  discrezionali  del
giudice dell'esecuzione, secondo i criteri di cui all'art.  133  cod.
pen., per la determinazione della durata della pena accessoria. 
    In particolare, il problema  del  superamento  del  giudicato  e'
stato affrontato dalla giurisprudenza piu'  recente  della  Corte  di
cassazione, in relazione alla sopravvenienza di interventi  normativi
o di pronunce della Corte costituzionale  incidenti  sul  trattamento
sanzionatorio. 
    Secondo l'orientamento tradizionale, la cessazione degli  effetti
penali di una sentenza  di  condanna  potrebbe  verificarsi  soltanto
nelle ipotesi previste dall'art. 673 cod. proc. pen. e cioe' in  caso
di abrogazione o di dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale
della  norma  incriminatrice,   mentre,   secondo   un   orientamento
innovativo via via venutosi ad affermare, deve essere riconosciuta la
prevalenza del valore della legalita' della pena sulla intangibilita'
del giudicato e quindi la possibilita' di rideterminare  la  sanzione
in sede esecutiva. 
    Giova, a questo punto, precisare che la  sentenza  delle  Sezioni
Unite n. 42858 del 29 maggio 2014 (Gatto), dopo aver  proceduto  alla
ricostruzione  del   processo   storico   di   progressiva   erosione
dell'intangibilita' del giudicato, ha  evidenziato  che  l'intervento
"in executivis" deve essere consentito tutte  le  volte  in  cui  sia
ancora in atto l'esecuzione  di  una  pena  "illegittima"  -  e  cio'
perche' «applicare una pena di misura diversa o con  criteri  diversi
da quella contemplata dalla legge - non puo' essere ritenuto conforme
al principio di legalita'» (Corte cost., sent. n. 115 del  1987),  in
ossequio al principio di legalita' sancito anche  dall'art.  7  CEDU,
non solo con riferimento al precetto penale, ma anche con riferimento
espresso, specifico alla violazione  dei  principi  regolatori  della
sanzione. 
    E ancora, ha osservato la Suprema Corte, i principi elaborati  in
relazione alla pena principale  non  possono  non  valere  anche  con
riguardo  alle  pene   accessorie,   giacche'   non   e'   consentita
dall'ordinamento l'esecuzione di una  pena  (sia  essa  principale  o
accessoria) non conforme, in  tutto  o  in  parte,  al  principio  di
legalita'. 
    A  quest'ultimo  va  pur  sempre  ricondotta  l'emendabilita'  in
executivis di una  pena  accessoria  (illegale)  secondo  i  principi
regolatori contenuti in norme di rango  superiore,  costituzionale  o
convenzionale, ma anche in norme del codice di rito, quale l'art. 676
c.p.p.,  che  prevede  espressamente  la   competenza   del   giudice
dell'esecuzione in tema di  pene  accessorie.  Siffatta  disposizione
appare  quale   principio   di   carattere   generale   legittimante,
soprattutto, ogni intervento utile a  porre  rimedio  a  applicazioni
della sanzione in contrasto con norme di rango superiore. 
    Ulteriore   conferma   della   possibilita',   per   il   giudice
dell'esecuzione,   di   intervenire   a   modifica   del    giudicato
irrevocabile, in tema di pene accessorie,  si  ricava  dall'art.  183
disp.  att.  cod.  proc.  Pen.  che,   tuttavia   riguarda   l'omessa
applicazione di una  pena  accessoria,  e  non,  quindi,  la  diversa
ipotesi dell'applicazione della stessa in violazione di legge. 
    Per altro verso, la previsione espressa (solo) di  tale  tipo  di
intervento,  in  attuazione  del  principio  piu'  generale  espresso
dall'art. 676 cod. proc.  pen.  e'  giustificata  dal  fatto  che  si
verterebbe nell'ipotesi dell'applicazione di pena accessoria in malam
partem., in quanto l'ordinamento non tollera che si dia esecuzione ad
una pena che non aveva fondamento nella legge, all'epoca  in  cui  fu
irrogata, anche se inflitta con sentenza ormai irrevocabile. 
    Del resto, l'ordinamento non tollera nemmeno che ne perdurino gli
effetti durante l'esecuzione, segnatamente allorche'  il  legislatore
ha espunto dall'ordinamento tale pena con legge successiva  a  quella
del momento in cui e' stata applicata, in quanto non piu' rispondente
ai  canoni   di   giustizia,   ragionevolezza,   proporzionalita'   e
adeguatezza, rispetto alla complessita' della funzione che alla  pena
viene demandata. 
    Pertanto, nel riconoscere la possibilita' della  correzione,  pur
in sede esecutiva, dell'entita' della pena accessoria  per  adeguarla
alla misura legale, si e' evidenziato che: "a) in una interpretazione
costituzionalmente orientata, la pena illegale per specie o misura va
corretta anche  in  executivis,  dovendo  tendenzialmente  cedere  il
giudicato a tale piu' alta  valenza  fondativa  dello  statuto  della
pena; b) il limite di cui all'art. 130 cod. proc. pen.,  secondo  cui
la correzione  non  deve  portare  ad  una  modificazione  essenziale
dell'atto,  va  inteso  nel  senso  che  non  si  deve  trattare   di
un'indebita  incursione  nel  potere  valutativo  -  decisionale  del
giudice della cognizione, ma non  opera  quando  si  tratti  di  mera
applicazione di un effetto determinato ex lege; e) l'art.  183  disp.
att. cod. proc. pen. autorizza  l'applicazione  in  executivis  della
pena accessoria predeterminata nella specie e nella durata, se a cio'
non si e' provveduto con la sentenza di condanna, e dunque  in  malam
partem (sulla questione cfr. Sez. 1, n. 1800  del  30/11/2012,  Zito,
Rv. 254288; da Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Catapano, Rv.  254151;
e da Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879)". 
    Sulla scorta  degli  anzidetti  criteri  ermeneutici,  la  S.C  a
Sezioni Unite ha  riconosciuto  la  possibilita'  di  intervenire  in
executivis,  limitatamente  alle  ipotesi  di  emenda  di  una   pena
accessoria illegale. 
    Passando alla rassegna di tali ipotesi, le  Sezioni  Unite  hanno
fatto  riferimento  alla  sentenza  della  Sez.  1,  n.  14007,   del
20/03/2007,  Fragnito,  Rv.  236213,  la  quale  assume  [dopo   aver
riconosciuto che il mito del giudicato ha subito  notevoli  fratture,
ad esempio attraverso  l'applicazione  della  continuazione  in  sede
esecutiva, fino alla  conversione  della  pena  detentiva  in  quella
corrispondente pecuniaria,  se  vi  e'  stata  condanna  a  una  pena
detentiva  e  una  legge  posteriore  prevede  esclusivamente  quella
pecuniaria] che gli interventi sul giudicato, in quanto  eccezionali,
sono ammissibili soltanto se previsti  espressamente  da  una  nonna,
giacche' in tale materia non e' consentita l'analogia. 
    Purtuttavia, sul presupposto dei precedenti giurisprudenziali, si
finisce per riconoscere che possa farsi  luogo,  pur  in  executivis,
alla applicazione di una pena accessoria "che consegua ex  lege  alla
condanna e sia predeterminata in ogni  suo  elemento,  cosi'  da  non
comportare alcuna discrezionalita' del giudice, in  ordine  alla  sua
applicazione ed alla sua misura,  ove  il  giudice  della  cognizione
abbia omesso di pronunciarsi per dimenticanza  materiale,  attraverso
la procedura di correzione degli errori materiali". 
    Nell'escludere, quindi, l'esistenza di  un  potere  generale  del
giudice dell'esecuzione in senso "manipolatore", cosi  come  di  fare
ricorso all'applicazione analogica (in tema  di  pene  accessorie,  i
poteri del giudice dell'esecuzione sono disciplinati dagli artt.  662
e 676 cod. proc. pen., nonche' dall'art. 183 disp.  att.  cod.  proc.
pen.), le Sezioni Unite hanno, tuttavia, riconosciuto  la  supremazia
del principio di legalita' della  pena  (valido  anche  per  le  pene
accessorie)e che  puo'  ben  essere  fatto  valere  pure  nella  fase
esecutiva, allorche' prenda forma una pena illegale, nel senso di una
pena avulsa dalla pretesa punitiva dello Stato. 
    Certo, va esclusa l'emendabilita' dell'atto in executivis, quando
il giudice della cognizione si sia gia' pronunciato  in  proposito  e
sia pervenuto, ancorche' in modo erroneo, a conclusioni  che  abbiano
comportato l'applicazione di una pena accessoria illegale. 
    In un'ipotesi siffatta, dunque, all'erroneita' della  valutazione
compiuta non potra' che porsi  rimedio  con  gli  ordinari  mezzi  di
impugnazione. 
    In secondo luogo, l'intervento  del  giudice  dell'esecuzione  e'
ammesso, sempre che non implichi valutazioni discrezionali in  ordine
alla specie e alla durata  della  pena  accessoria,  come  desumibile
dallo stesso art. 183 disp. att. cod. proc.  pen.,  che  consente  al
pubblico ministero di richiedere, quando non  si  sia  provveduto  in
sede di cognizione, l'applicazione di una  pena  accessoria,  purche'
questa sia "predeterminata dalla legge nella specie e nella durata". 
    Nella fattispecie in  esame,  tuttavia,  non  ricorre  alcuna  di
siffatte ipotesi, in quanto e' stata  disposta  una  pena  accessoria
legale e, per di piu', essa non  e'  stata  espunta  dalle  modifiche
normative intervenute sul DPR 309/90, il  cui  art.  85  e'  tutt'ora
vigente. 
    In conclusione, codesto Collegio non puo' decidere  sulla  revoca
della pena, come prospettato dal ricorrente. 
    D'altra parte, l'esecuzione della pena accessoria, al pari  della
esecuzione della pena principale, e' sottoposta  a  rigidi  parametri
normativi, che non consentono, al di fuori delle ipotesi  tipicamente
previste  dalla  legge,  alcuna  sospensione  o   diversa   modalita'
esecutiva. 
    Parimenti non puo' farsi ricorso all'applicazione analogica della
norma di cui all'art. 62, comma 2, della legge 24 novembre  1981,  n.
62,  che  consente  al  Magistrato  di  Sorveglianza  di   sospendere
temporaneamente la prescrizione che, durante la semi-detenzione o  la
liberta' controllata, impedisce l'uso della patente di guida. 
    Tale prescrizione, infatti, non ha natura di pena accessoria,  ma
costituisce, piuttosto, il contenuto  della  pena  sostitutiva  della
semi-detenzione  e  della  liberta'  controllata,  le  cui  modalita'
esecutive possono essere normativamente modificate dal Magistrato  di
Sorveglianza [in conformita' a un principio generale che caratterizza
l'esecuzione di una qualunque pena, sia detentiva che pecuniaria]. 
    L'art.   139   c.p.,   inoltre,   prevede    espressamente    che
l'eseguibilita' della sanzione accessoria, fuori dei casi di assoluta
incompatibilita' fra  pena  principale  e  pena  accessoria,  diventi
concretamente operativa solo dopo l'espiazione della pena principale. 
    Alla stregua delle anzidette notazioni, questa Corte solleva,  di
ufficio, ai sensi dell'art. 23, comma 2, legge 11 marzo 1953, n.  87,
la   questione   non   manifestamente   infondata   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 85, DPR 309/90, in relazione all'art.  3  ed
all'art. 27, comma 3 della Costituzione, nella parte in cui, consente
l'irrogazione della pena accessoria del ritiro della patente di guida
sino ad anni tre, da eseguirsi, ai sensi  dell'art.  139  c.p.,  solo
dopo l'espiazione della pena principale  detentiva,  sul  presupposto
dell'assoluta  incompatibilita'  con  la  stessa,  si   appalesa   in
contrasto con i principi costituzionali dettati dagli  artt.  25,  27
Cost.,  laddove,  espiata  la  pena  principale  l'esecuzione   della
medesima pena accessoria si pone in irragionevole  contrasto  con  le
finalita' rieducative proprie della pena stessa. 
    La  stessa  Corte  costituzionale  (con  sent.  n.  313/1990)  ha
evidenziato, pur nell'ambito di una concezione «polifunzionale» della
pena, il profilo centrale della funzione rieducativa di  quest'ultima
osservando, in particolare,  che  il  fondamento  costituzionale  dei
valori di reintegrazione, intimidazione, difesa  sociale  «non  [sia]
tale  da  autorizzare  il  pregiudizio  della  finalita'  rieducativa
espressamente   consacrata   dalla   Costituzione,    nel    contesto
dell'istituto della pena». 
    Essa sottolinea,  sul  punto,  che  «in  uno  Stato  evoluto,  la
finalita'  rieducativa  non  puo'  essere  ritenuta   estranea   alla
legittimita' ed alla funzione stessa  della  pena».  Infine,  non  e'
ricavabile  dal  sistema  alcuna   norma   ne'   e'   possibile   una
interpretazione  estensiva  o  un'applicazione  analogica  di   norme
(quale, ad esempio, il richiamato art. 62, comma 2,  della  legge  24
novembre 1981, n. 62)  che  consentano  di  evitare  un'irragionevole
disparita' di trattamento tra situazioni omogenee e che  l'esecuzione
della  pena  accessoria   temporanea   del   ritiro   della   patente
(necessariamente  differita  rispetto  alla  detenzione)  risulti  in
inevitabile  contrasto  con  la  funzione  rieducativa  che  dovrebbe
svolgere la pena medesima. 
    Ne  consegue  che  l'istanza  proposta  non  puo'  essere  decisa
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
come dianzi argomentata. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23, comma 2, legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 85, DPR  309/90,  in  relazione
agli artt. 3 e 27, comma 3 della Costituzione; 
    Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale; 
    Ordina che la presente ordinanza sia  notificata  alle  parti  in
causa, nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e  sia
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    In caso di diffusione del  presente  provvedimento,  omettere  le
generalita' e gli altri dati identificativi in quanto  imposto  dalla
legge. 
      Cosi' deciso in Palermo, 18 maggio 2015 
 
                       Il Presidente: Messana 
 
 
                                     Il consigliere estensore: Rosini