N. 101 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 marzo 2018

Ordinanza  del  22  marzo  2018  della  Corte   di   cassazione   nel
procedimento penale a carico di M. N.. 
 
Ordinamento penitenziario -  Detenzione  domiciliare  -  Applicazione
  anche nelle  ipotesi  di  grave  infermita'  psichica  sopravvenuta
  durante l'esecuzione della pena - Mancata previsione. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento  penitenziario
  e sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della
  liberta'), art. 47-ter, comma 1-ter. 
(GU n.28 del 11-7-2018 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Prima Sezione Penale 
 
    Composta da: 
        Francesco Maria Silvio Bonito - Presidente; 
        Roberto Binenti; 
        Francesco Centofanti; 
        Gaetano Di Giuro; 
        Raffaello Magi - Rel. Consigliere. 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da:  M.
N. nato il ... a ... . 
    Avverso l'ordinanza del 20 ottobre 2016 del Trib. sorveglianza di
Roma; 
    Sentita la relazione svolta dal consigliere Raffaello Magi; 
    lette/sentite le conclusioni  del  PG  Roberto  Aniello,  che  ha
chiesto il rigetto del ricorso; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Il Tribunale di sorveglianza di Roma con ordinanza  emessa  in
data 20 ottobre 2016 ha respinto l'istanza proposta da M. N., tesa ad
ottenere il differimento della pena, per grave infermita',  al  sensi
dell'art. 147 cod. pen . 
    Premesso che l'istante  risulta  ristretto  in  forza  di  titolo
divenuto definitivo il 12 aprile del 2016 (sentenza di  condanna  per
concorso in rapina aggravata) e che la pena  residua  da  espiare  e'
pari ad anni sei, mesi quattro e giorni  ventuno  di  reclusione,  il
Tribunale compie riferimento ai numerosi precedenti penali del  M.  e
ne evidenzia il grado di pericolosita'. 
    Viene, in seguito, evidenziato che in data 4 luglio  2016  ed  in
data 30 settembre 2016 si sono verifcati, in costanza di  detenzione,
due comportamenti  autolesionistici  (taglio  della  gola)  posti  in
essere dal detenuto, che risulta seguito dal  medico  psichiatra  del
carcere. Nel valutare la attuale  condizione  del  M.,  il  Tribunale
afferma che costui e' affetto esclusivamente da un disturbo di natura
psichica, inquadrato dal consulente di parte  in  termini  di  «grave
disturbo  misto  di  personalita',  con  predominante  organizzazione
border line in fase di scompenso psicopatologico». 
    Pur aderendo a siffatto inquadramento, il Tribunale rileva che la
previsione di legge  di  cui  all'art.  147  cod.  pen.  non  risulta
applicabile, in quanto trattasi di  normativa  che  prende  in  esame
esclusivamente la condizione di infermita' fisica  e  non  quella  di
infermita' psichica. 
    Nel caso del M. non si evidenziano ricadute di tipo fisico  della
patologia   psichica,   il   che   esclude   l'applicabilita'   della
disposizione invocata. 
    2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione - a
mezzo del difensore - M. N.,  deducendo  erronea  applicazione  della
disciplina regolatrice e vizio di motivazione. 
    2.1 La difesa evidenzia che la storia clinica del  M.,  sotto  il
profilo  della  patologia  psichiatrica,  e'  radicata   nel   tempo,
risalendo agli anni 70. 
    Durante una precedente esecuzione si era accertata la particolare
gravita' della patologia  psichiatrica  dell'attuale  ricorrente  con
applicazione  di  detenzione  domiciliare  in  luogo  di  cura   (con
allegazione di provvedimento con cui, in  data  18  maggio  2001,  il
Tribunale di sorveglianza di Roma applicava la detenzione domiciliare
in luogo esterno di cura, con diagnosi di  depressione  maggiore,  ai
sensi dell'art. 47-ter comma, 1 ord.pen.) a dimostrazione  della  non
episodicita' degli atti autolesivi posti in essere nel 2016. 
    2.2 Si rappresenta, pertanto, che il caso andava inquadrato nella
previsione di legge di cui all'art. 148  cod.  pen.,  trattandosi  di
infermita' psichica sopravvenuta tale da impedire l'esecuzione  della
pena. Era stato chiesto, in alternativa, ricovero in luogo esterno di
cura. 
    Il ricorrente si duole della omessa esecuzione  di  una  perizia,
posto  che  il  Tribunale,  pur  aderendo  alla  prospettazione   del
consulente di parte non ha ritenuto che il quadro patologico  insorto
potesse determinare la sospensione  dell'esecuzione,  ed  evidenzia -
quanto  al   preteso   vizio   argomentativo -   da   un   lato   che
l'inquadramento operato appare semplicistico, posto che  la  gravita'
della patologia psichica induce a ritenere probabili le ricadute  sul
piano fisico, dall'altro che - in ogni caso - la  prosecuzione  della
detenzione finisce con il determinare  una  condizione  contraria  al
senso di umanita'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  Il  Collegio  ritiene  di  sollevare  d'ufficio -  ai   sensi
dell'art. 23, comma 3, legge n. 87 del 11 marzo 1953 -  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1  ter  legge  n.
354 del 26 luglio 1975 (da ora in avanti ord. pen.), per  le  ragioni
che seguono. 
    2. In via preliminare, va precisato che la fase del  giudizio  di
legittimita'  risulta  idonea  alla  proposizione  dell'incidente  di
legittimita'  costituzionale,  nella  misura  in  cui  la  Corte   di
cassazione - nell'esercizio delle  funzioni  decisorie  sue  proprie,
perimetrate  dai  contenuti  della  decisione  impugnata  in   quanto
investiti dai motivi di ricorso (art. 609 cod.proc.pen) - rilevi che: 
        a) in sede di merito, su un  punto  oggetto  di  ricorso,  e'
stata applicata una disposizione di legge i cui contenuti precettivi,
pur esattamente ricostruiti dal giudice  di  merito,  si  pongano  in
contrasto  con  quelli  desumibili  da  una  o   piu'   norme   della
costituzione; 
        b) in sede di merito, su un punto oggetto di ricorso, non  e'
stata applicata una disposizione di legge il  cui  ambito  regolativo
avrebbe  potuto,  ove  ritenuta  applicabile,  fornire   alla   parte
ricorrente la tutela richiesta, li' dove  la  ragione  della  mancata
applicazione risulti frutto - a sua volta - della violazione di norme
costituzionali. In  altre  parole,  va  ritenuto  che  la  cognizione
«tipica» della Corte di cassazione, che non e' giudice del  fatto  ma
della corretta interpretazione delle norme  giuridiche  applicate  in
sede di merito al caso trattato, non possa  impedire  ai  giudice  di
legittimita' di apprezzare non soltanto «l'avvenuta applicazione»  di
una disposizione di legge di sospetta incostituzionalita' - li'  dove
il tema risulti rilevante al fine di decidere il ricorso -  ma  anche
la «mancata applicazione» di una disposizione i  cui  contenuti,  ove
rimosso - in tesi - con  decisione  additiva  da  parte  della  Corte
costituzionale  il  limite   reputato   irragionevole   (o   comunque
contrastante con prinicipi costituzionali)  avrebbero  consentito  di
offrire al  caso  trattato  una  soluzione  diversa  ed  aderente  ai
contenuti della Costituzione. 
    Cio' che rileva  e',  infatti,  che  il  dubbio  di  legittimita'
costituzionale - sia esso  introdotto  dalla  parte  o  formulato  di
ufficio - rilevi sull'esercizio  dei  poteri  giurisdizionali  tipici
della fase di legittimita' e, dunque, sull'accoglimento  o  meno  del
ricorso (v. Sez. I n. 409 del 10 dicembre  2008,  ric.  Sardelli,  rv
242456 in tema  di  riproponibilita'  di  eccezione  di  legittimita'
costituzionale respinta in  sede  di  merito;  quanto  al  potere  di
sollevare di ufficio la questione, v. Sez. VI n. 1523 del 9  dicembre
1970, dep. 4 febbraio 1971, Benassi, rv 116570). 
    E' evidente, infatti, che la  Corte  di  cassazione -  in  quanto
giurisdizione di controllo - e' chiamata a compiere una  applicazione
sui generis delle disposizioni di legge rilevanti  per  la  soluzione
del caso trattato, ponendosi quale  organo  cui  spetta  la  verifica
della  corretta  applicazione  della  legge  vigente   avvenuta   nei
precedenti gradi di giudizio, ma cio' non ridimensiona in alcun  modo
il  potere/dovere  di  attivazione  del  controllo  di   legittimita'
costituzionale  li'  dove  la  disposizione  o   il   «complesso   di
disposizioni» incidenti sul tema determini  un  rilevante  dubbio  di
legittimita' costituzionale. 
    3. Cio' posto, il caso in esame si caratterizza  per  i  seguenti
aspetti, in fatto: 
        a) risulta pacifica  l'insorgenza  a  carico  di  M.  N.,  in
costanza di esecuzione della pena, di una patologia di tipo  psichico
(anche i gravi disturbi di personalita' rientrano  nella  nozione  di
infermita', v. Sez. Un. 2005 ric. Raso), che lo stesso  Tribunale  di
sorveglianza procedente finisce  per  l'individuare,  assumendo  come
fondato il contenuto della consulenza di parte, in un «grave disturbo
misto di personalita', con predominante organizzazione border line in
fase di scompenso psicopatologico»; 
        b) risulta altresi' pacifica la ricorrenza, in dipendenza  di
tali condizioni, di allarmanti gesti autolesivi posti  in  essere  in
costanza di detenzione carceraria da M. N. 
    3.1 In diritto, il Tribunale di sorveglianza riprende i contenuti
della costante giurisprudenza di questa Corte, ferma nel ritenere che
l'insorgenza di patologia  di  tipo  psichico  (non  incidente  sulla
imputabilita' al momento del fatto) non  trovi  regolamentazione  nel
contenuto  dell'art.  146  del  codice  penale  (ipotesi  di   rinvio
obbligatorio della esecuzione della pena), ove al comma  1  n.  3  si
prende in esame l'ipotesi della «persona affetta da AIDS conclamata o
da  grave  deficienza  immunitaria..   ovvero   da   altra   malattia
particolarmente grave per effetto della quale le  sue  condizioni  di
salute risultano incompatibili con lo  stato  di  detenzione..»,  ne'
tantomeno rientri nella ipotesi  regolamentata  nel  corpo  dell'art.
147,  comma  1  n.  2   del   codice   penale   (rinvio   facoltativo
dell'esecuzione della pena) ove si prevede il caso di «chi  si  trova
in condizioni di grave infermita' fisica». 
    4.  Circa  tale  specifico  aspetto,  le  doglianze  esposte  dal
ricorrente sono da ritenersi infondate. 
    La linea interpretativa seguita nel corso  del  tempo  da  questa
Corte di legittimita' (si veda, di recente, Sez. I n.  37615  del  28
gennaio 2015, Pileri, rv 264876, nonche'  tra  i  precedenti  arresti
Sez. I n. 11233 del 5 dicembre 2000)  e' -  per  l'appunto -  tesa  a
marcare una netta differenziazione  tra  l'ipotesi  della  infermita'
fisica e  quella  della  infermita'  «meramente»  psichica  (che  non
determini una compromissione fisica), atteso che  la  sola  ipotesi -
nel  caso  in  esame  pacificamente   non   applicabile   in   virtu'
dell'entita' della pena residua e della fattispecie  di  reato -  che
contempla  in  modo  indifferenziato   le   «condizioni   di   salute
particolarmente gravi, che richiedono costanti contatti con i presidi
territoriali» risulta essere la disposizione di cui all'art.  47-ter,
comma  1  lett.  c  ord.  pen.  ord.  pen.,  in  tema  di  detenzione
domiciliare . 
    Il  soggetto  portatore  di  infermita'  esclusivamente  di  tipo
psichico - sopravvenuta alla condanna - non puo' accedere,  pertanto,
secondo l'orientamento interpretativo costante di questa Corte,  agli
istituti del  differimento  obbligatorio  o  facoltativo  della  pena
previsti dagli articoli 146 e 147  cod.  pen.  ne'  alla  particolare
ipotesi di detenzione domiciliare «in deroga» (a limiti  di  pena  ed
ostativita' del titolo di reato) di cui all'art. 47-ter, comma 1  ter
ord.pen. (disposizione introdotta dall'art. 4 della legge n. 165  del
27 maggio 1998, sulle cui caratteristiche v. Sez. I n. 17208  del  19
febbraio 2001, Mangino, rv 218762; Sez. I n.  8993  del  13  febbraio
2008, Squeo, rv 238948; Sez. I n. 18439 del 5  aprile  2013  ric.  Lo
Bianco, rv 255851), posto che nel corpo di tale disposizione  vengono
richiamate esclusivamente le condizioni di  infermita'  di  cui  agli
articoli 146 e 147 del codice penale (infermita' fisica) e non  anche
quelle  evocate  nel  testo  dell'art.   148   (infermita'   psichica
sopravvenuta). 
    Pertanto, e' affermazione ricorrente quella secondo cui  solo  in
presenza  di  ricadute  della  patologia  psichica  sul   complessivo
«assetto funzionale»  dell'individuo  risulta  possibile  attivare  i
presidi di cui agli articoli 146 e 147 cod. pen.; come affermato, tra
le altre, da Sez. I n. 35826  del  11  maggio  2016,  Di  Silvio,  rv
268004; Sez. I n. 22373 del 8 maggio 2009, Aquino, rv 244132; Sez.  I
n. 41452 del 10 novembre 2010, Giordano, rv 248470 . 
    4.1 La doglianza del M. introduce - tuttavia - un tema  di  fondo
su cui il Tribunale di sorveglianza di Roma finisce con l'omettere di
pronunziarsi in modo esplicito, rappresentata dalla  applicabilita' -
o meno - della previsione di legge di cui all'art. 148 cod.  pen.  o,
in alternativa, di forme alternative di prosecuzione della detenzione
in  luogo  esterno   al   carcere   per   finalita'   prevalentemente
terapeutiche (la misura alternativa della  detenzione  domicilare  in
deroga). 
    Tali aspetti, pertanto, vanno esaminati dal Collegio,  posto  che
anche nella ipotesi di  omessa  statuizione  espressa  da  parte  del
giudice del merito su un punto della decisione, li' dove la Corte  di
legittimita' dovesse apprezzare l'esistenza di un limite insuperabile
all'accoglimento della  domanda,  il  ricorso  non  potrebbe  trovare
accoglimento. 
    La considerazione  appena  esposta  rende  rilevante  - anche  in
riferimento ai contenuti dell'art. 23 comma 2 legge n. 53 del  1987 -
l'esame  del  reticolato  normativo  in  tema  di  trattamento  della
infermita'  psichica  sopravvenuta  al  condannato  (come  recita  la
rubrica dell'art. 148 cod. pen.) al fine  di  comprendere  se  ed  in
quali termini: 
        a) la disposizione di legge di cui  all'art.  148  cod.  pen.
possa o meno continuare a trovare applicazione,  dato  che  alla  sua
apparente vigenza (non vi  e'  mai  stata  abrogazione  espressa)  si
contrappone l'esistenza di  un  ampio  percorso  legislativo  che  ha
condotto al  «superamento»  degli  ospedali  psichiatrici  giudiziari
quali strutture storicamente deputate alla esecuzione delle misure di
sicurezza personali; 
        b) se, in caso di approdo alla ipotesi della inapplicabilita'
della  disposizione  in  parola,  esistano   o   meno   nel   sistema
dell'esecuzione penale strumenti alternativi idonei ad assicurare  la
conformita' del trattamento  del  soggetto -  affetto  da  infermita'
psichica  sopravvenuta -  ai  principi  costituzionali  ed  a  quelli
contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, incidenti sul tema. 
    5. Al primo interrogativo va fornita risposta negativa. 
    Nell'attuale momento storico e' da ritenersi che la  disposizione
di legge di  cui  all'art.  148  cod.  pen.  sia  inapplicabile,  per
effetto, di  abrogazione  implicita  derivante  dal  contenuto  degli
interventi legislativi succedutisi tra il 2012 e il 2014. 
    Il d.l. n. 211 del 22 dicembre 2011, art. 3-ter, convertito dalla
legge n. 9 del 7 febbraio 2012 e successivamente integrato  dal  d.l.
n. 52 del 31 marzo 2014 convertito dalla legge n. 81  del  30  maggio
2014 ha previsto la «chiusura» degli ospedali psichiatrici giudiziari
(dal  1975  istituti  destinati  alla  esecuzione  delle  misure   di
sicurezza) e, con estrema  chiarezza,  previsto  che  «le  misure  di
sicurezza  del  ricovero  in  ospedale  psichiatrico  giudiziario   e
dell'assegnazione  a  casa  di  cura   e   custodia   sono   eseguite
esclusivamente all'interno delle strutture sanitarie di cui al  comma
2 ..» rappresentate dalle residenze per l'esecuzione delle misure  di
sicurezza, operanti su base regionale  .  La  definitiva  dismissione
degli ospedali psichiatrici giudiziari si e'  conclusa  nel  febbraio
del 2017, il che esclude radicalmente la  «sopravvivenza»  di  simili
strutture per fini diversi . 
    Al contempo, non puo' ipotizzarsi il subingresso delle REMS nelle
precedenti funzioni accessorie (art. 148.  cod.  pen.)  svolte  dagli
OPG, posto che le vigenti disposizioni di legge indicano le residenze
come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza (provvisorie
o definitive). 
    Non rileva, a tal fine, la previsione  della  legge  n.  103  del
2017, in particolare il punto di delega contenuto  nella  lettera  d)
dell'art. 16, comma 1 (ove si prevede l'assegnazione alle REMS  anche
dei soggetti portatori di infermita'  psichica  sopravvenuta  durante
l'esecuzione, in ipotesi di inadeguatezza dei  trattamenti  praticati
in ambito penitenziario) trattandosi, per l'appunto,  di  delega  non
ancora  tradotta   in   una   o   piu'   disposizioni   concretamente
applicabili). 
    Cio' e', del resto, confermato  dal  fatto  che  il  processo  di
superamento degli OPG  e'  stato  accompagnato  dalla  realizzazione,
all'interno degli istituti penitenziari ordinari, di apposite sezioni
denominate «Articolazioni per la tutela della salute mentale»,  che -
previste dall'accordo del 13  ottobre  2011,  sancito  in  Conferenza
unificata in attuazione del decreto del Presidente del Consiglio  dei
ministri 1° ottobre 2008 - sono dedicate all'accoglienza dei detenuti
appartenenti a specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati
negli  OPG  per   ricevere   le   necessarie   cure   ed   assistenza
psichiatriche.  Risultano  attivate,   da   dati   del   Dipartimento
amministrazione  penitenziaria,  38   Sezioni,   per   una   capienza
complessiva di circa 500 posti letto. La previsione di legge  che  ha
consentito la realizzazione delle «sezioni speciali» e' rappresentata
dall'art. 65 ord. pen, ove si  prevede  l'assegnazione  dei  soggetti
affetti da infermita' o minorazioni fisiche o psichiche devono essere
assegnati ad istituti o sezioni speciali per idoneo trattamento. 
    Puo' dirsi dunque realizzata, allo  stato,  una  innovazione  del
quadro legislativo nel modo che segue: 
        la condizione del soggetto portatore di  infermita'  psichica
tale da escludere la capacita' di intendere o di  volere  al  momento
del fatto, li' dove si riscontri pericolosita' sociale, e' quella  di
sottoposizione al trattamento riabilitativo presso le REMS, strutture
ad esclusiva gestione sanitaria; 
        la condizione del soggetto in esecuzione  pena  portatore  di
patologia psichica sopravvenuta e' quella di detenuto, ove  possibile
allocato presso una delle «Articolazioni per la tutela  della  salute
mentale» poste all'interno del circuito penitenziario. Si  tratta  di
due categorie soggettive indubbiamente  non  pienamente  assimilabili
ove si consideri il rapporto tra patologia e, imputabilita' (v. Corte
costituzionale n. 111 del 1996),  atteso  che  i  primi  sono  i  non
imputabili sottoposti a misura di sicurezza  mentre  i  secondi  sono
condannati (dunque hanno commesso consapevolmente l'azione illecita),
ma sta di fatto che la condizione vissuta dai secondi  e'  del  tutto
assimilabile,  quantomeno  sul  piano  delle  prevalenti   necessita'
terapeutiche, a quella dei non imputabili e  pertanto -  ove  venisse
confermata dall'analisi dei quadro normativo l'assenza di alternative
alla  detenzione  per  i  condannati  affetti  da   grave   patologia
psichica -  ne  deriverebbe,  a  giudizio  del  Collegio   la   piena
cittadinanza del dubbio  di  legittimita',  sufficiente  ad  attivare
l'incidente di costituzionalita'. 
    6.  Allo  stato  attuale  della  normativa,  dunque,  non  paiono
sussistere alternative alla detenzione carceraria, per il soggetto in
esecuzione pena con residuo superiore ad anni quattro  (o  per  reato
ricompreso nella elencazione di cui all'art. 4-bis ord. pen.) affetto
da patologia psichica sopravvenuta - come nel  caso  del  M.  qui  in
trattazione -, stante da un lato la impossibilita' di usufruire,  per
assenza  dei  presupposti   di   accessibilita',   della   detenzione
domiciliare ordinaria (art. 47-ter, comma 1 ord. pen.  ),  dall'altro
la gia' segnalata impossibilita' di accedere, per il  criterio  della
interpretazione letterale, alla detenzione domiciliare «in deroga» di
cui  all'art.  47-ter,  comma  1  ter  ord.  pen.  (la   disposizione
testualmente  recita:  quando  potrebbe  essere  disposto  il  rinvio
obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli
articoli 146 e 147 del codice penale..). 
    6.1 Vero e' che tale disposizione, da ultimo  citata,  nella  sua
dimensione testuale e nel suo profilo finalistico - di norma ispirata
a realizzare una opportuna mediazione tra esigenze  di  umanizzazione
della pena da un lato e di contenimento della  residua  pericolosita'
sociale  dall'altro -   si   inserisce   nel   contesto   sistematico
previgente,  che  vedeva  «rifluire»  la  infermita'   psichica   del
condannato nell'ambito applicativo dell'art.  148  cod.pen.,  il  che
potrebbe  portare  a  ritenere  la  esclusione  del   «rinvio»   alla
infermita'  psichica  (nel  corpo  del  testo)  come  frutto  di  una
consapevole scelta di affidamento di compiti  terapeutici  agli  OPG,
oggi non piu' esistenti, con possibilita' di una estensione meramente
interpretativa - venuti meno gli OPG -  dell'ambito  di  applicazione
della norma alle condizioni patologiche qui considerate. 
    Ma,  ad  avviso  del  Collegio,  non  appare  consentita   simile
operazione di «rottura della tipicita'» tale da estendere, in  virtu'
della chiusura di tali strutture,  ai  condannati  affetti  da  grave
patologia psichica sopravvenuta l'applicabilita' dell'istituto  della
detenzione domiciliare «in deroga». 
    Ostano a tale estensione interpretativa da un  lato  il  criterio
letterale, li' dove il testo della disposizione  risulti  inequivoco,
dall'altro la constatazione di una assenza - nel percorso legislativo
di chiusura degli OPG - di simile volonta', sinora non  espressa  dal
legislatore. 
    6.2 Dunque l'esito che il Collegio ricava dal breve excursus  sin
qui compiuto e' quello di convalidare l'ipotesi per cui il condannato
affetto da infermita' psichica sopravvenuta, li' dove il residuo pena
sia superiore a quattro anni o  si  trovi  in  espiazione  per  reato
ostativo non puo' accedere - allo stato attuale della  legislazione -
ne' agli istituti del differimento della pena (art. 146  e  147  cod.
pen. ), ne' al ricovero in OPG di cui all'art. 148 cod.  pen.  ,  ne'
alla collocazione nelle REMS, ne'  alla  detenzione  domiciliare  «in
deroga» di cui all'art. 47-ter, comma 1 ter ord.pen. 
    Dunque sarebbe inaccoglibile, a normazione invariata, il  ricorso
proposto dal M.. 
    7. Tale assetto, ad  avviso  del  Collegio,  in  particolare  per
quanto riguarda la non accessibilita' alla misura  alternativa  della
detenzione domiciliare  «in  deroga»,  impone  la  rivalutazione  dei
contenuti di precedenti  decisioni,  sul  tema,  della  stessa  Corte
costituzionale (sent. n. 111 del 1996)  ,  ponendosi  in  contrasto -
sotto  il  profilo  della  non  manifesta  infondatezza -  con   piu'
parametri sia costituzionali che convenzionali (norme  interposte  ai
sensi dell'art. 117, comma 1 Cost., come piu'  volte  ribadito  dallo
stesso giudice delle leggi). 
    7.1 Va anzitutto ricordato che la stessa previsione dell'art. 148
cod. pen. era ispirata, specie a  seguito  della  rilevante  modifica
della sua natura giuridica apportata dalla sentenza n. 146/1975 della
Corte  costituzionale,  alla  realizzazione  di  un   trattamento   a
prevalente vocazione sanitaria, correlato alla presa  d'atto  di  una
condizione patologica tale da impedire l'esecuzione. Il  ricovero  in
OPG,  disposto  dal  giudice,  rappresenta(va)  infatti   una   forma
differenziata di esecuzione della pena, nel senso che, la  condizione
di  infermita'  psichica  sopravvenuta  non   dava   luogo   a   mero
differimento o sospensione della pena medesima quanto ad un mutamento
di forma, posto che il periodo di ricovero in  ospedale  psichiatrico
giudiziario (o di detenzione domiciliare in luogo di  cura)  andavano
computati nella esecuzione in corso (si veda, sul  tema,  Sez.  I  n.
26806 del 27 maggio 2008, rv 240864). 
    L'attuale condizione del soggetto portatore di tale tipologia  di
infermita'  e'  pertanto  caratterizzata  da  aspetti  di   manifesto
«regresso trattamentale», atteso che: 
        a) l'allocazione, da detenuto, presso una delle articolazioni
sanitarie interne al  sistema  penitenziario  non  e'  frutto  di  un
provvedimento giurisdizionale (come accadeva  in  precedenza  per  il
collocamento in OPG) quanto di una decisione dell'amministrazione, la
cui azione, pur non potendo ritenersi connotata da discrezionalita' -
in presenza dei presupposti obiettivi - potrebbe essere ostacolata da
fattori non dominabili (ad es. il sovraffollamento delle strutture); 
        b)  l'allocazione  in  tali  articolazioni  viene  di  regola
realizzata   senza    alcuna    previa    verifica    giurisdizionale
dell'idoneita'   del   trattamento   praticabile   da   parte   della
Magistratura di  sorveglianza,  il  che  equivale  a  realizzare  una
complessiva «de-giurisdizionalizzazione» di un segmento trattamentale
di notevole rilievo,  in  assenza  di  alternative  praticabili,  per
quanto detto in precedenza (ne' REMS, ne' ammissione alla  detenzione
domiciliare). 
    Cio' determina la ricorrenza  di  contrasto -  sotto  il  profilo
della  non  manifesta  infondatezza  del  relativo   dubbio -   della
disposizione  47-ter,  comma  1  ter  ord.  pen.  con   i   parametri
costituzionali rappresentati dai contenuti degli articoli 2,  3,  27,
32 e 117 Cost., nella parte in cui detta disposizione non include tra
i presupposti della  detenzione  domiciliare  «in  deroga»  l'ipotesi
della infermita' psichica sopravvenuta. 
    8. Le ragioni del contrasto sono molteplici e vanno  esposte  nel
modo che segue. 
    8.1 La Corte costituzionale ha in piu' occasioni ribadito come la
tutela del «bene primario della salute» (art. 32  Cost.),  impone  la
considerazione particolare della condizione vissuta  da  un  soggetto
privato della liberta'  personale,  in  un  ambito  in  cui  il  bene
primario in questione «deve trovare adeguate garanzie» (v.  sent.  n.
70 del 1994), sempre in rapporto alla valutazione in  concreto  dello
stato patologico da parte del giudice (v. sent. n. 438  del  1995)  e
deve essenzialmente rapportarsi alla preminente finalita' rieducativa
che  la  Carta  assegna  alla  pena,  ampiamente  evidenziata   nella
decisione n. 313 del 1990, che appare utile riportare  per  stralcio:
[..] incidendo la pena sui diritti di chi vi e' sottoposto, non  puo'
negarsi che, indipendentemente  da  una  considerazione  retributiva,
essa  abbia  necessariamente  anche  caratteri  in   qualche   misura
afflittivi. Cosi'  come  e'  vero  che  alla  sua  natura  ineriscano
caratteri di difesa sociale, e  anche  di  prevenzione  generale  per
quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di
colui   che   delinque.   Ma,   per   una    parte    (afflittivita',
retributivita'),  si  tratta  di  profili   che   riflettono   quelle
condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere  tale.
Per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale),
si tratta bensi' di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma
non tale da autorizzare il pregiudizio  della  finalita'  rieducativa
espressamente   consacrata   dalla    Costituzione    nel    contesto
dell'istituto della pena.  Se  la  finalizzazione  venisse  orientata
verso quei diversi caratteri, anziche' al principio  rieducativo,  si
correrebbe  il  rischio  di  strumentalizzare  l'individuo  per  fini
generali  di  politica  criminale   (prevenzione   generale)   o   di
privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di  stabilita'  e
sicurezza  (difesa  sociale),  sacrificando  il  singolo   attraverso
l'esemplarita' della sanzione.  E'  per  questo  che,  in  uno  Stato
evoluto, la finalita' rieducativa non puo' essere  ritenuta  estranea
alla legittimazione e alla funzione stesse della  pena.  L'esperienza
successiva ha, infatti, dimostrato che la  necessita'  costituzionale
che la pena debba «tendere» a rieducare, lungi dal rappresentare  una
mera generica tendenza riferita al solo  trattamento,  indica  invece
proprio una delle qualita' essenziali e generali  che  caratterizzano
la pena nel suo contenuto  antologico,  e  l'accompagnano  da  quando
nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in  concreto
si estingue.  Cio'  che  il  verbo  «tendere»  vuole  significare  e'
soltanto la presa d'atto della divaricazione che  nella  prassi  puo'
verificarsi  tra  quella  finalita'  e  l'adesione   di   fatto   del
destinatario  al  processo   di   rieducazione:   com'e'   dimostrato
dall'istituto che fa corrispondere  benefici  di  decurtazione  della
pena ogniqualvolta, e nei limiti  temporali,  in  cui  quell'adesione
concretamente si manifesti (liberazione anticipata). Se la  finalita'
rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe  grave
compromissione ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione  non
fossero  state  calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne'  in  quella
applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto.  La  Corte  ha
gia' avvertito tutto questo quando non ha esitato  a  valorizzare  il
principio addirittura sul piano della struttura del  fatto  di  reato
(cfr. sentenza n. 364 del 1988). Dev'essere,  dunque,  esplicitamente
ribadito che il precetto di cui al terzo  comma  dell'art.  27  della
Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della
cognizione,  oltre   che   per   quelli   dell'esecuzione   e   della
sorveglianza, nonche' per le stesse autorita' penitenziarie. [..] 
    Da qui la considerazione, espressa nella decisione numero 70  del
1994 (relativa al tema del  differimento  obbligatorio  ex  art.  146
cod.pen. ) in punto di prevalenza della esigenza di tutela  del  bene
primario della  salute,  ove  gravemente  minacciato,  rispetto  alla
tutela di esigenze di  contenimento  della  pericolosita':  [..]  Se,
infatti, a fondamento  della  nuova  ipotesi  di  differimento  della
esecuzione della pena sta, come si e' detto, l'esigenza di assicurare
il diritto alla  salute  nel  particolare  consorzio  carcerario,  la
liberazione del condannato non puo' allora ritenersi  frutto  di  una
scelta arbitraria, cosi come neppure puo' dirsi  che  la  liberazione
stessa integri, sempre e comunque, un fattore di compromissione delle
contrapposte esigenze di tutela collettiva: non e' la pena  differita
in quanto tale, infatti, a determinare una  situazione  di  pericolo,
ma, semmai, la carenza di  adeguati  strumenti  preventivi  volti  ad
impedire che il condannato, posto in liberta', commetta nuovi  reati.
Tuttavia, se a colmare una simile  carenza  puo'  provvedere,  ed  e'
auspicabile che provveda, soltanto il  legislatore,  deve  escludersi
che  la  eventuale  lacunosita'  dei  presidi  di   sicurezza   possa
costituire, in se' e per  se',  ragione  sufficiente  per  incrinare,
sull'opposto versante, la tutela dei  valori  primari  che  la  norma
impugnata ha inteso salvaguardare, giacche',  ove  cosi'  fosse,  nel
quadro del bilanciamento  tra  le  esigenze  contrapposte,  solo  una
prevarrebbe a tutto scapito dell'altra. D'altra parte, occorre  anche
osservare che qualora la norma in esame fosse ritenuta  non  conforme
ai  principii  costituzionali  per  il  sol  fatto  che   dalla   sua
applicazione   possono   in   concreto   scaturire   situazioni    di
pericolosita' per la sicurezza collettiva, ne conseguirebbe che  alla
esecuzione della pena  verrebbe  assegnata,  in  via  esclusiva,  una
funzione di prevenzione generale e di difesa  sociale,  obliterandosi
in tal modo quella eminente finalita' rieducativa che questa Corte ha
invece inteso riaffermare anche di recente (v. sentenza  n.  313  del
1990), e che certo informa anche l'istituto del rinvio che viene  qui
in discorso [..] . 
    Si tratta di linee-guida che informano,  doverosamente,  l'intero
sistema  esecutivo   penale   che   per   essere   costituzionalmente
compatibile deve offrire: a) opportunita' giurisdizionali di verifica
in concreto della condizione patologica; b)  strumenti  giuridici  di
contemperamento dei valori coinvolti che siano tali da consentire  la
sospensione  della  esecuzione  o  la  modifica  migliorativa   delle
condizioni  del  singolo,  li'  dove  le  ricadute  della   patologia
finiscano con l'esporre il bene primario della salute  individuale  a
compromissione, si' da concretizzare -  in  ipotesi  di  mantenimento
della condizione detentiva - un trattamento  contrario  al  senso  di
umanita' (art. 27,  comma  3  Cost.)  o  inumano  o  degradante  (con
potenziale violazione dell'art. 3 Convenzione Edu). 
    8.2 Le opportunita' di contemperamento dei valori in gioco, e  la
stessa giurisdizionalita' piena dell'intervento, sono - nei confronti
del soggetto affetto da infermita' psichica sopravvenuta - come si e'
detto - compromesse, in un assetto  normativo  che  vede  come  unica
risposta il mantenimento della condizione detentiva  e  l'affidamento
esclusivo  del  soggetto  al  servizio  sanitario  reso   in   ambito
penitenziario. 
    In particolare, anche a fronte della  avvenuta  constatazione  di
inadeguatezza di simile trattamento, non  risulta  consentita -  allo
stato -  ne'  la  sospensione  dell'esecuzione   (a   meno   di   non
ridiscutere, come pure parrebbe opportuno, il fondamento  scientifico
della rigida distinzione  tra  le  due  classi  di  patologia,  ormai
ampiamente posto in  crisi  da  avanzati  studi  sul  fenomeno  della
comorbilita') ne' l'approdo alla detenzione domiciliare  «in  deroga»
(art. 47-ter, comma 1 ter ), li' dove non risulti applicabile  quella
ordinaria (art. 47-ter, comma 1). 
    Assume, pertanto, nuovo significato -  alla  luce  dei  descritti
mutamenti del quadro normativo - il monito rivolto dalla stessa Corte
costituzionale al legislatore nella decisione numero 111 del 28 marzo
1996. 
    In tale arresto,  posta  di  fronte  al  dubbio  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 148 cod.pen. la Corte - pur condividendo  il
«non  soddisfacente  trattamento  riservato  all'infermita'  psichica
grave, sopravvenuta, specie quando e' incompatibile con l'unico  tipo
di struttura custodiale  oggi  prevista»  ritenne  di  spettanza  del
legislatore l'individuazione di una «equilibrata soluzione»  tale  da
garantire anche a quei condannati la cura della salute mentale  senza
che sia eluso il trattamento penale. 
    Negli anni successivi, tale invito appare raccolto solo in mimina
parte (v. art. 47-ter, comma 1 lett.  c  ord.pen.,  disposizione  che
tuttavia incontra limiti di applicabilita'  correlati  a  natura  del
reato  ed  entita'  del  residuo  pena)  ed  attualmente   eluso   in
riferimento alla condizione di quei  soggetti  affetti  da  patologia
psichica sopravvenuta, non ammissibili  alla  detenzione  domiciliare
ordinaria (per i limiti di  applicabilita'  della  disposizione)  ne'
quella in deroga. 
    Cio' determina il dubbio  di  legittimita'  costituzionale  prima
denunziato, in riferimento ai parametri di cui agli articoli 2, 3, 27
e 32 Cost. sia  in  virtu'  della  indebita  contrazione  dei  poteri
giurisdizionali che per quanto attiene il bisogno di effettivita' dei
diritti inviolabili della persona umana. 
    8.2 Ulteriore parametro  e'  quello  relativo  alla  disposizione
costituzionale di cui all'art. 117, comma  1  Cost,  in  rapporto  ai
contenuti dell'art. 3 Conv. Edu. 
    Va ricordato,  sul  tema,  che  li  dove  sia  individuabile  una
«potenziale tensione» tra una o piu' norme di  legge  ordinaria  e  i
principi della Convenzione europea (per come gli stessi vivono  nella
interpretazione loro data dalla Corte di Strasburgo, primo - anche se
non unico - interprete di quel testo) il giudice  interno,  prima  di
investire la Corte costituzionale ha il preciso dovere -  piu'  volte
sottolineato dal giudice delle leggi - di  ricorrere  allo  strumento
della  interpretazione -  costituzionalmente  e   convenzionalmente -
conforme delle disposizioni in rilievo, nel senso che la questione va
sollevata solo nel caso in cui il testo della disposizione  (o  delle
disposizioni) non sia interpretabile in modo  tale  da  evitare  ogni
potenziale conflitto di significato precettivo. Si veda, in proposito
quanto di recente ribadito da Corte costituzionale sent. n. 109 del 5
aprile 2017: [..] nell'attivita' interpretativa  che  gli  spetta  ai
sensi dell'art. 101, secondo comma, Cost., il giudice  comune  ha  il
dovere  di  evitare  violazioni  della  Convenzione  europea   e   di
applicarne le  disposizioni,  sulla  base  dei  principi  di  diritto
espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia  riconducibile  a
precedenti di quest'ultima (sentenze n. 68 del 2017, n. 276 e  n.  36
del 2016). In tale attivita',  egli  incontra,  tuttavia,  il  limite
costituito dalla presenza di una legislazione  interna  di  contenuto
contrario  alla  CEDU:  in  un   caso   del   genere   -   verificata
l'impraticabilita' di una interpretazione in senso  convenzionalmente
conforme, e non potendo disapplicare  la  norma  interna,  ne'  farne
applicazione, avendola ritenuta in contrasto con  la  Convenzione  e,
pertanto, con la Costituzione, alla luce di quanto disposto dall'art.
117, primo comma, Cost. - deve sollevare  questione  di  legittimita'
costituzionale della norma interna, per violazione di tale  parametro
costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del  2015,  n.  264  del
2012, n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311  e  n.  239  del  2009)
[..]. 
    Si e'  gia'  spiegato  come,  ad  avviso  del  Collegio,  l'unica
disposizione interna che potrebbe  offrire -  in  caso  di  patotogia
psichica sopravvenuta - l'accesso alla composizione del conflitto  in
chiave di tutela delle garanzie fondamentali (art.  47-ter,  comma  1
ter ord.pen.) non risulta interpretabile in senso  costituzionalmente
e convenzionalmente orientato. 
    La protrazione della detenzione del  soggetto  affetto  da  grave
infermita' psichica, pertanto, si espone - in aggiunta a quanto prima
rilevato -  a  rischio  concreto  di  violazione   del   divieto   di
trattamenti inumani o  degradanti,  in  un  contesto  normativo  come
quello italiano che ha di  recente  elevato  (v.  articoli  35-bis  e
35-ter ord.pen.) il  divieto  in  questione  a  regola  fondante  del
sistema di tutela dei diritti delle persone detenute. 
    8.3  Non  appare  dunque  possibile  prescindere  dall'esame  sia
dell'art. 3 Conv. Eur. secondo cui nessuno puo' essere  sottoposto  a
tortura ne' a pene o trattamenti inumani  o  degradanti  disposizione
che fornisce ulteriore protezione  al  diritto  al  trattamento  «non
contrario»  al  senso  di  umanita',  in  piena  assonanza   con   la
disposizione  di  cui  all'art.  27  Cost.  Come   e'   noto,   nella
giurisprudenza della Corte Edu il divieto di cui all'art. 3 configura
un obbligo positivo  per  lo  Stato  e  non  trova  forma  alcuna  di
bilanciamento in esigenze antagoniste. In tale ambito, ricorrente  e'
infatti l'affermazione (v. decisione Labita contro Italia  del  2000)
per cui [..] anche nelle circostanze piu' difficili, quali  la  lotta
contro il terrorismo e il crimine organizzato, la  Convenzione  vieta
in termini assoluti la tortura e le pene  o  trattamenti  disumani  o
degradanti. L'art. 3 non prevede restrizioni,  in  contrasto  con  la
maggior parte  delle  clausole  normative  della  Convenzione  e  dei
protocolli nn. 1 e 4, e secondo l'art. 15 par. 2 non  ammette  alcuna
deroga, anche in caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della
nazione (sentenze Selmouni c/ Francia [GC],  n.  25803/94,  par.  95,
CEDU 1999-V; Assenov e altri c/ Bulgaria del 28  ottobre  1998,  par.
93). Il divieto della tortura o delle pene o trattamenti  disumani  o
degradanti e' assoluto, quali che siano i comportamenti della vittima
(sentenza Chahal c/  Regno  Unito  del  15  novembre  1996,  Raccolta
1996-V, p.1855, par. 79). La natura del reato ascritto al  ricorrente
non e' pertanto pertinente per quanto  riguarda  l'esame  sulla  base
dell'art. 3 .. [..]. 
    Dunque, li' dove la protrazione del trattamento detentivo, per la
particolare   gravita'   della   patologia   riscontrata,   per    la
inadeguatezza delle cure prestate, per la  assenza  delle  condizioni
materiali idonee, risulti contraria al senso di umanita' e rischi  di
dar luogo ad un  trattamento  degradante,  e'  preciso  dovere  della
autorita'  giurisdizionale   provvedere   alla   interruzione   della
carcerazione, mediante l'applicazione delle norme che - in attuazione
dell'art. 27, comma 3 cost. - prevedono tale eventualita'. 
    Non puo', pertanto, in presenza  di  serieta'  di  una  qualsiasi
condizione  patologica,  trasferirsi  sul   detenuto -   sollecitando
trattamenti  individualizzati  di   cui   non   vi   sia   preventiva
assicurazione e verifica della  obiettiva  adeguatezza -  il  disagio
imputabile  all'assenza  di  luoghi  idonei  alla  realizzazione  dei
trattamenti sanitari necessari, posto che la  esecuzione  della  pena
inframuraria  e'  recessiva  rispetto  all'obbligo  dello  Stato   di
garantire  che  le  condizioni  del  reclusi  non  si  traducano   in
trattamenti inumani o degradanti. 
    Ancora, appare opportuno ricordare che l'obbligo di  interruzione
(nelle forme del differimento  o  della  misura  alternativa  di  cui
all'art. 47-ter, comma  1  ter)  della  detenzione  non  conforme  ai
contenuti dell'art. 3 della Convenzione europea  per  la  tutela  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  e'  patrimonio
giurisdizionale accresciuto dalle decisioni  emesse  dalla  Corte  di
Strasburgo, piu' volte intervenuta (anche nei confronti  dell'Italia)
con decisioni accertative di violazione, proprio nel delicato settore
del diritto alla salute del soggetto recluso e del correlato  obbligo
di  valutare,  a  fronte  di  gravi  patologie,  la  opportunita'  di
mantenere o meno lo stato detentivo carcerario. 
    Nella nota decisione Contrada contro Italia del 11 febbraio  2014
(in cui si e' affermato che .. il mantenimento in stato detentivo  di
quest'ultimo era incompatibile con il divieto di trattamenti  inumani
e degradanti stabilito dall'art. 3) la Corte Edu  ha  affermato,  tra
l'altro,  quanto  segue:  ..l'art.  3  impone  allo  Stato  l'obbligo
positivo  di  assicurarsi  che  esse  siano  detenute  in  condizioni
compatibili con il rispetto della dignita' umana, che le modalita' di
esecuzione della misura non facciano piombare  l'interessato  in  uno
stato dl sconforto ne'  lo  espongano  ad  una  prova  di  intensita'
superiore  all'inevitabile  livello  di  sofferenza   inerente   alla
detenzione  e  che,  tenuto  conto  delle  esigenze  pratiche   della
carcerazione, la salute e il benessere del detenuto siano  assicurati
adeguatamente, in modo  particolare  attraverso  la  somministrazione
delle necessarie cure mediche (Kudla c. Polonia [GC], n. 30210/96,  §
94, CEDU 2000 XI, e Riviere c. Francia, n. 33834/03, § 62, 11  luglio
2006). Cosi', la  mancanza  di  cure  mediche  adeguate  e,  piu'  in
generale, la detenzione di  una  persona  malata  in  condizioni  non
adeguate, puo'  in  linea  di  principio  costituire  un  trattamento
contrario all'art. 3 (si vedano, ad esempio, Ilhan c.  Turchia  [GC],
n. 22277/93, § 87, CEDU 2000-VII, e Gennadi Naumenko sopra citata,  §
112).  La Corte deve tenere conto, in particolare, di tre elementi al
fine  di  esaminare  la  compatibilita'  di  uno  stato   di   salute
preoccupante con il mantenimento in stato detentivo  del  ricorrente,
vale a dire: a) la condizione del detenuto, b) la qualita' delle cure
dispensate e c) l'opportunita' di mantenere lo stato  detentivo  alla
luce delle condizioni di salute del ricorrente (si vedano Farbtuhs c.
Lettonia, n. 4672/02, § 53, 2 dicembre 2004, e Sakkopoulos c. Grecia,
n. 61828/00, § 39, 15 gennaio 2004). 
    Detti  principi  sono  stati  ribaditi  in  piu'  occasioni,  con
accertamento di  violazione  del  diritto  fondamentale  riconosciuto
dall'art. 3 della Convenzione: arresto del 13  dicembre  2016  Yunzel
contro Russia; del 6 settembre  2016  W.D.  contro  Belgio  (soggetto
affetto da disturbi mentali, su cui v.  infra);  del  9  giugno  2016
Mekras contro Grecia; del  10  maggio  2016  Topekhin  contro  Russia
(sulla necessaria adeguatezza del trattamento delle  patologie);  del
22 marzo 2016 Butrin contro Russia (avente ad oggetto il caso  di  un
detenuto disabile perche' affetto da grave disturbo della vista); del
1 marzo 2016 Lavrov contro Russia  (detenuto  malato  di  cancro  non
adeguatamente curato); del 23 febbraio 2016  Mozer  contro  Moldavia;
del 12 gennaio 2016 Khayletdinov contro Russia, solo  per  citare  le
decisioni di maggior rilievo emesse di recente. 
    In particolare la Corte Edu ha in  piu'  occasioni  affermato  la
necessita' di fornire adeguata tutela a soggetti reclusi  portatori -
in   quanto   affetti   da   patologia   psichica -   di   accentuata
vulnerabilita', affermando - nel caso W.D. c.  Belgium  deciso  il  6
settembre 2016 (n. 73548/2013) che  anche  l'allocazione  in  reparto
psichiatrico carcerario  puo'  dar  luogo  a  trattamento  degradante
quando le terapie  non  risultino  appropriate  (without  appropriate
medical supervision) e la detenzione si prolunghi per un  periodo  di
tempo  significativo:  ...  «la  Corte  segnala  che   l'obbligazione
derivante dalla Convenzione non si limita a  proteggere  la  societa'
contro i potenziali pericoli posti in essere da criminali affetti  da
disturbi psichici, ma esigeva  altresi'  di  fornire  un  trattamento
idoneo  a  tali  criminali  per   aiutarli   al   fine   della   loro
reintegrazione all'interno  della  societa'  nel  modo  migliore.  Si
affermava  percio'  che  le  autorita'   nazionali   non   si   erano
sufficientemente prese cura della salute di W.D. per garantirgli  che
non fosse  posto  in  situazione  tale  da  violare  l'art.  3  della
Convenzione. Il fatto che questi fosse stato posto in  un'ala  di  un
carcere psichiatrico per un periodo  significativo  di  tempo,  senza
reale speranza di cambiamento e senza appropriati  controlli  medici,
ha  assoggettato  lo  stesso  a  difficolta'  particolarmente  gravi,
causandogli afflizione di intensita' eccedente l'inevitabile  livello
di sofferenza intrinseco alla detenzione. La  Corte  considerava  che
qualsiasi ostacolo potesse aver creato W.D.  col  suo  comportamento,
questo  non  liberava  lo  Stato  dalle  sue  obbligazioni  nei  suoi
confronti.  Si  ripeteva  che  la  posizione  di  inferiorita'  e  di
incapacita' che erano  tipiche  di  pazienti  ristretti  in  ospedali
psichiatrici esigevano un  aumento  di  controllo  nell'esaminare  la
conformita' con la Convenzione; che erano ancora maggiori i casi dove
persone che soffrivano di disturbi della personalita' erano  detenuti
in un ambiente carcerario. La Corte percio' concludeva affermando che
vi  era  stato  trattamento  degradante  a  causa   dell'ininterrotta
detenzione di W.D. per piu' di nove anni in ambiente carcerario senza
idoneo trattamento per la sua patologia mentale  ne'  prospettiva  di
reintegrazione sociale con violazione dell'art. 3 della Convenzione». 
    Analoghe affermazioni risultano operate  in  arresti  precedenti,
tra cui Claes v. Belgium del 10 gennaio 2013 e Bamouhammad v. Belgium
del 17  novembre  2015,  il  che  dimostra  come  la  verifica  della
adeguatezza del trattamento sanitario praticato, in concreto e non in
astratto, sia il parametro su cui  occurre  misurare  la  valutazione
circa il mantenimento o meno  della  condizione  detentiva,  pena  il
rischio concreto di violazione del divieto di infliggere al  detenuto
un trattamento inumano o degradante. 
    9. Per tutte le ragioni sin qui esposte il  Collegio  ritiene  di
sollevare di ufficio la questione di legittimita' costituzionale  con
riferimento agli articoli 2, 3, 27,  32  e  117  della  Costituzione,
dell'art. 47-ter, comma 1-ter della legge 26 luglio  1975  n.  354  e
succ. mod., nella parte in cui detta previsione di legge non  prevede
la applicazione della detenzione domicilare anche  nelle  ipotesi  di
grave infermita' psichica  sopravvenuta  durante  l'esecuzione  della
pena. 
    Va sospeso il procedimento, come da dispositivo. 
      
 
                               P.Q.M. 
 
    Vista la legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 23 solleva, di ufficio,
questione  di  legittimita'  costituzionale,  con  riferimento   agli
articoli 2, 3, 27, 32 e 117  della  Costituzione,  dell'art.  47-ter,
comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975 n. 354 e  succ.  mod.,  nella
parte in cui detta previsione di legge non  prevede  la  applicazione
della detenzione domicilare anche nelle ipotesi di  grave  infermita'
psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena. 
    Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Dispone  altresi'  che  a  cura  della  cancelleria  la  presente
ordinanza sia  notificata  al  ricorrente,  al  Procuratore  generale
presso questa Corte, al Presidente del Consiglio dei ministri nonche'
ai presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
        Cosi' deciso il 23 novembre 2017 
 
                        Il Presidente: Bonito 
 
 
                                      Il Consigliere estensore: Magi