N. 12 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 novembre 2021
Ordinanza del 2 novembre 2020 della Corte di cassazione sul ricorso proposto da N. S. c/Ministero della Giustizia. Ordinamento penitenziario - Regime speciale di detenzione - Internati per determinati reati assoggettati a misura di sicurezza detentiva - Facolta' di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento, con adozione obbligatoria delle misure speciali previste. - Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), art. 41-bis, commi 2 e 2-quater.(GU n.6 del 10-2-2021 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Prima sezione penale Composta da: Marlastefania Di Tomassi - Presidente - Angela Tardio Palma Talerico Francesco Aliffi Carlo Renoldi - Relatore - Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da N.S., nato a ... avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma in data 12 dicembre 2019; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; Udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Rendidi; Letta la requisitoria del pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Domenico Seccia, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilita' del ricorso. Ritenuto in fatto 1. S.N. e' stato definitivamente condannato: 1) con sentenza in data 30 novembre 2007 del giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, irrevocabile il 27 luglio 2008, per il reato continuato di incendio aggravato in concorso (articoli 110, 423, 112, comma primo, n. 1, 61, n. 2, del codice penale, 7, decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152), commesso il 2 dicembre 2002 e di tentata estorsione in concorso (articoli 56, 110, 629, commi primo e secondo, 112, comma primo, n. 1, del codice penale), commesso in epoca anteriore e prossima al 2 dicembre 2002, alla pena di quattro anni di reclusione e di 1.200,00 euro di multa: pena detentiva eseguita dal 1° agosto 2004 al 1° agosto 2008; 2) con sentenza in data 22 aprile 2013 della Corte di appello di Napoli, irrevocabile il 25 novembre 2014, che in riforma della sentenza in data 22 marzo 2004 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, lo ha ritenuto responsabile del reato associazione di tipo mafioso (art. 416-bis, commi primo, terzo, quarto, quinto e ottavo del codice penale) accertato fino al 1996, con condotta perdurante, alla pena di dieci anni di reclusione, cosi rideterminata a seguito del riconoscimento della continuazione con i fatti oggetto della sentenza sub 1) e in essa assorbita la pena inflitta con quest'ultima, con applicazione della misura di sicurezza della liberta' vigilata per la durata di due anni; 3) con sentenza in data 6 dicembre 2013 della Corte di appello di Napoli, emessa in riforma della sentenza in data 20 luglio 2011, pronunciata in esito a giudizio abbreviato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, irrevocabile il 17 febbraio 2015, alla pena di otto anni di reclusione, per il reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis, commi primo, terzo, quarto, quinto e ottavo, del codice penale), con la recidiva reiterata specifica (art. 99, commi primo, secondo, n. 1, quarto, del codice penale), accertato dal 1° agosto 2004 e fino al novembre 2009, con applicazione della misura di sicurezza della liberta' vigilata per la durata di due anni. Dette condanne sono state, poi, unificate nel provvedimento di cumulo emesso il 15 dicembre 2015 dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli, notificato il 4 gennaio 2016, che ha determinato la pena da scontare in quattordici di anni reclusione, con applicazione della misura di sicurezza della liberta' vigilata per la durata di due anni. Da tale pena principale sono stati detratti, a seguito di due provvedimenti emessi ex art. 657 del codice di procedura penale dai Procuratore generale della Repubblica di Napoli, rispettivamente in data 29 dicembre 2015 e 4 gennaio 2016, il periodo di reclusione patita dal 1° agosto 2004 al 1° agosto 2008 (corrispondente all'espiazione della pena inflitta in relazione alla sentenza indicata sub 1), il periodo di un anno, undici mesi, tre giorni di reclusione, corrispondente alla custodia cautelare applicata in relazione alla sentenza indicata sub 2), pronunciata il 22 aprile 2013 dalla Corte di appello di Napoli (dal 30 aprile 1998 al 2 aprile 2000), nonche' il periodo di quattrocentocinque giorni di riduzione della pena per liberazione anticipata relativamente ai semestri dal 31 marzo 2010 al 30 settembre 2014, disposta con ordinanza in data 14 ottobre 2015 del Magistrato di sorveglianza di Milano, sicche' la pena residua da eseguire e' stata determinata in otto anni, nove mesi e sedici giorni di reclusione. Pena che, secondo quanto riportato nella posizione giuridica agli atti, e' stata integralmente espiata dal 31 marzo 2010 al 4 gennaio 2016. Va rilevato, inoltre, che nel corso del periodo di esecuzione della predetta pena detentiva: 1) con ordinanza in data 13 gennaio 2012 della Corte di assise di appello di Napoli era stata disposta la custodia cautelare in carcere di N., notificata in pari data all'interessato, il quale era stato condannato, con sentenza della stessa Corte in data 19 dicembre 2011, emessa in riforma di quella della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere del 5 aprile 2007, alla pena dell'ergastolo per omicidio pluriaggravato, commesso al fine di agevolare e consolidare il predominio dell'associazione camorristica di appartenenza (clan dei casalesi), misura rimasta in esecuzione fino al 9 maggio 2013, data nella quale la Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza di condanna e, con essa, anche la misura cautelare, disponendone contestualmente la immediata cessazione (non risultando che la condanna sia stata confermata nel giudizio di rinvio, ne' che la custodia cautelare subita sia stata riconosciuta in fungibilita' con le pene detentive definitive); 2) con ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 25 ottobre 2013, notificata il 31 ottobre 2013, e' stata, quindi, disposta nei confronti di N., l'applicazione della misura di sicurezza della casa di lavoro, per la durata di due anni, in conseguenza della dichiarazione di delinquenza abituale pronunciata a suo carico ex art. 103 del codice penale, da cui e' derivata l'emissione, da parte della Procura milanese, dell'ordine di consegna e di accompagnamento del 25 marzo 2014. L'esecuzione della misura di sicurezza ha avuto inizio a partire dal 6 gennaio 2015, con fine dell'esecuzione prevista, attualmente, per il 6 gennaio 2021, essendo stata prorogata con le ordinanze del Magistrato di sorveglianza di Udine in data 26 ottobre 2017 e in data 20 novembre 2019, rispettivamente per il periodo di due anni e di un anno. Inoltre, per quanto di interesse in questa sede, va ricordato che, nei confronti dello stesso N., e' stata disposta, con decreto del Ministro della giustizia del 24 luglio 2018, la proroga, per la durata di due anni, del regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, comma 2, ordinanza penale, applicatogli a partire dal 31 luglio 2010 e gia' prorogato, in precedenza, con decreto ministeriale in data 28 luglio 2016. 1.1. Avverso l'ultimo provvedimento di proroga del regime differenziato, il difensore dell'internato ha presentato reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma, deducendo, da un lato, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, ordinanza penale nella parte in cui dispone che tale regime possa essere applicato anche all'internato, con una sostanziale equiparazione tra la misura di sicurezza e la reclusione vera e propria, senza un termine prestabilito, censurandosi che la sottoposizione al regime speciale abbia reso impossibile lo svolgimento di attivita' trattamentali presso la casa di lavoro; e, dall'altro lato, l'assenza di circostanze nuove idonee ad affermare il rischio di attuali collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza, lamentando, altresi', la mancata considerazione dell'annullamento con rinvio di una sentenza di condanna per omicidio, disposto dalla Corte di cassazione. 1.2. Con ordinanza del 12 dicembre 2019, il Tribunale di sorveglianza ha respinto il reclamo. Dopo avere premesso che la proroga del regime differenziato deve essere disposta, in base al comma 2-bis dell'art. 41-bis, ordinanza penale, nel caso in cui risulti la persistente capacita' del detenuto (o dell'internato) di tenere contatti con le organizzazioni criminali, senza che cio' debba necessariamente tradursi nella presenza di elementi nuovi e diversi rispetto a quelli gia' posti alla base delle precedenti proroghe, quando quelli gia' esistenti, in assenza di elementi di senso contrario, per la loro consistenza e pregnanza siano in grado di dimostrare la persistenza attuale della capacita' del detenuto di mantenere i collegamenti con l'associazione criminale di appartenenza, il Collegio capitolino ha ritenuto sussistente il concreto pericolo che S.N., ove sottoposto al regime detentivo ordinario, possa mantenere i suddetti contatti, contribuendo, con le proprie personali «conoscenze» e capacita' professionali, a sostenere e a gestire, in termini decisionali, le attivita' illecite del gruppo malavitoso di appartenenza. Cio' in ragione, innanzitutto, del suo «spessore criminale», ritenuto alla luce del fatto che: N. e' stato condannato per associazione di stampo mafioso, commesso fino al 2009; a suo carico risulta pendente un procedimento per un duplice omicidio, pur risalente nel tempo, commesso nell'ambito del sodalizio criminale di appartenenza, per il quale e' stato condannato in sede di merito, benche' la sentenza di appello sia stata annullata, con rinvio, dalla Corte di cassazione; dalle note informative degli organi investigativi emerge che egli e' elemento di rilievo del clan dei C. e, in particolare, di una delle articolazioni interne piu' potenti, facente capo a M.Z., al cui interno ha mostrato una notevole capacita' di far «brillare» gli ordigni utilizzati per le estorsioni e ha realizzato alcuni dei bunker per la latitanza del capo del clan, durata quindici anni e terminata soltanto nel 2011. Inoltre, il predetto giudizio e' stata fondato sull'attuale operativita' del clan di riferimento, ritenuta comprovata: dalle recenti indagini che hanno coinvolto il clan S., alleato a quello degli Z., e quello del C., a riprova della attuale fibrillazione del panorama criminale presente sul territorio; dall'emissione di tredici ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di amministratori pubblici e imprenditori affiliati al clan che hanno monopolizzato appalti per la manutenzione della rete idrica regionale, di ventiquattro misure cautelari riguardanti gli appalti dell'Ospedale civile di ...., nonche' dal sequestro di un centro commerciale ritenuto nella disponibilita' del capo del clan, M.Z., del valore di 60 milioni di euro, il cui acquisto sarebbe avvenuto grazie agli investimenti e alle attivita' svolte in suo sostegno dal clan; dalle numerose operazioni che hanno interessato esponenti di vertice, affiliati e fiancheggiatori del clan, tra cui l'ordinanza di custodia cautelare in carcere eseguita il 3 marzo 2018 nei confronti di M.B. e altri, ritenuti affiliati al clan del C. ... e responsabili di ricettazione aggravata dal metodo mafioso, associazione mafiosa, estorsione, detenzione di armi da guerra e materiale esplosivo, nonche' detenzione e porto di armi clandestine, nonche' dall'ordinanza di custodia cautelare in carcere, eseguita il 12 aprile 2018, nei confronti di N.I., affiliato al clan e ritenuto responsabile di associazione mafiosa; dallo stato in liberta' di Aldo N., fedelissimo del boss M.Z., di W.S., figlio del capo del clan F., di C.Z., di I.S. e di C.R. Quanto all'eccezione di incostituzionalita' sollevata dalla difesa, il Tribunale ha osservato che non vi sono elementi comprovanti che il regime speciale applicato a S.N. abbia trasformato la misura di sicurezza in una vera e propria pena detentiva, peraltro senza limiti di durata, considerato che dalla relazione comportamentale della Casa circondariale di in data 6 dicembre 2019 e' risultato che egli ha svolto attivita' lavorativa presso la locale serra, in qualita' di ortolano e che, al momento, il medesimo lavora con mansioni di addetto alle pulizie e alla distribuzione dei pasti all'interno della sezione di appartenenza. 2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione lo stesso N., per mezzo dei difensori di fiducia, avvocati Valerio Vianello Accorretti e Piera Farina, deducendo due distinti motivi di impugnazione. 2.1. Con il primo motivo, il ricorso denuncia l'illegittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, ordinanza penale, in relazione agli articoli 208 e 216 del codice penale, per violazione degli articoli 3, 27, comma terzo, della Costituzione e dell'art. 117 della Costituzione in relazione all'art. 3 Convenzione EDU, nella parte in cui tale disposizione prevede che il regime differenziato possa applicarsi anche ai soggetti internati; eccezione gia' presentata nella fase di merito e ritenuta manifestamente infondata dal Tribunale di sorveglianza sul rilievo che non sussisterebbero elementi per ritenere che il regime speciale concretamente applicato a N., «svuoti» di contenuto la misura di sicurezza cui e' sottoposto, trasformandola in una vera e propria pena detentiva senza limiti di durata. Dopo aver ricordato che, nel vigente ordinamento, le misure di sicurezza personali non hanno un carattere punitivo, ma svolgono una finalita' rieducativo-risocializzante finalizzata a neutralizzare gli elementi di pericolosita' sociale che ne hanno giustificato l'applicazione, il ricorso lamenta che in caso di applicazione di una misura detentiva, la sottoposizione al regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, ordinanza penale rischierebbe di assoggettare l'internato a una misura perpetua, atteso che proprio la proroga di tale regime finirebbe per sottoporlo, senza un limite temporale prevedibile, a una vera e propria detenzione inframuraria, dopo l'intera espiazione della sua condanna. E cio' tanto piu' ove si consideri che le caratteristiche del regime differenziato, che sottopone l'internato alla chiusura nella propria camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno, renderebbero vani gli obiettivi trattamentali della casa di lavoro, posto che le ore rimanenti non sarebbero, comunque, sufficienti a svolgere l'eventuale attivita' lavorativa. Sotto altro profilo, la contemporanea applicazione della misura di sicurezza e del regime detentivo differenziato ex art. 41-bis, ordinanza penale non consentirebbe, di fatto, l'accesso alle licenze trattamentali di cui all'art. 53, ordinanza penale, sempre negate all'internato, impedendogli di ottenere, nelle successive valutazioni sulla pericolosita' da parte del magistrato di sorveglianza, una positiva valutazione del suo percorso in misura di sicurezza. Dunque, la contestuale applicazione di una misura di sicurezza detentiva e del regime di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale concretizzerebbe anche una discriminazione, in violazione dell'art. 3 della Costituzione e dell'art. 14 Cedu, rispetto agli altri internati, sottoposti alla medesima misura ma non ristretti in regime ex art. 41-bis, ordinanza penale, i quali sarebbero posti nella possibilita' di svolgere le attivita' tipiche della casa di lavoro e di ottenere una pronuncia di cessata pericolosita' da parte del giudice competente. Inoltre, la contemporanea applicazione di questi istituti violerebbe l'art. 27, comma terzo, della Costituzione, poiche' annullerebbe il fine rieducativo e risocializzante della misura, non permettendo al soggetto di esservi sottoposto in maniera adeguata; nonche' l'art. 117 della Costituzione e l'art. 3 della Convenzione Edu, atteso che la misura di sicurezza verrebbe trasformata in una illegittima prosecuzione della pena detentiva, gia' interamente scontata, sottoponendo il soggetto internato a un trattamento detentivo equivalente senza alcun titolo di condanna e senza alcuna scadenza temporale prevedibile. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 41- bis, ordinanza penale, in ragione della apparenza della motivazione dell'ordinanza impugnata, in quanto non concretamente riferibile alla posizione del ricorrente, non pertinente rispetto agli argomenti difensivi sviluppati in sede di reclamo e «distorsiva» rispetto a quanto stabilito nelle sentenze di merito relative al ricorrente, con conseguente configurabilita' del vizio di violazione di legge. Benche' il reclamo abbia evidenziato come le risultanze investigative valorizzate dal provvedimento di proroga concernessero fatti ormai datati nel tempo, e come N. non fosse piu' detenuto, ma solo internato presso, la casa di lavoro, il Tribunale di sorveglianza si sarebbe limitato a menzionare soltanto le condanne subite dal soggetto e le ultime operazioni di polizia che avrebbero interessato il clan di appartenenza, affermando che tali elementi giustificassero la proroga del regime detentivo differenziato. In questo modo, tuttavia, l'ordinanza avrebbe obliterato il fatto che N. aveva ricoperto, all'interno della consorteria mafiosa, il ruolo di mero affiliato di M.Z., senza ricoprire alcun ruolo apicale; che in relazione all'imputazione di omicidio la Corte di cassazione, nel disporre l'annullamento della sentenza di appello, aveva sottolineato le carenze della motivazione in relazione alla rilevanza causale della condotta ascritta allo stesso N.; che la nota della D.N.A. del 18 luglio 2018 avrebbe riferito che, secondo le stesse Forze di polizia, la ..., di Z., di cui l'ordinanza impugnata non avrebbe dimostrato la «continuita' operativa», non sarebbe piu' attiva, in quanto, dal 2009, non verrebbero commessi omicidi; che il Tribunale di sorveglianza sarebbe «rimasto indifferente» al fatto che la condotta partecipativa di N. si arresterebbe al 2006 e che, dopo tale data, non vi sarebbero ulteriori addebiti riferiti all'internato, nonche' alla circostanza che la maggior parte dei sodali del clan sarebbe detenuto e che N., avrebbe integralmente espiato la pena inflittagli; e avrebbe, infine, obliterato gli esiti del trattamento rieducativo sin qui portato avanti. In questo modo, dunque, il Tribunale capitolino non avrebbe motivato in modo autonomo e non si sarebbe soffermato sulla concreta e attuale pericolosita' dell'odierno ricorrente, analizzando la potenziale sussistenza di contatti con la criminalita' organizzata, tali da impedire l'esecuzione della misura di sicurezza presso la casa di lavoro, di fatto ponendo a carico dell'internato l'onere di dimostrare la cessazione dei collegamenti con la criminalita' organizzata, in patente contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimita', in tal modo pervenendo a una interpretazione che renderebbe incostituzionale il comma 2-bis dell'art. 41-bis, ordinanza penale Ne' l'ordinanza avrebbe indicato i soggetti, attualmente in liberta' e appartenenti al clan, che potrebbero rimettersi in contatto con lo stesso N. 3. In data 15 maggio 2020, e' pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale e' stata sollecitata la declaratoria di inammissibilita' del ricorso. Quanto alla doglianza prospettata nel primo motivo di impugnazione, la questione sarebbe manifestamente infondata, in quanto, premessa la legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, ordinanza penale, non contrastante con la funzione rieducativa della pena (si cita Corte costituzionale, ordinanze 13 dicembre 2004, n. 417 e 25 maggio 2010, n. 190), l'equiparazione tra i detenuti e gli internati non sarebbe affatto irragionevole, dal momento che per entrambe le categorie di ristretti potrebbero ricorrere le esigenze di sicurezza che, con il suddetto regime, si intenderebbero tutelare. Quanto al secondo motivo, ricordato che in subiecta materia il ricorso e' ammissibile unicamente per violazione di legge, si osserva che fa motivazione dell'ordinanza impugnata risulterebbe coerente con il dato normativo e con i principi di diritto fissati in materia dalla costante interpretazione giurisprudenziale. 4. In data 15 giugno 2020 e' pervenuta una memoria a firma degli avvocati Piera Farina e Valerio Vianello Accorretti, contenente «note di replica» alla requisitoria del Procuratore generale, con la quale i due difensori chiedono, nell'interesse di S.N., che il Collegio voglia sollevare, in relazione al primo motivo del ricorso, questione di costituzionalita' dell'art. 41-bis, ordinanza penale, atteso che, come gia' dedotto dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma, la contemporanea applicazione del regime differenziato e della misura di sicurezza detentiva snaturerebbe la ratio e gli obiettivi di quest'ultima. Cio' in quanto le regole del regime derogatorio impedirebbero di fruire degli strumenti rieducativi e trattamentali tipici della casa di lavoro, rendendo il periodo di sottoposizione nella sostanza una prosecuzione - senza scadenza prefissata e senza titolo esecutivo - di una vera e propria detenzione, tra l'altro con le restrizioni derogatorie peculiari del regime di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale. Inoltre, la sentenza n. 417 del 2004 della Corte costituzionale non riguarderebbe la coerenza tra il regime di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale e la finalita' rieducativa della pena, bensi' la ritenuta costituzionalita' di alcune innovazioni legislative che, in tesi, avrebbero introdotto una presunzione di pericolosita', con applicazioni indiscriminate del regime derogatorio, superabili con uno sforzo dimostrativo a carico della sola difesa. Del pari, la sentenza n. 190 del 2010 della Corte costituzionale, si sarebbe occupata soltanto della ritenuta eliminazione, a seguito della riforma del 2009, di ogni controllo sulla legalita' del provvedimento ministeriale e della legittimita' del limite delle due ore d'aria. Con la sentenza n. 376 del 1997, invece, il Giudice delle leggi, nel ritenere compatibile il regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale con la finalita' rieducativa della pena, avrebbe specificato che la sottoposizione a tale disciplina di rigore possa considerarsi legittima solo quando non comporti la soppressione o la sospensione delle attivita' di osservazione e di trattamento individualizzato previste dall'art. 13, ordinanza penale, ne' la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attivita' culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della sua personalita', le quali dovrebbero semmai essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalita' idonee a impedire i contratti e i collegamenti che il provvedimento ministeriale intende evitare. E a riprova di cio', la stessa Corte costituzionale, negli anni, avrebbe censurato alcune disposizioni penitenziarie che regolamentavano aspetti del regime differenziato estranei alle esigenze di eccezionale tutela della sicurezza che lo giustificavano. In ogni caso, con tale pronuncia la Consulta non avrebbe minimamente affrontato la questione della particolare posizione dell'internato sottoposto al regime dell'art. 41-bis, che secondo la difesa sarebbe chiaramente diversa rispetto al detenuto, che si trovi in attesa di giudizio o in esecuzione di una condanna. Fermo restando che essa avrebbe comunque ribadito che l'applicazione del regime derogatorio e' legittima sempre che non snaturi del tutto le finalita' della pena, ovvero, nel caso di specie, della misura di sicurezza, travolgendo la necessita' di bilanciare i due interessi in gioco. Nel caso in esame, invero, l'applicazione dell'art. 41-bis, ordinanza penale non lascerebbe alcuno spazio al percorso trattamentale tipico della casa di lavoro, configurando chiaramente una mera forma di detenzione, priva finanche delle possibilita' trattamentali proprie della pena. Per quanto, invece, attiene alle due sentenze emesse dalla Corte di cessazione, entrambe richiamate dal Procuratore generale, la n. 4880 del 2015, pronunciata dalle sezioni unite, avrebbe riguardato la natura giuridica della confisca nell'ambito delle misure di prevenzione personali; mentre la n. 22083 del 2011 della Prima sezione penale, occupandosi della questione qui invocata, avrebbe, da un lato, ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalita' relativamente alla violazione del principio rieducativo della pena e non della misura di sicurezza; e, dall'altro lato, avrebbe considerato la questione come una «generale petizione di principio», atteso che il ricorrente, in quel caso, in coincidenza con il giudizio del Tribunale di sorveglianza di Roma sul reclamo, si trovava a espiare la pena. Al contrarlo, N. sarebbe sottoposto, da anni, pur essendo internato, alle medesime regole penitenziarie applicate ai detenuti condannati assoggettati al regime dell'art. 41-bis, senza poter individuare, diversamente da quanto avviene per i detenuti, alcun traguardo temporale ben definito. E pacificamente egli non starebbe fruendo, neanche in parte, del percorso trattamentale tipico delle misure di sicurezza detentive, ne' tanto meno del trattamento rieducativo proposto ai detenuti in esecuzione pena, trovandosi a eseguire una restrizione meramente punitiva e non preventiva, non comprendendosi su quali aspetti si potrebbe valutare, in futuro, l'evoluzione della sua personalita'. In questo modo, la sottoposizione al regime differenziato dell'internato paleserebbe quell'indebito sbilanciamento a favore delle esigenze di sicurezza, peraltro incerte nella loro prospettiva temporale e senza alcuna protezione delle finalita' risocializzanti tipiche della misura di sicurezza detentiva, che contrasterebbe con la prospettiva delineata dalla Corte costituzionale con la gia' citata sentenza n. 376 del 1997. Considerato in diritto 1. Osserva il Collegio che la questione di legittimita' costituzionale dedotta con il primo motivo di ricorso; e ulteriormente articolata in sede di memoria difensiva, e' certamente rilevante ai fini del presente giudizio e non appare manifestamente infondata. 2. In punto di rilevanza, deve infatti osservarsi, preliminarmente, che, essendo oggetto del ricorso la proroga del regime differenziato dettato dall'art. 41-bis, ordinanza penale, il controllo di legittimita' e' limitato alla violazione di legge, sicche' il sindacato della Corte non puo' estendersi al controllo dell'iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante o apparente. Tanto posto, le censure articolate nel secondo motivo di ricorso, che, se fondate, renderebbero irrilevanti le questioni poste con il primo, appaiono nella sostanza afferire a dedotti difetti della motivazione che, pero', non solo non appare mancante o apparente, ma risulta anche corretta in diritto e coerente nella esposizione degli argomenti esposti. Correttamente il Tribunale di sorveglianza capitolino ha, in particolare, ricordato che la proroga del regime detentivo differenziato di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale puo' essere disposta ove sia stato accertato che la capacita' del condannato di tenere contatti con l'associazione criminale non sia venuta meno, tenuto conto di una serie di indicatori sintomatici dell'attualita' del pericolo di collegamenti con l'esterno, indicati in termini non esaustivi dal comma 2-bis del citato articolo e non necessariamente sopravvenuti (sezione 1, n. 2660 del 9 ottobre 2018, dep. 2019, Vinciguerra, Rv. 274912), quali: il profilo criminale del soggetto, la posizione dal medesimo rivestita in seno all'associazione, la perdurante operativita' del sodalizio e la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, anche considerata l'assenza di elementi di fatto dimostrativi di un sopravvenuto venir meno di tale pericolo (sezione 5, n. 40673 del 30 maggio 2012, Badagliacca, Rv. 253713), che non possono identificarsi - con il mero trascorrere del tempo dalla prima applicazione del regime differenziato, ne' essere rappresentati da un apodittico e generico riferimento a non meglio precisati risultati dell'attivita' di trattamento penitenziario (sezione 1, n. 32337 del 3 luglio 2019, Graviano, Rv. 276720). E lungo tale cornice di riferimento, normativa e giurisprudenziale, sono stati indicati gli elementi di fatto idonei a sorreggere il giudizio di probabilita' di un ristabilimento dei collegamenti con la cosca di riferimento, ovvero che N. potesse riannodare, ove sottratto al rigoroso regime penitenziario volto a impedire i contatti con l'esterno, i legami con il sodalizio di appartenenza, avuto riguardo al suo spessore criminale e all'accertata operativita' del gruppo criminale al quale era risultato affiliato. 2.1. In questo modo, il Tribunale di sorveglianza capitolino ha certamente assolto all'obbligo di una motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua, che peraltro si connota in termini di autonomia rispetto al provvedimento ministeriale oggetto di impugnazione, i cui passaggi valutativi sono stati fatti oggetto di scrutinio giudiziale e non gia' di un acritico recepimento, sia pure a partire dal medesimo corredo fattuale. Pertanto, non possono condividersi i rilievi difensivi fondati sulla prospettazione di vizi della motivazione di tale gravita' da ridondare sulla sua stessa esistenza e, in particolare, le censure relative alla asserita pretermissione di elementi asseritamente decisivi dedotti in sede di reclamo, quali la circostanza che N. non avesse ricoperto, all'interno della consorteria mafiosa, un ruolo apicale; che la sua responsabilita' per il duplice omicidio noi sarebbe stata ancora accertata e, soprattutto, che la Z. non sarebbe piu' attiva, in quanto dal 2009 non verrebbero commessi omicidi e chi la maggior parte dei sodali del clan sarebbe detenuto. Come evidenziato nella parte «in fatto» (al § 1.2.) il Tribunale di sorveglianze non solo ha esaminato tali rilievi difensivi, ma ha anche dato ad essi risposte plausibili, affermando come l'internato, pur non rivestendo posizioni autenticamente apicali, fosse, comunque, molto vicino al capo indiscusso del sodalizio, al quale era legato, oltre che da un rapporto di parentela, da un relazione strettamente fiduciaria; riconoscendo che il duplice omicidio costituiva un semplice carico pendente, dando atto anche dall'annullamento con rinvio disposto da parte della Corte di cassazione; evidenziando come l'attuale operativita' del clan emergesse da plurimi elementi di fatto, rispetto ai quali il ricorso non ha saputo offrire specifici elementi in grado di confutarne la rilevanza argomentativa, limitandosi a richiamare indimostrate circostanze di fatto o a suggerire conclusioni nella sostanza ipotetiche. Sicche' le censure paiono essere anche aspecifiche, oltre che prive del necessario connotato di decisivita'. 2.2. Ne consegue che i dubbi di legittimita' costituzione articolati nel primo motivo di ricorso assumono una precisa rilevanza ai fini del presente giudizio, atteso che, ricorrendo le condizioni per la proroga della sotto posizione di S.N. al regime di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale, l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle questioni proposte dispiegherebbe immediati effetti sul procedimento qui trattato. 3. Punto di partenza dell'analisi della questione sollevata e' la considerazione che, storicamente, pena e misura di sicurezza svolgono, nel sistema penale, funzioni ben distinte. La prima e' «castigo» inflitto per l'offesa arrecata con reato (funzione retributiva), «promessa» di un male rivolto ai consociati in funzione della osservanza del precetto penale (funzione di prevenzione generale) e, al contempo, concreto intervento sanzionatorio sull'autore dell'illecito finalizzata a impedire la ricaduta nel reato (funzione di prevenzione speciale); la seconda, benche' non sia priva di connotazioni general-preventive ed assuma di fatto un evidente carattere afflittivo, si connota essenzialmente in chiave di prevenzione speciale, attuando un intervento finalizzato a impedire, per il futuro, la commissione di un reato da parte di chi un reato abbia commesso (salve le ipotesi di «quasi reato» di cui all'art. 202, comma terzo, del codice penale) e rispetto, al quale sia probabile, in base agli indici dell'art. 133 del codice penale, la commissione di nuove violazioni della legge penale (cfr., art. 203, comma secondo, del codice penale). 4. Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e con la progressiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale, tale distinzione, inizialmente ben nitida, e' progressivamente divenuta meno apprezzabile. Infatti, la funzione di prevenzione generale e quella retributiva, consustanziali all'antologia della pena, hanno progressivamente perso, nel quadro di una ricostruzione polifunzionale del complesso dei suoi scopi, l'originaria centralita' a favore della finalita' rieducativa, che l'art. 27, comma terzo, della Costituzione, significativamente individua come indefettiblie obiettivo della pena e che la Corte costituzionale ha affermato non possa mai essere obliterata rispetto alle altre funzioni (cfr. Corte costituzionale n. 149 del 2018, che ha espressamente affermato «Il principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»). Con riferimento alle misure di sicurezza, il profilo specialpreventivo resta, invece, assolutamente centrale sul piano non solo funzionale ma anche necessariamente strutturale, essendo ormai consolidato il principio secondo cui esse «ex se tendono ad un risultato che eguaglia quella rieducazione, cui deve mirare la pena» (v. Corte costituzionale n. 19 del 1974; negli stessi termini v. sentenze n. 168 del 1972 e 68 del 1967). E tutto cio' in un quadro complessivo in cui la funzione di prevenzione speciale, cui l'intervento rieducativo certamente pertiene, e' riferita sia alla pena, sia alla misura di sicurezza, come ben rammentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 291 del 2013, ove si afferma che «la tutela preventiva dei beni giuridici, e, dunque, la prevenzione, nelle sue forme, generale e speciale, connota, sia le misure di prevenzione, sia la pena, nonche' le misure di sicurezza, che, quindi, condividono tutte una finalita' preventiva». E del resto, coerentemente, non va dimenticato che gli articoli 1 e 13, ordinanza penale, orientano il trattamento penitenziario in chiave risocializzante sia per i detenuti che per gli internati; e che analoga previsione e' contenuta nell'art. 1, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (recante il Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della liberta') afferma che «il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati e' diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonche' delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale». 5. Se alla misura di sicurezza appare estranea, quantomeno in via di principio, la funzione retributiva, ad essa appartiene, invece, pienamente e indefettibilmente quella di risocializzazione, che costituisce, nella prospettiva del primato della persona umana (art. 2 della Costituzione), il significato proprio che deve essere attribuito alla parola «rieducazione». Infatti, per gli internati imputabili, cui per ragioni di sintesi e' bene circoscrivere la presente disamina, il trattamento previsto consiste in misure «risocializzanti» realizzate attraverso interventi «rieducativi» degli operatori penitenziari (educatore, psicologo, criminologo ecc.), di sperimentazione esterna (licenze trattamentali e finali di esperimento), interventi di sostegno esterno da parte dell'Uepe (su famiglia, lavoro, ambiente sociale in genere). Coerentemente, sul piano strettamente normativo, il trattamento penitenziario previsto per i detenuti e per gli internati presenta talune significative differenze, pur innestantesi in un assetto regolativo abbastanza simile, atteso che, come detto, le rispettive funzioni si sono andate progressivamente soprapponendo, anche se pena e misura di sicurezza non possono certamente considerarsi equivalenti. E, proprio in ragione delle differenze, che tuttora permangono, sul piano dei presupposti che ne legittimano l'applicazione, della natura e degli scopi, l'ordinamento penitenziario ha previsto la realizzazione di istituti (o di sezioni di istituti) dedicati all'esecuzione delle misure di sicurezza, i quali devano essere distinti da quelli per l'esecuzione della pena (v. articoli 62 e 64, ordinanza penale). E per la stessa ragione, l'ordinamento contempla delle differenze che attengono, in particolare, alle misure extramurarie applicabili alle due tipologie di sanzione penale, come nel caso della cd. licenza finale di esperimento ex art. 53, comma 4, ordinanza penale, prevista solo per le misure di sicurezza, in relazione alle quali non sono invece concedibili permessi premio, nel caso della applicazione della semiliberta', unica misura alternativa prevista per gli internati e che soltanto per loro puo' essere disposta «in ogni tempo» (art. 50, comma 2, periodo 2, ordinanza penale) e non dopo l'espiazione di una determinata quota della pena, come invece avviene per i detenuti. 6. Nondimeno, in caso di sottoposizione dell'internato al regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale, si assiste a una fortissima compressione degli istituti trattamentali fondamentali (lavoro, istruzione, contatti con l'esterno e, appunto, misure extramurarie), la quale comporta una sostanziale omologazione della misura di sicurezza alla pena detentiva, delineando un regime contenutistico, anche in relazione alle misure esterne applicabili, sostanzialmente identico tra internati e detenuti in regime di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale. Cio' soprattutto in considerazione del fatto che con la modifica, ad opera dell'art. 2, comma 25, lettera f), n. 1, legge 15 luglio 2009, n. 94, dell'art. 41-bis, comma 2-quater, ordinanza penale, e' stata inserita, in luogo dell'espressione «puo' comportare», quella di «prevede», eliminando cosi' qualunque discrezionalita' nella concreta articolazione delle limitazioni poste al trattamento penitenziario, per le pene come per le misure di sicurezza, alle quali ultime detto regime, secondo la pacifica giurisprudenza di legittimita', si applica (cfr. sezione 1, n. 10619 del 27 novembre 2017, dep. 2015, N., Rv. 272310; sezione 1, n. 22083 del 9 marzo 2011, Di Martino, Rv. 250436). Infatti, la circostanza che il comma 2-quater faccia riferimento, nel primo periodo, ai soli «detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione», statuendo che essi «devono essere ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all'intimo di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell'istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria», non significa che la previsione del periodo successivo, che dalle lettere da a) a f), definisce il concreto contenuto del regime differenziato, non si applichi anche agli internati. Anche a prescindere dal fatto che le relative disposizioni sono espressamente riferite, in alcuni casi, anche agli internati - e' il caso delle lettere a), che richiama la necessita' di prevenire l'interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione, e d), che riguarda l'esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati - appare assorbente un duplice rilievo. Da un lato, l'ultimo periodo del comma 2-quater, prima di specificare il contenuto delle limitazioni fa riferimento alla «sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2», con cio' rinviando a una disposizione che menziona gli internati, accanto ai detenuti, quale destinatari del provvedimento del Ministro della giustizia che disponga la sospensione dell'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. E, dall'altro lato, ipotizzando la mancata determinazione, per via legislativa, delle limitazioni alle regole ordinarie del trattamento applicabili agli internati, si lascerebbe all'amministrazione una liberta' assoluta nella articolazione del relativo regime, in evidente radicale contrasto con la ratio della riforma del 2009, che intendeva, al contrario, comprimere ogni discrezionalita' proprio attraverso l'introduzione di un elenco di restrizioni tassativamente indicate dalla legge (cfr. Corte costituzionale, n. 190 del 2010). Ne consegue che in caso di assoggettamento al regime differenziato, la piattaforma trattamentale finisce con l'essere, da un punto di vista strettamente normativo, sostanzialmente uniforme per i detenuti e gli internati sottoposti al regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale; e cio' riguarda anche il piano delle misure extramurarie, naturalmente precluse ai soggetti sottoposti al regime differenziato in ragione della impossibilita', per costoro, di avere contatti con l'esterno, se si eccettuano i difensori e, con moltissime cautele, i familiari piu' stretti. 7. Gia' sotto il profilo indicato, dunque, appare non manifestamente infondato il dubbio di legittimita' costituzionale di un regime applicativo, dettato dalla norma primaria, che sostanzialmente identifica, sul piano contenutistico, pena e misura di sicurezza. In proposito, va, infatti, ricordata la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo sulla Sicherungsverwahrung tedesca; misura di sicurezza detentiva di durata indeterminata, rivolta ai «delinquenti per tendenza», che puo' considerarsi sostanzialmente equivalente, nei suoi essenziali tratti funzionali, alle misure della colonia agricola e casa di lavoro previste nel nostro ordinamento dagli articoli 216 ss. del codice penale Nel caso M. c. Germania (v. sent. 17 dicembre 2009, ric. n. 9359/04), la Corte Edu - nel riconoscere che la custodia di sicurezza prevista dall'ordinamento tedesco deve considerarsi una vera e propria «pena» sotto il profilo dell'art. 7 Cedu (essendo applicata da un giudice, in connessione causale con una sentenza e avendo carattere di afflittivita') - ha fortemente stigmatizzato che il trattamento offerto agli internati in custodia di sicurezza non abbia contenuti specifici rispetto alla esecuzione della pena in senso formale, come del resto ritenuto assolutamente necessario, nei decenni, dalla piu' autorevole dottrina italiana. Ne consegue che non puo' ritenersi manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 25 della Costituzione, nonche' all'art. 117 della Costituzione in relazione all'art. 7 Cedu, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, nella parte in cui prevede la facolta' di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva, dal momento che, rendendo sostanzialmente identico, per i soggetti sottoposti al regime differenziato, il concreto regime applicativo della pena e della misura di sicurezza detentiva, assoggettano alla medesima regolamentazione istituti funzionalmente differenti, obliterando la distinzione, riconosciuta anche in Costituzione, tra gli stessi. 8. Sotto altro aspetto, va evidenziato che la sottoposizione al regime differenziato dell'art. 41-bis, ordinanza penale incide sulla durata della sanzione penale in maniera differente a seconda che al medesimo venga assoggettato il detenuto definitivo o l'internato. Nel primo caso, infatti, l'art. 41-bis, ordinanza penale impedisce, chiaramente, l'ammissione a misure alternative per l'intera durata della detenzione. E tuttavia, fuori dei casi di condanna alla pena dell'ergastolo, la sua applicazione non produce effetti sulla durata della carcerazione. In tali casi, invero, l'imputato viene condannato, con sentenza definitiva, alla pena ritenuta «giusta», e cioe' proporzionata, nel rispetto dell'art. 27 della Costituzione, al disvalore del fatto e alla sua colpevolezza, e la sconta sino al termine di essa, salve le eventuali riduzioni disposte per liberazione anticipata. Nel caso della misura di sicurezza, invece, l'applicazione dell'art. 41-bis, ordinanza penale costituisce un elemento che influisce in maniera essenziale sui meccanismi della proroga della restrizione in regime sostanzialmente carcerario, concorrendo a rendere tale misura una sorta di pena aggiuntiva sganciata pero' dal fatto e determinabile solo, in astratto, nei massimi edittali: percio' sostanzialmente «indeterminata». E' vero, infatti, che, dopo l'entrata in vigore dell'art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, deve ritenersi ormai superato, quantomeno per le misure di sicurezza detentive, il precedente regime, il quale consentiva il cd. ergastolo bianco, ovvero un meccanismo di proroga senza alcun limite massimo di durata temporale, essendo stato oggi un siffatto limite legislativamente introdotto (Corte costituzionale, n. 83 del 2017; sezione 1, n. 42899 del 27 maggio 2019, Guttadauro, in motivazione; sezione 1, n. 12490 del 27 novembre 2018, dep. 2019, Minuto, in motivazione), ed essendo lo stesso rinvenibile nel massimo edittale previsto per il reato in relazione al quale la misura di sicurezza e' stata disposta: con applicazione, in caso di misura di sicurezza applicata a seguito di dichiarazione di abitualita' nel reato, come nel caso in esame, nel massimo edittale previsto per il reato piu' grave tra quelli per cui vi e' stata condanna (sezione 1, n. 41230 del 13 giugno 2019, N., in motivazione). Tuttavia, il fatto che esista un limite massimo, oltre il quale la misura non puo' essere ulteriormente prorogata, non significa anche che la durata, ancorche' determinabile nella sua massima estensione, sia anche determinata, atteso che la misura potra' essere ripetutamente prorogata (senza che cio' possa essere all'origine previsto), fino al massimo edittale della pena prevista per il reato piu' grave e, dunque, per una durata comunemente assai superiore rispetto a quella della pena in concreto inflitta. In questo modo, l'attuale assetto normativo delineato dall'intrecciarsi delle norme sulla proroga delle misure di sicurezza e di quelle sul regime differenziato realizza una lesione del principio di proporzione rispetto ai reati gia' commessi, consentendosi l'applicazione di una sanzione penale - che gia' la Corte Strasburgo, nella gia' ricordata sentenza 17 dicembre 2009, ric. n. 9359/04, M. c. Germania, ha qualificato come «pena» - non piu' proporzionata colpevolezza dell'autore per il reato commesso (intesa come giudizio di rimproverabilita' soggettiva parametrata alla gravita' della violazione). E', inoltre, evidente che sino a quando l'internato sara' sottoposto al regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale non potra' accedere a misure extramurarie (licenze trattamentali o finali di esperimento) rendendo pressoche' impossibile sperimentazione di un effettivo percorso di recupero e percio' anche la revoca o comunque la sostituzione della misura di sicurezza detentiva; tanto piu' che il perdurare della applicazione del regime differenziato, avendo come presupposto la (mera) possibilita' di riprendere i collegamenti con la criminalita' organizzata, presuppone una situazione che non consente di escludere la perdurante pericolosita' sociale del soggetto. La sottoposizione al regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale di un internato in misura di sicurezza detentiva altera, cosi', anche il fisiologico meccanismo delle proroghe, non consentendo al sottoposto di accedere alle misure volte a graduale reinserimento e ostacolando, ontologicamente, gli ordinari elementi del trattamento (tra cui i frequenti contatti con l'ambiente familiare), per questa via consentendo la sottoposizione dell'internato a una sanzione restrittiva di durata tendenzialmente indeterminata (ancorche' determinabile, come detto nella sua massima estensione). Cio' in quanto la proroga della misura di sicurezza tendenzialmente conduce alla proroga dell'art. 41-bis, ordinanza penale e viceversa, secondo una relazione di reciproca interferenza. Soprattutto, pero', la disciplina censurata comporta, come anticipato, un effetto moltiplicatore del trattamento sanzionatorio, che viene sostanzialmente replicato, al di fuori del giusto processo di cognizione, con caratteri di assoluta identita', per una durata ulteriore che puo' essere addirittura superiore a quella ritenuta «proporzionata» alla gravita' dell'offesa realizzata dal reato e potenzialmente pari (quantomeno) alla pena gia' applicata, con un effetto (quantomeno) di duplicazione della limitazione della liberta' personale (in caso di condanna inferiore al massimo edittale, con un effetto piu' che duplicato). Non appare manifestamente infondato, dunque, il dubbio che il descritto effetto di duplicazione dell'intervento sanzionatorio si ponga in contrasto, oltreche' con gli articoli 3 e 25 della Costituzione, con l'art. 117 della Costituzione, in relazione all'art. 7 Cedu, con gli articoli 27 e 111 della Costituzione e con il divieto di bis in idem affermato, in piu' occasioni, dalla Corte di Strasburgo in base all'art. 4, comma 1, protocollo n. 7 alla Convenzione europea. Infatti, come gia' osservato, la Corte Edu, con la sua giurisprudenza sulla Sicherungsverwahrung tedesca, ha sottolineato come tale misura di sicurezza costituisca, sostanzialmente, una pena, condividendone funzione e modalita' esecutive. E l'effetto di duplicazione finisce per rendere il sistema dualista accolto dal nostro ordinamento uno strumento che, per i soggetti imputabili, realizza un aggravamento eccessivo della risposta sanzionatone, al di la' dei limiti della colpevolezza, in mera funzione di contenimento della pericolosita' sociale, senza che il principio di proporzione, radicato negli articoli 3 e 27 della Costituzione, consenta di realizzare quell'argine alle istanze preventive che gli e' proprio. Dunque, non puo' ritenersi manifestamente infondato il dubbio che, nello spazio giuridico europeo, le misure di sicurezza per soggetti imputabili siano incompatibili con la garanzia fondamentale del ne bis in idem se le stesse non risultano realmente differenziabili dalla pena, non soltanto a causa della loro diversa finalita', ma soprattutto in ragione di modalita' di esecuzione radicalmente differenziate. Ne consegue, conclusivamente, un ulteriore profilo di non manifesta infondatezza del ventilato contrasto tra l'art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, ordinanza penale e, per il tramite del parametro interposto dell'art. 117 della Costituzione, l'art. 4, comma 1, protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, che, stabilendo che nessuno puo' essere nuovamente punito per lo stesso reato («... punished again (...) for an offence for which he has already been finally (...) convicted...»), parrebbe non consentire nemmeno una sostanziale duplicazione della pena, realizzata attraverso l'applicazione di un regime restrittivo che, al di la' del diverso nomen juris, non e' connotato da alcuna differenziazione, in positivo, del relativo trattamento penitenziario. 9. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 25, 27, 111 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli 7 Cedu e 4, protocollo n. 7 Cedu, la questione di legittimita' costituzionale dei commi 2 e 2-quater dell'art. 41-bis della legge del 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art. 2, comma 25, lettera f), n. 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui prevedono la facolta' di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nei comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente Infondata, in riferimento agli articoli 3, 25, 27, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli 7 Cedu e 4, protocollo n. 7 Cedu, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, della legge del 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevedono la facolta' di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva. Sospende il presente procedimento. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall'art. 23, ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87. Cosi' deciso il 10 settembre 2020. Il Presidente: Tomassi Il consigliere estensore: Renoldi