N. 77 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 febbraio 2017

Ordinanza del 9 febbraio 2017 del Tribunale di Cuneo nel procedimento
civile promosso da Cane Gianmario contro Inps . 
 
Previdenza e assistenza -  Disposizioni  in  materia  di  trattamenti
  pensionistici - Perequazione automatica delle pensioni per gli anni
  2012  e  2013  -  Esclusione  per   i   trattamenti   pensionistici
  complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS -
  Riconoscimento integrale per i trattamenti pensionistici fino a tre
  volte il trattamento minimo INPS e in  diverse  misure  percentuali
  per quelli compresi tra tre e cinque volte  il  trattamento  minimo
  INPS  -  Riconoscimento  della  perequazione  per   i   trattamenti
  pensionistici di importo  complessivo  superiore  a  tre  volte  il
  minimo  INPS,  relativa  agli  anni  2012-2013   come   determinata
  dall'art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 201  del  2011,  nella
  misura del 20 per cento negli anni 2014-2015 e del 50 per  cento  a
  decorrere dall'anno 2016. 
- Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per  la
  crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici),
  convertito, con modificazioni, dalla legge  22  dicembre  2011,  n.
  214, art. 24, commi 25 e 25-bis, nel testo sostituito  dall'art.  1
  del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65  (Disposizioni  urgenti  in
  materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR ),
  convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109. 
(GU n.22 del 31-5-2017 )
 
                    TRIBINALE ORDINARIO DI CUNEO 
 
    Il giudice del  lavoro,  nella  persona  della  dott.ssa  Daniela
Rispoli ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta  al
n. 1275/2015 R.G. Lav. promossa da: Gianmario Cane, con il patrocinio
dell'avv. Giordano Ivan ricorrente contro  Inps,  con  il  patrocinio
dell'avv. Cappiello  Marina  convenuto  il  ricorrente,  titolare  di
pensione VO n. 1004344, con decorrenza agosto 1992,  dedotto  di  non
aver usufruito, per effetto dell'articolo 24, comma 25, decreto-legge
6 dicembre 2011,  n.  201  (Disposizioni  urgenti  per  la  crescita,
l'equita' e il consolimento  dei  conti  pubblici),  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n.
214, della perequazione automatica per l'anno 2013;  dedotto  che  la
norma in questione e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima
dalla sentenza 70/2015 della Corte  Costituzionale;  dedotto  che  la
fattispecie  e'  stata  nuovamente  disciplinata  dal   decreto-legge
65/2015, convertito con modificazioni dalla legge 109/2015. 
    Tanto  dedotto  ha  chiesto  l'accertamento  del   diritto   alla
rivalutazione automatica della pensione per gli anni 2012 e 2013, con
le conseguenti condanne a carico dell'INPS. E, in via subordinata, in
ipotesi di ritenuta applicabilita' della normativa sopravvenuta  alla
declaratoria   di   incostituzionalita',   ne   ha   prospettato   la
illegittimita' costituzionale, al fine della rimozione degli ostacoli
normativi all'accoglimento delle conclusioni. 
    L'INPS si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso. 
    Rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale 
    Il  ricorrente  sulla  base  del  meccanismo   di   rivalutazione
automatica delle pensioni cosi' come introdotto dall'art. 34 comma  1
della legge n. 448/98, avrebbe diritto alla rivalutazione  annua  del
trattamento  pensionistico  percepito:  la  rivalutazione  era  stata
infatti bloccata per gli anni  2012-2013,  in  virtu'  dell'art.  24,
comma 25 decreto-legge 201/2011 convertito dalla legge  214/2011,  ma
tale norma e' stata dichiarata incostituzionale con la sentenza della
Corte costituzionale 70/2015. 
    Senonche',  il  legislatore  e'  intervenuto  con   decreto-legge
65/2015  (conv.  nella  legge  109/2015)   con   normativa   che   si
autoqualifica  quale  strumento  di  attuazione  di  tale  pronuncia,
affermando  «Ritenuta  la  straordinaria  necessita'  e  urgenza   di
provvedere in materia di rivalutazione automatica delle  pensioni  al
fine di dare attuazione ai principi enunciati  nella  sentenza  della
Corte costituzionale n. 70 del 2015..» 
    Il provvedimento ha modificato l'art. 24,  comma  25,  dichiarato
incostituzionale, e ha aggiunto il comma 25-bis. 
    L'art. 1, primo comma, decreto-legge 65/2015 (conv.  nella  legge
109/2015) ha infatti stabilito quanto segue:  «1.  Al  fine  di  dare
attuazione  ai  principi  enunciati  nella   sentenza   della   Corte
costituzionale  n.  70  del  2015,   nel   rispetto   del   principio
dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi  di  finanza  pubblica,
assicurando  la  tutela  dei  livelli  essenziali  delle  prestazioni
concernenti i diritti civili  e  sociali,  anche  in  funzione  della
salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale, all'art.  24  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214,  sono  apportate  le  seguenti
modificazioni: 
        1) il comma 25 e' sostituito dal seguente: 
          «25.   La   rivalutazione   automatica   dei    trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013,
e' riconosciuta: 
a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici  di
importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS.  Per
le pensioni di importo superiore a tre volte  il  trattamento  minimo
INPS  inferiore  a  tale   limite   incrementato   della   quota   di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
b) nella misura del 40 per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo  INPS  e
pari o inferiori a quattro  volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
c) nella misura del 20 per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS
e pari o inferiori a cinque volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto  trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
d) nella misura del 10 per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo  INPS
e pari o inferiori  a  sei  volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a sei  volte  il  predetto  trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
e)   non   e'   riconosciuta   per   i   trattamenti    pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi». 
        2) dopo il comma 25 sono inseriti i seguenti: 
          25-bis  La   rivalutazione   automatica   dei   trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e  2013
come  determinata  dal  comma  25,  con   riguardo   ai   trattamenti
pensionistici  di  importo  complessivo  superiore  a  tre  volte  il
trattamento minimo INPS e' riconosciuta: 
          a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; 
          b) a decorrere dall'anno  2016  nella  misura  del  50  per
cento». 
    Orbene, secondo le allegazioni  del  ricorrente  (non  contestate
dall'ente convenuto), nel 2011 la sua  pensione  lorda  era  di  euro
1.544,56, superiore al triplo del  trattamento  minimo  pari  a  euro
1.382,91; nel 2012 era di euro  1.547,59,  superiore  al  triplo  del
trattamento minimo pari a euro 1.405,05. 
    In applicazione della norma da ritenersi vigente a seguito  della
dichiarazione di incostituzionalita' egli avrebbe avuto  diritto  per
il 2012 ad una rivalutazione pari al 2,7% per la quota sino al triplo
della pensione, e del 2,43  %  per  la  parte  eccedente  e  sino  al
quintuplo; per il 2013 avrebbe avuto diritto ad una rivalutazione del
3% per la quota fino al triplo del trattamento minimo, e del 2,7% per
la parte eccedente, al quintuplo del trattamento minimo. 
    Cio' che il ricorrente deduce allora e' che in applicazione della
norma di cui al decreto-legge 65/15, egli ha  ottenuto  a  titolo  di
arretrati dovuti per effetto della citata pronuncia n. 70/2015  della
Corte  costituzionale  un   importo   ridotto   per   effetto   della
perequazione  minima  stabilita  dalla  norma  da  ultimo  introdotta
(collocandosi nella fascia  b),  anziche'  l'ammontare  dovutogli  in
applicazione della legge 448/98. 
    Ha proposto pertanto il ricorso al fine di ottenere il  pagamento
della differenza tra quanto effettivamente percepito, a  seguito  del
blocco  della  rivalutazione,  con  quanto  avrebbe   avuto   diritto
applicando la rivalutazione automatica per il periodo dal  2013  sino
al luglio 2015. 
    La disciplina da ultimo introdotta pertanto ha dunque inciso  sul
valore del  trattamento  pensionistico  riconosciuto  al  ricorrente.
Giova peraltro sin da subito aggiungere che per effetto del  disposto
di cui  al  novello  comma  25-bis  tale  incidenza  e'  destinata  a
protrarsi nel tempo (per il triennio 2014 - 2016). 
    Deve ritenersi chiara, perche' espressa,  l'applicabilita'  della
norma  sopravvenuta,  alla   declaratoria   di   incostituzionalita',
all'ammontare delle  pensioni  maturare  al  biennio  2012-2014,  non
potendosi semplicemente, come sembrerebbe  auspicare  il  ricorrente,
ritenere  l'acquisizione   definitiva   al   suo   patrimonio   degli
«arretrati» spettantigli: e' evidente invero che quelli paventati dal
ricorrente sono proprio gli effetti che  la  nuova  disciplina  vuole
produrre  e  produce,  senza  che  se  ne   possa   prospettare   una
interpretazione diversa che sola consentirebbe di' evitare il ricorso
alla pronuncia sulla legittimita' della stessa. 
    Di qui la rilevanza della questione proposta. 
    Non manifesta infondatezza. 
    L'art. 24, comma 25, decreto-legge 201/2011 (conv. Con  modifiche
nella legge  214/2011)  aveva  stabilito,  «in  considerazione  della
contingente situazione finanziaria», che la rivalutazione  automatica
dei  trattamenti  pensionistici,  secondo  il  meccanismo   stabilito
dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998,  n.  448,  fosse
riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti
pensionistici d'importo complessivo fino a tre volte  il  trattamento
minimo INPS, nella misura del 100 per cento. 
    Le pensioni di valore superiore a tre volte il trattamento minimo
INPS non godevano pertanto di alcuna rivalutazione. Il blocco operava
quindi per le pensioni d'importo superiore ad € 1.217,00 netti. 
    Con sentenza n. 70 del 30 aprile 2015 la Corte costituzionale  ha
dichiarato   l'incostituzionalita'   dell'art.    24,    comma    25,
decreto-legge 201/2011, per contrasto con gli articoli 3,  36,  primo
comma, e 38, secondo comma, Cost., nella parte in  cui  ha  previsto,
per le ragioni  anzidette,  che  la  rivalutazione  automatica  fosse
riconosciuta esclusivamente ai  trattamenti  pensionistici  d'importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura
del 100 per cento. 
    La  pronuncia  ha,  o  avrebbe   dovuto   avere,   l'effetto   di
ripristinare  l'integrale  applicazione  del  meccanismo  perequativo
previsto dall'art. 34, primo comma, legge 448/98. 
    L'intervento  di  cui  al   decreto-legge   65/2015   ha   invece
reintrodotto per gli stessi anni,  2012-2013,  un  nuovo  sostanziale
blocco della perequazione automatica, pur operando  delle  modifiche.
Nello   specifico   ha   confermato   l'esenzione   integrale   dalla
disattivazione per le sole pensioni d'importo superiore a  tre  volte
il  minimo;  ha  elevato  la  soglia  dell'esclusione  totale   della
rivalutazione da tre a sei volte il minimo; tra la une e le altre  ha
inserito fasce intermedie, identificate sempre mediante  il  rapporto
di valore tra trattamento complessivo in godimento e pensione minima,
cui applicare la perequazione in misura parziale, con una percentuale
inversamente proporzionale allo scarto tra il valore della pensione e
quello della pensione minima (40%  per  quelli  compresi  tra  tre  e
quattro volte la minima; 20% per quelli compresi tra quattro e cinque
volte; 10% per quelli compresi  tra  cinque  e  sei  volte).  Ha  poi
ulteriormente  limitato  l'operativita'  della  rivalutazione   cosi'
stabilita, nella misura del 20% per il biennio seguente, 2014-2015, e
del 50% per il 2016. 
    Si prospetta in primo luogo la non manifesta  infondatezza  della
questione della legittimita' costituzionale della norma per contrasto
con gli articoli 3, 36, 38 della Costituzione. 
    Le modifiche  apportate  all'art.  24,  comma  25,  decreto-legge
201/2011 dal decreto-legge 65/2011 non risultano tali da sottrarre la
norma  alle  medesime  censure  di  incostituzionalita'  gia'   fatte
presenti e rilevate dalla Corte costituzionale. 
    Si  ripropongono  infatti  i  vizi  gia'  rilevati  dalla   Corte
costituzionale nel testo originario della norma:  manca  il  rispetto
del  vincolo  di  scopo,  tenuto  conto   della   genericita'   delle
giustificazioni poste a base del bilanciamento tra ragioni  di  spesa
pubblica e tutela dei diritti dei pensionati; sono ancora  una  volta
valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalita' nel meccanismo
perequativo; viene confermato il carattere definitivo del  sacrificio
economico, perche' manca una norma che preveda meccanismi di recupero
futuro del valore reale  dei  trattamenti  incisi;  per  le  pensioni
superiori di sei volte  al  trattamento  minimo  viene  riprodotto  e
prolungato nel tempo l'azzeramento totale della perequazione. 
    Conviene  allora  richiamare  le  ragioni  per   cui   la   Corte
costituzionale  ha  dichiarato  l'incostituzionalita'  dell'art.   24
decreto-legge 201/2011 . 
    La Consulta parte da  precisi  presupposti,  sulla  scorta  delle
acquisizioni rilevabili dalle precedenti pronunce in materia:  «8.  -
Dall'analisi dell'evoluzione normativa in subjecta materia, si evince
che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici  e'  uno
strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il  rispetto
del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma,  Cost.
Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio  di
sufficienza della retribuzione di cui all'art.  36  Cost.,  principio
applicato,  per  costante  giurisprudenza   di   questa   Corte,   ai
trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione  differita  (fra
le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del  2013).  Per
le sue caratteristiche di neutralita' e obiettivita'  e  per  la  sua
strumentalita'  rispetto   all'attuazione   dei   suddetti   principi
costituzionali,  la  tecnica  della  perequazione  si  impone,  senza
predefinirne   le   modalita',   sulle   scelte   discrezionali   del
legislatore, cui spetta intervenire per determinare  in  concreto  il
quantum di tutela di volta in volta necessario.  Un  tale  intervento
deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui  agli  articoli  36,
primo comma,  e  38,  secondo  comma,  Cost.,  principi  strettamente
interconnessi, proprio in ragione  delle  finalita'  che  perseguono.
(...) Pertanto, il criterio di ragionevolezza, cosi'  come  delineato
dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti  negli
articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive  la
discrezionalita' del legislatore e vincola le sue scelte all'adozione
di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.» 
    Percio': la perequazione automatica dei trattamenti  di  pensione
e' uno strumento tecnico diretto a garantire nel  tempo  il  rispetto
del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma, Cost.,
connesso al principio  di  sufficienza  della  retribuzione,  di  cui
all'art. 36, primo comma, Cost., dovendosi intendere  il  trattamento
di quiescenza come una retribuzione  differita  (su  cui  gia'  Corte
costituzionale, 208/2014, 116/2013 nonche', con specifico riferimento
alla dinamica retribuzione-pensione, 226/1993); le scelte legislative
devono muoversi  secondo  finalita'  ragionevoli,  nel  rispetto  del
principio della eguaglianza sostanziale (ex art.  3,  secondo  comma,
Cost.), ed evitando che  esse  si  risolvano  in  una  disparita'  di
trattamento per alcune categorie di pensionati. 
    Lo «scostamento» tra dinamica delle retribuzioni e  quella  delle
pensioni deve pertanto mantenersi nel limite del «sopportabile» (cfr.
ancora  Corte  costituzionale,  226/93),  attraverso  il,   costante,
bilanciamento delle esigenze di rispetto  delle  risorse  finanziarie
disponibili con la salvaguardia «irrinunciabile delle esigenze minime
di protezione della persona (Corte Cost., 316/2010),  alla  luce  dei
principio  di  cui  agli  articoli  36   e   38,   II comma,   Cost.:
proporzionalita' e adeguatezza, che devono  sussistere  non  solo  al
momento del collocamento a riposo, ma vanno «costantemente assicurati
anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere  d'acquisto
della moneta». Ne consegue che seppur non e' dovuta  una  coincidenza
automatica ed integrale tra pensione ed  ultima  retribuzione  (Corte
cost., 316/2010), va comunque garantito il costante adeguamento della
prima alla seconda (Corte cost., 501/88). 
    La Corte e'  quindi  giunta  all'enunciazione  del  principio  di
diritto su cui si fonda la pronuncia di illegittimita': 
    «10.-  La  censura  relativa  al  comma  25  dell'art.   24   del
decreto-legge n. 201 del 2011, se  vagliata  sotto  i  profili  della
proporzionalita' e adeguatezza del trattamento pensionistico,  induce
a ritenere che siano stati valicati  i  limiti  di  ragionevolezza  e
proporzionalita',  con  conseguente  pregiudizio  per  il  potere  di
acquisto del trattamento stesso e  con  «irrimediabile  vanificazione
delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
successivo alla cessazione della propria attivita'» (sentenza n.  349
del 1985). 
    Non  e'  stato  dunque  ascoltato  il   monito   indirizzato   al
legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. 
    Si  profila  con  chiarezza,  a   questo   riguardo,   il   nesso
inscindibile che lega il dettato degli articoli 36,  primo  comma,  e
38, secondo comma, Cost. (fra le piu' recenti, sentenza  n.  208  del
2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si
deve   esercitare   il   legislatore   nel   proporre   un   corretto
bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di
spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo  «al  fine  di
evitare  che  esso  possa  pervenire  a  valori  critici,  tali   che
potrebbero rendere inevitabile l'intervento correttivo  della  Corte»
(sentenza n. 226 del 1993). 
    La  disposizione   concernente   l'azzeramento   del   meccanismo
perequativo, contenuta nel comma 24 dell'art. 25 del decreto-legge n.
201 del 2011, come convertito, si limita a  richiamare  genericamente
la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno
complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze  finanziarie  sui
diritti oggetto di bilanciamento, nei  cui  confronti  si  effettuano
interventi cosi' fortemente incisivi. Anche in  sede  di  conversione
(legge 22 dicembre 2011, n. 214),  non  e'  dato  riscontrare  alcuna
documentazione  tecnica  circa  le  attese  maggiori  entrate,   come
previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196,
recante «legge di contabilita' e finanza pubblica»  (sentenza  n.  26
del 2013, che interpreta il citato art.  17  quale  «puntualizzazione
tecnica» dell'art. 81 Cost.). 
    L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari
di trattamenti previdenziali modesti, e' teso alla conservazione  del
potere di acquisto delle somme  percepite,  da  cui  deriva  in  modo
consequenziale il diritto a una prestazione  previdenziale  adeguata.
Tale diritto, costituzionalmente fondato,  risulta  irragionevolmente
sacrificato nel  nome  di  esigenze  finanziarie  non  illustrate  in
dettaglio.  Risultano,  dunque,  intaccati  i  diritti   fondamentali
connessi  al  rapporto  previdenziale,  fondati   su   inequivocabili
parametri costituzionali:  la  proporzionalita'  del  trattamento  di
quiescenza, inteso  quale  retribuzione  differita  (art.  36,  primo
comma, Cost.)  e  l'adeguatezza  (art.  38,  secondo  comma,  Cost.).
Quest'ultimo e' da intendersi quale espressione certa, anche  se  non
esplicita, del principio di solidarieta' di cui all'art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale  di  cui
all'art. 3, secondo comma, Cost.». 
    Una sospensione a tempo indeterminato  della  perequazione  o  la
reiterazione frequente di misure dirette a paralizzarla, esporrebbero
il sistema pensionistico  a  tensioni  evidenti  con  i  principi  di
proporzionalita' ed adeguatezza. 
    Difettano allora anche nella  norma  qui  in  esame  i  necessari
requisiti di «eccezionalita'»  delle  esigenze  (onde  far  fronte  a
specifiche contingenze), tali  non  potendosi  ritenere  gli  effetti
nell'ordinamento di norma  illegittima,  e  di  adeguata  limitazione
degli effetti a quanto indispensabile a far fronte a tali esigenze. 
    Il legislatore del 2011 e' stato censurato  dalla  Corte  perche'
non aveva esercitato il corretto bilanciamento tra ragioni di spesa e
tutela del potere di acquisto del trattamento  pensionistico,  avendo
utilizzato  un  generico  richiamo   alla   «contingente   situazione
finanziaria», senza rispettare il vincolo di  scopo  ineludibile  del
sacrificio economico imposto ai pensionati. 
    Ma allo stesso modo, l'introduzione del nuovo testo dell'art.  24
decreto-legge 201/11, cosi'  come  sostituito  con  il  decreto-legge
65/15,  e'   stato   giustificato   dal   «rispetto   del   principio
dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica»  e
dalla «salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale,  cioe'  da
enunciazioni generiche e relative a finalita' gia' insite di per  se'
(ai sensi, rispettivamente, degli articoli 81 e  38  Cost.)  in  ogni
iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica. 
    Nella relazione illustrativa  al  disegno  di  legge  le  ragioni
vengono espresse ponendo come  unico  riferimento  i  maggiori  oneri
finanziari che lo Stato sopporterebbe in via decrescente tra il  2012
ed il 2016 proprio per effetto  della  riattivazione  del  meccanismo
perequativo dell'art. 69 legge  388/2000  conseguente  alla  sentenza
70/15 della Corte costituzionale, mentre manca qualsiasi accenno alla
ragione per cui si intende comunque riequilibrare  il  disavanzo  con
l'intervento sul sistema  pensionistico  e  sul  perche'  esso  venga
modulato con le specificita' di cui sopra si e' detto. 
    Anche nelle enunciazioni di principio  e'  pertanto  gia'  palese
l'elusione del giudicato costituzionale. 
    Inoltre, il testo dell'art.  24  comma  25  cosi'  sostituito  ha
effetti distribuiti su piu' anni e destinati a diventare  permanenti,
non essendo  previsto  il  recupero  futuro  del  mancato  incremento
rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici. Con
un'unica  disposizione  si  e'  dunque  realizzata   di   fatto   una
reiterazione annuale della paralisi del  meccanismo  perequativo,  in
contrasto col monito piu' volte ripetuto dalla Corte costituzionale. 
    Vale la pena ricordare che la Corte  ha  chiaramente  evidenziato
che «Deve  rammentarsi  che,  per  le  modalita'  con  cui  opera  il
meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del  potere  di
acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, e',  per
sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti,
calcolate non sul valore reale originario, bensi' sull'ultimo importo
nominale, che dal mancato adeguamento e' gia' stato intaccato». 
    Una delle ragioni di censura della norma, che risiede  nel  fatto
che  essa  non  abbia  previsto  alcun   «recupero»   dell'incremento
perequativo a partire degli anni successivi, incremento  che  avrebbe
potuto avvenire se al  termine  del  blocco  la  rivalutazione  fosse
applicata partendo  da  una  base  di  pensione  gia'  «virtualmente»
aumentata dell'importo di perequazione non corrisposto, non  solo  e'
stata mantenuta, ma si e' aggrevata. 
    Vengono  inoltre  incise  pensioni  anche  di  valore   economico
modesto, comunque non rilevante, con applicazione del  meccanismo  di
rivalutazione in percentuali tali da svuotarne il valore. 
    Conviene sul punto osservare, con la difesa, come la stessa Corte
abbia anche con riferimento alle soglie di ragionevolezza dei  metodi
applicati,  sviluppato  delle  differenziazioni  che  consentono   di
effettuare delle valutazioni. 
    La Corte ha infatti valutato le  diverse  scelte  effettuate  dal
legislatore,  avallando,  con  dei  limiti,  la  scelta  del  passato
legislatore di diversificare la  dinamica  perequativa  per  aree  di
riferimento. 
    Sono state individuate  le  due  diverse  tecniche  adottate  del
legislatore per diversificare le percentuali di incremento: la prima,
per fasce di importo pensionistico, presuppone  l'attribuzione  della
perequazione  a  tutta  la  platea  dei  pensionati,  sia  pure   con
percentuali di incremento decrescenti per ciascuna fascia di  importo
pensionistico percepito con il crescere del trattamento  complessivo.
Ne costituiscono esempi (citati in  sentenza)  l'art.  24,  comma  4,
legge n. 41/1986; l'art. 11, decreto legislativo  n.  503/92;  l'art.
69, legge n. 388/2000. 
    Tale sistema viene esplicitamente validato dalla Corte in  quanto
«non  discriminava  tra  trattamenti  pensionistici  complessivamente
intesi, bensi' tra fasce di importo». 
    La seconda, per trattamenti complessivi percepiti  e  dunque  per
scaglioni di soggetti destinatari in base ai  trattamenti  percepiti,
e' solo citata (vedi art. 1, comma  483,  legge  n.  147/2013),  tale
norma reca uno  scarto  progressivo  moderato  delle  percentuali  di
perequazione (95% per i trattamenti superiori al  triplo  del  minimo
INPS; 75% per quelli  superiori  a  quattro  volte;  50%  per  quelli
superiori al quintuplo; 40- 45% per quelli superiori al sestuplo). 
    Come osservato dalla difesa del  ricorrente  l'adozione  di  tale
tecnica e' profondamente diversa dalla prima poiche'  attribuisce  ai
pensionati  con  trattamenti  maggiori  una  percentuale  minore   di
perequazione su  tutto  il  trattamento  percepito,  laddove  con  il
precedente sistema gli  stessi  pensionati  avrebbero  percepito  una
percentuale di incremento piu' favorevole per le quote piu' basse del
loro trattamento. 
    E'  solo  la  modestia  e  con  cio',  la  ragionevolezza,  della
decrescita della percentuale ad escludere radicali differenze  -  tra
le diverse platee di percettori, e con cio' discriminazioni  tra  gli
stessi. 
    La riduzione delle percentuali (40% invece del  95%;  20%  invece
del 75%; 10 % invece del 50%; zero invece del 40-50%) rende la  norma
estremamente differente e finisce per offrire aumenti poco  piu'  che
simbolici, a fronte di una  diversificazione  operata  non  piu'  per
fasce di importo ma per soggetti percettori. 
    Si prospetta in secondo luogo come non  manifestamente  infondata
la questione di legittimita' della norma alla stregua  dell'art.  136
Cost., anche in conseguenza di quanto sopra osservato. 
    La norma in esame invero, presentandosi come volta ad  affrontare
le conseguenza della pronuncia di illegittimita', senza peraltro  che
si fosse creato  un  vero  e  proprio  vuoto  normativo,  per  essere
automatica l'applicabilita' della norma vigente sino al decreto-legge
del 2011, ha negli effetti vanificato la  portata  retroattiva  della
pronuncia  di   incostituzionalita',   eludendone   il   significato,
riproducendo la stessa tecnica di  applicazione  della  perequazione,
solo lievemente  edulcorata,  ma  non  maniera  tale  da  riuscire  a
correggerne la gia' ritenuta irragionevolezza. 
    Violando co cio' il c.d. «giudicato costituzionale». 
    Deve ricordarsi al riguardo che secondo le recenti pronunce della
stessa Corte, deve essere adottato,  nel  valutare  l'estensione  del
giudicato costituzionale, un approccio sostanziale. 
    La Corte ha infatti affermato che  l'illegittimita'  della  norma
che, «evidentemente priva  di  autonomia,  si  prefigge  soltanto  di
ricostituire una base normativa per «effetti» e «rapporti» relativi a
contratti che,  in  conseguenza  della  pronuncia  di  illegittimita'
costituzionale,  ne  sarebbero  rimasti  privi:  ne'   il   carattere
temporaneo della disposizione sembra risolvere il problema e  nemmeno
attenuarne la portata. 
    Al riguardo, va rammentato come, sin da epoca ormai risalente, la
giurisprudenza costituzionale non abbia mancato  di  sottolineare  il
rigoroso significato della norma contenuta nell'art. 136 Cost.: su di
essa - si e' detto - «poggia il contenuto pratico di tutto il sistema
delle garanzie costituzionali, in quanto essa  toglie  immediatamente
ogni  efficacia  alla  norma  illegittima»,  senza  possibilita'   di
«compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione» (sentenza
n. 73 del  1963,  che  dichiaro'  la  illegittimita'  di  una  legge,
successiva alla pronuncia di illegittimita'  costituzionale,  con  la
quale il legislatore aveva dimostrato «alla evidenza» la volonta'  di
«non accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della
norma illegittima, ma di prolungarne  la  vita  sino  all'entrata  in
vigore della nuova  legge»;  tra  le  altre  pronunce  risalenti,  la
sentenza n. 88  del  1966,  ove  si  e'  precisato  che  il  precetto
costituzionale, di cui si e' detto, sarebbe  violato  «non  solo  ove
espressamente si disponesse  che  una  norma  dichiarata  illegittima
conservi la sua efficacia», ma anche ove una legge, per il  modo  con
cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima  della  sua
entrata  in   vigore,   perseguisse   e   raggiungesse,   «anche   se
indirettamente, lo stesso risultato»). Principi,  questi,  ripresi  e
ribaditi in numerose altre successive decisioni  (fra  le  altre,  le
sentenze n. 73 del 2013; n. 245 del 2012; n. 354 del 2010; n. 922 del
1988; n.  223  del  1983).  Se  appare,  infatti,  evidente  che  una
pronuncia di illegittimita' costituzionale non  possa,  in  linea  di
principio,  determinare,  a  svantaggio  del   legislatore,   effetti
corrispondenti a quelli di un «esproprio» della potesta'  legislativa
sul punto - tenuto anche conto che una declaratoria di illegittimita'
ha contenuto, oggetto e occasione circoscritti dal  «tema»  normativo
devoluto e dal «contesto» in cui la pronuncia demolitoria e' chiamata
ad iscriversi -, e' del pari evidente, tuttavia, che questa non possa
risultare  pronunciata  «inutilmente»,  come  accadrebbe  quando  una
accertata violazione della Costituzione  potesse,  in  una  qualsiasi
forma,  inopinatamente  riproporsi.  E  se,  percio',  certamente  il
legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con  un  nuovo
atto, la  stessa  materia,  e'  senz'altro  da  escludere  che  possa
legittimamente farlo - come avvenuto nella  specie  -  limitandosi  a
«salvare», e cioe' a  «mantenere  in  vita»,  o  a  ripristinare  gli
effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della  dichiarazione
di illegittimita' costituzionale, non sono piu' in grado di produrne.
Il contrasto con l'art. 136 Cost. ha, in un simile frangente, portata
addirittura letterale. 
    In altri termini: nel mutato contesto di  esperienza  determinato
da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto
discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volonta'
normativa censurata dalla Corte; un altro conto e' emanare  un  nuovo
atto diretto esclusivamente a prolungare  nel  tempo,  anche  in  via
indiretta, l'efficacia di norme che «non possono  avere  applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»  (art.  30,
terzo comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  -  Norme  sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)»  (Corte
cost., 16 luglio 2015, n. 169). 
    L'indirizzo espresso da questa  decisione  trova  conferma  nella
gia' citata  sentenza  173/2016:  pur  escludendo  nella  fattispecie
l'elusione del giudicato costituzionale (rappresentato dalla sentenza
116/2013), infatti, ne ha vagliato il rispetto anche con  riferimento
non solo al tenore testuale della norma successiva, ma anche ai  suoi
«effetti» e finanche alle «finalita'». 
    La  emanazione  della  norma   ha   chiaramente   impedito   alla
declaratoria d'illegittimita' costituzionale dell'art. 24, comma  25,
decreto-legge 201/211 di produrre le conseguenze  previste  dall'art.
136 Cost., cioe' la cessazione ex tunc degli effetti della norma  dal
giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia. 
    Non manifestamente infondata e'  allora  anche  la  questione  di
costituzionalita' alla stregua dell'art. 136 Cost. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli articoli 134 Cost. e 23 legge 87/53, 
        a) dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale delle norme di cui  all'art.
24, comma 25 e 25-bis, decreto-legge n.  201/2011,  convertito  nella
legge 214/2011, nel testo sostituito  dall'art.  1  decreto-legge  n.
65/2015 (convertito in legge 109/2015) per violazione degli  articoli
3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione; 
        b) dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale delle norme di cui  all'art.
24, comma 25 e 25-bis, decreto-legge n.  201/2011,  convertito  nella
legge 214/2011, nel testo sostituito  dall'art.  1  decreto-legge  n.
65/2015 (convertito in legge 109/2015), nella parte indicate al  capo
a), per violazione dell'art. 136 della Costituzione; 
    Visti gli articoli 295 codice di procedura civile e 23  legge  n.
87/53, 
        c) sospende il presente procedimento 
        d) ordina trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale; 
        e) dispone che la presente ordinanza, letta in  udienza,  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e  comunicata  ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; 
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui sopra. 
        Cuneo, 9 febbraio 2017 
 
                         Il Giudice: Rispoli