N. 83 SENTENZA 7 marzo - 13 aprile 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Ordinamento  penitenziario  -  Rimedi  risarcitori  conseguenti  alla
  violazione  dell'art.  3  della  Convenzione  europea  dei  diritti
  dell'uomo - Legittimazione dell'internato a  proporre  la  relativa
  istanza. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento  penitenziario
  e sulla  esecuzione  delle  misure  privative  e  limitative  della
  liberta'), art.  35-ter,  introdotto  dall'art.  1,  comma  1,  del
  decreto-legge 26  giugno  2014,  n.  92  (Disposizioni  urgenti  in
  materia di rimedi  risarcitori  in  favore  dei  detenuti  e  degli
  internati  che  hanno   subito   un   trattamento   in   violazione
  dell'articolo 3 della convenzione europea per la  salvaguardia  dei
  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  nonche'   di
  modifiche al codice di procedura  penale  e  alle  disposizioni  di
  attuazione, all'ordinamento del Corpo di  polizia  penitenziaria  e
  all'ordinamento penitenziario,  anche  minorile),  convertito,  con
  modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n.
  117. 
-   
(GU n.16 del 19-4-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  35-ter
della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), introdotto dall'art. 1, comma 1,  del  decreto-legge
26 giugno 2014, n. 92 (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  rimedi
risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito
un  trattamento  in  violazione  dell'articolo  3  della  convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, nonche' di modifiche al codice di  procedura  penale  e
alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia
penitenziaria  e  all'ordinamento  penitenziario,  anche   minorile),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  11
agosto 2014, n. 117,  promosso  dal  Magistrato  di  sorveglianza  di
Padova sull'istanza presentata da E. H., con ordinanza del  2  maggio
2016, iscritta al n. 125 del registro  ordinanze  2016  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  26,  prima   serie
speciale, dell'anno 2016. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  E.  H.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice  relatore
Giorgio Lattanzi; 
    uditi l'avvocato Giovanni Gentilini per E. H. e l'avvocato  dello
Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 2 maggio 2016 (r.o. n. 125  del  2016),  il
Magistrato di  sorveglianza  di  Padova  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 35-ter della  legge  26  luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della liberta'), come  introdotto
dall'art. 1, comma  1,  del  decreto-legge  26  giugno  2014,  n.  92
(Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore  dei
detenuti e  degli  internati  che  hanno  subito  un  trattamento  in
violazione  dell'articolo  3  della  convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
nonche'  di  modifiche  al  codice  di  procedura   penale   e   alle
disposizioni di attuazione,  all'ordinamento  del  Corpo  di  polizia
penitenziaria  e  all'ordinamento  penitenziario,  anche   minorile),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  11
agosto 2014, n. 117, in riferimento  agli  artt.  3,  24,  25,  primo
comma, e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione agli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (d'ora in avanti:
CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Il Magistrato di sorveglianza deve decidere  su  una  domanda  di
risarcimento proposta, ai sensi dell'art. 35-ter  impugnato,  da  una
persona soggetta a misura  di  sicurezza  detentiva,  che  deduce  di
essere stata internata in condizioni disumane, e tali  da  comportare
la violazione dell'art. 3 della CEDU. 
    Il giudice  rimettente  ritiene  provata  la  violazione  per  un
periodo  di  132  giorni,  durante  il  quale   il   ricorrente,   in
applicazione della misura di sicurezza detentiva dell'assegnazione  a
una casa di lavoro, e' stato internato in una "cella" con uno  spazio
inferiore ai tre metri quadrati per persona. 
    L'interpretazione letterale dell'art. 35-ter della legge  n.  354
del 1975 impedirebbe, secondo il giudice rimettente, di accogliere la
domanda  risarcitoria,  posto  che  la  disposizione   si   riferisce
esclusivamente al detenuto, e  non  anche  all'internato,  salvo  che
nella  rubrica,  che  li  menziona  invece   entrambi.   Insomma   la
disposizione sarebbe applicabile solo se la  violazione  si  verifica
durante l'espiazione della pena detentiva, e non anche se si verifica
durante l'applicazione di una misura di sicurezza detentiva. 
    Cio' determinerebbe anzitutto la lesione  dell'art.  3  Cost.,  a
causa della disparita'  di  trattamento  tra  detenuto  e  internato.
Un'analoga diseguaglianza  esisterebbe  poi  tra  gli  internati  che
avevano gia' un ricorso  pendente  davanti  alla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo e gli altri, perche' l'art. 2, comma 2, del d.l. n.
92 del 2014, al fine di prevenire la pronuncia del  giudice  europeo,
permette ai primi, e solo a questi, di esperire il rimedio introdotto
dall'art. 35-ter. 
    Parimenti  leso  sarebbe  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione agli artt. 3, 6 e  13  della  CEDU,  perche'  l'assenza  di
rimedi contro la detenzione in condizioni  disumane  comprometterebbe
l'equita' del processo, da  garantire  anche  in  fase  esecutiva,  e
l'effettivita' dei ricorsi interni, e non reprimerebbe le  violazioni
del divieto di tortura. 
    Il rimettente deduce  inoltre  la  lesione  dell'art.  25,  primo
comma,  Cost.,  perche'  l'internato,  non   disponendo   di   rimedi
giudiziali, sarebbe  privato  del  giudice  naturale  costituito  dal
magistrato di sorveglianza. 
    Infine, insieme a tali parametri, sarebbe violato anche l'art. 24
Cost., sia perche'  l'internato  non  puo'  agire  in  giudizio,  sia
perche',  quand'anche  potesse   agire,   l'art.   35-ter   non   gli
attribuirebbe una tutela adeguata. Infatti non sarebbe possibile  ne'
ridurre la durata della misura di sicurezza in corso  di  esecuzione,
come e' previsto per la pena detentiva (posto  che  tale  misura  non
avrebbe un termine massimo di  durata  e  potrebbe  essere  prorogata
senza limiti), ne' riconoscere un ristoro economico,  perche'  questo
sarebbe subordinato dalla norma impugnata  alla  circostanza  che  la
pena ancora  da  scontare  non  sia  cosi'  lunga  da  permettere  di
sottrarvi l'intero periodo che il detenuto ha diritto di non  espiare
a ristoro del danno patito. Ma anche in tale caso sarebbe di ostacolo
la  mancanza  di  un  termine  massimo  di  durata  della  misura  di
sicurezza. 
    L'art. 35-ter e' percio' denunciato, sia nella parte in  cui  non
ammette anche l'internato a esperire il  rimedio  in  questione,  sia
nella parte in cui, ove il rimedio dovesse  ritenersi  concesso,  non
prevede  «la  riduzione  della  durata  della  misura  di   sicurezza
detentiva  e/o  il   ristoro   pecuniario   a   titolo   di   rimedio
risarcitorio». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, e,
in via subordinata, non fondata. 
    Secondo   l'Avvocatura   generale   la    questione    muoverebbe
dall'erroneo presupposto interpretativo che l'art.  35-ter  impugnato
non si applichi all'internato, quando  invece  il  contrario  sarebbe
comprovato,   sia   dalla    rubrica    della    disposizione,    sia
dall'applicabilita'  del  rimedio  a  favore  degli  internati   gia'
ricorrenti davanti alla Corte EDU, ricordata dallo stesso rimettente. 
    La disposizione censurata sarebbe  percio'  applicabile  anche  a
favore di chi e' sottoposto a  una  misura  di  sicurezza  detentiva,
tanto piu' che, in base all'art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge
31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di  superamento
degli   ospedali   psichiatrici    giudiziari),    convertito,    con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 maggio  2014,  n.
81, questa non puo' durare «oltre il  tempo  stabilito  per  la  pena
detentiva  prevista  per  il  reato  commesso,  avuto  riguardo  alla
previsione edittale massima». Anche sotto il profilo delle  forme  di
ristoro riconoscibili vi sarebbe una piena equiparazione rispetto  al
trattamento riservato al detenuto. 
    L'Avvocatura  dello  Stato  aggiunge  che  la  questione  sarebbe
inoltre non fondata perche' l'internato, quand'anche  non  disponesse
del rimedio introdotto dalla norma impugnata,  potrebbe  chiedere  il
risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2043 del codice civile. 
    3.- Si e'  costituita  la  parte  interessata  chiedendo  che  la
questione sia accolta. 
    La parte ritiene violato l'art. 3 Cost., perche' la disparita' di
trattamento   riservata   agli   internati   contraddice   la    loro
equiparazione ai detenuti riconosciuta dall'art. 1 della legge n. 354
del  1975.  L'art.  24  Cost.  sarebbe  leso  perche'  l'art.  35-ter
strutturalmente  non  e'  idoneo  ad  assicurare  all'internato   una
detrazione nella durata  della  misura  di  sicurezza,  priva  di  un
termine fisso, e neppure un ristoro economico,  essendo  quest'ultimo
attribuibile solo unitamente alla riduzione di tale durata. 
    Quanto all'art. 25 Cost., la parte osserva che  l'internato,  nel
corso della esecuzione  della  misura  di  sicurezza,  e'  del  tutto
assimilabile al detenuto, e quindi che suo  giudice  naturale  e'  il
magistrato di sorveglianza, e non il  giudice  civile,  previsto  dal
terzo comma della norma impugnata. 
    Sussisterebbe anche la violazione  dell'art.  117,  primo  comma,
Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 13 della CEDU. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Magistrato  di  sorveglianza  di  Padova  ha   sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 35-ter della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),  come
introdotto dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n.
92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori  in  favore
dei detenuti e degli internati che hanno  subito  un  trattamento  in
violazione  dell'articolo  3  della  convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
nonche'  di  modifiche  al  codice  di  procedura   penale   e   alle
disposizioni di attuazione,  all'ordinamento  del  Corpo  di  polizia
penitenziaria  e  all'ordinamento  penitenziario,  anche   minorile),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  11
agosto 2014, n. 117, in riferimento  agli  artt.  3,  24,  25,  primo
comma, e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione agli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (d'ora in avanti:
CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    La norma censurata e' stata adottata per  adeguare  l'ordinamento
alle prescrizioni della sentenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia,  che  ha
sanzionato la Repubblica italiana per avere sottoposto i ricorrenti a
una detenzione in condizioni disumane,  con  violazione  dell'art.  3
della CEDU. L'Italia e' stata inoltre sollecitata  a  introdurre  una
via  di  ricorso  interno  capace  di  far  cessare  tale  genere  di
detenzione e a prevedere una forma di riparazione. 
    L'art. 35-ter ha percio' provveduto ad assicurare, per i casi  di
violazione dell'art. 3 della CEDU, un  rimedio  in  forma  specifica,
consistente nella riduzione del periodo di restrizione della liberta'
personale di un giorno per ogni dieci  di  lesione  del  diritto,  e,
quando cio' non sia possibile, un risarcimento pari a otto  euro  per
ogni giorno trascorso nelle condizioni predette. 
    La disposizione censurata, anche se nella rubrica si riferisce ai
«soggetti detenuti  o  internati»,  riguarderebbe  esclusivamente  il
"detenuto", cioe' colui che sta espiando una "pena detentiva". 
    Nel giudizio a  quo  la  domanda  risarcitoria  e'  stata  invece
proposta da un internato, ovvero da una persona soggetta alla  misura
di sicurezza detentiva dell'assegnazione a una  casa  di  lavoro,  in
quanto socialmente pericolosa. 
    Il rimettente reputa che la lettera  dell'art.  35-ter  impugnato
non gli consenta di riconoscere la  legittimazione  dell'internato  a
richiedere il rimedio risarcitorio ivi previsto, e sostiene che  essa
e' di ostacolo a un'interpretazione costituzionalmente orientata. 
    La norma in questione e' percio' anzitutto impugnata «nella parte
in cui non  prevede  gli  internati  tra  i  soggetti  legittimati  a
proporre la relativa istanza», in riferimento agli artt. 3,  24,  25,
primo comma, e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione
agli artt. 3, 6 e 13 della CEDU. 
    Il giudice a quo aggiunge  che,  quand'anche  fosse  riconosciuta
tale  legittimazione,  la  norma  censurata  non  sarebbe  idonea   a
garantire il soddisfacimento del diritto dell'internato, perche' essa
offre rimedi compatibili solo con la posizione del detenuto. 
    Il rimettente e' infatti persuaso  che  le  misure  di  sicurezza
detentive, con  l'eccezione  di  quelle  "psichiatriche",  non  siano
soggette ad alcun termine di durata massima, in quanto ancorate  alla
sola  persistenza   della   pericolosita'   sociale   dell'internato.
Mancherebbe percio' il minuendo al  quale  sottrarre  il  periodo  di
tempo che spetta a titolo di risarcimento, in proporzione  ai  giorni
durante i quali si e' stati ristretti in condizioni disumane. 
    Ne' vi sarebbe modo  di  conseguire  un  risarcimento  monetario,
perche' l'art. 35-ter lo consentirebbe  solo  nelle  ipotesi  in  cui
viene disposta la riduzione della  durata  della  detenzione  residua
fino al suo esaurimento e rimanga un periodo di  tempo  ulteriore  da
ristorare. 
    La norma censurata sarebbe percio' costituzionalmente illegittima
anche «nella  parte  in  cui  non  prevede,  nel  caso  di  accertata
violazione dell'art. 3 CEDU per un periodo non inferiore a 15 giorni,
la riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva e/o  il
ristoro   pecuniario   a    titolo    di    rimedio    risarcitorio».
L'ineffettivita' della tutela  accordata  comporterebbe  infatti  una
violazione degli artt. 24 e 117, primo comma, Cost., oltre che  degli
artt. 3 e 25, primo comma, Cost. 
    Due sono percio'  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevate dal rimettente, l'una consequenziale  all'altra  in  ordine
logico. A questa Corte il giudice a quo, al  fine  di  accogliere  la
domanda, chiede di adeguare la norma impugnata alla duplice  esigenza
costituzionale  di  consentire  anche  all'internato  un'azione   per
richiedere la riparazione per il trattamento  disumano  subito  e  di
configurare in favore dello stesso idonei strumenti riparatori. 
    2.- La questione di legittimita' costituzionale dell'art.  35-ter
censurato, nella parte in cui non consente all'internato di  proporre
la domanda, non e' fondata. 
    L'Avvocatura  dello  Stato  ne  ha  eccepito   l'inammissibilita'
perche', a suo avviso, il rimettente avrebbe dovuto  interpretare  la
disposizione in senso costituzionalmente orientato,  riconoscendo  la
legittimazione dell'internato, senza considerare che il  giudice  non
lo ha fatto perche' ha dichiaratamente escluso  che  la  formulazione
della norma lasciasse un margine interpretativo in tal senso. 
    Questa Corte  ha  in  piu'  occasioni  affermato  che  quando  il
rimettente si prospetta la via dell'interpretazione  adeguatrice,  ma
esclude che essa sia percorribile, la questione  che  ne  deriva  non
puo'  ritenersi  inammissibile  a  causa  della  erroneita'  di  tale
conclusione. In questo caso infatti il giudice a quo  ha  assolto  al
proprio dovere di motivazione sui requisiti di ammissibilita',  e  lo
stabilire se l'interpretazione  conforme  e'  o  non  e'  praticabile
attiene al merito  della  questione  di  legittimita'  costituzionale
(sentenze n. 42 del 2017, n. 240, n. 95 e n. 45 del 2016, n. 262  del
2015), non alla sua ammissibilita'. 
    L'odierna  questione  e'  pertanto  ammissibile,  ma  rimane   da
verificare  se  davvero  la  disposizione  censurata  non  si  presti
all'interpretazione conforme. 
    Nel caso oggetto del giudizio non vi e' dubbio che,  se  la  sola
interpretazione possibile della disposizione impugnata  imponesse  di
precludere all'internato l'azione  prevista  dall'art.  35-ter  della
legge n. 354 del 1975, sarebbero violati gli artt.  3  e  117,  primo
comma, Cost. 
    Con riguardo al diritto di godere di un rimedio risarcitorio,  la
condizione  della  persona  soggetta  a  una  misura   di   sicurezza
detentiva, che subisce una restrizione della  liberta'  personale  in
condizioni disumane, e' del tutto equivalente a quella del  detenuto,
perche' identico e'  il  bene  giuridico  leso  e  analoghe  sono  le
modalita' con cui la  lesione  viene  inflitta.  Queste  ultime  sono
infatti indicate dallo stesso art. 35-ter nella violazione  dell'art.
3 della CEDU, che puo' avvenire in particolare quando  lo  spazio  di
cui dispone l'individuo recluso e' inferiore  a  tre  metri  quadrati
(sentenza n. 279 del 2013). 
    Il principio di  uguaglianza  non  puo'  pertanto  tollerare  una
discriminazione  tra  detenuto  e  internato  che,  fondandosi  sulla
differente natura giuridica  dei  titoli  in  base  ai  quali  si  e'
ristretti,  pur  rilevante  ad  altri  fini,   trascura   invece   la
sostanziale identita', nell'uno e nell'altro caso, dei  soli  fattori
che hanno importanza ai fini risarcitori. 
    Ne' una tale distinzione sarebbe compatibile con l'art.  3  della
CEDU, atteso che nel sistema della Convenzione  e'  necessario  avere
riguardo non al titolo formale in base al quale si e'  ristretti,  ma
alla sostanza della violazione, sicche' forme di ristoro spettano non
solo al detenuto che sconta la pena, ma anche a chi e' colpito da una
misura di custodia cautelare in carcere o  in  strutture  equivalenti
(Corte EDU, Grande Camera, sentenza 20 ottobre  2016,  Muršić  contro
Croazia, paragrafo 115). 
    In    definitiva,    l'esito    combinato    dell'interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata dovrebbe condurre  a
includere  gli  internati  tra  le  persone  legittimate  a   valersi
dell'azione prevista dall'art. 35-ter censurato, alla quale non  puo'
certamente sostituirsi, con  analoghi  effetti  e  tempestivita',  la
domanda  proponibile  ai  sensi  dell'art.  2043  del  codice  civile
(sentenza n. 204 del 2016). 
    Tuttavia cio' non significa che tale  interpretazione  sia  anche
possibile, poiche' «[l]'obbligo di addivenire  ad  un'interpretazione
conforme  alla  Costituzione   cede   il   passo   all'incidente   di
legittimita' costituzionale ogni qual volta  essa  sia  incompatibile
con il disposto letterale della disposizione e si  riveli  del  tutto
eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove  la
disposizione si colloca [...]. L'interpretazione secondo Costituzione
e' doverosa ed ha un'indubbia  priorita'  su  ogni  altra  [...],  ma
appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche,  poste
a   disposizione   del   giudice   nell'esercizio   della    funzione
giurisdizionale, che  hanno  carattere  dichiarativo.  Ove,  percio',
sulla  base  di  tali  tecniche,  non  sia  possibile  trarre   dalla
disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione», il  dubbio  di
costituzionalita'  non  potra'  essere  risolto  in  via  ermeneutica
(sentenza n. 36 del 2016; in precedenza, sentenze n. 1 del 2013 e  n.
219 del 2008). 
    La convinzione  del  giudice  rimettente  che  la  lettera  della
disposizione censurata osti a  una  sua  estensione  agli  internati,
posto che essa avrebbe per destinatari i  soli  detenuti,  omette  di
considerare che proprio tale lettera opera  un  rinvio  all'art.  69,
comma 6, lettera b),  della  legge  n.  354  del  1975,  al  fine  di
ricondurre la violazione dell'art. 3  della  CEDU  nell'ambito  della
competenza del magistrato di sorveglianza a  riparare  ai  pregiudizi
subiti dai detenuti e (anche) dagli internati. In altri termini,  per
mezzo del rinvio a una disposizione  la  cui  formulazione  lessicale
esplicitamente contempla l'internato, e' lo  stesso  testo  dell'art.
35-ter censurato a svilupparsi nella medesima direzione,  arricchendo
la  sua  dizione  legislativa  con  una  corrispondente,  inequivoca,
espressione linguistica. A questo punto, una volta rimosso l'ostacolo
frapposto dalla  lettera  della  legge,  l'interpretazione  inclusiva
dell'internato tra le persone legittimate ad agire diviene tutt'altro
che «improbabile o difficile» (sentenza n. 42 del 2017).  Anzi,  essa
si rivela l'unica capace di soddisfare la  Costituzione,  e  la  piu'
corretta anche sul piano  logico-sistematico,  atteso  che  salda  la
disciplina normativa a  regime,  per  tale  profilo,  con  quanto  il
legislatore aveva gia'  previsto  espressamente  con  riguardo  a  un
periodo transitorio (art. 2, comma 2, del d.l. n.  92  del  2014),  e
rende armonico il contenuto della norma con la sua rubrica  (sentenza
n. 78 del 1969). 
    La prima questione di  legittimita'  costituzionale  proposta  e'
percio' non fondata, perche' l'erroneo presupposto interpretativo  su
cui  e'  basata  ha  distolto  il  rimettente  dal  suo   dovere   di
interpretare le norme in senso costituzionalmente conforme. 
    3.- Anche la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
35-ter censurato, nella parte in cui non offrirebbe all'internato  un
rimedio utile a fronte del danno patito, non e' fondata,  perche'  si
regge su un duplice, erroneo, presupposto interpretativo. 
    Come si e' anticipato,  l'ineffettivita'  del  rimedio  descritto
dalla norma oggetto di censura discenderebbe, secondo  il  Magistrato
di sorveglianza, da due ragioni concomitanti, che pero'  si  rivelano
entrambe insussistenti. 
    Anzitutto il  giudice  a  quo  reputa  inapplicabile  il  rimedio
consistente nella riduzione del periodo di  internamento  perche'  le
misure di  sicurezza  detentive  diverse  dal  ricovero  in  ospedale
psichiatrico giudiziario e dall'assegnazione a una casa di cura e  di
custodia non sarebbero soggette a un termine massimo di  durata,  dal
quale scomputare utilmente il periodo che spetta in sottrazione. 
    Il rimettente e' a conoscenza  del  fatto  che  l'art.  1,  comma
1-quater, del  decreto-legge  31  marzo  2014,  n.  52  (Disposizioni
urgenti  in  materia  di  superamento  degli  ospedali   psichiatrici
giudiziari), convertito, con modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 30 maggio 2014, n. 81, ha  disposto  che  «Le  misure  di
sicurezza detentive provvisorie o definitive,  compreso  il  ricovero
nelle residenze per  l'esecuzione  delle  misure  di  sicurezza,  non
possono durare  oltre  il  tempo  stabilito  per  la  pena  detentiva
[massima] prevista per il reato commesso». Tuttavia per il rimettente
questa disposizione, inserita in  un  decreto-legge  emanato  per  il
«superamento degli ospedali psichiatrici  giudiziari»,  riguarderebbe
solo questi ospedali e le case di cura e di custodia, mentre per ogni
altra misura di sicurezza detentiva continuerebbe  ad  applicarsi  la
regola pregressa, che  ne  lega  la  durata  alla  persistenza  della
pericolosita' sociale dell'internato (artt.  207  e  208  del  codice
penale). 
    Tale interpretazione dell'art. 1, comma 1-quater, del d.l. n.  52
del 2014 e' pero' erronea perche' ne  pone  del  tutto  in  ombra  la
chiara lettera, che si rivolge all'insieme indistinto delle misure di
sicurezza detentive, al punto da specificare che tra queste e'  anche
«compreso il ricovero  nelle  residenze  per  l'esecuzione»  di  tali
misure. Queste "residenze" costituiscono le strutture sanitarie dove,
a partire  dal  31  marzo  2015,  trovano  esecuzione  le  misure  di
sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario e  del
ricovero  in  una  casa  di  cura  e  di  custodia  (art.  3-ter  del
decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, recante  «Interventi  urgenti
per  il  contrasto   della   tensione   detentiva   determinata   dal
sovraffollamento  delle  carceri»,  convertito,  con   modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio  2012,  n.  9),  ed  e'
percio' del tutto ovvio che tale  specificazione  non  avrebbe  alcun
significato  se  la  norma  disciplinasse  esclusivamente  la  durata
massima dell'internamento presso tali "residenze", come  sostiene  il
rimettente, e non avesse invece un contenuto piu' ampio. 
    Del resto l'art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52  del  2014  e'
diretto a porre fine al fenomeno  dei  cosiddetti  ergastoli  bianchi
(sentenza n. 22 del 2017), che si verificava nelle ipotesi in  cui  a
una condanna a pena anche  lieve  seguiva,  in  caso  di  persistente
pericolosita' sociale, un internamento tendenzialmente senza fine. Si
tratta di una situazione che, almeno astrattamente, si sarebbe potuta
concretizzare anche con riguardo alle misure di  sicurezza  detentive
diverse dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario  e  in  una
casa di cura e di custodia, e alla quale il legislatore ha inteso  in
ogni caso porre fine. 
    A fronte di tali convergenti elementi, il solo  argomento  legato
alla finalita' del  d.l.  n.  52  del  2014,  peraltro  ulteriormente
indebolito dalla circostanza che  la  norma  in  questione  e'  stata
introdotta con un emendamento in sede di conversione,  e'  del  tutto
privo di consistenza. 
    Posto che  ad  oggi  tutte  le  misure  di  sicurezza  detentive,
comprese quelle disposte prima dell'entrata in vigore del d.l. n.  52
del 2014 (art. 200 cod. pen.),  hanno  una  durata  massima,  sarebbe
astrattamente  possibile,  nell'approssimarsi  del  termine  di  tale
durata, operarne, a norma dell'art. 35-ter, comma 1, una riduzione  a
titolo di risarcimento  del  danno  subito  per  i  giorni  trascorsi
dall'internato in condizioni disumane. 
    E'  pero'  vero  che  mentre  la  durata  della   detenzione   e'
predeterminata, e  quindi  e'  agevole  fin  dall'inizio  ridurla  in
ragione dei giorni trascorsi dal detenuto in condizioni disumane,  lo
stesso non puo' dirsi per la misura  di  sicurezza,  perche'  la  sua
durata  non  e'  predeterminata,  ma  dipende  dal  perdurare   della
pericolosita' dell'internato. 
    Il limite massimo stabilito dall'art. 1, comma 1-quater, del d.l.
n. 52 del 2014 infatti e'  meramente  eventuale,  dato  che,  per  la
cessazione della pericolosita', la misura di  sicurezza  generalmente
viene revocata prima. 
    E' chiaro che, quando non e'  prevedibile  che  la  durata  della
misura si protrarra' fino al suo limite massimo, il risarcimento  per
il periodo trascorso in condizioni disumane  non  puo'  avvenire  per
detrazione, mancando il relativo minuendo, e in  questo  caso  quindi
all'internato  non  puo'  non  spettare  il  risarcimento  in   forma
monetaria. 
    E' infatti errata anche la seconda idea posta  dal  rimettente  a
base del dubbio di costituzionalita', ovvero  che  tale  risarcimento
non sia permesso se non per completare  una  tutela  gia'  accordata,
seppur parzialmente, per mezzo della detrazione  della  durata  della
misura da scontare. Questa Corte ha gia' avuto modo di smentire  tale
assunto con la sentenza n. 204 del 2016, posteriore all'ordinanza  di
rimessione. 
    In quel caso, che riguardava la posizione dell'ergastolano, si e'
rilevato che sarebbe «fuori da ogni  logica  di  sistema,  oltre  che
[...] in contrasto con  i  principi  costituzionali,  immaginare  che
durante la detenzione il magistrato di sorveglianza debba negare alla
persona condannata all'ergastolo il ristoro economico, dovuto per una
pena espiata in condizioni disumane, per la sola ragione che  non  vi
e' alcuna riduzione di pena da operare.  Non  puo'  sfuggire  infatti
all'interprete che quest'ultima evenienza non ha alcuna relazione con
la  compromissione  della  dignita'  umana  indotta  da  un  identico
trattamento carcerario». 
    Va percio' ribadito che il risarcimento patrimoniale del danno ha
carattere subordinato, rispetto al ristoro  in  forma  specifica,  ma
autonomo, nel senso che il primo compete ogni qual volta il  secondo,
in tutto o in parte, non sia utilmente attribuibile. L'internato  che
non puo' godere di alcuna riduzione  della  durata  della  misura  di
sicurezza  detentiva  e'   percio'   legittimato   a   domandare   il
risarcimento integrale del danno in forma patrimoniale. 
    Chiarito cio', e' evidente che i rimedi previsti dall'art. 35-ter
a favore  anche  dell'internato  hanno  natura  effettiva  e  che  di
conseguenza  risulta  non  fondata  la  questione   di   legittimita'
costituzionale,   data   l'erroneita'   del    duplice    presupposto
interpretativo postulato dal rimettente. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art.  35-ter  della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), come introdotto dall'art.  1,
comma 1, del  decreto-legge  26  giugno  2014,  n.  92  (Disposizioni
urgenti in materia di rimedi risarcitori in  favore  dei  detenuti  e
degli  internati  che  hanno  subito  un  trattamento  in  violazione
dell'articolo 3 della convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nonche' di modifiche
al codice di procedura penale  e  alle  disposizioni  di  attuazione,
all'ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e  all'ordinamento
penitenziario,  anche  minorile),  convertito,   con   modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 117,  sollevate,
in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 3,  6  e  13
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848,  dal  Magistrato
di sorveglianza di Padova, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                     Giorgio LATTANZI, Redattore 
                   Carmelinda MORANO, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2017. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Carmelinda MORANO