N. 159 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 luglio 2017

Ordinanza  del  12  luglio  2017  del   Consiglio   superiore   della
magistratura - Sezione disciplinare nel procedimento disciplinare nei
confronti di L. F.. 
 
Ordinamento giudiziario - Disciplina degli illeciti disciplinari  dei
  magistrati - Previsione  della  sanzione  della  rimozione  per  il
  magistrato, condannato in sede disciplinare, per i  fatti  previsti
  dall'art. 3, comma 1, lett. e), del decreto legislativo 23 febbraio
  2006, n. 109. 
- Decreto legislativo 23 febbraio  2006,  n.  109  (Disciplina  degli
  illeciti disciplinari dei magistrati,  delle  relative  sanzioni  e
  della procedura per la loro applicabilita', nonche' modifica  della
  disciplina in tema di incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
  trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma  dell'articolo  1,
  comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005,  n.  150),  art.  12,
  comma 5. 
(GU n.46 del 15-11-2017 )
 
                       LA SEZIONE DISCIPLINARE 
             DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA 
 
    composta dai signori: 
        avv. Antonio Leone,  componente  eletto  dal  Parlamento  che
presiede in sostituzione del Vice Presidente del Consiglio  superiore
della magistratura - Presidente; 
        avv. Paola  Balducci,  componente  eletto  dal  Parlamento  -
relatore; 
        dott.ssa  Maria  Rosaria  San   Giorgio   -   magistrato   di
legittimita' - relatore; 
        dott. Lorenzo Pontecorvo - magistrato di merito - componente; 
        dott. Nicola Clivio - magistrato di merito - componente; 
        dott. Luca Palamara - magistrato di merito - componente. 
    Ha pronunciato in Camera di consiglio la seguente  ordinanza  nel
procedimento  disciplinare  n.  40/2010  R.G.  nei  confronti   della
dott.ssa L. F. (nata a Roma il 4 gennaio 1954) sostituto  procuratore
della  Repubblica  presso   il   Tribunale   di   Napoli,   incolpata
dell'illecito disciplinare di cui all' art. 3, comma  1,  lettera  e)
del decreto legislativo  23  febbraio  2006,  n.  109,  perche',  pur
essendo  venuta  a  conoscenza  che  presso  il  proprio  ufficio  di
appartenenza risultava essere  indagato,  in  ordine  al  delitto  di
bancarotta fraudolenta (e, per questo, destinatario di  perquisizione
locale effettuata il 29 marzo 2007),  l'imprenditore  V.  C.  G.,  ne
otteneva i seguenti vantaggi: 
        indiretti, conseguenti all'incarico di consulenza che  almeno
dal 25 marzo 2007 (allorche' venne festeggiato  in  un'apposita  cena
offerta presso la propria abitazione dall'imprenditore) sapeva essere
stato conferito da V. C. G. al proprio coniuge, L.  B.,  con  stipula
del relativo contratto in data 23 marzo  2007  per  un  corrispettivo
mensile di euro 100.000,00 e, comunque, remunerato con la dazione  di
un importo non inferiore a euro 180.000,00; 
        diretti, costituiti da  soggiorni  nell'appartamento  a L.  e
nella Villa a S. di V. C. G., viaggio in  aereo  privato,  borsa  del
valore di euro  700,00,  festa  di  compleanno  del  valore  di  euro
2.056,00. 
    Notizia dei fatti acquisita il 26 giugno  2008  (sospensione  dei
termini dell'azione disciplinare con  provvedimento  del  25  gennaio
2010, revoca del provvedimento di sospensione in  data  20  settembre
2016. 
    1. - La dottoressa L. F., attualmente sostituto procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e'  chiamata  a  rispondere
dell'illecito disciplinare di cui all'art. 3, lettera e), del decreto
legislativo 23 febbraio  2006,  n.  109,  recante  «Disciplina  degli
illeciti disciplinari dei  magistrati,  delle  relative,  sanzioni  e
della procedura per la loro applicabilita',  nonche'  modifica  della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di uffico dei magistrati a norma dell'art. 1, comma  1,
lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», perche', pur essendo
venuta a conoscenza che presso il proprio ufficio di  appartenenza  -
all'epoca, il Tribunale di  Roma  -  risultava  essere  indagato,  in
ordine al delitto di bancarotta fraudolenta, l'imprenditore V. C. G.,
ne otteneva i seguenti vantaggi: indiretti, conseguenti  all'incarico
di  consulenza  che  almeno  dal  25  marzo  2007  (allorche'   venne
festeggiato in un'apposita cena offerta presso la propria  abitazione
dall'imprenditore) sapeva essere stato  conferito  da  V.  C.  G.  al
proprio coniuge, L. B., con stipula del relativo contratto·in data 23
marzo 2007  per  un  corrispettivo  mensile  di  euro  100000,00,  e,
comunque, remunerato con la dazione di un importo  non  inferiore  ad
euro 180000,00; e diretti, costituiti da soggiorni  nell'appartamento
a L. e nella villa a S. di V. C. G. , viaggi in aereo privato,  borsa
del valore di euro 700,00, festa di compleanno  del  valore  di  euro
2056,00. 
    L'azione disciplinare, promossa dal  Procuratore  Generale  della
Corte di cassazione in data 1°  luglio  2008  e  dal  Ministro  della
giustizia in data 5  luglio  2008,  aveva  avuto  originariamente  ad
oggetto una serie di incolpazioni, sempre attinenti ai  rapporti  del
magistrato con l'imprenditore, configuranti gli illeciti disciplinari
di cui all'art. 3, comma 1, lettere a)  ed  e),  del  citato  decreto
legislativo n. 109 del 2006, fatti in relazione ai quali  la  Procura
della  Repubblica  di  Perugia  aveva  promosso  azione  penale   nei
confronti della dottoressa F. in ordine al delitto  di  cui  all'art.
317 codice penale. 
    La sentenza  del  Tribunale  di  Perugia  del  7  novembre  2015,
divenuta irrevocabile in data 1° aprile 2016, aveva  poi  assolto  la
dottoressa F. per insussistenza del fatto. 
    Il Procuratore Generale  della  Corte  di  cassazione  ha  quindi
riformulato  la  incolpazione  nei  termini  dianzi   precisati   con
riferimento alle  condotte  residuate,  nei  confronti  del  predetto
magistrato, che nelle more aveva subito  condanna  disciplinare  alla
perdita di anzianita' per mesi due ed alla  sanzione  accessoria  del
trasferimento di ufficio,  con  riferimento  ad  altri  comportamenti
sempre riconducibili ai suoi rapporti con l'imprenditore. 
    2. - A norma del richiamato art. 3,  comma  1,  lettera  e),  del
decreto legislativo n. 109 del 2006, la cui violazione  viene  ancora
oggi  posta  a  carico  della  dottoressa  F.  costituisce   illecito
disciplinare al di fuori dell'esercizio delle  funzioni:  l'ottenere,
direttamente o indirettamente, prestiti o  agevolazioni  da  soggetti
che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o
civili pendenti presso l'ufficio giudiziario di appartenenza o presso
altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d'appello nel quale
esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai  difensori  di  costoro,
nonche'  ottenere,  direttamente   o   indirettamente,   prestiti   o
agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti  offese  o
testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti. 
    La sanzione applicabile per l'illecito di cui all'art. 3, lettera
e), del decreto legislativo n. 109 del 2006 e'  in  via  obbligatoria
quella della rimozione, ai sensi dell'art. 12, comma 5, dello  stesso
decreto legislativo. 
    2.1. - Tuttavia, l'applicazione automatica di tale sanzione  pone
dubbi di contrasto con l'art. 3 della Costituzione per violazione del
principio di ragionevolezza. La necessaria adozione  di  tale  misura
punitiva appare, infatti, basata su di una presunzione assoluta,  del
tutto svincolata, oltre che  dal  controllo  di  proporzionalita'  da
parte del  giudice  disciplinare,  anche  dalla  verifica  della  sua
concreta congruita'. Appare in particolare vulnerato il principio  di
«proporzione», fondamento della razionalita' che domina il  principio
di uguaglianza - inteso come regola  di  «indispensabile  gradualita'
sanzionatoria» -, principio enunciato dalla Corte costituzionale, che
ha chiarito come esso postuli l'adeguatezza della  sanzione  al  caso
specifico, la quale puo' essere raggiunta solo attraverso la concreta
valutazione  degli  specifici  comportamenti  messi  in  atto   nella
commissione dell'illecito (v. Corte costituzionale, sentt. n. 447 del
1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 40 del 1990 e  n.  971  del
1988). 
    2.1.1. - Questa sezione disciplinare e' consapevole del  costante
orientamento  della  giurisprudenza  costituzionale  nel  senso   del
riconoscimento al legislatore ordinario di un'ampia  discrezionalita'
nella  identificazione  delle  condotte  punibili  e  delle  sanzioni
applicabili alle stesse: discrezionalita'  che,  tuttavia,  incontra,
come   dianzi   sottolineato,   il   limite   della   non   manifesta
irragionevolezza, sub specie della giusta proporzione tra sanzione  e
fatto sanzionato. 
    Alla,  stregua  di  tale  orientamento,  di  recente   la   Corte
costituzionale, con la  sentenza  n.  236  del  2016,  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 567, secondo comma,  codice
penale (alterazione di stato civile nella formazione di  un  atto  di
nascita mediante false certificazioni,  false  attestazioni  o  altre
falsita')  nella  parte  in  cui  prevede  la  pena  edittale   della
reclusione da un minimo di cinque  a  un  massimo  di  quindici  anni
anziche' da un minimo di tre  ad  un  massimo  di  dieci  anni,  pena
prevista per il piu' grave  reato  di  alterazione  di  stato  civile
mediante sostituzione di neonato. 
    Nella citata pronuncia il giudice delle leggi,  nel  ribadire  la
esclusione della spettanza in capo a se' di valutazioni discrezionali
di dosimetria sanzionatoria  penale,  risultando  queste  tipicamente
demandate  alla  rappresentanza  politica,  chiamata  attraverso   la
riserva di legge sancita nell'art. 25 Cost. a stabilire il  grado  di
reazione  dell'ordinamento  al  cospetto  di  una   lesione   ad   un
determinato bene giuridico, ha chiarito definitivamente  che  laddove
emergano sintomi di manifesta irragionevolezza, per sproporzione,  di
un trattamento sanzionatorio, e' possibile l'intervento  del  giudice
delle leggi attraverso una valutazione da condurre  alla  stregua  di
precisi  punti  di   riferimento   gia'   rinvenibili   nel   sistema
legislativo, idonei a ricondurre a coerenza le scelte gia'  delineate
a  tutela  di   un   determinato   bene   giuridico,   senza   alcuna
sovrapposizione alla discrezionalita' del legislatore. 
    2.1.2. - L'orientamento dell'ordinamento verso la  esclusione  di
sanzioni rigide, avulse da un confacente rapporto di adeguatezza  con
il caso concreto e di coerenza generale, trova applicazione anche  al
procedimento  disciplinare  in  considerazione  delle  ragioni  della
configurazione  dello   stesso   secondo   paradigmi   di   carattere
giurisdizionale, identificabili nella esigenza di tutelare  in  forme
piu' adeguate specifici interessi e situazioni connessi alto  statuto
di  indipendenza  della  magistratura.  Del  resto,  e' proprio   con
riferimento alla compatibilita' tra  infrazione  e  prosecuzione  del
rapporto di impiego che  la  giurisprudenza  costituzionale  ha  gia'
affermato, come sopra ricordato, che l'infrazione va valutata,  senza
automatismo  alcuno,  graduando  e  adeguando  la  sanzione  al  caso
concreto (cfr., ex plurimis, Corte costituzionale, sentt. n. 197  del
1993, n. 16 del 1991, n. 158 e n. 40  del  1990,  n.  971  del  1988,
cit.). 
    Ne' assume alcun rilievo in contrario la  considerazione  che  lo
stesso principio sia stato espresso con  particolare  riferimento  ad
ipotesi di sanzione espulsiva applicata  de  iure  quale  conseguenza
automatica, prevista direttamente dalla legge, della condanna in sede
penale  per   determinati   reati,   in   assenza   di   procedimento
disciplinare. Ed infatti, l'impedimento a calibrare  con  gradualita'
ai diversi illeciti la  sanzione  piu'  adeguata  rimane  illegittimo
anche se rilevato nell'ambito di un procedimento disciplinare  e  non
al di fuori di esso. 
    Nemmeno puo' valere a ridimensionare la portata  applicativa  del
principio illustrato la circostanza che la lesione del  principio  di
uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. attraverso il vulnus a quello  di
graduazione e  proporzione  della  sanzione  disciplinare  sia  stato
ravvisato, con la sentenza della  Corte  costituzionale  n.  170  del
2015, nell'automatismo - imposto, con riferimento alle violazioni  di
cui all'art. 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo  n.  109
del 2006, dall'art.  13,  comma  1,  secondo  periodo,  dello  stesso
decreto legislativo,  norma  pertanto  dichiarata  costituzionalmente
illegittima in parte qua, con la predetta  sentenza  -  della  (sola)
sanzione accessoria del trasferimento di ufficio 
    Ed  infatti,  se  tale  disposizione  e'  stata   espunta   dall'
ordinamento  in   quanto   privava   irragionevolmente   il   giudice
disciplinare  di  ogni  apprezzamento  discrezionale   in   relazione
all'adeguatezza  della  sanzione  accessoria  del  trasferimento   di
ufficio  alla  consistenza  e  gravita'   delle   svariate   condotte
riconducibili alla previsione di cui  all'art.  2,  lettera  a),  del
decreto legislativo n.  109  del  2006,  deve  riconoscersi  che  una
siffatta conclusione costituisce espressione di un principio generale
di necessaria proporzionalita' della sanzione. Il  relativo  giudizio
va rimesso alla  valutazione  del  giudice  al  fine  del  necessario
adattamento della sanzione  stessa  alla  fattispecie  concreta,  per
evitare che comportamenti di diversa offensivita' deontologica  siano
puniti allo stesso modo, con vulnus di quella razionalita' che,  come
chiarito, permea di se' il principio di uguaglianza. 
    Peraltro, secondo l'insegnamento delle Sezioni unite della  Corte
di cassazione (v. sentt. n. 23778 del 2013, n. 15399 del  2003),  ove
sia riconosciuta la responsabilita' dell'incolpato, la  scelta  della
sanzione  da  applicare  va  effettuata,  da  parte   della   Sezione
disciplinare del C.S.M., non  gia'  in  astratto,  ma  con  specifico
riferimento a tutte le circostanze del  caso  concreto;  a  tal  fine
devono formare oggetto  di  valutazione  la  gravita'  dei  fatti  in
rapporto alla  loro  portata  oggettiva,  la  natura  e  l'intensita'
dell'elemento psicologico nel comportamento contestato unitamente  ai
motivi   che   l'hanno   ispirato   e,   infine,   la    personalita'
dell'incolpato,  in  relazione,  soprattutto,  alla   sua   pregressa
attivita' professionale e agli eventuali precedenti disciplinari. 
    Tale valutazione deve essere particolarmente approfondita qualora
la scelta si rivolga·alla piu'  grave  delle  sanzioni  disciplinari,
quella  espulsiva,  sul  presupposto  che  l'illecito  contestato  al
magistrato sia di  tale  entita'  che  ogni  altra  sanzione  risulti
insufficiente alla  tutela  di  quei  valori  che  la  legge  intende
perseguire. 
    2.2. - In applicazione di tali principi al caso in esame, non  e'
manifestamente infondato il sospetto di contrasto con l'art. 3  della
Costituzione,  per  violazione  del  principio   di   ragionevolezza,
dell'art. 12, comma 5, del decreto legislativo n. 109 del 2006  nella
parte in cui  impone  l'applicazione  della  sanzione  massima  della
rimozione in relazione indiscriminatamente  a  tutte  le  ipotesi  di
agevolazione previste dall'art. 3, lettera e), dello stesso  decreto,
senza consentire  al  giudice  disciplinare  alcuna  possibilita'  di
graduazione della sanzione in ragione della  diversa  intensita'  del
disvalore della condotta di volta in  volta  tenuta  dal  magistrato.
Tanto piu' che il concetto di agevolazione  appare  connotato  da  un
notevole grado di genericita' ed elasticita'. 
    Questa Sezione disciplinare  non  ignora  lo  spazio  che,  nella
giurisprudenza costituzionale, trova il principio  alla  stregua  del
quale la peculiarita' e  delicatezza  dei  compiti  affidati  ad  una
particolare categoria di  soggetti,  connessi  alla  salvaguardia  di
diritti   fondamentali   delle   persone   ed   alla   difesa   della
collettivita',  giustifica  una  disciplina   che   ne   valuti   con
particolare rigore la condotta. In  ossequio  a  tale  principio,  la
sentenza n. 112 del 2014 ha dichiarato non fondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, lettera c), del
decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737,  che
prevede  la  destituzione  di  diritto  dell'appartenente  ai   ruoli
dell'amministrazione della pubblica sicurezza in caso di applicazione
nei suoi confronti di  una  misura  di  sicurezza  personale  di  cui
all'art. 215 codice penale. 
    E,  tuttavia,  tale  decisione  non  costituisce  un   precedente
utilmente invocabile nel caso di specie, siccome  fondato  su  di  un
giudizio  di  pericolosita'  sociale,  presupposto  dell'applicazione
della misura di cui si tratta,  ostativo  alla  permanenza  di  detto
rapporto di impiego. 
    2.3.  -  Altro  profilo  di   irragionevolezza   del   denunciato
automatismo della sanzione di cui all'art. 12, comma 5,  del  decreto
legislativo n. 109 del 2006 in relazione alla fattispecie di illecito
disciplinare di cui all'art. 3, lettera e), dello stesso  decreto  e'
ravvisabile nella comparazione  di  tale  fattispecie  con  le  altre
ipotesi per le quali il citato comma 5 dispone la medesima  sanzione.
Si tratta della interdizione, perpetua  o  temporanea,  dai  pubblici
uffici, in seguito a condanna penale, della condanna a pena detentiva
per delitto non colposo non inferiore ad un anno  la  cui  esecuzione
non sia stata sospesa ai sensi degli articoli 163 e 164 codice penale
o  per·la  quale  sia  intervenuto  provvedimento  di  revoca   della
sospensione ai sensi dell'art. 168 codice penale 
    Come e' evidente, le ulteriori ipotesi  in  cui  e'  prevista  la
sanzione espulsiva sono collegate alla commissione di  reati,  mentre
le  condotte  riconducibili  alla  nozione  di  agevolazione  di  cui
all'art.  3,  lettera  e),  non  presentano  necessariamente  rilievo
penale. 
    2.4. - La previsione in esame appare, infine, irragionevole sotto
un ulteriore profilo, quello del deteriore trattamento, quoad poenam,
della fattispecie di illecito disciplinare di cui si tratta  rispetto
ad altre fattispecie di maggior disvalore deontologico.  Si  pensi  a
quella di cui all'art. 3,  lettera a), del decreto legislativo n. 109
del 2006, concernente l'uso della qualita' di magistrato per ottenere
vantaggi ingiusti per se' o per altri, punita  con  la  sanzione  non
inferiore alla censura, o alla perdita di anzianita'  se  abituale  e
grave,   nonostante   il   consapevole   sviamento   della   funzione
magistratuale insita in tale condotta, che non e',  invece,  elemento
costitutivo della fattispecie in  esame;  o  a  quella  di  cui  alla
lettera b) dello stesso art. 3, consistente nel  frequentare  persona
sottoposta a  procedimento  penale  trattato  dal  magistrato  ovvero
nell'intrattenere rapporti consapevoli di affari con tale  persona  o
con persona dichiarata  delinquente  abituale,  professionale  o  per
tendenza, punita con la sanzione minima della perdita di  anzianita'.
Dette soluzioni costituiscono tertia comparationis cui e' ragionevole
uniformare quella all'odierno esame, e fornisce il dato,  rinvenibile
nel sistema legislativo, al quale fare riferimento, come chiarito sub
2.1.1., per eliminare la manifesta irragionevolezza denunciata  senza
che il giudice delle leggi sovrapponga la propria discrezionalita'  a
quella del legislatore. 
    3. - La questione sollevata non puo', ad avviso di questa Sezione
Disciplinare,  essere  risolta  nel  senso  auspicato  attraverso  il
ricorso ad una  interpretazione  costituzionalmente  orientata  della
norma denunciata, sul modello del dictum della sentenza  disciplinare
n. 4 del 2010. In quella sentenza, con riferimento ad una fattispecie
cui era applicabile la previgente normativa' di  cui  al  r.dlgs.  31
maggio 1946, n. 511, caratterizzata dalla atipicita'  degli  illeciti
disciplinari, e che concerneva la  condanna  in  sede  penale  di  un
magistrato alla pena di anni uno  e  mesi  due  di  reclusione  (pena
sospesa e non menzione) per il  reato  di  cui  all'art.  479  codice
penale, il giudice disciplinare ritenne di non applicare la  sanzione
espulsiva prevista in tali ipotesi dall'art. 29 (effetti disciplinari
dei giudicati penali) del citato r.d.lgs. n.  511,  opinando  che  il
rigore  di  tale  disposizione  secondo  cui  «Il  magistrato   (...)
condannato alla reclusione per delitto non colposo, diversa da quelli
previsti dagli articoli 581, 582 capv., 594 e  612  prima  parte  del
codice penale, e' destituito di diritto» - deve intendersi fortemente
ridotto con l'entrata in vigore della legge 7  febbraio  1990  n.  19
(«modifiche in tema di circostanze,  sospensione  condizionale  della
pena e destituzione dei pubblici dipendenti») che,  con  disposizione
generale (art. 9) da  ritenersi  applicabile  anche  al  procedimento
disciplinare dei magistrati ordinari, ha stabilito  che  la  sanzione
espulsiva puo' (e non  deve)  essere  applicata  solo  a  seguito  di
procedimento disciplinare, allineando cosi' la normativa disciplinare
del pubblico impiego  alle  indicazioni  della  Corte  costituzionale
circa il  divieto  di  automatismi  nella  applicazione  di  sanzioni
disciplinari. In detta occasione, sulla base di  tale  principio,  il
giudice disciplinare, con decisione confermata  dalle  Sezioni  Unite
della Corte di cassazione (sent. n. 23778 del 2010, cit.) -  inflisse
all'incolpato la sanzione di sciplinare della perdita  di  anzianita'
per  due   anni,   anziche'   quella,   all'epoca   prevista,   della
destituzione. 
    La medesima  soluzione  non  puo'  adottarsi  con  riguardo  alla
fattispecie in esame.  Invero,  in  un  sistema,  quale  quello  oggi
vigente, caratterizzato, a differenza  di  quello  previgente,  dalla
tipicita' degli illeciti, e delle relative sanzioni, con indicazione,
relativamente ad  alcune  fattispecie,  di  una  particolare  cornice
edittale, la previsione  testuale,  operata  dal  legislatore,  della
rimozione quale conseguenza della affermazione della  responsabilita'
disciplinare per l'illecito di cui  all'  art.  3,  lettera  e),  del
decreto legislativo n. 109 del 2006  non  puo'  trovare  rimedio,  ad
avviso di questa Sezione Disciplinare, se non attraverso  l'incidente
di  costituzionalita',  operandosi,  in  caso  contrario,   una   non
consentita disapplicazione di una norma dal tenore testuale univoco. 
    4. - In punto di rilevanza della questione,  si  osserva  che  il
presente giudizio non puo' essere  definito  indipendentemente  dalla
soluzione della prospettata questione di legittimita' costituzionale. 
    La   delibazione   sulla   sussistenza   della    responsabilita'
dell'incolpata in relazione  alla  piattaforma  probatoria  acquisita
dovrebbe, infatti, comportare  necessariamente  l'applicazione  della
norma sospettata  di  contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,
apparendo l'unica alternativa ipotizzabile - quella dell'applicazione
dell'art.  3-bis  del  decreto  legislativo  n.  109  del  2006,  con
conseguente  assoluzione  per  scarsa  rilevanza  del  fatto  -   non
percorribile   nella   specie,   vuoi   per   il   valore   economico
dell'agevolazione ottenuta, vuoi per la risonanza della vicenda. 
    E  tuttavia  l'automatismo  della  sanzione   non   consente   di
apprezzare se la condotta della stessa  incolpata  abbia  attinto  la
soglia della massima offensivita', avuto riguardo al diverso  livello
di disvalore  ipotizzabile  in  ragione  del  differente  atteggiarsi
dell'elemento soggettivo, tenuto anche conto del rapporto di amicizia
tra i soggetti coinvolti, che, piu'  che  lo  status  di  magistrato,
potrebbe·essere stato all'origine della vicenda, nonche'  dell'essere
rivolta l'agevolazione definita indiretta nel  capo  di  incolpazione
(peraltro  potenzialmente   intesa   a   compensare   una   attivita'
professionale di  valore  non  definito)  non  gia'  alla  magistrata
incolpata, ma al coniuge della stessa (tra l'altro poi separatosi  da
lei). 
 
                               P.Q.M. 
 
    La   Sezione   disciplinare   del   Consiglio   Superiore   della
Magistratura, letti gli articoli 1, legge n. 1 del 1948  e  23  legge
n. 87 del 1953. 
    Dichiara rilevante nel presente  giudizio  e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' Costituzionale dell'art. 12 n.
5 del decreto legislativo 23 febbraio 2006,  n.  109  in  riferimento
all'art. 3 Cost. nella parte in cui prevede in  via  obbligatoria  la
sanzione della rimozione per il magistrato che sia  stato  condannato
in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art.  3,  lettera  e),
del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109. 
    Dispone la sospensione del presente giudizio. 
    Ordina la notifica del presente provvedimento anche  nella  parte
motiva alle parti nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Dispone altresi, che il presente provvedimento sia comunicato,  a
cura della cancelleria della Sezione, al Presidente del Senato  della
Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati. 
    Roma, 13 marzo 2017 
 
                        Il Presidente: Leone 
 
 
                                             Il relatore: San Giorgio 
 
                                   Il magistrato segretario: Adilardi