N. 84 SENTENZA 7 marzo - 13 aprile 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Edilizia  e  urbanistica  -  Attivita'   edilizia   in   assenza   di
  pianificazione urbanistica - Limiti di  edificabilita'  -  Salvezza
  dei  limiti  piu'  restrittivi  stabiliti  da  leggi  regionali   -
  Previsione  di  limiti  aggiuntivi  in   caso   di   interventi   a
  destinazione produttiva. 
- Decreto legislativo 6 giugno 2001, n.  378,  recante  «Disposizioni
  legislative in materia  edilizia  (Testo  B)»,  art.  9,  comma  1,
  lettera b), trasfuso nell'art.  9, comma 1, lettera b), del  d.P.R.
  6 giugno 2001, n. 380,  recante  «Testo  unico  delle  disposizioni
  legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)». 
-   
(GU n.16 del 19-4-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,
lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380,  recante  «Testo  unico
delle disposizioni legislative e regolamentari  in  materia  edilizia
(Testo  A)»,  e  dell'art.  9,  comma  1,  lettera  b),  del  decreto
legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante «Disposizioni  legislative
in materia edilizia (Testo B)», promosso dal Tribunale amministrativo
regionale per la Campania, nel procedimento vertente tra O. D'E. e il
Comune di  Sant'Anastasia,  con  ordinanza  del  14  settembre  2015,
iscritta al n. 1 del  registro  ordinanze  2016  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  4,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2016. 
    Visto l'atto  di  costituzione  di  O.  D'E.  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice  relatore
Franco Modugno; 
    uditi l'avvocato Francesco Vergara per O. D'E. e l'avvocato dello
Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza  del  14   settembre   2015,   il   Tribunale
amministrativo regionale per la Campania ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76  e  117,
terzo  comma,   della   Costituzione,   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6  giugno
2001, n. 380, recante il «Testo unico delle disposizioni  legislative
e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», e dell'art. 9,  comma
1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante
«Disposizioni  legislative  in  materia   edilizia   (Testo   B)»   -
disposizione, questa seconda, trasfusa nella prima - nella  parte  in
cui, nel prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori
del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti  di  strumenti
urbanistici: 
    a) fanno salva l'applicabilita' delle leggi regionali  unicamente
ove queste prevedano limiti «piu' restrittivi»; 
    b)  stabiliscono  che,  «comunque»,  nel  caso  di  interventi  a
destinazione produttiva, si applica - in aggiunta al limite  relativo
alla superficie coperta (un decimo dell'area di proprieta')  -  anche
il limite della densita' massima fondiaria di  0,03  metri  cubi  per
metro quadrato. 
    1.1.- Il giudice a quo riferisce che la ricorrente  nel  giudizio
principale - proprietaria di un fondo nel Comune di Sant'Anastasia  -
aveva chiesto il permesso di costruire un  edificio,  da  adibire  ad
attivita' artigianali. La richiesta era stata rigettata  dal  Comune,
con la motivazione che la volumetria prevista  in  progetto  eccedeva
largamente quella realizzabile su detto  fondo  in  base  alla  norma
denunciata. 
    Il fondo in questione risultava, infatti,  inserito  dal  vigente
piano regolatore generale  del  Comune  in  «zona  F1,  Zone  di  uso
pubblico». Essendo decorsi cinque anni dall'approvazione  del  piano,
le relative prescrizioni avevano perso efficacia, con la  conseguenza
che la predetta zona F1 era  attualmente  classificabile  come  "zona
bianca". Essa risultava, quindi, soggetta alle  previsioni  dell'art.
9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si stabilisce
che, «Salvi i piu' restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e
nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29  ottobre
1999, n. 490, nei comuni sprovvisti  di  strumenti  urbanistici  sono
consentiti: [...] b) fuori dal  perimetro  dei  centri  abitati,  gli
interventi di nuova edificazione nel limite  della  densita'  massima
fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di  interventi
a destinazione produttiva, la superficie coperta  non  puo'  comunque
superare un decimo dell'area di proprieta'». 
    1.2.- Adito dall'interessata con l'impugnazione del provvedimento
di rigetto, il Tribunale rimettente reputa  infondate  le  prime  due
censure della ricorrente, formulate in via gradata. 
    Il giudice a quo esclude,  anzitutto,  che  la  norma  denunciata
debba ritenersi inapplicabile nel  caso  di  specie  a  fronte  della
clausola di cedevolezza che in essa compare, intesa  a  far  salvi  i
limiti piu' restrittivi stabiliti dalle norme regionali. 
    L'art. 4, comma 2, della legge della Regione  Campania  20  marzo
1982, n. 17 (Norme transitorie per le attivita'  urbanistico-edilizie
nei Comuni della Regione), come  sostituito  dall'art.  9,  comma  2,
della legge regionale 11 agosto 2005,  n.  15  (Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione  Campania
- Legge finanziaria regionale 2005), prevede, per  l'edificazione  di
complessi produttivi in "zone bianche" esterne ai centri abitati,  un
limite di superficie coperta piu'  restrittivo  di  quello  stabilito
dalla norma statale (un sedicesimo dell'area di proprieta',  anziche'
un decimo). Detto limite non e', tuttavia, abbinato ad un  limite  di
volumetria: sicche', con riguardo a quest'ultimo, rimarrebbe in  ogni
caso operante la norma censurata. 
    La condizione di maggiore restrittivita', cui e'  subordinata  la
cedevolezza della normativa statale in favore  di  quella  regionale,
andrebbe, infatti, verificata ponendo a  raffronto  separatamente  le
prescrizioni relative alla superficie coperta e quelle relative  alla
densita'  fondiaria.  Diversamente  opinando  -   ritenendo,   cioe',
sufficiente che la norma regionale preveda una regola  piu'  rigorosa
per uno solo dei  due  limiti,  omettendo  del  tutto  l'altro  -  si
finirebbe  per  applicare  una  norma  nel   complesso   maggiormente
concessiva, in palese  contrasto  con  la  lettera  e  con  la  ratio
dell'art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Sarebbe evidente, infatti, il
carattere in astratto piu' favorevole di una norma che, pur riducendo
le possibilita' di sviluppo della superficie  coperta,  lasci  libero
quello della cubatura. 
    1.3.- Il Tribunale campano reputa, in secondo luogo, corretto  il
presupposto ermeneutico su cui poggia il provvedimento impugnato,  in
base al quale la norma  in  esame  sottoporrebbe  l'edilizia  a  fini
produttivi ad un doppio limite cumulativo - di volume e di superficie
- e non gia' al solo limite superficiario. 
    Risulterebbe infatti dirimente, in tale  direzione,  il  criterio
dell'interpretazione letterale. Il punto e virgola posto tra la prima
e la seconda frase  della  disposizione  e,  soprattutto,  l'avverbio
«comunque» dimostrerebbero, in  maniera  chiara,  che  il  limite  di
superficie  coperta  -  relativo  agli  interventi   a   destinazione
produttiva - e'  stabilito  in  aggiunta  al  parametro  di  densita'
fondiaria, e non gia' in alternativa ad  esso.  In  questo  senso  si
sarebbe, del resto,  ripetutamente  espressa  la  giurisprudenza  del
Consiglio  di  Stato,  cosi'   da   conferire   a   detta   soluzione
interpretativa i tratti del «diritto vivente». 
    1.4.- Recependo l'eccezione formulata  con  il  terzo  motivo  di
ricorso, il  giudice  a  quo  dubita,  tuttavia,  della  legittimita'
costituzionale della norma, sia nella parte in cui fa salvi i  limiti
stabiliti dalle leggi regionali solo se «piu' restrittivi», sia nella
parte in cui sottopone gli interventi a  destinazione  produttiva  al
limite di densita' fondiaria, in aggiunta a quello di copertura. 
    Le questioni sarebbero rilevanti, giacche' solo in caso  di  loro
accoglimento il giudizio principale avrebbe un esito positivo per  la
ricorrente. 
    Quanto alla non manifesta  infondatezza,  il  rimettente  ventila
anzitutto  la  violazione  dell'art.  76  Cost.,  sotto  il   profilo
dell'eccesso di delega. 
    Il  d.P.R.  n.  380  del  2001  e'  stato,  infatti,  emanato  in
attuazione  dell'art.  7  della   legge   8   marzo   1999,   n.   50
(Delegificazione e testi  unici  di  norme  concernenti  procedimenti
amministrativi - Legge di semplificazione 1998), che ha  affidato  al
Governo la  redazione  di  testi  unici  delle  norme  legislative  e
regolamentari in una serie di materie - tra cui l'edilizia -  con  la
finalita' di coordinare le disposizioni vigenti, apportando eventuali
modifiche solo se strettamente necessarie  a  garantire  la  coerenza
logica e sistematica della normativa. 
    Prevedendo  in  via  cumulativa  per  gli  interventi  edilizi  a
destinazione produttiva limiti di cubatura e di  superficie  coperta,
il  legislatore  delegato   avrebbe   introdotto   una   disposizione
innovativa rispetto a quella dell'art. 4, ultimo comma,  della  legge
28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilita' dei  suoli),  che
regolava in precedenza i limiti per  il  rilascio  delle  concessioni
edilizie nei comuni sprovvisti di  strumenti  urbanistici.  La  norma
abrogata prevedeva, infatti, in due lettere separate,  il  limite  di
cubatura con riguardo all'edilizia  residenziale  (lettera  a)  e  il
limite di copertura per l'edificazione a fini produttivi (lettera c):
sicche' non potevano sussistere dubbi sul carattere  alternativo  dei
due parametri. L'innovazione operata  dal  legislatore  delegato  non
sarebbe, d'altra parte, in alcun modo giustificabile con esigenze  di
coerenza logica e sistematica. 
    Lo stesso art. 4, ultimo  comma,  della  legge  n.  10  del  1977
stabiliva, inoltre, che i limiti da esso individuati si  applicassero
solo «in mancanza di norme regionali e fino all'entrata in vigore  di
queste». Anche il tenore della clausola di cedevolezza sarebbe stato,
quindi, modificato dall'art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001,  il  quale
fa salva, non qualsiasi diversa normativa regionale, ma solo i limiti
piu' restrittivi da questa previsti. 
    Tale piu' rigida clausola si  porrebbe  in  contrasto  anche  con
l'art. 117, terzo comma, Cost., comprimendo la  potesta'  legislativa
delle Regioni in ordine  al  «governo  del  territorio»,  materia  di
competenza concorrente nella quale la legislazione dello  Stato  deve
limitarsi  alla  determinazione   dei   principi   fondamentali.   La
limitazione della clausola di cedevolezza alle sole  norme  regionali
piu' restrittive farebbe si' che la regola del doppio  limite,  posta
dal legislatore statale - costituente  norma  di  dettaglio  -  resti
applicabile anche quando la Regione abbia provveduto a dettare  norme
proprie piu' favorevoli, come e' avvenuto nell'ipotesi in esame. 
    La disposizione impugnata violerebbe,  ancora,  il  principio  di
ragionevolezza (art. 3 Cost.). L'applicazione congiunta dei limiti di
cubatura  e  di  superficie  penalizzerebbe,  infatti,  oltre  misura
l'attivita' di produzione e di scambio di beni e servizi, richiedendo
la disponibilita' di un'area  molto  estesa  per  la  costruzione  di
edifici utili ai fini dello svolgimento di  una  qualsiasi  attivita'
economica. Ad esempio, su un fondo di 1.000 metri  quadrati  potrebbe
essere realizzato un edificio, quanto alla superficie, di 10 metri di
larghezza e 10 metri di profondita', ma, quanto al volume, di soli 30
centimetri di altezza. 
    Rendendo piu' difficili le nuove iniziative  imprenditoriali,  la
norma in questione menomerebbe irrazionalmente anche la  liberta'  di
iniziativa economica, garantita dall'art. 41, primo comma, Cost. 
    Non meno consistente sarebbe, infine, il sospetto  di  violazione
dell'art.  42,  secondo  e  terzo  comma,  Cost.,  a   fronte   della
significativa limitazione  posta  dalla  norma  denunciata  allo  ius
aedificandi connesso al diritto di proprieta'. 
    Al riguardo, il rimettente  rileva  che  la  qualificazione  come
"zona bianca" dell'area di cui si discute nel giudizio a  quo  deriva
non dalla totale  assenza  di  qualsiasi  strumento  urbanistico,  ma
dall'avvenuta  decadenza  delle  prescrizioni  del  piano  regolatore
generale concernenti detta area, per mancata attuazione entro  cinque
anni dalla sua approvazione. 
    Il  Tribunale   campano   ricorda,   altresi',   che   la   Corte
costituzionale, con la sentenza n. 55 del  1968,  ebbe  a  dichiarare
illegittimi gli artt. 7, numeri 2), 3) e 4),  e  40  della  legge  17
agosto  1942,  n.  1150  (Legge  urbanistica),  nella  parte  in  cui
consentivano  all'autorita'  urbanistica  di   imporre   vincoli   di
inedificabilita' a tempo  indeterminato,  senza  che  ai  proprietari
interessati fosse dovuto alcun  indennizzo.  A  fronte  di  cio',  il
legislatore stabili', con l'art. 2, comma 1, della legge 19  novembre
1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla  legge  urbanistica  17
agosto 1942, n. 1150), un limite  di  efficacia  quinquennale  per  i
vincoli di piano regolatore generale preordinati all'espropriazione o
che comportassero l'inedificabilita' dei fondi  interessati.  Ne'  la
situazione e' mutata a seguito della legge n. 10 del 1977, la quale -
come riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del
1980 - continuava a riconoscere al proprietario lo  ius  aedificandi.
Di conseguenza, la giurisprudenza  amministrativa  ha  ritenuto  che,
anche dopo detta legge, rimanesse in vigore il citato art.  2,  comma
1, della legge n. 1187 del 1968, precisando che l'inutile decorso del
termine quinquennale da esso previsto comportava, non la reviviscenza
della  previgente  disciplina  urbanistica  concernente  l'area,   ma
l'applicazione  degli   standard   relativi   alle   "zone   bianche"
contemplati dall'art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977. 
    Di   qui,   dunque,   il   sospetto   che   il   doppio    limite
all'edificabilita', introdotto dal legislatore statale con  la  norma
censurata, riduca  eccessivamente  le  possibilita'  di  esplicazione
dello  ius  aedificandi  in  contrasto  con  le  conclusioni  cui  la
giurisprudenza costituzionale e' pervenuta, «volte a  preservare  uno
dei contenuti fondamentali del diritto dominicale, in quanto tali non
surrettiziamente espropriabili». 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo  che  le  questioni  siano   dichiarate   inammissibili   o
infondate. 
    Ad  avviso  della  difesa   dell'interveniente,   la   denunciata
violazione  dell'art.  76  Cost.  non  sarebbe  ravvisabile.  Ove  si
lasciasse operare solo il limite di superficie e non anche quello  di
volumetria si perverrebbe, infatti, alla  paradossale  situazione  di
una edilizia sostanzialmente priva di limiti, nella quale  il  libero
sviluppo  verticale  degli  edifici   consentirebbe   una   anarchica
compromissione del territorio. Il necessario cumulo  dei  due  limiti
assolverebbe anche alla funzione di evitare che legislatori regionali
prodighi di facolta' edificatorie finiscano per  frustrare  la  ratio
della disciplina, pregiudicando in modo  irreversibile  interessi  di
rango costituzionale. In quest'ottica,  la  norma  statale  censurata
risponderebbe, quindi, perfettamente al fine - assegnato dalla  legge
delega - di assicurare la coerenza logica del sistema. 
    Quanto,  poi,  alla  ipotizzata   violazione   della   competenza
legislativa regionale concorrente, l'Avvocatura  dello  Stato  assume
che la competenza  legislativa  esclusiva  dello  Stato  in  tema  di
conservazione  ambientale  e  paesaggistica  sarebbe  in   grado   di
giustificare, gia' di per se' sola, una norma statale che imponga  un
parametro massimo di  edificabilita'  in  carenza  di  pianificazione
urbanistica, ammettendo  l'intervento  di  norme  regionali  solo  in
funzione di una maggior tutela, ossia esclusivamente  se  diretto  ad
imporre vincoli piu' severi. 
    Peraltro, anche a voler restare  nella  logica  del  governo  del
territorio, spetterebbero in ogni caso allo Stato  le  determinazioni
rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero
territorio  nazionale,  con  la  conseguenza  che,  anche   in   tale
prospettiva, l'intervento regionale sarebbe possibile solo in  quanto
implichi un innalzamento dei livelli di tutela, e non gia' una deroga
in senso peggiorativo. 
    La censura di violazione del principio di ragionevolezza  sarebbe
inammissibile,  per  la  genericita'   delle   motivazioni   che   la
sorreggono.  In  ogni  caso,  le  considerazioni  dianzi   richiamate
indurrebbero a ritenere del tutto ragionevole la norma denunciata.  I
profili di irragionevolezza ravvisati dal  rimettente  sarebbero,  in
effetti, «del tutto soggettivi» e non terrebbero conto del fatto  che
ogni  pianificazione  fissa  limiti  di  grandezza  che  formano   il
contenuto di regole sull'uso del territorio e che possono addirittura
portare alla negazione della capacita' edificatoria dei suoli. 
    Egualmente insussistente sarebbe, infine, l'ipotizzata violazione
delle garanzie costituzionali che  assistono  l'iniziativa  economica
privata e il diritto di proprieta'. Tali diritti subiscono,  infatti,
le limitazioni nascenti dalla legge, e in particolare dal  potere  di
pianificazione del  territorio,  mentre  risulterebbe  estranea  alla
materia in esame l'evocata necessaria temporaneita'  dei  vincoli  di
inedificabilita'. 
    3.- Si e' costituita, altresi', la parte ricorrente nel  giudizio
a quo, la quale  ha  svolto  considerazioni  adesive  alle  tesi  del
giudice rimettente, chiedendo l'accoglimento delle questioni. 
    La  parte  privata  osserva,  in  particolare,  come   la   norma
censurata, ove interpretata  nei  sensi  prospettati  dal  Comune  di
Sant'Anastasia, determini un irragionevole svuotamento del diritto di
proprieta' e della liberta' di iniziativa economica, contrastante con
gli artt. 3, 41 e 42 Cost. 
    L'applicabilita' degli standard  legali  di  edificabilita'  alle
zone con vincoli decaduti risponderebbe all'esigenza  di  offrire  un
rimedio all'eccessiva compressione dello ius aedificandi  che  deriva
dall'indeterminatezza temporale dei vincoli.  In  questo  quadro,  la
diversa  articolazione  dei  limiti,  secondo  che  si   discuta   di
interventi a scopo residenziale  o  produttivo,  sarebbe  conforme  a
criteri  di  ragionevolezza.  L'edificazione   a   scopo   produttivo
necessiterebbe,  infatti,  di  una  cubatura  piu'   ampia   rispetto
all'edilizia  a  scopo  residenziale,  a  fronte   dell'esigenza   di
allocazione degli impianti e dei macchinari  destinati  all'esercizio
dell'attivita'. La previsione - in aggiunta al limite superficiario -
di un limite di volumetria pari ad appena 0,03 metri cubi  per  metro
quadro rappresenterebbe, di conseguenza, un vincolo  eccessivo  tanto
per l'attivita' produttiva quanto per le aspettative edificatorie del
proprietario. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania  dubita
della legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,  lettera  b),
del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante  «Disposizioni
legislative in materia edilizia (Testo  B)»,  trasfuso  nell'art.  9,
comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001,  n.  380,  recante  il
«Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia edilizia (Testo A)», nella parte in cui, nel prevedere limiti
agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei  centri
abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici: 
    a) fa salva l'applicabilita' delle leggi regionali unicamente ove
queste prevedano limiti «piu' restrittivi»; 
    b)  stabilisce  che,  «comunque»,  nel  caso  di   interventi   a
destinazione produttiva, si applica - in aggiunta al limite  relativo
alla superficie coperta (un decimo dell'area di proprieta')  -  anche
il limite della densita' massima fondiaria di  0,03  metri  cubi  per
metro quadrato. 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l'art.
76 della Costituzione, per eccesso di delega, in quanto  apporterebbe
innovazioni sostanziali alla previgente disciplina  recata  dall'art.
4, ultimo comma, della legge 28 gennaio 1977, n.  10  (Norme  per  la
edificabilita' dei suoli): innovazioni non legittimate dai principi e
criteri direttivi enunciati dall'art. 7 della legge 8 marzo 1999,  n.
50 (Delegificazione e testi unici di norme  concernenti  procedimenti
amministrativi - Legge di semplificazione 1998), che  aveva  affidato
al Governo  l'emanazione  di  testi  unici  finalizzati  al  semplice
coordinamento delle disposizioni vigenti,  consentendo  modifiche  di
queste ultime solo se necessarie per garantire la coerenza  logica  e
sistematica della normativa. 
    La norma  impugnata  comprimerebbe,  altresi',  indebitamente  la
potesta'  legislativa   regionale   nella   materia   di   competenza
concorrente «governo del territorio» (art. 117, terzo comma,  Cost.),
introducendo  una  disciplina  di  dettaglio  destinata  a   rimanere
applicabile anche quando le Regioni  abbiano  emanato  norme  proprie
piu' favorevoli. 
    Sarebbe violato, ancora, il principio di ragionevolezza  (art.  3
Cost.), in quanto l'applicazione congiunta  dei  limiti  di  densita'
fondiaria e di superficie farebbe si'  che,  per  realizzare  edifici
idonei allo  svolgimento  di  attivita'  produttive,  sia  necessario
disporre di aree molto estese. 
    Rendendo piu' difficili le nuove iniziative  imprenditoriali,  la
norma in esame  menomerebbe  irrazionalmente  anche  la  liberta'  di
iniziativa economica, garantita dall'art. 41, primo comma, Cost. 
    La disposizione denunciata si porrebbe, infine, in contrasto  con
l'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., limitando in modo  eccessivo
le possibilita' di esplicazione dello  ius  aedificandi,  costituente
«uno dei contenuti fondamentali del  diritto  dominicale,  in  quanto
tali non surrettiziamente espropriabili». 
    2.- Le questioni sottoposte all'esame di questa  Corte  attengono
ai limiti di edificabilita' nelle cosiddette  "zone  bianche"  -  non
coperte, cioe', dalla pianificazione urbanistica - previsti dall'art.
9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Tali  limiti  -  riferiti  dalla  norma
impugnata ai «comuni sprovvisti di strumenti urbanistici»  -  trovano
pacificamente applicazione  non  solo  nell'ipotesi  (divenuta  ormai
marginale) in  cui  il  comune  risulti  del  tutto  privo  di  piano
regolatore generale, ma anche quando  la  carenza  di  una  specifica
disciplina  di  piano  riguardi  singole  porzioni   del   territorio
comunale. La fattispecie piu' rilevante - e  che  ricorre  anche  nel
giudizio a quo, secondo quanto riferito dal rimettente  -  e'  quella
della scadenza del termine  quinquennale  di  efficacia  dei  vincoli
preordinati  all'espropriazione   o   a   carattere   sostanzialmente
ablativo: termine attualmente  previsto  dall'art.  9  del  d.P.R.  8
giugno 2001, n. 327,  recante  il  «Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilita' (Testo A)». 
    La finalita' del regime in esame e' di evitare che  l'assenza  di
pianificazione legittimi uno sviluppo edilizio incontrollato, atto  a
compromettere irreversibilmente l'assetto urbanistico e a "consumare"
integralmente il territorio. In quest'ottica, lo ius aedificandi  del
privato - pur non essendo radicalmente escluso - viene  sottoposto  a
standard  legali  rigorosi,  in   modo   da   non   pregiudicare   la
razionalita', e la stessa possibilita',  delle  future  scelte  degli
organi della pianificazione. Si tratta, in sostanza, di una soluzione
di compromesso: tra l'alternativa della totale  inedificabilita'  dei
suoli sprovvisti di disciplina di piano e quella di un'edificabilita'
libera, il legislatore ha adottato la  soluzione  intermedia  di  una
edificabilita' (significativamente)  ridotta  per  non  svuotare  del
tutto lo ius aedificandi e non pregiudicare i  valori  -  di  rilievo
costituzionale - coinvolti dalla regolamentazione urbanistica. 
    In tale prospettiva, l'art. 9, comma 1, del  d.P.R.  n.  380  del
2001 stabilisce che nel perimetro del  centro  abitato  sono  ammessi
solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento  conservativo
del patrimonio edilizio  esistente  (lettera  a).  Fuori  del  centro
abitato - ed e' questa la previsione  che  interessa  -  sono  invece
possibili (anche) interventi di nuova edificazione «nel limite  della
densita' massima fondiaria di 0,03 metri cubi per  metro  quadro;  in
caso di interventi a destinazione produttiva, la  superficie  coperta
non  puo'  comunque  superare  un  decimo  dell'area  di  proprieta'»
(lettera b). 
    Vengono fatti  salvi  i  diversi  limiti  stabiliti  dalle  leggi
regionali: ma solo se «piu' restrittivi» di quelli dianzi indicati. 
    3.- Il rimettente muove dal presupposto che  la  disposizione  in
esame, tramite la  previsione  della  lettera  b)  dianzi  ricordata,
sottoponga l'edificazione di complessi produttivi in  "zone  bianche"
extraurbane a una doppia limitazione: non solo di superficie coperta,
ma anche volumetrica. 
    Tale lettura del dettato normativo e', in effetti,  qualificabile
come "diritto vivente", risultando ormai unanimemente  accolta  dalla
giurisprudenza amministrativa. Secondo quanto ripetutamente affermato
dal  Consiglio  di  Stato,   risulta   dirimente,   nella   direzione
dell'applicazione   cumulativa   dei   due    limiti,    il    canone
dell'interpretazione letterale. La presenza di  un  punto  e  virgola
(anziche' di un punto) tra il  primo  ed  il  secondo  periodo  della
disposizione   e,   soprattutto,   l'uso   dell'avverbio   «comunque»
rivelerebbero, infatti, in modo univoco che il limite superficiario -
riferito agli interventi a destinazione produttiva - e' stabilito  in
aggiunta, e non in alternativa, al  parametro  volumetrico  enunciato
nella frase che precede il segno  di  interpunzione  (tra  le  altre,
Consiglio  di  Stato,  sezione  quarta,  5  febbraio  2009,  n.  681;
Consiglio  di  Stato,  sezione  quarta,  5  febbraio  2009,  n.  679;
Consiglio di Stato, sezione quarta, 19 giugno 2006, n. 3658). 
    La conclusione appare avvalorata anche dal confronto - che  sara'
operato piu'  avanti  -  tra  la  disposizione  censurata  e  il  suo
immediato precedente legislativo (l'art. 4, ultimo comma, della legge
n. 10  del  1977):  confronto  che  evidenzia  chiaramente  l'intento
legislativo di  rendere  applicabile  agli  interventi  in  discorso,
mediante una diversa articolazione del precetto, anche il  limite  di
densita' fondiaria. 
    4.- A fianco della premessa interpretativa ora  ricordata  -  che
fonda il quesito rivolto a questa Corte - il giudice a  quo  ne  pone
un'altra, che condiziona la  sua  rilevanza.  Il  rimettente  assume,
cioe', che la norma statale censurata sarebbe applicabile anche nella
Regione Campania (e, dunque, alla vicenda oggetto del giudizio a quo)
- almeno per la parte in cui prevede il limite volumetrico -  pur  in
presenza di una disciplina regionale della materia. 
    L'art. 9, comma 2, della legge della Regione Campania  11  agosto
2005, n. 15 (Disposizioni per la formazione del  bilancio  annuale  e
pluriennale della Regione  Campania  -  Legge  finanziaria  regionale
2005), sostituendo l'art. 4, comma 2, della legge regionale 20  marzo
1982, n. 17 (Norme transitorie per le attivita'  urbanistico-edilizie
nei Comuni della Regione), ha infatti previsto, per l'edificazione di
complessi produttivi in "zone bianche" esterne ai centri abitati,  un
limite di superficie coperta piu' rigoroso di quello stabilito  dalla
norma statale (un sedicesimo dell'area  di  proprieta',  anziche'  un
decimo). Tale limite non si coniuga, pero', ad un concorrente  limite
di cubatura: sicche',  con  riguardo  a  quest'ultimo  -  secondo  il
giudice a quo - rimarrebbe operante la  norma  statale,  non  potendo
venire in rilievo la clausola di cedevolezza di fronte  a  previsioni
regionali piu' restrittive. 
    Al riguardo, va rilevato che, in base alla  previsione  dell'art.
2, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, «Le  disposizioni,  anche  di
dettaglio, del [...] testo unico, attuative dei principi di  riordino
in esso contenuti operano direttamente nei riguardi delle  regioni  a
statuto ordinario, fino a quando esse non  si  adeguano  ai  principi
medesimi». 
    L'idea sottesa, nella sostanza, alla tesi del rimettente e' che -
articolandosi la norma statale censurata in due  distinte  componenti
precettive (una relativa al limite minimo volumetrico  e  l'altra  al
limite  minimo  superficiario)  -  il  legislatore  campano  si   sia
adeguato, con la legge  reg.  n.  15  del  2005,  solo  alla  seconda
(stabilendo un  limite  di  superficie  piu'  restrittivo  di  quello
statale). Di conseguenza, solo in rapporto a  tale  limite  la  norma
regionale si  surrogherebbe  a  quella  statale:  con  riguardo  alla
previsione inerente al limite volumetrico - alla quale il legislatore
regionale non si e' adeguato - resterebbe invece ferma l'operativita'
della norma statale. 
    In questa ottica, la tesi in esame - condivisa,  peraltro,  anche
dal Consiglio di Stato (sezione quarta, sentenza 5 febbraio 2009,  n.
679) - puo' ritenersi non implausibile: il che e' sufficiente ai fini
del superamento della verifica della rilevanza delle questioni. 
    Va aggiunto, per completezza, che  non  viene  in  ogni  caso  in
rilievo, ai fini considerati, la circostanza che l'art. 1, comma 175,
lettere b) e g), della legge della Regione Campania 7 agosto 2014, n.
16,  recante  «Interventi  di  rilancio  e   sviluppo   dell'economia
regionale  nonche'  di  carattere   ordinamentale   e   organizzativo
(collegato alla legge di stabilita' regionale 2014)», abbia  disposto
l'abrogazione dell'intera legge reg. n. 17 del  1982  e  della  norma
novellatrice di cui al menzionato art. 9, comma 2, della  legge  reg.
n. 15 del 2005. Cio' per l'assorbente ragione  che  tale  abrogazione
viene fatta espressamente decorrere «Dall'entrata in vigore del Piano
Paesaggistico Regionale»: condizione  che,  allo  stato,  non  si  e'
ancora verificata. 
    5.- Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    6.- Quanto alla prima delle censure formulate  dal  rimettente  -
l'eccesso di delega (art. 76 Cost.) - va rilevato che il testo  unico
in cui si colloca la norma impugnata  e'  stato  emanato  sulla  base
dell'art. 7 della legge n. 50 del 1999, come modificato  dall'art.  1
della  legge  24  novembre  2000,  n.  340   (Disposizioni   per   la
delegificazione di norme e per  la  semplificazione  di  procedimenti
amministrativi  -Legge  di  semplificazione  1999),  il  quale  aveva
demandato al Governo la  redazione  di  testi  unici  finalizzati  al
riordino delle norme legislative e regolamentari in un  complesso  di
materie, tra cui quella dell'edilizia. 
    Nell'ambito dei principi e criteri  direttivi  della  delega,  il
comma  2,  lettera  d),  del  citato  art.  7  aveva   affidato,   in
particolare, al Governo il compito  di  procedere  al  «coordinamento
formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei  limiti
di detto coordinamento, le  modifiche  necessarie  per  garantire  la
coerenza logica e  sistematica  della  normativa  anche  al  fine  di
adeguare e semplificare il linguaggio normativo». 
    Come risulta anche dalla sua rubrica, l'art. 9 del d.P.R. n.  380
del 2001 riprende, in particolare, il disposto del previgente art. 4,
ultimo comma, della legge n. 10 del 1977. 
    Osserva, tuttavia, il rimettente che la norma abrogata, alla luce
di una piana lettura del suo dettato,  sottoponeva  l'edificazione  a
fini produttivi in "zone  bianche"  extraurbane  al  solo  limite  di
superficie e stabiliva, altresi', che i parametri  da  essa  indicati
trovassero applicazione solo «in mancanza di norme regionali  e  fino
all'entrata  in  vigore  di  queste»:  dunque,  di  qualsiasi   norma
regionale, indipendentemente dal suo carattere  piu'  severo  o  piu'
permissivo. 
    La   disposizione   sottoposta   a   scrutinio    -    prevedendo
l'applicazione  cumulativa   anche   del   limite   di   cubatura   e
circoscrivendo la clausola di cedevolezza alle sole  norme  regionali
piu' restrittive - avrebbe, dunque, apportato innovazioni sostanziali
alla normativa preesistente. Tali innovazioni eccederebbero i  limiti
della delega: da un lato, infatti, esse non sarebbero  giustificabili
con esigenze di coerenza logica e sistematica; dall'altro,  la  legge
delega non recherebbe principi e criteri direttivi atti ad  orientare
l'operato del Governo nell'effettuazione di interventi di modifica  o
integrazione normativa. 
    6.1.-   Va   ricordato,   in   proposito,   che,   per   costante
giurisprudenza di questa Corte, la verifica della  conformita'  della
norma delegata alla norma delegante  postula  un  confronto  tra  gli
esiti di due processi  ermeneutici  paralleli,  l'uno  relativo  alla
norma che determina l'oggetto, i principi e i criteri direttivi della
delega; l'altro relativo alla norma  delegata,  da  interpretare  nel
significato compatibile con questi ultimi. Il contenuto della  delega
deve essere  identificato  tenendo  conto  del  complessivo  contesto
normativo nel quale si inseriscono  la  legge  delega  e  i  relativi
principi  e  criteri  direttivi,  nonche'  delle  finalita'  che   la
ispirano, che costituiscono  non  solo  base  e  limite  delle  norme
delegate,  ma  anche  strumenti  per  l'interpretazione  della   loro
portata. La delega legislativa non esclude ogni discrezionalita'  del
legislatore delegato, la quale puo' essere  piu'  o  meno  ampia,  in
relazione al grado di specificita' dei criteri  fissati  nella  legge
delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto  tali
margini di  discrezionalita',  occorre  individuare  la  ratio  della
delega, per verificare se la norma delegata sia con  questa  coerente
(ex plurimis, sentenze n. 250 del 2016, n. 47 del 2014, n. 272  e  n.
75 del 2012, n. 98 del 2008, n. 341 e n. 340 del 2007). 
    Con particolare riguardo  alle  deleghe  per  il  riordino  o  il
riassetto di settori normativi, questa Corte ha inquadrato in  limiti
rigorosi l'esercizio, da parte del legislatore  delegato,  di  poteri
innovativi della normazione vigente, da intendersi in ogni caso  come
strettamente orientati e funzionali alle finalita' esplicitate  dalla
legge di delega (tra le altre, sentenze n. 250 del 2016, n. 162 e  n.
80 del 2012, n. 293 del 2010). 
    In tale cornice, la Corte si e' peraltro specificamente occupata,
in piu' occasioni, della delega prevista dall'art. 7 della  legge  n.
50 del 1999 - che qui interessa - con riguardo ad altri  testi  unici
emanati sulla sua base. 
    Pronunciando, in particolare, su una serie di questioni attinenti
al d.P.R. 30 maggio 2002, n.  115,  recante  il  «Testo  unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia (Testo A)», la Corte ha rilevato - in accordo con il parere
espresso dal  Consiglio  di  Stato  nel  corso  del  procedimento  di
approvazione del testo unico  -  che,  se  l'obiettivo  indicato  dal
criterio di delega previsto dalla lettera d) del comma 2  del  citato
art.  7  «e'  quello  della  coerenza  logica  e  sistematica   della
normativa, il coordinamento  non  puo'  essere  solo  formale  [...].
Inoltre, se  l'obiettivo  e'  quello  di  ricondurre  a  sistema  una
disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principi
sono quelli gia' posti dal legislatore, non e' necessario  che  [...]
sia espressamente enunciato nella delega il principio  gia'  presente
nell'ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una
materia delimitata». Entro  questi  limiti,  il  testo  unico  poteva
pertanto «innovare per raggiungere la coerenza logica e  sistematica»
(sentenze n. 52 e n. 53 del 2005; in senso analogo, sentenza  n.  174
del  2005).  In  sostanza,  dunque,  il  Governo  era   chiamato   ad
individuare i principi regolativi  della  normativa  gia'  esistente,
orientando in base ad essi le operazioni di coordinamento  nei  sensi
ora indicati (per una successiva applicazione del principio, sentenza
n. 230 del 2010). 
    6.2.- Cio' posto, per quanto attiene al primo dei dedotti profili
di innovativita' dell'art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n.  380
del 2001 - il cumulo dei limiti - si deve rilevare che il  previgente
art. 4,  ultimo  comma,  della  legge  n.  10  del  1977  recava  una
disposizione  non  priva  di  ambiguita',  prevedendo,  in   separate
lettere:  che  l'«edificazione  a  scopo  residenziale»   fuori   del
perimetro dei centri abitati dovesse rispettare l'indice  volumetrico
di metri cubi 0,03 per metro quadrato di  area  edificabile  (lettera
a); che «nell'ambito dei  centri  abitati»  fossero  consentite  solo
opere  di  restauro,  risanamento,  manutenzione   e   consolidamento
(lettera b);  che  le  superfici  coperte  di  «edifici  e  complessi
produttivi» non potessero superare un decimo dell'area di  proprieta'
(lettera c). 
    Il Consiglio di Stato aveva  ritenuto  che  la  previsione  della
lettera c),  da  ultimo  ricordata,  e  che  qui  rileva,  non  fosse
riferibile alle aree interne ai centri abitati, in ordine alle  quali
la lettera b) poneva il divieto di nuove edificazioni  (Consiglio  di
Stato, sezione quinta, 14 novembre 1996, n. 1368). Fuori  dei  centri
abitati, per  converso,  l'edificazione  a  fini  produttivi  sarebbe
rimasta soggetta al solo limite superficiario, e non anche  a  quello
volumetrico,  riferito  dalla   lettera   a)   alla   sola   edilizia
residenziale (Consiglio di Stato, sezione quinta, 11 luglio 2002,  n.
3884; Consiglio di Stato, sezione quinta,  8  gennaio  1998,  n.  55;
Consiglio di Stato, sezione quinta, 2 luglio 1993, n. 770):  cio'  in
linea con l'esegesi qualificata come del tutto piana  dal  giudice  a
quo. 
    Anche riconoscendo, peraltro, che sul punto si fosse  formato  un
"diritto vivente" e che il legislatore delegato dovesse di esso tener
conto,  resta,  tuttavia,  il  fatto  che  la  sottoposizione   degli
interventi  produttivi  al  solo  limite  della  superficie   coperta
risultava incoerente con la ratio della  previsione  di  standard  di
edificabilita' nelle "zone bianche", in  precedenza  evidenziata.  Il
regime  in  questione  si  risolveva,  infatti  -  come  nota   anche
l'Avvocatura generale dello Stato - nell'ammissione  di  un'attivita'
edificatoria sostanzialmente senza limiti,  tramite  lo  sviluppo  in
verticale dei fabbricati. 
    La conclusione risulta tanto piu' valida ove si consideri  che  -
secondo quanto pure affermato  dal  Consiglio  di  Stato  -  ai  fini
dell'applicazione della  norma  abrogata,  per  «superficie  coperta»
doveva intendersi quella "di sedime", vale  a  dire  la  porzione  di
terreno su cui poggia la base del fabbricato, e non  gia'  il  totale
della superficie di calpestio. Quando aveva voluto fare riferimento a
quest'ultima, il legislatore urbanistico  si  era,  infatti,  avvalso
della  diversa  espressione  «superficie  lorda  di   pavimentazione»
(Consiglio di Stato, sezione quinta, 8 gennaio 1998, n. 55; Consiglio
di Stato, sezione quinta, 2 luglio 1993, n. 770). Di conseguenza, una
volta che la base d'appoggio fosse rimasta contenuta entro il  decimo
dell'area di proprieta', il fabbricato avrebbe potuto svilupparsi  in
altezza ad libitum, anche grazie alla ripartizione in piani. 
    E' peraltro evidente che - se  la  norma  mira  a  realizzare  un
contemperamento  tra   gli   opposti   interessi,   riconoscendo   ai
proprietari di fondi siti in "zone  bianche"  una  limitata  facolta'
edificatoria che non  comprometta  l'assetto  del  territorio  e  non
pregiudichi le future scelte in sede di pianificazione - tali  ultimi
obiettivi verrebbero vanificati da un simile regime. 
    Si  deve,  quindi,  concludere  che  l'inequivoca  estensione  ai
complessi produttivi del limite volumetrico, operata dal  legislatore
delegato,  trovi  giustificazione  nell'esigenza  di   garantire   la
«coerenza logica  e  sistematica»  della  normativa  considerata,  in
accordo con la direttiva del legislatore delegante. 
    E' ben vero che l'applicazione congiunta finisce,  a  sua  volta,
per svuotare di significato il limite superficiario, il  quale  resta
di regola assorbito dal piu' incisivo limite di  densita'  fondiaria.
Ma si tratta di una incongruenza che, a  differenza  dell'altra,  non
mina  la  ratio  legis:  il  limite  superficiario  congiunto  potra'
risultare superfluo, ma non e', in ogni caso, disfunzionale  rispetto
all'obiettivo perseguito, come invece sarebbe il limite superficiario
autonomo. 
    6.3.- Un discorso analogo vale anche in rapporto alla limitazione
della  clausola  di  cedevolezza  alle  sole  norme  regionali   piu'
restrittive. 
    Come meglio si verifichera' poco oltre, la previsione  di  limiti
invalicabili all'edificazione nelle "zone bianche", per la  finalita'
ad essa sottesa, ha  le  caratteristiche  intrinseche  del  principio
fondamentale della legislazione statale in  materia  di  governo  del
territorio, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali
il paesaggio, l'ambiente e i beni culturali. 
    In quest'ottica, la fissazione di standard rigorosi, ma  cedevoli
di fronte a qualsiasi  regolamentazione  regionale  della  materia  -
sulla  falsariga  di  quanto  previsto  dalla   norma   anteriore   -
rappresenterebbe una soluzione  contraddittoria.  Come  rilevato  dal
Consiglio  di  Stato  nel  dichiarare  manifestamente  infondate   le
questioni in esame, detta soluzione lascerebbe,  infatti,  aperta  la
possibilita'  che  «eventuali  legislatori  regionali,  prodighi   di
facolta' edificatorie, finiscano con  il  frustrare  la  ratio  della
disciplina  in  commento,  compromettendo  in  modo   tendenzialmente
irreversibile interessi di  rango  costituzionale»:  ragione  per  la
quale  «l'art.  9   individua   un   principio   fondamentale   della
legislazione statale  tale  da  condizionare  necessariamente  quella
regionale a regolare solo in senso piu'  restrittivo  l'edificazione»
(Consiglio di Stato, sezione quarta, 12 marzo 2010, n. 1461). 
    Configurando  gli  standard  considerati  come   limiti   minimi,
derogabili dalle Regioni solo nella direzione dell'innalzamento della
tutela, il legislatore si e',  quindi,  novamente  mosso  nell'ambito
della  direttrice  di  delega   del   promovimento   della   coerenza
logico-sistematica della disciplina. 
    7.- Infondata e' anche l'ulteriore censura  di  violazione  della
potesta' legislativa regionale in materia di «governo del territorio»
(art. 117, terzo comma, Cost.). 
    Secondo  il  rimettente,  la  limitazione   della   clausola   di
cedevolezza, di cui all'art. 9, comma 1, del d.P.R. n. 380 del  2001,
alle sole norme regionali piu' restrittive farebbe si' che la  regola
del doppio limite, posta dal legislatore statale  -  costituente,  in
assunto, norma di dettaglio  -  resti  applicabile  anche  quando  la
Regione abbia provveduto a dettare  norme  proprie  piu'  favorevoli,
come e' avvenuto nell'ipotesi in  esame,  contravvenendo  cosi'  alle
regole  di  riparto  della  potesta'  legislativa  nelle  materie  di
competenza concorrente. 
    La giurisprudenza di questa Corte e', in  effetti,  costante  nel
ritenere  che  l'urbanistica  e  l'edilizia  vadano  ricondotte  alla
materia «governo del territorio», di cui all'art. 117,  terzo  comma,
Cost.: materia di legislazione concorrente nella quale lo Stato ha il
potere di fissare i principi fondamentali, mentre spetta alle Regioni
il potere di emanare la normativa di dettaglio (per  tutte,  sentenze
n. 102 del 2013 e n. 303 del 2003). 
    Contrariamente a quanto sostenuto dal  rimettente,  tuttavia,  la
norma censurata - nonostante la puntuale quantificazione  dei  limiti
di cubatura e di superficie in essa contenuta - non puo' qualificarsi
come  norma  di  dettaglio,   esprimendo   piuttosto   un   principio
fondamentale della materia: il che risponde, del resto, all'indirizzo
accolto dalla giurisprudenza  amministrativa  pressoche'  unanime,  e
recepito dallo  stesso  Tribunale  amministrativo  regionale  per  la
Campania in precedenti decisioni. 
    Di la' dalle non decisive  previsioni  generali  degli  artt.  1,
comma 1, e 2, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 380 del 2001  -  secondo  le
quali il testo unico  reca  i  principi  fondamentali  dell'attivita'
edilizia ai quali i legislatori regionali debbono attenersi -  milita
in tale direzione l'evidenziata funzione  della  norma  di  impedire,
tramite  l'applicazione  di  standard   legali,   una   incontrollata
espansione edilizia in caso di "vuoti urbanistici",  suscettibile  di
compromettere  l'ordinato  (futuro)  governo  del  territorio  e   di
determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di
valori di chiaro rilievo costituzionale. Funzione rispetto alla quale
la specifica previsione di  livelli  minimi  di  tutela  si  presenta
coessenziale, in  quanto  necessaria  per  esprimere  la  regola  (al
riguardo, sentenza n. 430 del 2007). 
    Questa Corte, d'altro canto, ha gia' avuto  modo  di  qualificare
come principio fondamentale in materia di «governo del territorio» le
misure di salvaguardia previste dall'art. 12, comma 3, del d.P.R.  n.
380 del 2001: e cio' anche - e specificamente - per quanto attiene al
puntuale termine di durata cui esse sono sottoposte (sentenza n.  102
del 2013). Dette misure hanno una ratio similare a  quella  dell'art.
9:  mirano,  infatti,  anch'esse  a  salvaguardare  la  funzione   di
pianificazione urbanistica, evitando che l'introduzione di una  nuova
disciplina, ritenuta piu' aderente alle  esigenze  del  territorio  e
della popolazione, sia  pregiudicata  dal  rilascio  di  contrastanti
titoli edilizi nelle more del procedimento di approvazione del  nuovo
strumento urbanistico. 
    Al pari del citato art. 12, comma 3, anche la norma oggi in esame
lascia, d'altro canto, uno spazio  di  intervento  alle  Regioni  nel
definire  la  disciplina  di  dettaglio  -  conformemente  a   quanto
stabilito dall'art. 117, terzo comma, Cost. - sia pure al  solo  fine
di restringere le potenzialita' edificatorie. 
    8.- Con riguardo alla censura  di  violazione  del  principio  di
ragionevolezza  (art.  3  Cost.),   va   disattesa   l'eccezione   di
inammissibilita'  formulata  dall'Avvocatura  dello   Stato,   legata
all'asserita genericita' della relativa motivazione. 
    Il rimettente pone, infatti, a base della doglianza  l'assunto  -
corroborato anche con l'allegazione di  esempi  concreti  -  per  cui
l'applicazione congiunta dei  limiti  di  cubatura  e  di  superficie
penalizzerebbe oltre misura le attivita' produttive, facendo si' che,
per realizzare edifici idonei allo  svolgimento  di  tali  attivita',
occorra la disponibilita' di aree molto estese. 
    Nel merito, tuttavia, la doglianza e' infondata, per  le  ragioni
gia' indicate in sede di esame della censura di eccesso di delega. 
    L'inconveniente che il giudice a quo lamenta rientra nella logica
della disciplina di cui si discute, che e' quella di  riconoscere  al
privato - fin tanto che non intervenga la pianificazione dell'area  -
facolta' edificatorie significativamente compresse, proprio  per  non
compromettere l'esercizio di quella funzione.  Al  contrario,  e'  la
soluzione auspicata dal rimettente - ossia l'applicabilita' del  solo
limite superficiario, con conseguente libero sviluppo  degli  edifici
in verticale - a collidere con la coerenza della norma. 
    9.- Quanto, poi, alla prospettata violazione dell'art. 41,  primo
comma, Cost., il parametro evocato e' inconferente  (in  tale  senso,
sentenza n. 186 del 1993, con  riguardo  alla  materia  affine  della
proroga dei vincoli urbanistici). 
    La disciplina dei limiti di edificabilita' nelle  "zone  bianche"
non incide affatto sulla liberta' di iniziativa economica privata, la
quale non deve essere  necessariamente  garantita  -  per  imperativo
costituzionale - consentendo al  privato  di  realizzare  opifici  su
terreni non coperti dalla pianificazione urbanistica. 
    10.- Con  riguardo,  infine,  alla  denunciata  violazione  della
garanzia costituzionale del diritto di proprieta' (art. 42, secondo e
terzo comma, Cost.), e'  assorbente  il  rilievo  che  si  tratta  di
doglianza non congruente rispetto al petitum. 
    La censura fa perno,  infatti,  sulla  giurisprudenza  di  questa
Corte  in   tema   di   vincoli   di   inedificabilita'   preordinati
all'espropriazione  o  a  contenuto  sostanzialmente   espropriativo:
vincoli ai quali il giudice a quo reputa assimilabile il regime delle
"zone bianche". In base alla giurisprudenza richiamata,  peraltro,  i
vincoli in questione non sono inammissibili: il principio che da essa
emerge e' piuttosto  l'altro  della  necessaria  alternativa  tra  la
previsione di un termine massimo ragionevole di  durata  dei  vincoli
stessi e l'obbligo di indennizzo (tra le altre, sentenze n.  411  del
2001, n. 179 del 1999, n. 344 del 1995 e n. 379 del 1994). 
    Il rimettente non si duole, tuttavia, del fatto che,  in  assenza
della previsione di un termine massimo di  durata  del  regime  delle
"zone bianche", non  sia  riconosciuto  al  proprietario  il  diritto
all'indennizzo (questione che risulterebbe, peraltro, irrilevante nel
giudizio a quo), ma chiede una cosa diversa: ossia di incrementare le
facolta'   edificatorie   del   proprietario   (peraltro   in    modo
"unidirezionale", ossia solo con riferimento ai complessi  produttivi
in zone extraurbane), cosi' da rendere "non eccessiva" -  secondo  il
suo apprezzamento - la compressione dello ius aedificandi. Soluzione,
questa, affatto estranea alla evocata linea  d'intervento  di  questa
Corte. 
    11.- Le questioni vanno  dichiarate,  pertanto,  non  fondate  in
rapporto a tutti i parametri evocati. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 9, comma 1, lettera b), del decreto  legislativo  6  giugno
2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in  materia  edilizia
(Testo B)», trasfuso nell'art. 9, comma 1, lettera b), del  d.P.R.  6
giugno 2001, n. 380,  recante  il  «Testo  unico  delle  disposizioni
legislative  e  regolamentari  in  materia   edilizia   (Testo   A)»,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42,  secondo
e terzo comma,  76  e  117,  terzo  comma,  della  Costituzione,  dal
Tribunale amministrativo regionale per la  Campania  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                   Carmelinda MORANO, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2017. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Carmelinda MORANO