N. 12 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 novembre 2021

Ordinanza del 2 novembre 2020 della Corte di cassazione  sul  ricorso
proposto da N. S. c/Ministero della Giustizia. 
 
Ordinamento penitenziario - Regime speciale di detenzione - Internati
  per determinati reati assoggettati a misura di sicurezza  detentiva
  - Facolta' di sospendere l'applicazione  delle  normali  regole  di
  trattamento,  con  adozione  obbligatoria  delle  misure   speciali
  previste. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento  penitenziario
  e sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della
  liberta'), art. 41-bis, commi 2 e 2-quater. 
(GU n.6 del 10-2-2021 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Prima sezione penale 
 
    Composta da: 
      Marlastefania Di Tomassi - Presidente - 
      Angela Tardio 
      Palma Talerico 
      Francesco Aliffi 
      Carlo Renoldi - Relatore - 
    Ha pronunciato la seguente  ordinanza  sul  ricorso  proposto  da
N.S., nato a ... avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di
Roma in data 12 dicembre 2019; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Rendidi; 
    Letta la requisitoria del  pubblico  ministero,  in  persona  del
sostituto procuratore  generale  Domenico  Seccia,  che  ha  concluso
chiedendo la declaratoria di inammissibilita' del ricorso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. S.N. e' stato definitivamente condannato: 
      1)  con  sentenza  in  data  30  novembre  2007   del   giudice
dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, irrevocabile il  27
luglio 2008,  per  il  reato  continuato  di  incendio  aggravato  in
concorso (articoli 110, 423, 112, comma primo, n. 1, 61,  n.  2,  del
codice penale, 7, decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152), commesso  il
2 dicembre 2002 e di tentata estorsione  in  concorso  (articoli  56,
110, 629, commi primo e secondo, 112, comma primo, n. 1,  del  codice
penale), commesso in epoca anteriore e prossima al 2  dicembre  2002,
alla pena di quattro anni di reclusione e di 1.200,00 euro di  multa:
pena detentiva eseguita dal 1° agosto 2004 al 1° agosto 2008; 
      2) con sentenza in data 22 aprile 2013 della Corte  di  appello
di Napoli, irrevocabile il 25 novembre 2014,  che  in  riforma  della
sentenza in data 22 marzo 2004 del Tribunale  di  Santa  Maria  Capua
Vetere, lo ha ritenuto responsabile del reato  associazione  di  tipo
mafioso (art. 416-bis, commi primo, terzo, quarto,  quinto  e  ottavo
del codice penale) accertato fino al 1996, con  condotta  perdurante,
alla pena di dieci anni di reclusione, cosi rideterminata  a  seguito
del riconoscimento della continuazione  con  i  fatti  oggetto  della
sentenza  sub  1)  e  in  essa  assorbita  la   pena   inflitta   con
quest'ultima,  con  applicazione  della  misura  di  sicurezza  della
liberta' vigilata per la durata di due anni; 
      3) con sentenza in data 6 dicembre 2013 della Corte di  appello
di Napoli, emessa in riforma della sentenza in data 20  luglio  2011,
pronunciata in esito a giudizio abbreviato dal  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale di  Napoli,  irrevocabile  il  17  febbraio
2015, alla  pena  di  otto  anni  di  reclusione,  per  il  reato  di
associazione di tipo  mafioso  (art.  416-bis,  commi  primo,  terzo,
quarto,  quinto  e  ottavo,  del  codice  penale),  con  la  recidiva
reiterata specifica (art. 99, commi primo, secondo, n. 1, quarto, del
codice penale), accertato dal 1° agosto 2004 e fino al novembre 2009,
con applicazione della misura di sicurezza  della  liberta'  vigilata
per la durata di due anni. 
    Dette condanne sono state, poi, unificate  nel  provvedimento  di
cumulo emesso il 15 dicembre  2015  dal  Procuratore  generale  della
Repubblica presso la Corte di appello  di  Napoli,  notificato  il  4
gennaio 2016, che ha determinato la pena da scontare  in  quattordici
di anni reclusione, con applicazione della misura di sicurezza  della
liberta' vigilata per la durata di due anni. 
    Da tale pena principale sono stati detratti,  a  seguito  di  due
provvedimenti emessi ex art. 657 del codice di procedura  penale  dai
Procuratore generale della Repubblica di Napoli,  rispettivamente  in
data 29 dicembre 2015 e 4 gennaio  2016,  il  periodo  di  reclusione
patita  dal  1°  agosto  2004  al  1°  agosto  2008   (corrispondente
all'espiazione  della  pena  inflitta  in  relazione  alla   sentenza
indicata sub 1), il periodo di un anno, undici mesi,  tre  giorni  di
reclusione,  corrispondente  alla  custodia  cautelare  applicata  in
relazione alla sentenza indicata sub 2),  pronunciata  il  22  aprile
2013 dalla Corte di appello di Napoli (dal 30 aprile 1998 al 2 aprile
2000), nonche' il periodo di quattrocentocinque giorni  di  riduzione
della pena per liberazione anticipata relativamente ai  semestri  dal
31 marzo 2010 al 30 settembre 2014, disposta con ordinanza in data 14
ottobre 2015 del Magistrato di sorveglianza  di  Milano,  sicche'  la
pena residua da eseguire e' stata determinata in otto anni, nove mesi
e sedici giorni di reclusione. Pena  che,  secondo  quanto  riportato
nella posizione giuridica agli atti, e' stata  integralmente  espiata
dal 31 marzo 2010 al 4 gennaio 2016. 
    Va rilevato, inoltre, che nel corso  del  periodo  di  esecuzione
della predetta pena detentiva: 
      1) con ordinanza in data 13 gennaio 2012 della Corte di  assise
di appello di Napoli era stata  disposta  la  custodia  cautelare  in
carcere di N., notificata in pari data all'interessato, il quale  era
stato condannato, con sentenza della stessa Corte in data 19 dicembre
2011, emessa in riforma di quella della  Corte  di  assise  di  Santa
Maria Capua Vetere del 5 aprile 2007, alla  pena  dell'ergastolo  per
omicidio pluriaggravato, commesso al fine di agevolare e  consolidare
il predominio dell'associazione camorristica  di  appartenenza  (clan
dei casalesi), misura rimasta in esecuzione fino al  9  maggio  2013,
data nella quale la Corte di cassazione ha annullato, con rinvio,  la
sentenza  di  condanna  e,  con  essa,  anche  la  misura  cautelare,
disponendone contestualmente la immediata cessazione (non  risultando
che la condanna sia stata confermata nel giudizio di rinvio, ne'  che
la custodia cautelare subita sia stata riconosciuta  in  fungibilita'
con le pene detentive definitive); 
      2) con ordinanza del Magistrato di sorveglianza  di  Milano  in
data 25 ottobre 2013,  notificata  il  31  ottobre  2013,  e'  stata,
quindi, disposta nei confronti di N., l'applicazione della misura  di
sicurezza della casa di  lavoro,  per  la  durata  di  due  anni,  in
conseguenza della dichiarazione di delinquenza abituale pronunciata a
suo carico ex  art.  103  del  codice  penale,  da  cui  e'  derivata
l'emissione, da parte della Procura milanese, dell'ordine di consegna
e di accompagnamento del 25 marzo 2014. 
    L'esecuzione della misura di sicurezza ha avuto inizio a  partire
dal 6 gennaio 2015, con fine dell'esecuzione  prevista,  attualmente,
per il 6 gennaio 2021, essendo stata prorogata con le  ordinanze  del
Magistrato di sorveglianza di Udine in data 26 ottobre 2017 e in data
20 novembre 2019, rispettivamente per il periodo di due anni e di  un
anno. 
    Inoltre, per quanto di interesse in  questa  sede,  va  ricordato
che, nei confronti dello stesso N., e' stata  disposta,  con  decreto
del Ministro della giustizia del 24 luglio 2018, la proroga,  per  la
durata di due  anni,  del  regime  differenziato  previsto  dall'art.
41-bis, comma 2, ordinanza penale,  applicatogli  a  partire  dal  31
luglio 2010 e gia' prorogato, in precedenza, con decreto ministeriale
in data 28 luglio 2016. 
    1.1.  Avverso  l'ultimo  provvedimento  di  proroga  del   regime
differenziato, il difensore dell'internato ha presentato  reclamo  al
Tribunale  di  sorveglianza  di  Roma,   deducendo,   da   un   lato,
l'illegittimita' costituzionale dell'art.  41-bis,  ordinanza  penale
nella parte in cui dispone che tale  regime  possa  essere  applicato
anche all'internato, con una sostanziale equiparazione tra la  misura
di sicurezza e  la  reclusione  vera  e  propria,  senza  un  termine
prestabilito, censurandosi che la sottoposizione al  regime  speciale
abbia reso impossibile  lo  svolgimento  di  attivita'  trattamentali
presso  la  casa  di  lavoro;  e,  dall'altro  lato,   l'assenza   di
circostanze  nuove  idonee  ad  affermare  il  rischio   di   attuali
collegamenti  con   l'organizzazione   criminale   di   appartenenza,
lamentando, altresi', la mancata considerazione dell'annullamento con
rinvio di una sentenza di condanna per omicidio, disposto dalla Corte
di cassazione. 
    1.2.  Con  ordinanza  del  12  dicembre  2019,  il  Tribunale  di
sorveglianza ha respinto il  reclamo.  Dopo  avere  premesso  che  la
proroga del regime differenziato deve essere  disposta,  in  base  al
comma 2-bis dell'art. 41-bis,  ordinanza  penale,  nel  caso  in  cui
risulti la persistente capacita' del detenuto (o  dell'internato)  di
tenere contatti con le organizzazioni criminali, senza che cio' debba
necessariamente tradursi nella presenza di elementi nuovi  e  diversi
rispetto a quelli gia' posti alla  base  delle  precedenti  proroghe,
quando quelli  gia'  esistenti,  in  assenza  di  elementi  di  senso
contrario, per la loro consistenza e  pregnanza  siano  in  grado  di
dimostrare la persistenza attuale della  capacita'  del  detenuto  di
mantenere   i   collegamenti   con   l'associazione   criminale    di
appartenenza, il  Collegio  capitolino  ha  ritenuto  sussistente  il
concreto pericolo  che  S.N.,  ove  sottoposto  al  regime  detentivo
ordinario, possa mantenere i suddetti contatti, contribuendo, con  le
proprie personali «conoscenze» e capacita' professionali, a sostenere
e a gestire, in termini decisionali, le attivita' illecite del gruppo
malavitoso di appartenenza. Cio' in ragione,  innanzitutto,  del  suo
«spessore criminale», ritenuto alla luce del fatto che: N.  e'  stato
condannato per associazione di stampo mafioso, commesso fino al 2009;
a  suo  carico  risulta  pendente  un  procedimento  per  un  duplice
omicidio, pur risalente nel tempo, commesso nell'ambito del sodalizio
criminale di appartenenza, per il quale e' stato condannato  in  sede
di merito, benche' la sentenza di appello sia  stata  annullata,  con
rinvio, dalla Corte  di  cassazione;  dalle  note  informative  degli
organi investigativi emerge che egli e' elemento di rilievo del  clan
dei C. e, in particolare, di una  delle  articolazioni  interne  piu'
potenti, facente capo a M.Z., al cui interno ha mostrato una notevole
capacita' di far «brillare» gli ordigni utilizzati per le  estorsioni
e ha realizzato alcuni dei bunker per la latitanza del capo del clan,
durata quindici anni e terminata soltanto nel 2011. 
    Inoltre, il  predetto  giudizio  e'  stata  fondato  sull'attuale
operativita' del clan  di  riferimento,  ritenuta  comprovata:  dalle
recenti indagini che hanno coinvolto il clan  S.,  alleato  a  quello
degli Z., e quello del C., a riprova della attuale fibrillazione  del
panorama criminale presente sul territorio; dall'emissione di tredici
ordinanze  di  custodia  cautelare  in  carcere  nei   confronti   di
amministratori pubblici e imprenditori affiliati al  clan  che  hanno
monopolizzato  appalti  per  la  manutenzione   della   rete   idrica
regionale, di ventiquattro misure cautelari riguardanti  gli  appalti
dell'Ospedale civile di ...., nonche'  dal  sequestro  di  un  centro
commerciale ritenuto nella disponibilita' del capo  del  clan,  M.Z.,
del valore di 60 milioni di euro, il cui  acquisto  sarebbe  avvenuto
grazie agli investimenti e alle attivita' svolte in suo sostegno  dal
clan; dalle numerose operazioni che hanno  interessato  esponenti  di
vertice, affiliati e fiancheggiatori del clan, tra cui l'ordinanza di
custodia cautelare in carcere eseguita il 3 marzo 2018 nei  confronti
di M.B. e altri, ritenuti affiliati al clan del C. ... e responsabili
di ricettazione aggravata dal metodo mafioso,  associazione  mafiosa,
estorsione, detenzione di  armi  da  guerra  e  materiale  esplosivo,
nonche'   detenzione   e   porto   di   armi   clandestine,   nonche'
dall'ordinanza di custodia  cautelare  in  carcere,  eseguita  il  12
aprile 2018, nei confronti di N.I.,  affiliato  al  clan  e  ritenuto
responsabile di associazione mafiosa; dallo stato in liberta' di Aldo
N., fedelissimo del boss M.Z., di W.S., figlio del capo del clan  F.,
di C.Z., di I.S. e di C.R. 
    Quanto  all'eccezione  di  incostituzionalita'  sollevata   dalla
difesa,  il  Tribunale  ha  osservato  che  non  vi   sono   elementi
comprovanti che il regime speciale applicato a S.N. abbia trasformato
la misura di sicurezza in una vera e propria pena detentiva, peraltro
senza   limiti   di   durata,   considerato   che   dalla   relazione
comportamentale della Casa circondariale di in data 6  dicembre  2019
e' risultato che egli ha svolto attivita' lavorativa presso la locale
serra, in qualita' di ortolano e che, al momento, il medesimo  lavora
con mansioni di addetto alle pulizie e alla distribuzione  dei  pasti
all'interno della sezione di appartenenza. 
    2.  Avverso  la  predetta  ordinanza  ha  proposto  ricorso   per
cassazione lo stesso N., per mezzo dei difensori di fiducia, avvocati
Valerio Vianello Accorretti e Piera Farina,  deducendo  due  distinti
motivi di impugnazione. 
    2.1. Con il primo motivo, il  ricorso  denuncia  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 41-bis, ordinanza penale, in relazione  agli
articoli 208 e 216 del codice penale, per violazione  degli  articoli
3,  27,  comma  terzo,  della  Costituzione  e  dell'art.  117  della
Costituzione in relazione all'art. 3 Convenzione EDU, nella parte  in
cui tale disposizione  prevede  che  il  regime  differenziato  possa
applicarsi anche ai soggetti  internati;  eccezione  gia'  presentata
nella  fase  di  merito  e  ritenuta  manifestamente  infondata   dal
Tribunale  di  sorveglianza  sul  rilievo  che  non   sussisterebbero
elementi per ritenere che il regime speciale concretamente  applicato
a N., «svuoti» di contenuto la misura di sicurezza cui e' sottoposto,
trasformandola in una vera e propria pena detentiva senza  limiti  di
durata. 
    Dopo aver ricordato che, nel vigente ordinamento,  le  misure  di
sicurezza personali non hanno un carattere punitivo, ma svolgono  una
finalita' rieducativo-risocializzante finalizzata a neutralizzare gli
elementi  di  pericolosita'  sociale  che   ne   hanno   giustificato
l'applicazione, il ricorso lamenta che in caso di applicazione di una
misura detentiva, la sottoposizione al regime differenziato  previsto
dall'art.  41-bis,  ordinanza  penale  rischierebbe  di  assoggettare
l'internato a una misura perpetua, atteso che proprio la  proroga  di
tale regime finirebbe  per  sottoporlo,  senza  un  limite  temporale
prevedibile, a una  vera  e  propria  detenzione  inframuraria,  dopo
l'intera espiazione della sua condanna. E  cio'  tanto  piu'  ove  si
consideri  che  le  caratteristiche  del  regime  differenziato,  che
sottopone l'internato alla chiusura nella  propria  camera  detentiva
per  21  o  22  ore  al  giorno,  renderebbero  vani  gli   obiettivi
trattamentali della casa di lavoro, posto che le  ore  rimanenti  non
sarebbero, comunque, sufficienti  a  svolgere  l'eventuale  attivita'
lavorativa. 
    Sotto altro profilo, la contemporanea applicazione  della  misura
di sicurezza e del regime detentivo  differenziato  ex  art.  41-bis,
ordinanza penale non consentirebbe, di fatto, l'accesso alle  licenze
trattamentali di cui all'art. 53,  ordinanza  penale,  sempre  negate
all'internato, impedendogli di ottenere, nelle successive valutazioni
sulla pericolosita' da parte  del  magistrato  di  sorveglianza,  una
positiva valutazione del suo percorso in misura di sicurezza. Dunque,
la contestuale applicazione di una misura di  sicurezza  detentiva  e
del regime di cui all'art. 41-bis, ordinanza penale  concretizzerebbe
anche  una  discriminazione,  in   violazione   dell'art.   3   della
Costituzione e dell'art. 14  Cedu,  rispetto  agli  altri  internati,
sottoposti alla medesima misura ma non ristretti in  regime  ex  art.
41-bis, ordinanza penale, i quali sarebbero posti nella  possibilita'
di svolgere le attivita' tipiche della casa di lavoro e  di  ottenere
una  pronuncia  di  cessata  pericolosita'  da  parte   del   giudice
competente. 
    Inoltre,  la  contemporanea  applicazione  di   questi   istituti
violerebbe  l'art.  27,  comma  terzo,  della  Costituzione,  poiche'
annullerebbe il fine rieducativo e risocializzante della misura,  non
permettendo al soggetto di esservi sottoposto  in  maniera  adeguata;
nonche' l'art. 117 della Costituzione e l'art.  3  della  Convenzione
Edu, atteso che la misura di sicurezza verrebbe  trasformata  in  una
illegittima  prosecuzione  della  pena  detentiva,  gia'  interamente
scontata,  sottoponendo  il  soggetto  internato  a  un   trattamento
detentivo equivalente senza alcun titolo di condanna e  senza  alcuna
scadenza temporale prevedibile. 
    2.2. Con il secondo motivo, il  ricorso  censura,  ex  art.  606,
comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, la  inosservanza
o erronea  applicazione  dell'art.  41-  bis,  ordinanza  penale,  in
ragione della apparenza della motivazione  dell'ordinanza  impugnata,
in quanto non concretamente riferibile alla posizione del ricorrente,
non pertinente rispetto agli argomenti difensivi sviluppati  in  sede
di reclamo e «distorsiva» rispetto a quanto stabilito nelle  sentenze
di merito relative al ricorrente,  con  conseguente  configurabilita'
del vizio di violazione di legge. 
    Benche'  il  reclamo  abbia  evidenziato   come   le   risultanze
investigative valorizzate dal provvedimento di proroga  concernessero
fatti ormai datati nel tempo, e come N. non fosse piu'  detenuto,  ma
solo  internato  presso,  la  casa  di  lavoro,   il   Tribunale   di
sorveglianza si sarebbe limitato a menzionare  soltanto  le  condanne
subite dal soggetto e le ultime operazioni di polizia  che  avrebbero
interessato il clan di appartenenza,  affermando  che  tali  elementi
giustificassero la proroga del  regime  detentivo  differenziato.  In
questo modo, tuttavia, l'ordinanza avrebbe obliterato il fatto che N.
aveva ricoperto, all'interno della consorteria mafiosa, il  ruolo  di
mero affiliato di M.Z., senza ricoprire alcun ruolo apicale;  che  in
relazione all'imputazione di omicidio la  Corte  di  cassazione,  nel
disporre l'annullamento della sentenza di appello, aveva sottolineato
le carenze della motivazione  in  relazione  alla  rilevanza  causale
della condotta ascritta allo stesso N.; che la nota della D.N.A.  del
18 luglio 2018 avrebbe riferito  che,  secondo  le  stesse  Forze  di
polizia, la ..., di Z., di  cui  l'ordinanza  impugnata  non  avrebbe
dimostrato la «continuita' operativa», non sarebbe  piu'  attiva,  in
quanto, dal 2009, non verrebbero commessi omicidi; che  il  Tribunale
di sorveglianza  sarebbe  «rimasto  indifferente»  al  fatto  che  la
condotta partecipativa di N. si arresterebbe al 2006 e che, dopo tale
data, non vi sarebbero  ulteriori  addebiti  riferiti  all'internato,
nonche' alla circostanza che la maggior parte  dei  sodali  del  clan
sarebbe detenuto e che N.,  avrebbe  integralmente  espiato  la  pena
inflittagli; e avrebbe, infine, obliterato gli esiti del  trattamento
rieducativo sin qui portato avanti. 
    In questo modo,  dunque,  il  Tribunale  capitolino  non  avrebbe
motivato in modo autonomo e non si sarebbe soffermato sulla  concreta
e  attuale  pericolosita'  dell'odierno  ricorrente,  analizzando  la
potenziale sussistenza di contatti con la  criminalita'  organizzata,
tali da impedire l'esecuzione della misura  di  sicurezza  presso  la
casa di lavoro, di fatto ponendo a carico dell'internato  l'onere  di
dimostrare  la  cessazione  dei  collegamenti  con  la   criminalita'
organizzata, in patente contrasto con la  consolidata  giurisprudenza
di legittimita', in tal modo pervenendo  a  una  interpretazione  che
renderebbe  incostituzionale  il  comma   2-bis   dell'art.   41-bis,
ordinanza  penale  Ne'  l'ordinanza  avrebbe  indicato  i   soggetti,
attualmente in  liberta'  e  appartenenti  al  clan,  che  potrebbero
rimettersi in contatto con lo stesso N. 
    3. In data  15  maggio  2020,  e'  pervenuta  in  Cancelleria  la
requisitoria scritta del Procuratore generale  presso  questa  Corte,
con la quale e' stata sollecitata la declaratoria di inammissibilita'
del ricorso. 
    Quanto  alla  doglianza   prospettata   nel   primo   motivo   di
impugnazione,  la  questione  sarebbe  manifestamente  infondata,  in
quanto, premessa la  legittimita'  costituzionale  dell'art.  41-bis,
ordinanza penale, non contrastante con la funzione rieducativa  della
pena (si cita Corte costituzionale, ordinanze 13  dicembre  2004,  n.
417 e 25 maggio 2010, n. 190), l'equiparazione tra i detenuti  e  gli
internati non sarebbe affatto  irragionevole,  dal  momento  che  per
entrambe le categorie di ristretti potrebbero ricorrere  le  esigenze
di sicurezza che, con il suddetto regime, si intenderebbero tutelare. 
    Quanto al secondo motivo, ricordato che in  subiecta  materia  il
ricorso e' ammissibile unicamente per violazione di legge, si osserva
che fa motivazione dell'ordinanza impugnata risulterebbe coerente con
il dato normativo e con i principi  di  diritto  fissati  in  materia
dalla costante interpretazione giurisprudenziale. 
    4. In data 15 giugno 2020 e' pervenuta una memoria a firma  degli
avvocati Piera Farina e Valerio Vianello Accorretti, contenente «note
di replica»  alla  requisitoria  del  Procuratore  generale,  con  la
quale i due  difensori  chiedono,  nell'interesse  di  S.N.,  che  il
Collegio voglia sollevare, in relazione al primo motivo del  ricorso,
questione di costituzionalita' dell'art.  41-bis,  ordinanza  penale,
atteso che, come gia' dedotto dinanzi al Tribunale di sorveglianza di
Roma, la contemporanea applicazione del regime differenziato e  della
misura di sicurezza detentiva snaturerebbe la ratio e  gli  obiettivi
di quest'ultima. Cio' in quanto  le  regole  del  regime  derogatorio
impedirebbero di fruire degli strumenti rieducativi  e  trattamentali
tipici della casa di lavoro, rendendo il  periodo  di  sottoposizione
nella sostanza una prosecuzione - senza scadenza prefissata  e  senza
titolo esecutivo - di una vera e propria detenzione, tra l'altro  con
le restrizioni derogatorie  peculiari  del  regime  di  cui  all'art.
41-bis, ordinanza penale. 
    Inoltre, la sentenza n. 417 del 2004 della  Corte  costituzionale
non riguarderebbe la coerenza tra il regime di cui  all'art.  41-bis,
ordinanza penale e la finalita' rieducativa  della  pena,  bensi'  la
ritenuta costituzionalita' di alcune innovazioni legislative che,  in
tesi, avrebbero introdotto  una  presunzione  di  pericolosita',  con
applicazioni indiscriminate del regime  derogatorio,  superabili  con
uno sforzo dimostrativo a carico della  sola  difesa.  Del  pari,  la
sentenza n. 190 del  2010  della  Corte  costituzionale,  si  sarebbe
occupata  soltanto  della  ritenuta  eliminazione,  a  seguito  della
riforma del 2009, di ogni controllo sulla legalita' del provvedimento
ministeriale e della legittimita' del limite delle due ore d'aria. 
    Con la sentenza n. 376 del 1997, invece, il Giudice delle  leggi,
nel ritenere compatibile il regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale
con la finalita' rieducativa della pena, avrebbe specificato  che  la
sottoposizione  a  tale  disciplina  di  rigore  possa   considerarsi
legittima solo quando non comporti la soppressione o  la  sospensione
delle attivita' di osservazione  e  di  trattamento  individualizzato
previste dall'art. 13, ordinanza  penale,  ne'  la  preclusione  alla
partecipazione  del  detenuto  ad  attivita'  culturali,  ricreative,
sportive e di  altro  genere,  volte  alla  realizzazione  della  sua
personalita', le quali dovrebbero semmai essere  organizzate,  per  i
detenuti soggetti a tale regime, con modalita' idonee  a  impedire  i
contratti e i collegamenti che il provvedimento ministeriale  intende
evitare. E a riprova di cio', la stessa Corte  costituzionale,  negli
anni,  avrebbe  censurato  alcune  disposizioni   penitenziarie   che
regolamentavano  aspetti  del  regime  differenziato  estranei   alle
esigenze di eccezionale tutela della sicurezza che lo giustificavano. 
    In  ogni  caso,  con  tale  pronuncia  la  Consulta  non  avrebbe
minimamente  affrontato  la  questione  della  particolare  posizione
dell'internato sottoposto al regime dell'art. 41-bis, che secondo  la
difesa sarebbe chiaramente diversa rispetto al detenuto, che si trovi
in attesa di giudizio o in esecuzione di una condanna. Fermo restando
che essa avrebbe comunque  ribadito  che  l'applicazione  del  regime
derogatorio  e'  legittima  sempre  che  non  snaturi  del  tutto  le
finalita' della pena, ovvero, nel caso di  specie,  della  misura  di
sicurezza, travolgendo la necessita' di bilanciare i due interessi in
gioco. 
    Nel caso  in  esame,  invero,  l'applicazione  dell'art.  41-bis,
ordinanza  penale  non   lascerebbe   alcuno   spazio   al   percorso
trattamentale tipico della casa di lavoro,  configurando  chiaramente
una mera forma  di  detenzione,  priva  finanche  delle  possibilita'
trattamentali proprie della pena. 
    Per quanto, invece, attiene alle due sentenze emesse dalla  Corte
di cessazione, entrambe richiamate dal Procuratore  generale,  la  n.
4880 del 2015, pronunciata dalle sezioni unite, avrebbe riguardato la
natura  giuridica  della  confisca  nell'ambito   delle   misure   di
prevenzione personali; mentre  la  n.  22083  del  2011  della  Prima
sezione penale, occupandosi della questione qui invocata, avrebbe, da
un  lato,  ritenuto  manifestamente   infondata   la   questione   di
costituzionalita'  relativamente  alla   violazione   del   principio
rieducativo della pena e non della misura di sicurezza; e, dall'altro
lato, avrebbe considerato la questione come una  «generale  petizione
di principio», atteso che il ricorrente, in quel caso, in coincidenza
con il giudizio del Tribunale di sorveglianza di Roma sul reclamo, si
trovava a espiare la pena. Al contrarlo, N.  sarebbe  sottoposto,  da
anni, pur  essendo  internato,  alle  medesime  regole  penitenziarie
applicate ai detenuti condannati  assoggettati  al  regime  dell'art.
41-bis, senza poter individuare, diversamente da quanto avviene per i
detenuti, alcun traguardo temporale  ben  definito.  E  pacificamente
egli  non  starebbe  fruendo,  neanche   in   parte,   del   percorso
trattamentale tipico delle misure di sicurezza detentive,  ne'  tanto
meno del trattamento rieducativo proposto ai detenuti  in  esecuzione
pena, trovandosi a eseguire una restrizione meramente punitiva e  non
preventiva, non comprendendosi su quali aspetti si potrebbe valutare,
in futuro, l'evoluzione della sua personalita'. 
    In  questo  modo,  la  sottoposizione  al  regime   differenziato
dell'internato paleserebbe  quell'indebito  sbilanciamento  a  favore
delle esigenze di sicurezza, peraltro incerte nella loro  prospettiva
temporale e senza alcuna protezione delle  finalita'  risocializzanti
tipiche della misura di sicurezza detentiva, che  contrasterebbe  con
la prospettiva delineata  dalla  Corte  costituzionale  con  la  gia'
citata sentenza n. 376 del 1997. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  Osserva  il  Collegio  che  la  questione   di   legittimita'
costituzionale  dedotta  con  il   primo   motivo   di   ricorso;   e
ulteriormente articolata in sede di memoria difensiva, e'  certamente
rilevante ai fini del presente giudizio e non  appare  manifestamente
infondata. 
    2.   In   punto   di   rilevanza,   deve   infatti    osservarsi,
preliminarmente, che, essendo oggetto  del  ricorso  la  proroga  del
regime differenziato dettato dall'art. 41-bis, ordinanza  penale,  il
controllo di legittimita'  e'  limitato  alla  violazione  di  legge,
sicche' il sindacato della Corte non  puo'  estendersi  al  controllo
dell'iter giustificativo della decisione, a meno che questo  sia  del
tutto mancante o apparente. 
    Tanto posto, le censure articolate nel secondo motivo di ricorso,
che, se fondate, renderebbero irrilevanti le questioni poste  con  il
primo, appaiono nella  sostanza  afferire  a  dedotti  difetti  della
motivazione che, pero', non solo non appare mancante o apparente,  ma
risulta anche corretta in diritto e coerente nella esposizione  degli
argomenti esposti. 
    Correttamente il Tribunale  di  sorveglianza  capitolino  ha,  in
particolare,  ricordato  che  la   proroga   del   regime   detentivo
differenziato di cui all'art. 41-bis, ordinanza  penale  puo'  essere
disposta ove sia stato accertato che la capacita' del  condannato  di
tenere contatti con l'associazione criminale  non  sia  venuta  meno,
tenuto conto di una serie di indicatori  sintomatici  dell'attualita'
del pericolo di collegamenti con l'esterno, indicati in  termini  non
esaustivi dal comma 2-bis del citato articolo e  non  necessariamente
sopravvenuti (sezione 1, n. 2660  del  9  ottobre  2018,  dep.  2019,
Vinciguerra, Rv. 274912), quali: il profilo criminale  del  soggetto,
la posizione dal medesimo  rivestita  in  seno  all'associazione,  la
perdurante operativita' del sodalizio e la  sopravvenienza  di  nuove
incriminazioni  non  precedentemente  valutate,   anche   considerata
l'assenza di elementi di fatto dimostrativi di un sopravvenuto  venir
meno di tale pericolo (sezione  5,  n.  40673  del  30  maggio  2012,
Badagliacca, Rv. 253713), che non possono identificarsi - con il mero
trascorrere  del  tempo   dalla   prima   applicazione   del   regime
differenziato, ne' essere rappresentati da un apodittico  e  generico
riferimento  a  non  meglio  precisati  risultati  dell'attivita'  di
trattamento penitenziario (sezione 1, n. 32337  del  3  luglio  2019,
Graviano, Rv. 276720). 
    E   lungo   tale   cornice   di    riferimento,    normativa    e
giurisprudenziale, sono stati indicati gli elementi di fatto idonei a
sorreggere il giudizio  di  probabilita'  di  un  ristabilimento  dei
collegamenti con la cosca  di  riferimento,  ovvero  che  N.  potesse
riannodare, ove sottratto al rigoroso regime  penitenziario  volto  a
impedire i contatti con l'esterno,  i  legami  con  il  sodalizio  di
appartenenza,  avuto   riguardo   al   suo   spessore   criminale   e
all'accertata  operativita'  del  gruppo  criminale  al   quale   era
risultato affiliato. 
    2.1. In questo modo, il Tribunale di sorveglianza  capitolino  ha
certamente assolto  all'obbligo  di  una  motivazione  giuridicamente
corretta e logicamente congrua, che peraltro si connota in termini di
autonomia  rispetto  al   provvedimento   ministeriale   oggetto   di
impugnazione, i cui passaggi valutativi sono stati fatti  oggetto  di
scrutinio giudiziale e non gia' di un acritico recepimento, sia  pure
a partire dal medesimo corredo fattuale. 
    Pertanto, non possono condividersi i  rilievi  difensivi  fondati
sulla prospettazione di vizi della motivazione di  tale  gravita'  da
ridondare sulla sua stessa esistenza e, in  particolare,  le  censure
relative  alla  asserita  pretermissione  di  elementi  asseritamente
decisivi dedotti in sede di reclamo, quali la circostanza che N.  non
avesse ricoperto, all'interno della  consorteria  mafiosa,  un  ruolo
apicale; che la sua  responsabilita'  per  il  duplice  omicidio  noi
sarebbe stata ancora accertata e, soprattutto, che la Z. non  sarebbe
piu' attiva, in quanto dal 2009 non verrebbero commessi omicidi e chi
la maggior parte dei sodali del clan sarebbe detenuto. 
    Come evidenziato nella parte «in fatto» (al § 1.2.) il  Tribunale
di sorveglianze non solo ha esaminato tali rilievi difensivi,  ma  ha
anche dato ad essi risposte plausibili, affermando come  l'internato,
pur non rivestendo posizioni autenticamente apicali, fosse, comunque,
molto vicino al capo indiscusso del sodalizio, al quale  era  legato,
oltre che da un rapporto di parentela, da un  relazione  strettamente
fiduciaria;  riconoscendo  che  il  duplice  omicidio  costituiva  un
semplice carico pendente,  dando  atto  anche  dall'annullamento  con
rinvio disposto da parte della Corte di cassazione; evidenziando come
l'attuale operativita' del clan  emergesse  da  plurimi  elementi  di
fatto, rispetto ai quali il ricorso non ha saputo  offrire  specifici
elementi  in  grado  di  confutarne   la   rilevanza   argomentativa,
limitandosi  a  richiamare  indimostrate  circostanze  di fatto  o  a
suggerire conclusioni nella sostanza ipotetiche. 
    Sicche' le censure paiono essere  anche  aspecifiche,  oltre  che
prive del necessario connotato di decisivita'. 
    2.2.  Ne  consegue  che  i  dubbi  di  legittimita'  costituzione
articolati nel primo motivo di ricorso assumono una precisa rilevanza
ai fini del presente giudizio, atteso che, ricorrendo  le  condizioni
per la proroga della  sotto  posizione  di  S.N.  al  regime  di  cui
all'art. 41-bis, ordinanza penale, l'eventuale  riconoscimento  della
fondatezza delle questioni proposte dispiegherebbe immediati  effetti
sul procedimento qui trattato. 
    3. Punto di partenza dell'analisi della questione sollevata e' la
considerazione  che,  storicamente,  pena  e  misura   di   sicurezza
svolgono, nel sistema penale, funzioni  ben  distinte.  La  prima  e'
«castigo»  inflitto  per  l'offesa  arrecata  con   reato   (funzione
retributiva), «promessa» di un male rivolto ai consociati in funzione
della  osservanza  del  precetto  penale  (funzione  di   prevenzione
generale)  e,  al   contempo,   concreto   intervento   sanzionatorio
sull'autore dell'illecito finalizzata  a  impedire  la  ricaduta  nel
reato (funzione di prevenzione speciale); la seconda, benche' non sia
priva di  connotazioni  general-preventive  ed  assuma  di  fatto  un
evidente carattere afflittivo, si connota essenzialmente in chiave di
prevenzione speciale, attuando un intervento finalizzato a  impedire,
per il futuro, la commissione di un reato da parte di  chi  un  reato
abbia commesso (salve le ipotesi di «quasi  reato»  di  cui  all'art.
202, comma terzo,  del  codice  penale)  e  rispetto,  al  quale  sia
probabile, in base agli indici dell'art. 133 del  codice  penale,  la
commissione di nuove violazioni della legge penale (cfr.,  art.  203,
comma secondo, del codice penale). 
    4. Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e  con
la progressiva evoluzione della giurisprudenza  costituzionale,  tale
distinzione, inizialmente ben nitida,  e'  progressivamente  divenuta
meno apprezzabile. 
    Infatti,  la  funzione   di   prevenzione   generale   e   quella
retributiva,   consustanziali   all'antologia   della   pena,   hanno
progressivamente   perso,   nel   quadro   di    una    ricostruzione
polifunzionale del complesso dei suoi scopi, l'originaria centralita'
a favore della finalita' rieducativa, che  l'art.  27,  comma  terzo,
della Costituzione, significativamente individua  come  indefettiblie
obiettivo della pena e che la Corte costituzionale ha  affermato  non
possa mai essere obliterata rispetto alle altre funzioni (cfr.  Corte
costituzionale n. 149 del 2018, che ha  espressamente  affermato  «Il
principio  della  non  sacrificabilita'  della  funzione  rieducativa
sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»).  Con
riferimento alle misure di sicurezza,  il  profilo  specialpreventivo
resta, invece, assolutamente centrale sul piano non  solo  funzionale
ma anche necessariamente strutturale, essendo  ormai  consolidato  il
principio secondo cui  esse  «ex  se  tendono  ad  un  risultato  che
eguaglia quella rieducazione, cui deve  mirare  la  pena»  (v.  Corte
costituzionale n. 19 del 1974; negli stessi termini  v.  sentenze  n.
168 del 1972 e 68 del 1967). E tutto cio' in un quadro complessivo in
cui la funzione di prevenzione speciale, cui l'intervento rieducativo
certamente pertiene, e' riferita sia alla pena, sia  alla  misura  di
sicurezza, come  ben  rammentato  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 291 del 2013, ove si afferma che  «la  tutela  preventiva
dei beni giuridici, e,  dunque,  la  prevenzione,  nelle  sue  forme,
generale e speciale, connota, sia le misure di  prevenzione,  sia  la
pena, nonche' le misure di sicurezza, che, quindi, condividono  tutte
una  finalita'  preventiva».  E  del  resto,  coerentemente,  non  va
dimenticato che gli articoli 1 e 13, ordinanza penale,  orientano  il
trattamento  penitenziario  in  chiave  risocializzante  sia  per   i
detenuti che per gli internati; e che analoga previsione e' contenuta
nell'art. 1, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica  30
giugno  2000,  n.  230  (recante   il   Regolamento   recante   norme
sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e  limitative
della  liberta')  afferma  che  «il   trattamento   rieducativo   dei
condannati e degli internati e' diretto,  inoltre,  a  promuovere  un
processo di modificazione  delle  condizioni  e  degli  atteggiamenti
personali, nonche' delle relazioni familiari e sociali  che  sono  di
ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale». 
    5. Se alla misura di sicurezza appare estranea, quantomeno in via
di principio, la funzione retributiva, ad  essa  appartiene,  invece,
pienamente  e  indefettibilmente  quella  di  risocializzazione,  che
costituisce, nella prospettiva del primato della persona umana  (art.
2  della  Costituzione),  il  significato  proprio  che  deve  essere
attribuito alla parola «rieducazione».  Infatti,  per  gli  internati
imputabili, cui per ragioni  di  sintesi  e'  bene  circoscrivere  la
presente  disamina,  il  trattamento  previsto  consiste  in   misure
«risocializzanti»  realizzate  attraverso  interventi   «rieducativi»
degli  operatori  penitenziari  (educatore,  psicologo,   criminologo
ecc.), di sperimentazione esterna (licenze trattamentali e finali  di
esperimento), interventi di sostegno esterno da parte  dell'Uepe  (su
famiglia, lavoro, ambiente sociale in genere). 
    Coerentemente, sul piano strettamente normativo,  il  trattamento
penitenziario previsto per i detenuti e per  gli  internati  presenta
talune significative  differenze,  pur  innestantesi  in  un  assetto
regolativo abbastanza simile, atteso che, come detto,  le  rispettive
funzioni si sono andate progressivamente soprapponendo, anche se pena
e  misura  di   sicurezza   non   possono   certamente   considerarsi
equivalenti. 
    E, proprio in ragione delle differenze, che  tuttora  permangono,
sul piano dei presupposti che ne  legittimano  l'applicazione,  della
natura e degli scopi,  l'ordinamento  penitenziario  ha  previsto  la
realizzazione  di  istituti  (o  di  sezioni  di  istituti)  dedicati
all'esecuzione delle misure  di  sicurezza,  i  quali  devano  essere
distinti da quelli per l'esecuzione della pena (v. articoli 62 e  64,
ordinanza penale). E per la stessa ragione,  l'ordinamento  contempla
delle  differenze  che  attengono,  in   particolare,   alle   misure
extramurarie applicabili alle due tipologie di sanzione penale,  come
nel caso della cd. licenza finale di esperimento ex art. 53, comma 4,
ordinanza penale, prevista  solo  per  le  misure  di  sicurezza,  in
relazione alle quali non sono invece concedibili permessi premio, nel
caso della applicazione della semiliberta', unica misura  alternativa
prevista per gli internati  e  che  soltanto  per  loro  puo'  essere
disposta «in ogni tempo» (art. 50,  comma  2,  periodo  2,  ordinanza
penale) e non dopo l'espiazione di una determinata quota della  pena,
come invece avviene per i detenuti. 
    6. Nondimeno, in caso di sottoposizione dell'internato al  regime
dell'art. 41-bis, ordinanza  penale,  si  assiste  a  una  fortissima
compressione  degli  istituti  trattamentali  fondamentali   (lavoro,
istruzione, contatti con l'esterno e, appunto, misure  extramurarie),
la quale  comporta  una  sostanziale  omologazione  della  misura  di
sicurezza alla pena detentiva, delineando un  regime  contenutistico,
anche in relazione alle misure esterne  applicabili,  sostanzialmente
identico tra internati e detenuti in regime di cui  all'art.  41-bis,
ordinanza penale. 
    Cio' soprattutto in considerazione del fatto che con la modifica,
ad opera dell'art. 2, comma 25, lettera f), n.  1,  legge  15  luglio
2009, n. 94, dell'art. 41-bis, comma 2-quater, ordinanza  penale,  e'
stata inserita, in luogo dell'espressione «puo'  comportare»,  quella
di  «prevede»,  eliminando  cosi'  qualunque  discrezionalita'  nella
concreta  articolazione  delle  limitazioni  poste   al   trattamento
penitenziario, per le pene come per  le  misure  di  sicurezza,  alle
quali ultime detto regime,  secondo  la  pacifica  giurisprudenza  di
legittimita', si applica (cfr. sezione 1, n. 10619  del  27  novembre
2017, dep. 2015, N., Rv. 272310; sezione 1,  n.  22083  del  9  marzo
2011, Di Martino, Rv. 250436). 
    Infatti, la circostanza che il comma 2-quater faccia riferimento,
nel primo periodo, ai soli «detenuti sottoposti al regime speciale di
detenzione», statuendo che essi «devono essere ristretti  all'interno
di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente
in aree insulari, ovvero comunque all'intimo di  sezioni  speciali  e
logisticamente  separate  dal  resto  dell'istituto  e  custoditi  da
reparti specializzati della polizia penitenziaria», non significa che
la previsione del periodo successivo, che dalle lettere da a)  a  f),
definisce il concreto contenuto  del  regime  differenziato,  non  si
applichi anche agli internati. Anche a prescindere dal fatto  che  le
relative disposizioni sono espressamente riferite,  in  alcuni  casi,
anche agli internati - e' il caso delle lettere a), che  richiama  la
necessita' di prevenire l'interazione con altri detenuti o  internati
appartenenti  alla  medesima  organizzazione,  e  d),  che   riguarda
l'esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e  degli  internati  -
appare assorbente un duplice rilievo. Da un  lato,  l'ultimo  periodo
del  comma  2-quater,  prima  di  specificare  il   contenuto   delle
limitazioni  fa  riferimento  alla  «sospensione  delle   regole   di
trattamento e degli istituti di cui al comma 2», con cio' rinviando a
una disposizione che menziona gli  internati,  accanto  ai  detenuti,
quale destinatari del provvedimento del Ministro della giustizia  che
disponga la sospensione dell'applicazione delle regole di trattamento
e degli istituti che possano  porsi  in  concreto  contrasto  con  le
esigenze di ordine e di sicurezza. E, dall'altro lato, ipotizzando la
mancata determinazione, per via legislativa, delle  limitazioni  alle
regole ordinarie  del  trattamento  applicabili  agli  internati,  si
lascerebbe   all'amministrazione   una   liberta'   assoluta    nella
articolazione del relativo regime, in evidente radicale contrasto con
la ratio  della  riforma  del  2009,  che  intendeva,  al  contrario,
comprimere ogni discrezionalita' proprio attraverso l'introduzione di
un elenco di restrizioni tassativamente indicate  dalla  legge  (cfr.
Corte costituzionale, n. 190 del 2010). 
    Ne  consegue  che  in   caso   di   assoggettamento   al   regime
differenziato, la piattaforma trattamentale finisce con l'essere,  da
un punto di vista strettamente  normativo,  sostanzialmente  uniforme
per i detenuti e gli internati sottoposti al regime dell'art. 41-bis,
ordinanza  penale;  e  cio'  riguarda  anche il  piano  delle  misure
extramurarie, naturalmente precluse ai soggetti sottoposti al  regime
differenziato in ragione della impossibilita', per costoro, di  avere
contatti  con  l'esterno,  se  si  eccettuano  i  difensori  e,   con
moltissime cautele, i familiari piu' stretti. 
    7.  Gia'  sotto  il  profilo   indicato,   dunque,   appare   non
manifestamente infondato il dubbio di legittimita' costituzionale  di
un  regime   applicativo,   dettato   dalla   norma   primaria,   che
sostanzialmente identifica, sul piano contenutistico, pena  e  misura
di sicurezza. 
    In proposito, va,  infatti,  ricordata  la  giurisprudenza  della
Corte  europea  dei  diritti  dell'Uomo  sulla   Sicherungsverwahrung
tedesca; misura  di  sicurezza  detentiva  di  durata  indeterminata,
rivolta  ai  «delinquenti  per  tendenza»,  che   puo'   considerarsi
sostanzialmente equivalente, nei suoi essenziali  tratti  funzionali,
alle misure della colonia agricola e  casa  di  lavoro  previste  nel
nostro ordinamento dagli articoli 216 ss. del codice penale 
    Nel caso M. c. Germania (v.  sent.  17  dicembre  2009,  ric.  n.
9359/04), la Corte Edu - nel riconoscere che la custodia di sicurezza
prevista  dall'ordinamento  tedesco  deve  considerarsi  una  vera  e
propria «pena» sotto il profilo dell'art. 7 Cedu  (essendo  applicata
da un giudice, in connessione  causale  con  una  sentenza  e  avendo
carattere di afflittivita') -  ha  fortemente  stigmatizzato  che  il
trattamento offerto agli internati in custodia di sicurezza non abbia
contenuti specifici rispetto alla  esecuzione  della  pena  in  senso
formale,  come  del  resto  ritenuto  assolutamente  necessario,  nei
decenni, dalla piu' autorevole dottrina italiana. 
    Ne consegue che non puo' ritenersi manifestamente  infondata,  in
riferimento agli articoli 3 e 25 della Costituzione, nonche' all'art.
117 della Costituzione in relazione all'art. 7 Cedu, la questione  di
legittimita' costituzionale dell'art.  41-bis,  nella  parte  in  cui
prevede la facolta' di  sospendere  l'applicazione  delle  regole  di
trattamento  e  degli  istituti  previsti  dalla  stessa  legge,  con
adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater,  nei
confronti  degli  internati,  assoggettati  a  misura  di   sicurezza
detentiva, dal momento che, rendendo sostanzialmente identico, per  i
soggetti sottoposti  al  regime  differenziato,  il  concreto  regime
applicativo  della  pena  e  della  misura  di  sicurezza  detentiva,
assoggettano alla medesima regolamentazione  istituti  funzionalmente
differenti,  obliterando  la  distinzione,  riconosciuta   anche   in
Costituzione, tra gli stessi. 
    8. Sotto altro aspetto, va evidenziato che la  sottoposizione  al
regime differenziato dell'art. 41-bis, ordinanza penale incide  sulla
durata della sanzione penale in maniera differente a seconda  che  al
medesimo venga assoggettato il detenuto definitivo o l'internato. 
    Nel  primo  caso,  infatti,  l'art.  41-bis,   ordinanza   penale
impedisce,  chiaramente,  l'ammissione  a  misure   alternative   per
l'intera durata della detenzione.  E  tuttavia,  fuori  dei  casi  di
condanna alla pena dell'ergastolo, la sua  applicazione  non  produce
effetti sulla  durata  della  carcerazione.  In  tali  casi,  invero,
l'imputato viene  condannato,  con  sentenza  definitiva,  alla  pena
ritenuta «giusta», e cioe' proporzionata, nel rispetto  dell'art.  27
della Costituzione, al disvalore del fatto e alla sua colpevolezza, e
la sconta sino al termine  di  essa,  salve  le  eventuali  riduzioni
disposte per liberazione anticipata. 
    Nel  caso  della  misura  di  sicurezza,  invece,  l'applicazione
dell'art.  41-bis,  ordinanza  penale  costituisce  un  elemento  che
influisce in maniera essenziale sui meccanismi  della  proroga  della
restrizione  in  regime  sostanzialmente  carcerario,  concorrendo  a
rendere tale misura una sorta di pena aggiuntiva sganciata pero'  dal
fatto e  determinabile  solo,  in  astratto,  nei  massimi  edittali:
percio' sostanzialmente «indeterminata». 
    E' vero, infatti, che, dopo  l'entrata  in  vigore  dell'art.  1,
comma  1-quater,  del  decreto-legge  31  marzo  2014,  n.  52,  deve
ritenersi ormai superato,  quantomeno  per  le  misure  di  sicurezza
detentive, il precedente regime, il quale consentiva il cd. ergastolo
bianco, ovvero un meccanismo di proroga senza alcun limite massimo di
durata   temporale,   essendo   stato   oggi   un   siffatto   limite
legislativamente introdotto (Corte costituzionale, n.  83  del  2017;
sezione 1, n. 42899 del 27 maggio 2019, Guttadauro,  in  motivazione;
sezione 1, n. 12490 del 27  novembre  2018,  dep.  2019,  Minuto,  in
motivazione), ed essendo lo stesso rinvenibile nel  massimo  edittale
previsto per il reato in relazione al quale la misura di sicurezza e'
stata disposta: con applicazione, in  caso  di  misura  di  sicurezza
applicata a seguito di dichiarazione di abitualita' nel  reato,  come
nel caso in esame, nel massimo edittale previsto per  il  reato  piu'
grave tra quelli per cui vi e' stata condanna (sezione  1,  n.  41230
del 13 giugno 2019, N., in motivazione). 
    Tuttavia, il fatto che esista un limite massimo, oltre  il  quale
la misura non puo'  essere  ulteriormente  prorogata,  non  significa
anche che  la  durata,  ancorche'  determinabile  nella  sua  massima
estensione, sia anche determinata, atteso che la misura potra' essere
ripetutamente prorogata (senza  che  cio'  possa  essere  all'origine
previsto), fino al massimo edittale della pena prevista per il  reato
piu' grave e, dunque, per  una  durata  comunemente  assai  superiore
rispetto a quella della pena in concreto inflitta. 
    In   questo   modo,   l'attuale   assetto   normativo   delineato
dall'intrecciarsi delle norme sulla proroga delle misure di sicurezza
e di  quelle  sul  regime  differenziato  realizza  una  lesione  del
principio  di  proporzione   rispetto   ai   reati   gia'   commessi,
consentendosi l'applicazione di una sanzione penale  -  che  gia'  la
Corte Strasburgo, nella gia' ricordata  sentenza  17  dicembre  2009,
ric. n. 9359/04, M. c. Germania, ha qualificato  come  «pena»  -  non
piu' proporzionata colpevolezza dell'autore  per  il  reato  commesso
(intesa come giudizio  di  rimproverabilita'  soggettiva  parametrata
alla gravita' della violazione). 
    E',  inoltre,  evidente  che  sino  a  quando  l'internato  sara'
sottoposto al regime dell'art. 41-bis, ordinanza  penale  non  potra'
accedere a misure extramurarie (licenze  trattamentali  o  finali  di
esperimento) rendendo pressoche' impossibile  sperimentazione  di  un
effettivo percorso di recupero e percio' anche la revoca  o  comunque
la sostituzione della misura di sicurezza detentiva; tanto  piu'  che
il perdurare della applicazione del regime differenziato, avendo come
presupposto la (mera) possibilita' di riprendere i  collegamenti  con
la  criminalita'  organizzata,  presuppone  una  situazione  che  non
consente  di  escludere  la  perdurante  pericolosita'  sociale   del
soggetto. 
    La sottoposizione al regime dell'art. 41-bis, ordinanza penale di
un internato in misura di sicurezza detentiva altera, cosi', anche il
fisiologico meccanismo delle proroghe, non consentendo al  sottoposto
di accedere alle misure volte a graduale reinserimento e ostacolando,
ontologicamente, gli ordinari elementi del  trattamento  (tra  cui  i
frequenti  contatti  con  l'ambiente  familiare),  per   questa   via
consentendo  la  sottoposizione   dell'internato   a   una   sanzione
restrittiva  di durata   tendenzialmente   indeterminata   (ancorche'
determinabile, come detto nella  sua  massima  estensione).  Cio'  in
quanto la proroga della misura di sicurezza  tendenzialmente  conduce
alla proroga dell'art. 41-bis, ordinanza penale e viceversa,  secondo
una relazione di reciproca interferenza. 
    Soprattutto,  pero',  la  disciplina  censurata  comporta,   come
anticipato, un effetto moltiplicatore del trattamento  sanzionatorio,
che viene sostanzialmente replicato, al di fuori del giusto  processo
di cognizione, con caratteri di assoluta identita',  per  una  durata
ulteriore che puo' essere addirittura  superiore  a  quella  ritenuta
«proporzionata»  alla  gravita'  dell'offesa  realizzata  dal   reato
e potenzialmente pari (quantomeno) alla pena gia' applicata,  con  un
effetto (quantomeno) di duplicazione della limitazione della liberta'
personale (in caso di condanna inferiore al massimo edittale, con  un
effetto piu' che duplicato). 
    Non appare manifestamente infondato, dunque,  il  dubbio  che  il
descritto effetto di duplicazione  dell'intervento  sanzionatorio  si
ponga  in  contrasto,  oltreche'  con  gli  articoli  3  e  25  della
Costituzione,  con  l'art.  117  della  Costituzione,  in   relazione
all'art. 7 Cedu, con gli articoli 27 e 111 della Costituzione  e  con
il divieto di bis in idem affermato, in piu' occasioni,  dalla  Corte
di Strasburgo in base all'art. 4,  comma  1,  protocollo  n.  7  alla
Convenzione europea. 
    Infatti,  come  gia'  osservato,  la  Corte  Edu,  con   la   sua
giurisprudenza sulla Sicherungsverwahrung  tedesca,  ha  sottolineato
come tale misura di sicurezza costituisca, sostanzialmente, una pena,
condividendone  funzione  e  modalita'  esecutive.  E  l'effetto   di
duplicazione finisce per rendere  il  sistema  dualista  accolto  dal
nostro ordinamento uno strumento  che,  per  i  soggetti  imputabili,
realizza un aggravamento eccessivo della risposta sanzionatone, al di
la' dei limiti della colpevolezza, in mera funzione  di  contenimento
della pericolosita' sociale, senza che il principio  di  proporzione,
radicato negli articoli  3  e  27  della  Costituzione,  consenta  di
realizzare quell'argine alle istanze preventive che gli e' proprio. 
    Dunque, non puo' ritenersi  manifestamente  infondato  il  dubbio
che, nello spazio giuridico  europeo,  le  misure  di  sicurezza  per
soggetti imputabili siano incompatibili con la garanzia  fondamentale
del  ne  bis  in  idem  se  le   stesse   non   risultano   realmente
differenziabili dalla pena, non soltanto a causa della  loro  diversa
finalita', ma soprattutto  in  ragione  di  modalita'  di  esecuzione
radicalmente differenziate. 
    Ne  consegue,  conclusivamente,  un  ulteriore  profilo  di   non
manifesta infondatezza del ventilato  contrasto  tra  l'art.  41-bis,
commi 2 e 2-quater, ordinanza penale e, per il tramite del  parametro
interposto dell'art. 117  della  Costituzione,  l'art.  4,  comma  1,
protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo,  che,
stabilendo che nessuno puo' essere nuovamente punito  per  lo  stesso
reato («... punished again (...) for an  offence  for  which  he  has
already been finally (...) convicted...»),  parrebbe  non  consentire
nemmeno  una  sostanziale   duplicazione   della   pena,   realizzata
attraverso l'applicazione di un regime restrittivo che, al di la' del
diverso nomen juris, non e' connotato da alcuna differenziazione,  in
positivo, del relativo trattamento penitenziario. 
    9. Alla luce delle considerazioni che precedono,  deve  ritenersi
rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  con  riferimento  agli
articoli 3,  25,  27,  111  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli articoli 7 Cedu e 4, protocollo  n.  7
Cedu, la questione di  legittimita'  costituzionale  dei  commi  2  e
2-quater dell'art. 41-bis della legge del  26  luglio  1975,  n.  354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art.  2,
comma 25, lettera f), n. 3),  della  legge  15  luglio  2009,  n.  94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte  in  cui
prevedono la facolta' di sospendere l'applicazione  delle  regole  di
trattamento  e  degli  istituti  previsti  dalla  stessa  legge,  con
adozione obbligatoria delle misure enunciate nei comma 2-quater,  nei
confronti  degli  internati,  assoggettati  a  misura  di   sicurezza
detentiva. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
rilevante  e  non  manifestamente  Infondata,  in  riferimento   agli
articoli 3, 25, 27, 111  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli articoli 7 Cedu e 4, protocollo  n.  7
Cedu, la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  41-bis,
commi  2  e  2-quater,  della  legge  del  26  luglio  1975,  n.  354
(ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevedono la facolta'
di sospendere l'applicazione delle  regole  di  trattamento  e  degli
istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle
misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti  degli  internati,
assoggettati a misura di sicurezza detentiva.  Sospende  il  presente
procedimento. 
    Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall'art. 23,
ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87. 
        Cosi' deciso il 10 settembre 2020. 
 
                       Il Presidente: Tomassi 
 
 
                                    Il consigliere estensore: Renoldi