N. 44 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 novembre 2016

Ordinanza  del  18  novembre  2016 del   Tribunale   di   Cuneo   nel
procedimento civile promosso da Pallavidino Romana  e  Romano  Eralda
contro Inps. 
 
Previdenza e assistenza -  Disposizioni  in  materia  di  trattamenti
  pensionistici - Perequazione automatica delle pensioni per gli anni
  2012  e  2013  -  Esclusione  per   i   trattamenti   pensionistici
  complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS -
  Riconoscimento integrale per i trattamenti pensionistici fino a tre
  volte il trattamento minimo INPS e in  diverse  misure  percentuali
  per quelli compresi tra tre e cinque volte  il  trattamento  minimo
  INPS  -  Riconoscimento  della  perequazione  per   i   trattamenti
  pensionistici di importo  complessivo  superiore  a  tre  volte  il
  minimo  INPS,  relativa  agli  anni  2012-2013   come   determinata
  dall'art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 201  del  2011,  nella
  misura del 20 per cento negli anni 2014-2015 e del 50 per  cento  a
  decorrere dall'anno 2016. 
- Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per  la
  crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici),
  convertito, con modificazioni, dalla legge  22  dicembre  2011,  n.
  214, art. 24, commi 25 e 25-bis, nel testo sostituito  dall'art.  1
  del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65  (Disposizioni  urgenti  in
  materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR ),
  convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109. 
(GU n.13 del 29-3-2017 )
 
                    TRIBUNALE ORDINARIO DI CUNEO 
 
    Il Giudice  del  lavoro,  nella  persona  della  dott.ssa  Silvia
Casarino, a scioglimento della riserva  assunta  all'udienza  del  15
novembre 2016, ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella  causa
iscritta al n. 210/2016 R.G. Lav. promossa da  Pallavidino  Romana  e
Romano  Eralda  -  avv.ti  Michele  Iacoviello  e  Silvia   Santilli,
ricorrenti; 
    contro I.N.P.S. - Istituto nazionale della previdenza  sociale  -
avv. Marina Cappiello, convenuto. 
    Le signore Pallavidino Romana e Romano Eralda  hanno  evocato  in
giudizio l'I.N.P.S., esponendo di  essere  titolari  di  pensioni  (a
decorrere, rispettivamente, dal 1° settembre 1988  e  dal  1°  maggio
2001) per un  importo  complessivo  di  oltre  €  1.405,05  lorde  (€
1.217,00 netti) nel 2012, e di avere quindi subito,  dal  1°  gennaio
2012, il blocco della perequazione per gli anni 2012/2013 per effetto
dell'art. 24, comma  25,  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.  201,
convertito  in  legge  22   dicembre   2011,   n.   214,   dichiarato
incostituzionale con sentenza 30 aprile  2015,  n.  70,  e  deducendo
l'incostituzionalita', sotto vari profili, dell'art. 1  decreto-legge
21 maggio 2015, n. 65, convertito in legge 17 luglio  2015,  n.  109,
emanato dopo detta sentenza di incostituzionalita'. 
    Piu' precisamente, la ricorrente Romano, alla data del 1° gennaio
2012, percepiva una pensione complessiva che non  superava  l'importo
di sei volte la  pensione  minima  (ovvero  non  superava €  2.810,10
lordi, pari a circa €  2.000,00  netti,  ammontando  a  €  1.973,44),
mentre la ricorrente Pallavidino superava la soglia di sei  volte  la
pensione minima (ammontando ad € 3.168,53). 
    Le ricorrenti deducono (e l'allegazione puo' dirsi  pacifica,  in
mancanza di specifica contestazione da parte dell'INPS) che, in forza
della sentenza di  incostituzionalita'  n.  70/15,  avrebbero  dovuto
percepire gli aumenti mensili maturati nel biennio 2012/2013, pari  a
circa il 5-6% della  pensione,  da  erogarsi  anche  per  il  futuro,
nonche' gli arretrati a decorrere dal 1° gennaio 2012, per un importo
finale pari a oltre due mensilita' di pensione. 
    A  seguito  della  pronuncia  della  Corte   costituzionale,   la
ricorrente Romano avrebbe avuto diritto  a  percepire,  a  titolo  di
perequazione della pensione, l'importo di € 106,69,  mentre,  con  il
decreto-legge n. 65/15 l'importo percepito a tale titolo  mensilmente
e' pari a € 7,03; la ricorrente Pallavidino avrebbe dovuto  percepire
a titolo di perequazione l'importo mensile di  €  118,90,  mentre,  a
seguito del decreto-legge n. 65/15, nulla le e' stato riconosciuto. A
titolo di arretrati, spettavano,  a  seguito  della  declaratoria  di
incostituzionalita', a Pallavidino la somma  di  €  5.356,26,  mentre
nulla le e' stato pagato; a Romano la somma di € 4.894,89, mentre  le
e' stata pagata unicamente somma di € 549,38. 
    Anche detti importi possono ritenersi  pacifici  in  mancanza  di
specifica contestazione dell'Istituto convenuto in merito  alla  loro
correttezza sotto il profilo contabile. 
    Le ricorrenti chiedono quindi, previa rimessione degli atti  alla
Corte costituzionale, di accertare il loro diritto alla  perequazione
automatica dei loro trattamenti pensionistici per  gli  anni  2012  e
2013 secondo la sentenza  della  Corte  costituzionale  n.  70/15,  e
comunque in base al meccanismo di cui all'art. 69, comma 1, legge  23
dicembre 2000, n. 388,  senza  tener  conto  dei  limiti  di  cui  al
decreto-legge n. 65/15,  e  dunque  dichiarare  tenuto  e  condannare
l'INPS a pagare loro, per il blocco 2012/2013,  l'aumento  mensile  e
gli arretrati sui trattamenti pensionistici, oltre accessori sino  al
saldo. 
Rilevanza della questione. 
    Da quanto sopra scritto emerge la rilevanza  della  questione  di
costituzionalita' sollevata con il presente provvedimento. 
    A fronte della sentenza della Corte costituzionale n. 70/15,  che
ha dichiarato «l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  24,  comma
25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201  (Disposizioni  urgenti
per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei  conti  pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  22
dicembre  2011,  n.  214,  nella  parte  in  cui  prevede   che   "In
considerazione   della   contingente   situazione   finanziaria,   la
rivalutazione automatica dei trattamenti  pensionistici,  secondo  il
meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge  23  dicembre
1998,  n.  448,  e'  riconosciuta,  per  gli  anni   2012   e   2013,
esclusivamente ai trattamenti pensionistici  di  importo  complessivo
fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per
cento"», e' stato emanato il decreto-legge n. 65/15, il  cui  art.  1
prevede: 
    «1. Al fine  di  dare  attuazione  ai  principi  enunciati  nella
sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto  del
principio dell'equilibrio di bilancio e degli  obiettivi  di  finanza
pubblica,  assicurando  la  tutela  dei  livelli   essenziali   delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione
della    salvaguardia    della    solidarieta'    intergenerazionale,
all'articolo  24  del  decreto-legge  6  dicembre   2011,   n.   201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214,
sono apportate le seguenti modificazioni: 
        1) il comma 25 e' sostituito dal seguente: 
    "25. La rivalutazione automatica dei  trattamenti  pensionistici,
secondo il meccanismo stabilito  dall'articolo  34,  comma  1,  della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012  e  2013,  e'
riconosciuta: 
      a)  nella  misura  del  100  per  cento   per   i   trattamenti
pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il  trattamento
minimo INPS. Per le pensioni di importo  superiore  a  tre  volte  il
trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato  della
quota di rivalutazione automatica  spettante  sulla  base  di  quanto
previsto  dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'
comunque  attribuito  fino  a   concorrenza   del   predetto   limite
maggiorato; 
      b)  nella  misura  del  40  per   cento   per   i   trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a tre volte  il  trattamento
minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento  minimo
INPS  con  riferimento  all'importo   complessivo   dei   trattamenti
medesimi. Per le pensioni di importo superiore  a  quattro  volte  il
predetto trattamento minimo e inferiore a  tale  limite  incrementato
della quota di  rivalutazione  automatica  spettante  sulla  base  di
quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione e'
comunque  attribuito  fino  a   concorrenza   del   predetto   limite
maggiorato; 
      c)  nella  misura  del  20  per   cento   per   i   trattamenti
pensionistici  complessivamente  superiori   a   quattro   volte   il
trattamento minimo  INPS  e  pari  o  inferiori  a  cinque  volte  il
trattamento minimo INPS con riferimento all'importo  complessivo  dei
trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore  a  cinque
volte il predetto  trattamento  minimo  e  inferiore  a  tale  limite
incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante  sulla
base  di  quanto  previsto  dalla  presente  lettera,  l'aumento   di
rivalutazione e' comunque attribuito fino a concorrenza del  predetto
limite maggiorato; 
      d)  nella  misura  del  10  per   cento   per   i   trattamenti
pensionistici  complessivamente   superiori   a   cinque   volte   il
trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento
minimo INPS con riferimento all'importo complessivo  dei  trattamenti
medesimi. Per le  pensioni  di  importo  superiore  a  sei  volte  il
predetto trattamento minimo e inferiore a  tale  limite  incrementato
della quota di  rivalutazione  automatica  spettante  sulla  base  di
quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione e'
comunque  attribuito  fino  a   concorrenza   del   predetto   limite
maggiorato; 
      e)  non  e'  riconosciuta  per  i   trattamenti   pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. 
        2) dopo il comma 25 sono inseriti i seguenti: 
    "25-bis.   La   rivalutazione    automatica    dei    trattamenti
pensionistici, secondo  il  meccanismo  stabilito  dall'articolo  34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.  448,  relativa  agli  anni
2012  e  2013  come  determinata  dal  comma  25,  con  riguardo   ai
trattamenti pensionistici di  importo  complessivo  superiore  a  tre
volte il trattamento minimo INPS e' riconosciuta: 
      a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; 
      b) a decorrere dall'anno 2016 nella misura del 50 per cento."». 
    Pertanto,  in  applicazione  di  detto  decreto-legge,   anziche'
vedersi ripristinare la perequazione e  pagare  gli  arretrati  (come
sarebbe avvenuto in forza della sentenza della Corte  costituzionale)
la ricorrente Romano ha ottenuto  una  perequazione  per  un  importo
minimale (€ 7,03 a fronte di € 106,69, con conseguente  pagamento  di
arretrati in misura di € 549,38 a fronte degli € 4.894,89 spettanti),
mentre Pallavidino, poiche' titolare di un trattamento  pensionistico
superiore a sei volte il minimo (a fronte di una perequazione mensile
di € 118,90 e di arretrati pari a € 5.356,26 spettanti in forza della
sentenza della Corte costituzionale) nulla si e' vista riconoscere. 
    Alla  luce  dell'attuale  normativa  le   domande   attoree   non
potrebbero quindi  che  essere  rigettate,  mentre  dall'accoglimento
della questione di  illegittimita'  costituzionale  conseguirebbe  il
diritto alla perequazione  della  pensione  secondo  i  criteri  gia'
stabiliti. 
Sulla non manifesta infondatezza. 
1. Violazione del giudicato costituzionale. 
    Non appare manifestamente infondata la questione di  legittimita'
costituzionale per violazione dell'art. 136  della  Costituzione,  ai
sensi  del  quale,  quando   la   Corte   dichiara   l'illegittimita'
costituzionale di una norma di legge, questa cessa di avere efficacia
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. 
    Invero, il decreto-legge n. 65/15, nel sostituire  il  testo  del
decreto-legge n. 201/11 convertito in legge n.  214/2011,  dichiarato
incostituzionale  con  sentenza  n.  70/2015   della   Consulta,   ha
sostanzialmente  aggirato  le  statuizioni  di  detta   declaratoria,
impedendo la  portata  retroattiva  insista  nella  dichiarazione  di
incostituzionalita'. 
    Ebbene, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha  ritenuto
in  violazione  dell'art.  136  della  Costituzione  gli   interventi
legislativi che, dopo pronunce declaratorie  di  incostituzionalita',
abbiano avuto il sostanziale effetto di «prolungare  la  vita»  della
norma  dichiarata  incostituzionale,  in   tal   modo   ripristinando
l'efficacia delle disposizioni ormai caducate e  dunque  gli  effetti
che  erano  stati  rimossi  per   effetto   della   declaratoria   di
incostituzionalita',  cfr.,  recentemente,  Corte  costituzionale  24
giugno 2015, n. 169, che  ha  evidenziato  come  la  norma  contenuta
nell'art.  136  della  Costituzione  debba  essere  intesa  in  senso
rigoroso, poiche' su di essa «(...) poggia il  contenuto  pratico  di
tutto il sistema delle garanzie costituzionali, in quanto essa toglie
immediatamente  ogni   efficacia   alla   norma   illegittima   senza
possibilita'  di  compressioni  od  incrinature  nella   sua   rigida
applicazione». La Consulta ha osservato  -  richiamando  al  riguardo
precedenti declaratorie di incostituzionalita' - che l'art. 136 della
Costituzione sarebbe violato non soltanto  laddove  espressamente  si
disponesse che una  norma  dichiarata  illegittima  conservi  la  sua
efficacia, ma anche nel caso in cui una legge, per il  modo  con  cui
provvede a regolare  le  fattispecie  verificatesi  prima  della  sua
entrata   in   vigore,   perseguisse   e   raggiungesse,   anche   se
indirettamente, lo stesso risultato, rilevando  ancora:  «Se  appare,
infatti, evidente che una pronuncia di illegittimita'  costituzionale
non possa, in linea  di  principio,  determinare,  a  svantaggio  del
legislatore, effetti corrispondenti a quelli di un "esproprio"  della
potesta'  legislativa  sul  punto  -  tenuto  anche  conto  che   una
declaratoria di illegittimita'  ha  contenuto,  oggetto  e  occasione
circoscritti dal "tema" normativo devoluto e dal "contesto" in cui la
pronuncia demolitoria e'  chiamata  ad  iscriversi  -,  e'  del  pari
evidente,  tuttavia,  che  questa  non  possa  risultare  pronunciata
"inutilmente", come accadrebbe quando una accertata violazione  della
Costituzione  potesse,  in  una   qualsiasi   forma,   inopinatamente
riproporsi. E se, percio', certamente il legislatore  resta  titolare
del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia,  e'
senz'altro  da  escludere  che  possa  legittimamente  farlo  -  come
avvenuto nella specie - limitandosi a "salvare", e cioe' a "mantenere
in vita", o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni  che,
in ragione della dichiarazione di illegittimita' costituzionale,  non
sono piu' in grado di produrne. Il contrasto  con  l'art.  136  della
Costituzione  ha,  in  un  simile  frangente,   portata   addirittura
letterale. 
    In altri termini: nel mutato, contesto di esperienza  determinato
da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto
discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volonta'
normativa censurata dalla Corte; un altro conto e' emanare  un  nuovo
atto diretto esclusivamente a prolungare  nel  tempo,  anche  in  via
indiretta, l'efficacia di norme che «non possono  avere  applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»  (art.  30,
terzo comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  -  Norme  sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)». 
    L'elusione del giudicato costituzionale e' massimamente  evidente
per i pensionati titolari - come la ricorrente Pallavidino  -  di  un
trattamento pensionistico che supera sei volte il trattamento minimo:
per costoro, l'esclusione di qualsivoglia meccanismo di  perequazione
della pensione per  gli  anni  2012-2013,  che  operava  prima  della
sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, e' rimasta anche dopo
l'introduzione  del  decreto-legge  n.  65/15  e  a  causa  di  detto
provvedimento normativo. 
    Ma la violazione dell'art. 136  della  Costituzione  sussiste,  a
parere del giudice, anche con riferimento alle  posizioni  di  coloro
che (come la ricorrente Romano) siano titolari di trattamenti pari  o
inferiori a sei volte il minimo del trattamento INPS. 
    Invero, a fronte di una pronuncia caducatoria (v. il dispositivo,
con il quale la Corte ha dichiarato «l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 24, comma 25, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il  consolidamento
dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,  dall'art.  1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214,  nella  parte  in  cui
prevede  che  "In   considerazione   della   contingente   situazione
finanziaria,   la   rivalutazione    automatica    dei    trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma l,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e' riconosciuta, per  gli  anni
2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici  di  importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura
del 100 per cento»), l'introduzione di  una  perequazione  in  misure
percentuali differenziate a seconda della misura in cui  la  pensione
superi il trattamento minimo INPS, avendo l'effetto di  neutralizzare
la   portata   retroattiva   connaturata   alla    declaratoria    di
incostituzionalita', nonche',  in  rilevante  misura,  i  conseguenti
vantaggi economici, integra un  inadempimento  del  legislatore  alla
sentenza n. 70/15. 
    Come  anche  evidenziato  dalla  difesa  attorea,  la  situazione
creatasi  a  seguito  dell'intervento   normativo   successivo   alla
dichiarazione  di  incostituzionalita'  e'  ben  diversa  da   quella
relativa al cosiddetto «contributo di  solidarieta'»  (relativo  agli
anni  2011-2014),  dichiarato  incostituzionale   con   sentenza   n.
116/2013. Il legislatore, in questo caso, dopo  la  dichiarazione  di
incostituzionalita' della legge non reintrodusse retroattivamente  il
contributo di solidarieta', ma intervenne per il  futuro,  ossia  per
gli anni 2014/2016, senza,  pertanto,  in  alcun  modo  eliminare  il
diritto agli arretrati relativi agli anni 2011/2013. 
    La Corte costituzionale ha  quindi  in  questo  caso  escluso  la
violazione  dell'art.  136  della   Costituzione   in   quanto:   «Il
"contributo di  solidarieta'"  ora  in  contestazione  non  colpisce,
infatti, le pensioni  erogate  negli  anni  (2011-2012),  incise  dal
precedente  contributo  perequativo,  dichiarato   costituzionalmente
illegittimo in  ragione  della  sua  accertata  natura  tributaria  e
definitivamente, quindi, caducato (e conseguentemente  recuperato  da
quei pensionati) per effetto della sentenza di questa  Corte  n.  116
del 2013; colpisce, invece, sulla base di  differenti  presupposti  e
finalita', pensioni, di elevato importo, nel  successivo  periodo,  a
partire dal 2014. 
    E tanto esclude che la disposizione sub  comma  486  dell'art.  1
della legge n. 147 del 2013 sia elusiva del giudicato  costituzionale
(rappresentato  dalla  suddetta  sentenza),   atteso   appunto,   che
l'odierna disposizione non  disciplina  le  stesse  fattispecie  gia'
regolate dal precedente art. 18, comma 22-bis, del  decreto-legge  n.
98 del 2011, ne' surrettiziamente proroga gli effetti di quella norma
dopo la sua rimozione dall'ordinamento giuridico  (vedi  sentenza  n.
245 del 2012)». 
    Al contrario, con riferimento alla perequazione  delle  pensioni,
il decreto-legge n. 201/11 e' intervenuto proprio neutralizzando  gli
effetti (retroattivi) della declaratoria di incostituzionalita'. 
2. Violazione dell'art. 117,  comma  1  della  Costituzione  rispetto
all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    A parere di questo giudice, non appare  manifestamente  infondata
la questione di legittimita' costituzionale  sollevata  dalla  difesa
delle ricorrenti nel corso dell'udienza di  discussione,  consistente
nella violazione dell'art.  117,  comma  1  della  Costituzione,  con
riferimento all'art. 6, comma 1  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Invero,  nel  caso  di  specie,  come  osservato  nel  precedente
paragrafo,  lo  jus  superveniens  e'  intervenuto  provvedendo,  con
efficacia retroattiva, su  una  materia  la  cui  disciplina  era,  a
seguito dell'espunzione della norma ad opera  della  declaratoria  di
incostituzionalita', del tutto completa e  chiara.  Il  diritto  alla
perequazione automatica del trattamento pensionistico  per  gli  anni
2012 e 2013 (ivi compresi i trattamenti economici  delle  ricorrenti)
sarebbe stato infatti assoggettato al meccanismo di cui all'art.  69,
comma 1, legge 23 dicembre 2000, n. 388. 
    La  regolamentazione  retroattiva  ha  avuto,  peraltro,   natura
radicalmente   innovativa   e   non   interpretativa,   semplicemente
disponendo, con riferimento agli stessi anni ai quali si riferiva  la
declaratoria di incostituzionalita', in modo diverso da quest'ultima. 
    Come evidenziato dalla difesa attorea nel corso  dell'udienza  di
discussione,  la  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo   e'   particolarmente   rigorosa   nell'ammettere    leggi
retroattive, anche  se  di  interpretazione  autentica,  che  abbiano
l'effetto di neutralizzare decisioni giudiziali. Infatti, anche norme
di interpretazione autentica (come tali, necessariamente retroattive)
possono violare il diritto all'equo processo ex art. 6, comma 1  CEDU
laddove non sussistano situazioni di incertezza giuridica, senza che,
d'altra parte, esigenze finanziarie siano di per se'  sole  idonee  a
giustificare simili interventi,  poiche'  non  corrispondenti  ad  un
«imperioso motivo di interesse generale». 
    Si veda, al riguardo, sentenza CEDU 3 settembre  2013,  n.  5376,
che ha richiamato la propria precedente  giurisprudenza  «secondo  la
quale  se,  in  linea  di  principio,  il  potere  legislativo   puo'
regolamentare  in  materia  civile,  con  nuove   norme   a   portata
retroattiva, i diritti derivanti da leggi  in  vigore,  il  principio
della preminenza del diritto e la nozione di  processo  equo  sanciti
dall'articolo 6 § 1 si oppongono, a meno che non sussistano imperiosi
motivi di interesse generale, all'ingerenza  del  potere  legislativo
nell'amministrazione  della  giustizia  allo  scopo  di   influenzare
l'esito giudiziario della lite (Raffineries grecques Stran e  Stratis
Andreadis c. Grecia, 9 dicembre  1994,  §  49,  serie  A  n.  301  B;
Papageorgiou c. Grecia, 22 ottobre 1997, § 37, Recueil des arrêts  et
decisions 1997 VI; National  &  Provincial  Building  Society,  Leeds
Permanent Building Society et Yorkshire  Building  Society  c.  Regno
Unito, 23 ottobre 1997, § 112, Recueil des arrêts et  decisions  1997
VII, Zielinski e Pradal e Gonzalez e altri c.  Francia  [GC],  numeri
24846/94 e da 34165/96 a 34173/96, § 57,  CEDU  1999  VII,  Agrati  e
altri c. Italia, numeri 43549/08, 6107/09 e 5087/09, § 58,  7  giugno
2011 e Maggio e altri c. Italia, numeri 46286/09, 52851/08, 53727/08,
54486/08 e 56001/08, § 43, 31 maggio 2011). 
    ... Inoltre, la Corte rammenta che il diritto ad un processo equo
dinanzi  a  un  tribunale,  garantito  dall'articolo  6  §  1   della
Convenzione, deve essere interpretato alla luce del  preambolo  della
Convenzione che  enuncia  come  la  preminenza  del  diritto  sia  un
elemento del patrimonio comune  degli  Stati  contraenti.  Uno  degli
elementi fondamentali della preminenza del diritto  e'  il  principio
della certezza dei rapporti giuridici che vuole, tra l'altro, che  la
soluzione data in maniera definitiva a qualsiasi lite  dai  tribunali
non sia piu'  rimessa  in  causa  (Brumărescu  c.  Romania  [GC],  n.
28342/95, § 61, CEDU 1999 VII)». 
    Nel caso di specie non si pone alcun problema di  interpretazione
della  norma,  essendo  invece  intervenuta   una   declaratoria   di
incostituzionalita'  che  ha,   ben   piu'   semplicemente,   espunto
dall'ordinamento la norma censurata, di talche' il  decreto-legge  n.
65/15 ha introdotto una nuova e diversa disciplina rispetto a  quella
risultante dalla pronuncia della Consulta, per di piu' con  efficacia
retroattiva. 
    Con il decreto-legge n. 65/15 e' stata dunque frustrata la tutela
giurisdizionale del cittadino, e quindi il suo  diritto  ad  un  equo
processo, che, nel caso di specie, consisteva nel  vedersi  applicare
la disciplina della  perequazione  delle  pensioni  risultante  dalla
declaratoria di incostituzionalita', affidamento del tutto  legittimo
(poiche' basato sulle rispettive competenze degli organi dello  Stato
nonche' sulla certezza giuridica di cui il rispetto del  giudicato  -
tanto piu'  il  giudicato  costituzionale  -  costituisce  componente
fondamentale), che e' stato invece disatteso. 
    Cio' appare in contrasto con l'art. 6, comma 1, della Convenzione
europea  dei  diritti  dell'uomo  e  quindi  con  l'art.  117   della
Costituzione («L'art. 117, comma primo della Costituzione  condiziona
l'esercizio della potesta' legislativa dello Stato e delle regioni al
rispetto degli obblighi internazionali, fra i quali rientrano  quelli
derivanti dalla convenzione europea dei  diritti  dell'uomo,  le  cui
norme pertanto, cosi'  come  interpretate  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, costituiscono fonte integratrice del parametro  di
costituzionalita'  introdotto  dall'art.  117,  primo   comma   della
Costituzione, e la loro violazione da parte di una  legge  statale  o
regionale comporta che tale legge deve essere dichiarata  illegittima
dalla Corte costituzionale, sempre che la norma della convenzione non
risulti a sua volta in contrasto con una norma costituzionale»  Corte
costituzionale sentenze numeri 348 e 349 del 2007). 
3. Violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione. 
    La  Consulta,  con  la   sentenza   n.   70/15,   ha   dichiarato
l'incostituzionalita' dell'art. 24, comma  25  del  decreto-legge  n.
201/2011 illustrandone le ragioni nel punto 10 della motivazione: 
    «10.  -  La  censura  relativa  al  comma  25  dell'art.  24  del
decreto-legge n. 201 del 2011, se  vagliata  sotto  i  profili  della
proporzionalita' e adeguatezza del trattamento pensionistico,  induce
a ritenere che siano stati valicati  i  limiti  di  ragionevolezza  e
proporzionalita',  con  conseguente  pregiudizio  per  il  potere  di
acquisto del trattamento stesso e  con  "irrimediabile  vanificazione
delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
successivo alla cessazione della propria attivita'" (sentenza n.  349
del 1985). 
    Non  e'  stato  dunque  ascoltato  il   monito   indirizzato   al
legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. 
    Si  profila  con  chiarezza,  a   questo   riguardo,   il   nesso
inscindibile che lega il dettato degli articoli 36,  primo  comma,  e
38, secondo comma, Cost. (fra le piu' recenti, sentenza  n.  208  del
2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si
deve   esercitare   il   legislatore   nel   proporre   un   corretto
bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di
spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo  "al  fine  di
evitare  che  esso  possa  pervenire  a  valori  critici,  tali   che
potrebbero rendere inevitabile l'intervento correttivo  della  Corte"
(sentenza n. 226 del 1993). 
    La  disposizione   concernente   l'azzeramento   del   meccanismo
perequativo, contenuta nel comma 24 dell'art. 25 del decreto-legge n.
201 del 2011, come convertito, si limita a  richiamare  genericamente
la "contingente situazione finanziaria", senza che emerga dal disegno
complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze  finanziarie  sui
diritti oggetto di bilanciamento, nei  cui  confronti  si  effettuano
interventi cosi' fortemente incisivi. Anche in  sede  di  conversione
(legge 22 dicembre 2011, n. 214),  non  e'  dato  riscontrare  alcuna
documentazione  tecnica  circa  le  attese  maggiori  entrate,   come
previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196,
recante "Legge di contabilita' e finanza pubblica"  (sentenza  n.  26
del 2013, che interpreta il citato art.  17  quale  "puntualizzazione
tecnica" dell'art. 81 Cost.). 
    L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari
di trattamenti previdenziali modesti, e' teso alla conservazione  del
potere di acquisto delle somme  percepite,  da  cui  deriva  in  modo
consequenziale il diritto a una prestazione  previdenziale  adeguata.
Tale diritto, costituzionalmente fondato,  risulta  irragionevolmente
sacrificato nel  nome  di  esigenze  finanziarie  non  illustrate  in
dettaglio.  Risultano,  dunque,  intaccati  i  diritti   fondamentali
connessi  al  rapporto  previdenziale,  fondati   su   inequivocabili
parametri costituzionali:  la  proporzionalita'  del  trattamento  di
quiescenza, inteso  quale  retribuzione  differita  (art.  36,  primo
comma, Cost.)  e  l'adeguatezza  (art.  38,  secondo  comma,  Cost.).
Quest'ultimo e' da intendersi quale espressione certa, anche  se  non
esplicita, del principio di solidarieta' di cui all'art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale  di  cui
all'art. 3, secondo comma, Cost.». 
    Secondo la Corte costituzionale, quindi, una sospensione a  tempo
indeterminato della  perequazione  o  la  reiterazione  frequente  di
misure dirette a paralizzarla esporrebbero il sistema pensionistico a
tensioni evidenti con i principi di proporzionalita' ed adeguatezza. 
    Il legislatore del 2011, secondo la Corte, non  aveva  esercitato
il corretto bilanciamento tra ragioni di spesa e tutela del potere di
acquisto del trattamento pensionistico, avendo utilizzato un generico
richiamo alla «contingente situazione finanziaria», senza  rispettare
il vincolo di scopo ineludibile del sacrificio economico  imposto  ai
pensionati. 
    Allo stesso modo, l'introduzione del  nuovo  testo  dell'art.  24
decreto-legge n. 201/11, cosi' come sostituito con  il  decreto-legge
n.  65/15,  e'  stato  giustificato  dal  «rispetto   del   principio
dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica»  e
dalla «salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale», cioe'  da
enunciazioni generiche e relative a finalita' gia' insite di per  se'
(ai  sensi,  rispettivamente,  degli   articoli   81   e   38   della
Costituzione) in ogni iniziativa legislativa adottata  nella  materia
pensionistica. 
    Nella relazione illustrativa  al  disegno  di  legge  le  ragioni
vengono espresse ponendo come  unico  riferimento  i  maggiori  oneri
finanziari che lo Stato sopporterebbe in via decrescente tra il  2012
ed il 2016 per effetto della riattivazione del meccanismo perequativo
dell'art. 69, legge n. 388/2000 conseguente alla  sentenza  n.  70/15
della Corte  costituzionale,  mentre  manca  qualsiasi  accenno  alla
ragione per cui si intende comunque riequilibrare  il  disavanzo  con
l'intervento sul sistema  pensionistico  e  sul  perche'  esso  venga
modulato con le specificita' di cui sopra si e' detto. 
    Inoltre, il testo dell'art. 24,  comma  25  cosi'  sostituito  ha
effetti distribuiti su piu' anni e destinati a diventare  permanenti,
non essendo  previsto  il  recupero  futuro  del  mancato  incremento
rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici. Con
un'unica  disposizione  si  e'  dunque  realizzata   di   fatto   una
reiterazione annuale della paralisi del  meccanismo  perequativo,  in
contrasto col monito piu' volte ripetuto dalla Corte costituzionale. 
    Vengono  inoltre  incise  pensioni  anche  di  valore   economico
modesto. 
    Il decreto-legge n. 65/15 ha quindi introdotto uno strumento  che
eccede  nell'opera  di  riequilibrio  finanziario  rispetto  al  fine
dichiarato, senza garantire appieno la conservazione  nel  tempo  del
potere d'acquisto delle pensioni incise  e  sacrificando  percio'  in
misura  sproporzionata  la  tutela  dei  beneficiari  di  trattamenti
previdenziali   non   elevati.   Si   manifesta   in   questo    modo
l'irragionevolezza delle disposizioni contenute nei commi 25 e 25-bis
del nuovo testo dell'art. 24 del decreto-legge n. 201/11. 
    Detto intervento normativo e' ben diverso da quello  relativo  al
«contributo di solidarieta'»,  oggetto  della  gia'  citata  sentenza
della Corte costituzionale n. 173/2016. 
    Il contributo  di  solidarieta'  era  stato  introdotto,  per  il
triennio 2014-2016,  dall'art.  1,  comma  486,  legge  n.  147/2013,
operando  in   misura   crescente   sui   trattamenti   pensionistici
obbligatori superiori a  quattordici  volte  il  trattamento  minimo,
anche al fine di concorrere a finanziare le  misure  di  salvaguardia
pensionistica per i lavoratori definiti «esodati». 
    Esso ha quindi riguardato  le  pensioni  piu'  elevate,  peraltro
operando all'interno del sistema complessivo della previdenza. 
    Per  queste  ragioni  la  Corte  costituzionale,  con  la  citata
pronuncia,  ha  ritenuto  la  conformita'  a  Costituzione  di  detto
contributo, in particolare rispetto ai criteri  di  ragionevolezza  e
proporzionalita'. 
    Al contrario del contributo di solidarieta', misura una tantum  -
con conseguente ripristino, alla  scadenza,  dell'importo  originario
della pensione - il blocco della rivalutazione  della  pensione,  pur
limitato nel tempo, ha pero' effetti permanenti. 
    D'altro canto, se la Corte costituzionale ha giudicato  legittimi
precedenti interventi di blocco  del  meccanismo  della  perequazione
delle  pensioni  quando  essi   avessero   una   durata   ragionevole
(sostanzialmente annuale), nel caso di  specie,  la  durata  biennale
dell'intervento, confermato per gli anni 2012-2013 - del pari oggetto
di  censura  nella  sentenza  n.   70/15   -   non   trova   adeguata
giustificazione e risulta ancor piu' gravosa, benche' detta  sentenza
avesse sottolineato l'ammissibilita' di interventi di riduzione della
rivalutazione  se   temporalmente   contenuti,   come   avvenuto   in
precedenza, nel termine annuale. 
    Pertanto, non puo' ritenersi manifestamente infondata l'eccezione
di legittimita' costituzionale delle norme in esame  con  riferimento
agli articoli  3,  36,  primo  comma,  e  38,  secondo  comma,  della
Costituzione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli articoli 134 della Costituzione  e  23  della legge  n.
87/1953: 
        1) dichiara rilevante e  non  manifestamente  infondata,  per
violazione degli articoli 136, 117 comma  1  -  rispetto  all'art.  6
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali firmata a  Roma  il  4  novembre  1950  e
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto  1955,  n.  848  quale
norma interposta -, 3, 36 comma 1, e 38 comma 2 della Costituzione la
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  24,  comma  25  e
25-bis, decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge  n.  214/2011,
nel  testo  sostituito  dall'art.  1  del decreto-legge  n.   65/2015
(convertito in legge n. 109/2015), nella parte in cui prevedono che: 
          «25.   La   rivalutazione   automatica   dei    trattamenti
pensionistici, secondo  il  meccanismo  stabilito  dall'articolo  34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.  448,  relativa  agli  anni
2012 e 2013, e' riconosciuta: 
          [...] 
b) nella misura del 40 per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo  INPS  e
pari o inferiori a quattro  volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
c) nella misura del 20 per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS
e pari o inferiori a cinque volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto  trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
d) nella misura del 10 per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo  INPS
e pari o inferiori  a  sei  volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a sei  volte  il  predetto  trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
e)   non   e'   riconosciuta   per   i   trattamenti    pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi; 
[...] 
          25-bis.  La  rivalutazione   automatica   dei   trattamenti
pensionistici, secondo  il  meccanismo  stabilito  dall'articolo  34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.  448,  relativa  agli  anni
2012  e  2013  come  determinata  dal  comma  25,  con  riguardo   ai
trattamenti pensionistici di  importo  complessivo  superiore  a  tre
volte il trattamento minimo INPS e' riconosciuta: 
a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; 
b) a decorrere dall'anno 2016 nella misura del 50 per cento»; 
        2) visti gli articoli 295 del codice di procedura civile e 23
della legge n. 87/1953,  sospende  il  presente  giudizio  sino  alla
decisione della Corte costituzionale; 
        3) ordina  che  la  presente  ordinanza  sia,  a  cura  della
cancelleria, comunicata alle parti del presente giudizio,  notificata
al Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  e  sia  comunicata  ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; 
        4) ordina l'immediata trasmissione  degli  atti,  comprensivi
della documentazione attestante il perfezionamento  delle  prescritte
notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale. 
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui sopra. 
      Cuneo, 18 novembre 2016 
 
                        Il Giudice: Casarino