N. 98 SENTENZA 11 aprile - 10 maggio 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via principale. 
 
Disposizioni varie in materia di commercio (giornate  di  apertura  e
  chiusura  degli  esercizi;  "centri  commerciali  naturali";  medie
  strutture di  vendita  al  dettaglio;  commercio  alimentare  o  di
  somministrazione  di  alimenti  e  bevande)  e  di  pesca  sportiva
  (immissioni di fauna ittica). 
-  Legge della Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  5  dicembre
  2005, n. 29 (Normativa organica in materia di attivita' commerciali
  e di somministrazione di alimenti e bevande.  Modifica  alla  legge
  regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»),
  art. 29, come modificato dall'art.  1  della  legge  della  Regione
  autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2016,  n.  4  (Disposizioni
  per il riordino e la semplificazione della normativa  afferente  il
  settore terziario, per  l'incentivazione  dello  stesso  e  per  lo
  sviluppo  economico);  art.  29-bis;  art.  30,   come   modificato
  dall'art. 3 della legge regionale n. 4 del 2016  e  successivamente
  dall'art. 14 della  legge  della  Regione  autonoma  Friuli-Venezia
  Giulia 9 dicembre 2016, n. 19 (Disposizioni per l'adeguamento e  la
  razionalizzazione  della  normativa   regionale   in   materia   di
  commercio). Legge della Regione autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  8
  aprile 2016, n. 4, artt. 9, comma 3, 15, comma 1, lettera  c),  19,
  comma 1, lettera a), 72, comma 1. 
-   
(GU n.20 del 17-5-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
  MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria
  de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 1, 3,  9,
15 (recte: 15, comma 1, lettera c), 19 (recte: 19, comma  1,  lettera
a), 72, comma 1, della legge della  Regione  autonoma  Friuli-Venezia
Giulia 8 aprile 2016,  n.  4  (Disposizioni  per  il  riordino  e  la
semplificazione della normativa afferente il settore  terziario,  per
l'incentivazione dello stesso e per lo sviluppo  economico)  promosso
dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per  la
notifica il 13 giugno 2016, depositato il 21 giugno 2016  e  iscritto
al n. 36 del registro ricorsi 2016. 
    Visti   l'atto   di   costituzione   della    Regione    autonoma
Friuli-Venezia Giulia, nonche' l'atto di intervento,  fuori  termine,
della  FEDERDISTRIBUZIONE  -  Federazione  delle  Associazioni  delle
Imprese  e  delle  Organizzazioni  Associative  della   Distribuzione
Moderna Organizzata; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'11  aprile  2017  il  Giudice
relatore Augusto Antonio Barbera; 
    uditi l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente  del
Consiglio dei ministri e l'avvocato Massimo Luciani  per  la  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con il ricorso spedito per la notifica  il  13  giugno  2016,
depositato il successivo 21 giugno e iscritto al registro ricorsi  n.
36 del 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri,  rappresentato
e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso  questione
di legittimita' costituzionale, in via principale, degli articoli  1,
3, 9, 15 (recte: 15, comma 1, lettera c), 19  (recte:  19,  comma  1,
lettera a), 72 comma 1, della legge regionale 8  aprile  2016,  n.  4
(Disposizioni per il riordino e la  semplificazione  della  normativa
afferente il settore terziario, per l'incentivazione dello  stesso  e
per lo sviluppo economico), per violazione  dell'art.  117,  primo  e
secondo comma, lettere e) e s),  della  Costituzione,  nonche'  degli
artt. 4 e 6 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto
speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia). 
    1.1.- Il ricorrente censura: il citato art. 1, nella parte in cui
modifica l'art. 29 della legge  regionale  5  dicembre  2005,  n.  29
(Normativa  organica  in  materia  di  attivita'  commerciali  e   di
somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale
16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»),  disponendo
che «l'esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa  e'  svolto
senza limiti relativamente alle giornate di apertura  e  chiusura,  a
eccezione dell'obbligo di chiusura nelle seguenti  giornate  festive:
1° gennaio, Pasqua, lunedi' dell'Angelo,  25  aprile,  l°  maggio,  2
giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre»; il richiamato art.
3, che ha modificato l'art. 30, della legge regionale n. 29 del 2005,
disponendo che, «nei Comuni classificati come localita' a  prevalente
economia turistica, gli esercenti determinano liberamente le giornate
di chiusura degli esercizi di commercio al dettaglio in  sede  fissa,
in deroga a quanto disposto dall'art. 29». La disposizione  impugnata
precisa altresi' le  localita'  a  prevalente  economia  turistica  e
stabilisce che con delibera «della Giunta regionale, su  domanda  del
comune interessato, possono essere individuate ulteriori localita'  a
prevalente  economia  turistica,   sulla   base   delle   rilevazioni
periodiche di Promo Turismo FVG». 
    Secondo il ricorrente, gli impugnati artt. 1 e 3  violano  l'art.
117, comma secondo, lettera e), Cost., che  riserva  alla  competenza
esclusiva dello Stato la materia «tutela della  concorrenza»,  e  gli
artt. 4 e 6  dello  statuto  della  Regione  autonoma  Friuli-Venezia
Giulia, che  definiscono  la  potesta'  legislativa  esclusiva  della
Regione in materia di commercio, da  esercitare  in  armonia  con  la
Costituzione, con i principi generali dell'ordinamento, con le  norme
fondamentali delle  riforme  economico-sociali  e  con  gli  obblighi
internazionali dello Stato (art. 4,  comma  1),  potendo  la  Regione
adeguare con norme integrative la legislazione statale  alle  proprie
esigenze in alcune materie indicate dall'art. 6, ma non in materia di
commercio. 
    La disciplina uniforme degli orari e dei giorni di apertura degli
esercizi  commerciali   atterrebbe   alla   materia   «tutela   della
concorrenza»; l'autonomia normativa regionale speciale  non  potrebbe
dunque  incidere  su  tale  disciplina  attribuita  alla   competenza
legislativa esclusiva dello Stato (vengono richiamate le sentenze  n.
104 del 2014, n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430  e  n.
401 del 2007). 
    Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in
questa materia sarebbe, ad avviso del ricorrente, l'art. 31, comma 2,
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per
la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma l, della  legge  22
dicembre  2011,  n.  214.  La  disposizione   avrebbe   liberalizzato
l'attivita' imprenditoriale nel settore commerciale,  stabilendo  che
«costituisce  principio  generale   dell'ordinamento   nazionale   la
liberta' di apertura di nuovi  esercizi  commerciali  sul  territorio
senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli  di  qualsiasi
altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della  salute,  dei
lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei  beni
culturali». 
    In particolare, il profilo degli orari e dei giorni di apertura e
chiusura degli esercizi  commerciali  e'  disciplinato  dall'art.  3,
comma 1, lettera d-bis), del  d.l.  n.  223  del  2006  (Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e di  contrasto  all'evasione  fiscale),  come  modificato
dall'art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il  quale  stabilisce  che  le
attivita' commerciali «individuate dal decreto legislativo  31  marzo
1998, n. 114» (recante «Riforma della disciplina relativa al  settore
del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo
1997, n. 59»), sono svolte senza il rispetto - tra l'altro - di orari
di apertura e chiusura,  dell'obbligo  della  chiusura  domenicale  e
festiva,  nonche'  di  quello  della  mezza  giornata   di   chiusura
infrasettimanale. 
    L'imposizione generalizzata del divieto di  apertura  nei  giorni
festivi  indicati  dalla   legge   impugnata,   e   l'esclusione   di
quest'obbligo  nei  soli  comuni  a  prevalente  economia  turistica,
contrastano  con  tale   assetto,   «costituente   disciplina   della
concorrenza e riforma economica fondamentale», sicche'  la  normativa
in  esame  esulerebbe  dalla  materia   «commercio»,   invadendo   la
competenza esclusiva statale, per contrasto con il d.l.  n.  223  del
2006 e con il successivo d.l. n. 201 del  2011,  come  convertiti  in
legge. 
    Le medesime violazioni si colgono anche in riferimento all'art. 3
della legge regionale n. 4 del 2016, che prevede la  liberalizzazione
totale dei giorni  di  apertura  soltanto  nei  comuni  a  prevalente
economia turistica, sotto il profilo della disparita'  di  condizioni
territoriali di esercizio del commercio. 
    La previsione di un regime differenziato si porrebbe, quindi,  in
contrasto con l'art. 117,  comma  2,  lettera  e),  Cost.,  e  con  i
principi di liberalizzazione, uniformita' del mercato,  par  condicio
degli operatori e uniformita' della disciplina, ribaditi dalla  Corte
Costituzionale fin dalla sentenza n. 430 del 2007  (richiamata  anche
la sentenza n. 8 del 2013), per contrasto con l'art. 3, comma 1,  del
d.l. n. 223 del 2006, come convertito in  legge,  che  stabilisce  la
necessita'  di  «garantire  la  liberta'   di   concorrenza   secondo
condizioni di parita' e il  corretto  e  uniforme  funzionamento  del
mercato, nonche' di  assicurare  ai  consumatori  finali  un  livello
minimo e uniforme di condizioni di accessibilita' ai beni  e  servizi
sul territorio nazionale». 
    2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri  impugna,  altresi',
gli artt. 9 e 15  (recte:  15,  comma  1,  lettera  c),  della  legge
regionale n. 4 del 2016. 
    2.1.- La prima disposizione introduce, nella legge  regionale  n.
29  del  2005,  l'art.  85-bis,  dedicato  ai   «centri   commerciali
naturali», locuzione con la quale il legislatore regionale ha  inteso
definire un insieme  «di  attivita'  commerciali,  artigianali  e  di
servizi, localizzate in una zona determinata del territorio comunale»
e  finalizzate  «al  recupero,  promozione  e  valorizzazione   delle
attivita' economiche, in  particolare  delle  produzioni  locali,  al
miglioramento della vivibilita'  del  territorio  e  dei  servizi  ai
cittadini e ai non residenti» (comma 1). Questi enti,  ai  sensi  del
comma 2 della norma  censurata,  possono  costituirsi  «in  forma  di
societa'  di  capitali,  societa'  consortili  e   associazioni   con
finalita' commerciali» e «adottano  iniziative  di  qualificazione  e
innovazione dell'offerta commerciale, di promozione  commerciale,  di
acquisizione di servizi innovativi di supporto alle  attivita'  delle
imprese aderenti»; alla  loro  costituzione  potrebbero  aderire  «le
associazioni di  categoria,  la  Camera  di  commercio  e  il  Comune
competenti  per  territorio  e  altri  enti  e  associazioni  che  si
prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio» (comma 3). 
    La disposizione impugnata, al comma 4, stabilisce altresi' che al
fine di  sostenere  le  attivita'  previste,  i  «centri  commerciali
naturali»  possono  accedere  ai  contributi  previsti  dalla   legge
regionale n. 4 del 2016 (di cui all'art. 100 della legge  n.  29  del
2005). 
    2.2.- Nel ricorso si evidenzia,  inoltre,  che  l'art.  15  della
legge regionale n. 4 del 2016, modifica l'art. 2,  comma  1,  lettera
i), della legge regionale n. 29 del 2005, distinguendo  la  categoria
degli  «esercizi  di  vendita  al  dettaglio  di  media   struttura»,
precedentemente comprensiva degli esercizi con superficie di  vendita
superiore a 250 mq e fino a 1500 mq, in «esercizi di media  struttura
minore», compresi tra 250 e 400 metri quadrati ed esercizi di  «media
struttura maggiore», compresi tra piu' di 400 e 1500 metri quadri. 
    2.3.- Le due disposizioni  censurate  introdurrebbero  due  nuove
tipologie di esercizi commerciali non previsti dalle  norme  statali,
secondo quanto disposto dal d.lgs. n. 114 del 1998 (art. 4, comma  1,
lettere  d,  e,   g),   generando   una   discrasia   rispetto   alla
classificazione dei centri commerciali e degli esercizi di vendita al
dettaglio  stabilita  da  queste  ultime.   Questa   differenziazione
esulerebbe dalla materia  «commercio»  di  competenza  della  Regione
autonoma, incidendo direttamente sulla disciplina della concorrenza. 
    Il ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte secondo  cui
una  regolazione  delle  attivita'  economiche   «ingiustificatamente
intrusiva» genera  inutili  ostacoli  alle  dinamiche  economiche,  a
detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori
e degli stessi lavoratori e, dunque,  alla  stessa  utilita'  sociale
(sentenza n. 299 del 2012). Richiama anche la  sentenza  n.  125  del
2014,  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'   costituzionale   delle
disposizioni regionali che avevano introdotto la definizione di «polo
commerciale» non prevista nella  classificazione  degli  esercizi  di
vendita operata dal d.lgs. n. 114 del 1998. 
    2.4.- Con riguardo al disposto dell'art. 15 della legge regionale
n. 4 del 2016, ad avviso del ricorrente, dalla distinzione menzionata
non farebbe seguito «nell'insieme della novellata legge regionale  n.
29  del  2005,  alcuna  conseguenza  pratica»,  poiche'   il   regime
amministrativo a cui sono sottoposti gli esercizi di media  struttura
rimarrebbe immutato (sottoposizione  a  Segnalazione  certificata  di
inizio attivita' o ad autorizzazione in base  alla  dimensione  della
struttura), essendo regolato dall'art. 12, della  citata  legge,  non
soggetto a modifiche. 
    2.5.-  Quanto  ai  «centri  commerciali   naturali»,   introdotti
dall'art.   9,   della   legge   regionale    impugnata,    anch'essi
comporterebbero un eccesso di regolazione, in quanto si basano su una
definizione  sfuggente  che  eccede  largamente  i  limiti   concessi
all'intervento del legislatore nella dinamica  economica.  La  figura
del «centro commerciale naturale» inciderebbe sul libero  dispiegarsi
dell'iniziativa economica in regime di concorrenza,  fissando  limiti
spaziali,  oggettivi  e  strutturali  alle   attivita'   commerciali,
anziche' rimettere  al  dispiegamento  del  gioco  concorrenziale  il
determinarsi  dei  luoghi,  oggetti  e  strutture   delle   attivita'
commerciali. Altererebbe, inoltre,  la  concorrenza  all'interno  del
territorio regionale, e anche  al  di  fuori  di  esso,  perche':  a)
consente che alle societa' e associazioni con finalita'  commerciali,
in cui i centri dovrebbero costituirsi,  partecipino  anche  soggetti
che  non  perseguono   direttamente   ed   esclusivamente   finalita'
commerciali, tra cui le Camere di commercio e  il  Comune  competente
per  territorio;  b)  collega  alla  costituzione   di   un   «centro
commerciale naturale» l'accesso ai finanziamenti  pubblici,  previsti
dall'art. 100 della legge regionale n. 29 del  2005  (secondo  l'art.
85-bis, ultimo comma, della medesima legge, introdotto dall'impugnato
art. 9), incentivando la costituzione di societa' o associazioni  per
ragioni  legate  alla  possibilita'  di  accedere  ai   finanziamenti
(richiamata la sentenza n. 104 del 2014). 
    3.- Con il terzo motivo di ricorso,  viene  censurato  l'art.  19
(recte: 19, comma 1, lettera a), della legge regionale in esame,  che
modifica l'art. 7, comma 2, della legge regionale n. 29 del 2005. 
    La norma  impugnata  stabilisce  che  l'esercizio  dell'attivita'
commerciale  in  sede  fissa  o  sulle  aree  pubbliche  di  prodotti
alimentari o la somministrazione di  alimenti  e  bevande,  ancorche'
svolto «nei confronti di una cerchia limitata di  persone  in  locali
non aperti al pubblico»,  e'  subordinato  al  possesso  di  uno  dei
requisiti  di  cui  all'art.  71,  commi  6  e  6-bis,  del   decreto
legislativo  26  marzo  2010,  n.  59  (Attuazione  della   direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). 
    Il ricorrente richiama l'art. 71, commi 6 e 6-bis, del d.lgs.  n.
59 del 2010, nel testo in vigore dal 14  settembre  2012,  a  seguito
delle modifiche disposte dal decreto legislativo 6  agosto  2012,  n.
147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26
marzo 2010, n. 59, recante attuazione  della  direttiva  2006/123/CE,
relativa ai servizi nel mercato interno), che dispone requisiti  meno
stringenti  rispetto  alla  precedente  formulazione.   Sintetizzando
l'evoluzione della vicenda normativa evidenzia  che,  con  il  d.lgs.
correttivo n. 147 del 2012, il legislatore e' intervenuto sulla prima
attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio  12
dicembre 2006,  n.  2006/123/CE  recante  «Direttiva  del  Parlamento
europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno»  (da
qui: direttiva Servizi), operata con l'originario testo dell'art. 71,
del d.lgs. n. 59 del 2010, in materia  di  requisiti  soggettivi  per
l'esercizio del  commercio  o  della  somministrazione  di  alimenti.
L'intervento   costitui'   una   verifica    della    necessita'    e
proporzionalita' di tali requisiti soggettivi, ai sensi dell'art. 15,
della direttiva Servizi (e del correlativo art. 12 del d.lgs.  n.  59
del 2010), che prescrive tale verifica da parte degli  Stati  membri.
Il legislatore statale, con il decreto correttivo del  2012,  ritenne
che non fosse proporzionato  richiedere  il  possesso  dei  requisiti
soggettivi, previsti dall'art. 71, comma 6, anche nel caso in cui  il
commercio o la somministrazione di alimenti avvenissero nei confronti
di una ristretta cerchia di soggetti. Per  questa  ragione  eliminava
l'inciso  «anche  se  effettuate  nei  confronti   di   una   cerchia
determinata di persone». 
    Il permanere, nell'impugnato art. 19, della  restrizione  abolita
dal legislatore statale,  palesa  per  il  ricorrente  la  violazione
dell'art. 117, secondo  comma,  lettera  e),  Cost.,  e  delle  norme
statutarie sopra citate (che rinviano ai principi fondamentali  della
Costituzione e alle grandi riforme economiche), avendo introdotto una
disciplina che incide sulla misura di liberalizzazione prevista dalla
norma correttiva statale del 2012. Le  Regioni,  anche  ad  autonomia
speciale, infatti, non possono, nell'esercitare la propria competenza
in materia di «commercio»,  provocare  differenziazioni  territoriali
nelle condizioni di tale offerta, secondo quanto  statuito  dall'art.
41, comma 2, della legge delega 7 luglio 2009,  n.  88  (Disposizioni
per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia
alla Comunita' europea - Legge comunitaria 2008),  che  impone  anche
alle  Regioni  ad  autonomia  speciale   di   adeguare   la   propria
legislazione a quella statale di attuazione della direttiva Servizi. 
    Il  permanere  nella  legislazione  regionale  di  requisiti  non
necessari e non proporzionati, contrasterebbe anche con  l'art.  117,
primo comma, Cost. 
    4.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri  impugna,  infine,
l'art. 72, comma  1,  della  legge  regionale  n.  4  del  2016,  che
introduce l'art. 6-quater nella legge regionale 12 maggio 1971, n. 19
(Norme per la protezione del  patrimonio  ittico  e  per  l'esercizio
della pesca nelle acque interne del Friuli-Venezia Giulia). 
    Ad avviso  del  ricorrente,  la  Regione  avrebbe  adottato  tale
disposizione nell'esercizio della  propria  competenza  esclusiva  in
materia di pesca  (art.  4,  n.  3  dello  statuto),  ma  ne  avrebbe
oltrepassato i limiti, invadendo la competenza statale  esclusiva  in
materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117,  secondo
comma, lettera s, Cost.), e l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto
avrebbe posto una disciplina in contrasto con i  principi  ricavabili
dall'ordinamento dell'Unione europea, e in particolare con l'art.  22
della direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43 CEE (Direttiva del Consiglio
relativa alla conservazione degli habitat naturali e  seminaturali  e
della flora e della fauna selvatiche) (c.d. direttiva Habitat), e gli
artt. 4 e 6, par. 1, del regolamento CE 11 giugno 2007,  n.  708/2007
(Regolamento del Consiglio relativo all'impiego  in  acquacoltura  di
specie esotiche e di specie localmente assenti). 
    Le modifiche apportate dalla legge impugnata consentirebbero,  al
fine di favorire la pesca sportiva: 1) l'immissione  in  tutti  corpi
idrici regionali di specie  ittiche  autoctone;  2)  l'immissione  di
specie alloctone in corpi idrici artificiali, a condizione  che,  per
quanto connessi con corpi  idrici  naturali,  non  ne  consentano  la
migrazione; 3) l'immissione nei corpi idrici  naturali  della  specie
alloctona  della  trota  iridea,  purche'  siano  immessi   individui
incapaci di riprodursi, anche nei corpi idrici abitati  dalla  «trota
marmorata» (specie autoctona) per alleggerire la pressione  di  pesca
su quest'ultima; 4) l'immissione della specie alloctona «trota fario»
in qualsiasi corpo idrico, purche' si  tratti  di  corpi  idrici  non
abitati dalla «trota marmorata» o  di  corpi  idrici  originariamente
privi di fauna ittica e attualmente  popolati  da  specie  introdotte
(come i laghi artificiali). 
    Per  il  ricorrente  questa  disciplina  minerebbe   l'equilibrio
naturale delle specie ittiche  autoctone,  nella  misura  in  cui  si
consente, senza limiti, l'immissione artificiale di specie autoctone,
creando il pericolo del sovrappopolamento,  senza  prevedere  che  si
tratti di specie a rischio di estinzione.  Si  consente  inoltre  che
specie alloctone «particolarmente invasive»  (trota  iridea  e  trota
fario),  vengano  introdotte  artificialmente,  garantendo  in   modo
meramente apparente che non si mescoleranno  alle  specie  autoctone,
minando l'habitat di queste ultime, a fronte di condizioni limitative
previste dalla normativa impugnata  solo  apparenti,  considerata  la
loro genericita'. 
    La normativa regionale esorbiterebbe dalla  competenza  regionale
in  materia  di   pesca,   impingendo   direttamente   sulla   tutela
dell'ambiente di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s),  Cost.,
che vincola anche le  Regioni  ad  autonomia  speciale,  esulando  la
materia  dalla  competenza  legislativa  della  Regione,  secondo  lo
statuto di autonomia. 
    Lo Stato italiano,  prosegue  il  ricorrente,  ha  esercitato  la
propria competenza con il decreto del Presidente della Repubblica  n.
357  del  1997  (Regolamento  recante  attuazione   della   direttiva
92/43/CEE  relativa  alla  conservazione  degli  habitat  naturali  e
seminaturali, nonche' della flora e della fauna  selvatiche  ),  come
modificato dal decreto del Presidente della  Repubblica  n.  120  del
2003 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni  al  decreto  del
Presidente della Repubblica 8 settembre  1997,  n.  357,  concernente
attuazione della  direttiva  92/43/CEE  relativa  alla  conservazione
degli habitat naturali e seminaturali, nonche' della  flora  e  della
fauna selvatiche), consentendo (art. 12, comma 2)  la  reintroduzione
delle specie autoctone sulla base di  linee  guida  da  emanarsi  dal
Ministero dell'ambiente, previa acquisizione del parere dell'Istituto
nazionale per la fauna selvatica (ora ISPRA), e (art.  12,  comma  3)
vietando  espressamente  la  reintroduzione,  l'introduzione   e   il
ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone. 
    L'invasione  della   competenza   statale   deriva   quindi,   in
definitiva,  dalla  circostanza  che  la  legge  regionale  impugnata
autorizza direttamente le immissioni di specie autoctone e  alloctone
sopra illustrate, superando l'intero sistema di verifiche  preventive
e  di  autorizzazioni,  e  soprattutto   il   divieto   assoluto   di
introduzione di specie alloctone, previsti dalla normativa statale di
settore, attuativa di  precise  prescrizioni  di  diritto  europeo  -
espresse dalla direttiva CEE, n. 43 del 1992 e dal regolamento CE  n.
708 del 2007 -  e  comunque  fondante  standard  uniformi  di  tutela
dell'ambiente, non differenziabili tra Regione e Regione. 
    Infine, la  normativa  regionale  violerebbe  l'art.  117,  primo
comma, Cost., per il contrasto con il principio  di  precauzione  con
riferimento all'art. 22 della direttiva Habitat,  che  consente  agli
Stati membri di reintrodurre specie autoctone, solo  previa  verifica
della effettiva necessita' e sostenibilita' ambientale, al solo  fine
di ristabilire il loro soddisfacente stato di conservazione;  con  le
disposizioni della direttiva stessa, che consente agli Stati  membri,
in funzione di conservazione dell'equilibrio ambientale,  di  vietare
l'introduzione di specie alloctone,  come  ha  fatto  il  legislatore
italiano senza incontrare censura ne' in sede europea  ne'  da  parte
delle Regioni. 
    5.- Con memoria del 26 luglio 2016 si e' costituita  in  giudizio
la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che  il  ricorso
sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato. 
    La   resistente   eccepisce   innanzitutto   una    ragione    di
inammissibilita' del ricorso comune a tutte le censure. Nel  motivare
l'impugnazione,  secondo  la  difesa  regionale,  il  ricorrente  non
avrebbe considerato le disposizioni di cui agli artt.  8  e  seguenti
del d.P.R. n. 1116 del 1965 (Norme di  attuazione  dello  Statuto  in
materia di agricoltura e foreste, industria e  commercio,  turismo  e
industria  alberghiera),  dal  particolare  e  significativo   «ruolo
interpretativo ed integrativo delle  stesse  espressioni  statutarie»
(richiamate le sentenze n. 288 del 2013 e n. 51 del 2006). 
    Con riguardo alla censura di cui all'art. 1 della legge regionale
n. 4 del 2016, relativa alle  giornate  di  chiusura  degli  esercizi
commerciali, la Regione eccepisce che il ricorrente, nel lamentare la
pretesa violazione di «norme di grande  riforma  economico-  sociale»
dello Stato, pur citando alcune disposizioni di legge  statale  (art.
31, del d. l. n. 201 del 2011; art. 3, del d. l. n.  223  del  2006),
non le qualifica come «norme di  grande  riforma  economico-sociale»,
bensi' si  limiterebbe  a  definirle  «espressione  della  competenza
legislativa esclusiva dello Stato  in  questa  materia»  (nell'ambito
materiale   della   tutela   della   concorrenza).   Ne   deriverebbe
l'inammissibilita' per difetto di motivazione e  di  indicazione  del
parametro (interposto) di legittimita' costituzionale. 
    Nel merito, secondo la difesa regionale, la censura di violazione
dell'ambito competenziale riservato allo Stato nella materia  «tutela
della concorrenza» appare infondata. Ad avviso della  resistente,  in
particolare, i precedenti di questa Corte richiamati nel ricorso  non
rileverebbero nel caso di specie  «per  il  semplice  motivo  che  la
disposizione in commento non limita l'assetto del  mercato  (e  della
concorrenza nel mercato) disciplinato dallo Stato». 
    La  resistente  eccepisce  l'infondatezza  anche  della   censura
relativa alla presunta violazione dell'art. 4 dello statuto  speciale
«per il fatto che la disposizione impugnata non sarebbe "in  armonia"
con le norme di grande riforma economico-sociale dello Stato». A  suo
avviso, infatti, solo il comma 2, dell'art. 31, del d.l. n.  201  del
2011, che ha liberalizzato  il  commercio,  costituirebbe  «principio
generale dell'ordinamento, mentre tale qualificazione non e' prevista
per il primo comma». Da cio'  discenderebbe  che  «nemmeno  lo  Stato
qualifica come "grande  riforma  economico-sociale"  la  soppressione
delle regole di apertura e chiusura degli esercizi  commerciali».  Al
contrario, la garanzia di alcuni giorni di chiusura  rappresenterebbe
una misura di tutela dei lavoratori, che trova  fondamento  nell'art.
36 Cost. 
    Con riguardo alla censura relativa ai centri commerciali naturali
e alle medie strutture di vendita (artt. 9 e 15 della legge regionale
n. 4 del 2016), la resistente evidenzia che le censure non  avrebbero
ad oggetto l'intero art. 15, bensi' la sola lettera c) del  comma  l,
che novella la lettera i) dell'art. 2, comma l, della legge regionale
n. 29  del  2005,  poiche'  le  altre  previsioni  dell'art.  15  non
sarebbero menzionate nell'articolazione del motivo. 
    Nel merito le doglianze sarebbero  manifestamente  infondate.  La
disciplina del «centro commerciale naturale»  non  costituirebbe  una
nuova tipologia di esercizio commerciale, bensi'  uno  strumento  «di
promozione economico-sociale delle aree nelle quali, per  tradizione,
vocazione o potenzialita' di sviluppo, l'attivita' commerciale assume
particolare rilievo». Cio' sarebbe dimostrato dal fatto che la  legge
contempla l'adesione a tali enti anche da  parte  dei  Comuni,  delle
associazioni di categoria e delle Camere di commercio, «soggetti  che
sono totalmente estranei all'attivita' di vendita al dettaglio». 
    Sarebbe priva di fondamento anche la doglianza secondo  la  quale
il centro commerciale naturale inciderebbe  «sul  libero  dispiegarsi
dell'iniziativa economica in regime di concorrenza», poiche' la legge
impugnata non determinerebbe «autoritativamente l'ambito territoriale
dei centri commerciali naturali». Al contrario, l'istituzione di tali
enti sarebbe  rimessa  alla  volonta'  delle  imprese  private,  «che
scelgono di "consorziarsi" e, eventualmente, di agire in partenariato
con i comuni e le camere di commercio, per valorizzare alcune aree  a
vocazione commerciale»,  (in  linea  con  quanto  accaduto  in  altre
Regioni italiane e come avallato dalla giurisprudenza amministrativa:
TAR Toscana, Sez. seconda, sentenza 30 maggio 2014, n. 925). 
    Secondo la resistente, inoltre, e' infondata la censura  in  base
alla quale la disposizione in esame sarebbe in grado di «alterare  la
concorrenza all'interno del territorio regionale», perche' la Regione
assegna dei contributi ai centri commerciali naturali. A suo  avviso,
la  legge  regionale  n.  29  del  2005,  gia'  prevedeva  forme   di
incentivazione  per  determinate  attivita'  commerciali;  similmente
stabiliscono inoltre le norme statali che  prevedono  incentivi  alle
imprese, senza che sussista violazione dell'ordinamento  europeo  che
consentirebbe forme  di  incentivazione  economica,  purche'  erogate
secondo i principi di non discriminazione, trasparenza, pubblicita' e
parita' di trattamento tra gli operatori commerciali. Si tratterebbe,
infatti,  di  aiuti  compatibili  con  l'assetto  concorrenziale  del
mercato europeo, tanto che il regolamento CE  18  dicembre  2013,  n.
1407/2013/UE (Regolamento della Commissione relativo all'applicazione
degli articoli 107 e 108 del trattato sul  funzionamento  dell'Unione
europea agli aiuti «de minimis») li  sottrae  alla  disciplina  sugli
"aiuti di Stato" (art. 107  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea). 
    Anche  la  censura  concernente  la  qualificazione  delle  medie
strutture di vendita sarebbe manifestamente infondata, in  quanto  si
tratterebbe di «disposizioni meramente definitorie» che, appunto  per
questo,  secondo  la  giurisprudenza  costituzionale,  non  avrebbero
effetto lesivo. 
    Il  terzo  motivo  di  ricorso  relativo  ai  requisiti  per   la
somministrazione dei cibi e bevande  sarebbe  nel  merito  infondato,
perche' non e' in gioco la tutela della  concorrenza,  bensi'  quella
della salute, secondo  quanto  statuito  dalla  Corte  costituzionale
nella sentenza n. l04 del 2014. 
    Con riguardo al quarto motivo di ricorso, relativo all'immissione
di specie ittiche, per la Regione resistente la censura e'  anzitutto
inammissibile, in quanto formulata in maniera ipotetica e,  comunque,
e' infondata nel merito. 
    Secondo la resistente, l'impugnazione non considera il ruolo  che
la novella impugnata conferirebbe all'Ente  Tutela  Pesca  (ETP)  del
Friuli-Venezia Giulia, deputato alla conservazione e alla tutela  del
patrimonio ittico regionale che  predispone  il  "Piano  di  gestione
ittica" (art. 6-ter legge regionale n. 19 del 1971), quale  documento
di  programmazione  teso  alla  tutela  della   biodiversita',   alla
conservazione e incremento della fauna ittica e dei relativi habitat,
alla gestione del patrimonio  ittico.  L'attivita'  di  immissione  e
ripopolamento, dunque, non sarebbe fine a se' stessa, costituendo uno
strumento di attuazione del piano di gestione ittica. 
    Insussistenti sarebbero le censure  di  violazione  dell'art.  22
della direttiva  Habitat,  sull'opportunita'  di  reintrodurre  delle
specie  locali  nel  loro  territorio  degli  Stati  membri  (di  cui
all'allegato IV), poiche' la disposizione impugnata non riguarderebbe
le "re-introduzioni", bensi' le immissioni  di  esemplari  di  specie
autoctone che sono gia' presenti nell'ambiente,  a  fini  della  loro
"conservazione". 
    Ad  identica  conclusione   dovrebbe   pervenirsi   quanto   alla
denunciata violazione dell'art. 12, comma 3, del d.P.R.  n.  357  del
l997,   perche'   la   disposizione   impugnata   gia'   escluderebbe
l'immissione di specie alloctone nelle acque naturali e  artificiali,
ai sensi della direttiva richiamata, nonche' nei  «siti  di  frega  o
nursery di specie ittiche autoctone incluse  nell'allegato  II  della
Direttiva 92/43/CEE o di specie  oggetto  di  particolari  misure  di
salvaguardia da parte dell'Ente Tutela Pesca». 
    6.- In data 18 ottobre 2016 ha depositato atto di intervento, con
istanza di sospensione cautelare, la Federazione  delle  Associazioni
delle Imprese e delle Organizzazioni Associative della  Distribuzione
Moderna Organizzata (FEDERDISTRIBUZIONE). 
    7.- In prossimita' dell'udienza pubblica, la difesa regionale  ha
depositato una  memoria,  reiterando  le  sintetizzate  eccezioni  di
inammissibilita'  e  di   infondatezza.   Inoltre,   in   riferimento
all'impugnato art. 3, deduce che, successivamente  alla  proposizione
del ricorso, tale disposizione  e'  stata  modificata  con  la  legge
regionale 9 dicembre 2016, n. 19 (Disposizioni per l'adeguamento e la
razionalizzazione della normativa regionale in materia di commercio),
in un'ottica di maggiore liberalizzazione  stabilendo,  tra  l'altro,
che la Giunta regionale puo' disporre la sospensione  delle  giornate
di chiusura degli esercizi commerciali, di  cui  al  comma  1,  della
legge impugnata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri  ha  promosso,  in
riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, lettere e)  e  s),
della Costituzione, e agli artt. 4 e 6 della legge costituzionale  31
gennaio 1963, n. 1 (Statuto  speciale  della  Regione  Friuli-Venezia
Giulia), questione di legittimita' costituzionale degli artt.  1,  3,
9, 15,  19  e  72,  comma  1,  della  legge  della  Regione  autonoma
Friuli-Venezia Giulia, 8 aprile 2016,  n.  4,  (Disposizioni  per  il
riordino e la semplificazione della normativa  afferente  il  settore
terziario, per  l'incentivazione  dello  stesso  e  per  lo  sviluppo
economico), di modifica delle leggi regionali 5 dicembre 2005, n.  29
(Normativa  organica  in  materia  di  attivita'  commerciali  e   di
somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale
16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo») e 12  maggio
1971, n. 19 (Norme per la protezione  del  patrimonio  ittico  e  per
l'esercizio  della  pesca  nelle  acque  interne  del  Friuli-Venezia
Giulia). 
    2.-  Preliminarmente,  deve   essere   dichiarato   inammissibile
l'intervento della Federazione delle  Associazioni  delle  Imprese  e
delle  Organizzazioni   Associative   della   Distribuzione   Moderna
Organizzata (FEDERDISTRIBUZIONE), per la pregiudiziale  e  assorbente
ragione che e' avvenuto  con  atto  depositato  il  21  ottobre  2016
(spedito il  18  ottobre)  e,  quindi,  oltre  il  termine  stabilito
dall'art. 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla  Corte
costituzionale; termine perentorio secondo la costante giurisprudenza
di questa Corte (tra le piu' recenti, sentenze n. 242 e  n.  110  del
2016). 
    3.- Ancora in via preliminare, va osservato  che  la  Regione  ha
eccepito  l'inammissibilita'  di  tutte  le   censure,   poiche'   il
ricorrente non ha considerato le disposizioni, di cui agli artt. 8  e
seguenti, del d.P.R. 26 agosto 1965, n.  1116  (Norme  di  attuazione
dello Statuto in  materia  di  agricoltura  e  foreste,  industria  e
commercio,  turismo   e   industria   alberghiera),   che   avrebbero
particolare e  significativo  «ruolo  interpretativo  ed  integrativo
delle  stesse  espressioni  statutarie»  e  rileverebbero   al   fine
dell'esatta identificazione del thema decidendum. 
    3.1.- L'eccezione non e' fondata. 
    Secondo  la  costante  giurisprudenza  costituzionale,   l'omesso
riferimento  alle  disposizioni  statutarie,  qualora  incida   sulla
compiuta   definizione   dell'oggetto    del    giudizio,    comporta
l'inammissibilita' della questione (ex multis,  sentenze  n.  58  del
2016, n. 151 e n. 142 del 2015). 
    Nella specie non e', tuttavia, richiamabile detto  principio.  Le
disposizioni  delle  quali  e'  lamentata  la  pretermissione  hanno,
infatti,  un  contenuto  sostanzialmente  reiterativo   delle   norme
statutarie (artt. 4 e 6 della legge costituzionale n.  1  del  1963),
che sono state puntualmente evocate dal  ricorrente,  allo  scopo  di
identificare  la  potesta'  legislativa  regionale  in   materia   di
commercio e pesca. 
    4.- Il ricorrente censura anzitutto il citato art.  1,  il  quale
sostituisce  l'art.  29  della  legge  regionale  n.  29  del   2005,
prevedendo che «l'esercizio del commercio al dettaglio in sede  fissa
e' svolto senza limiti relativamente  alle  giornate  di  apertura  e
chiusura,  ad  eccezione  dell'obbligo  di  chiusura  nelle  seguenti
giornate festive: 1° gennaio, Pasqua, lunedi' dell'Angelo, 25 aprile,
l° maggio, 2 giugno, 15 agosto,  1°  novembre,  25  e  26  dicembre».
Censura inoltre il richiamato art. 3, che ha  sostituito  l'art.  30,
comma 1, della legge regionale n. 29 del  2005,  disponendo  che  nei
comuni «classificati come localita' a prevalente economia  turistica,
gli esercenti determinano liberamente le giornate di  chiusura  degli
esercizi di commercio al dettaglio in sede fissa, in deroga a  quanto
disposto dall'art. 29»; ha abrogato il comma 2 dell'art. 30 citato  e
ha aggiunto, al comma 3, che «[c]on delibera della Giunta  regionale,
su  domanda  del  comune  interessato,  possono  essere   individuate
ulteriori localita' a prevalente economia turistica sulla base  delle
rilevazioni di Promo Turismo FVG». 
    4.1.- Secondo l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  dette  norme
violerebbero l'art. 117, secondo comma, lettera  e),  Cost.,  nonche'
gli artt. 4  e  6  dello  statuto  speciale  della  Regione  autonoma
Friuli-Venezia Giulia, avendo la Regione esorbitato dai limiti  della
propria potesta' legislativa esclusiva in materia di commercio. 
    Inoltre, si porrebbero in contrasto con l'art. 31, comma  2,  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,  n.  214,
che prevede la liberalizzazione del commercio, e con l'art. 3,  comma
1,  lettera  d-bis),  del  decreto-legge  4  luglio  2006,   n.   223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico  e  sociale,  per  il
contenimento e la razionalizzazione  della  spesa  pubblica,  nonche'
interventi  in  materia  di  entrate  e  di  contrasto   all'evasione
fiscale), convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006,  n.
248, che dispone che le attivita' commerciali siano svolte  senza  il
rispetto dell'obbligo di chiusura domenicale e festiva. 
    4.1.1.- Preliminarmente, va osservato che l'art. 29  della  legge
regionale n. 29 del 2005, cosi' come modificato dall'impugnato art. 1
della legge regionale n. 4 del 2016, e' quasi del  tutto  coincidente
con la previgente disciplina, rappresentata dall'art.  29,  comma  7,
della legge regionale n. 29 del 2005, sull'obbligo di chiusura  degli
esercizi  commerciali  in  determinati   giorni   dell'anno.   Questa
considerazione,  tuttavia,  non   ostacola   l'impugnabilita'   della
disposizione novellata da parte del Governo,  per  l'inapplicabilita'
dell'istituto dell'acquiescenza ai giudizi in via principale,  atteso
che «la norma impugnata ha comunque l'effetto di reiterare la lesione
da cui deriva l'interesse a ricorrere dello Stato» (cosi', da ultimo,
la sentenza n. 60 del 2017). 
    4.1.2.- Ancora in via preliminare, va evidenziato che l'impugnato
art. 3 e' stato modificato dal sopravvenuto art. 14, comma 1, lettera
a), della  legge  della  Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  9
dicembre 2016, n. 19 (Normativa  organica  in  materia  di  attivita'
commerciali e di somministrazione di  alimenti  e  bevande.  Modifica
alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina  organica  del
turismo»), stabilendo i requisiti e il procedimento per  ottenere  la
qualifica di ente a prevalente economia turistica da parte dei Comuni
e prevedendo che la Giunta  regionale  possa  disporre  per  l'intero
territorio regionale la sospensione della previsione  delle  giornate
di chiusura degli esercizi commerciali. 
    Il contenuto «marginale» della modifica normativa,  tenuto  conto
del perimetro e del tenore della  censura  proposta  dal  ricorrente,
rendono palese che la stessa non e'  satisfattiva  dell'interesse  di
quest'ultimo. Conseguentemente, va  operato  il  trasferimento  della
questione di costituzionalita' sulla nuova formulazione  dell'art.  3
(sentenza n. 23 del 2014). 
    4.1.3.- In relazione alla censura avente  ad  oggetto  il  citato
art. 1, occorre precisare, inoltre, che la mancata qualificazione, da
parte del ricorso, delle  disposizioni  interposte  quali  «norme  di
grande  riforma  economico-sociale»  non  incide  sull'ammissibilita'
della stessa, come invece eccepito dalla resistente. 
    Nella  specie,  infatti,  la  disciplina  statale  richiamata   a
sostegno della censura viene correttamente evocata quale  espressione
della competenza legislativa esclusiva dello Stato, in linea  con  la
giurisprudenza di questa Corte, che ha esplicitamente  ricondotto  le
disposizioni, richiamate nel caso odierno come parametro  interposto,
a principi di liberalizzazione del mercato a tutela della concorrenza
(sentenza n. 38 del 2013; sentenze n. 299 del 2012 e n. 430 del 2007)
e che ha altresi'  affermato  che  detta  normativa  «costituisce  un
limite alla disciplina che le medesime Regioni [a  statuto  speciale]
possono adottare in altre materie di loro  competenza»  (sentenza  n.
299 del 2012). 
    5.-  Nel  merito,  come  si  evince   gia'   da   queste   ultime
considerazioni, le questioni sono fondate. 
    In materia di orari degli esercizi commerciali, l'art. 31,  comma
1, del d.l. n. 201 del 2011, ha modificato l'art. 3, comma 1, lettera
d-bis), del d.l. n. 223 del 2006, come  convertito  in  legge,  e  ha
stabilito che le attivita' commerciali si svolgano  «senza  limiti  e
prescrizioni» concernenti, fra gli altri, «il rispetto degli orari di
apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva
nonche' quello della  mezza  giornata  di  chiusura  infrasettimanale
dell'esercizio». 
    Questa Corte, con la sentenza n. 299 del 2012,  ha  ritenuto  non
illegittima tale  norma,  ascrivendola  alla  materia  «tutela  della
concorrenza»  (art.  117,   secondo   comma,   lettera   e,   Cost.).
Successivamente, con la sentenza  n.  239  del  2016,  ha  nuovamente
valorizzato il principio  di  liberalizzazione,  contenuto  in  detta
norma interposta, che esonera gli esercizi  commerciali  dall'obbligo
di rispettare gli orari e i giorni di chiusura. 
    Peraltro, e'  opportuno  rilevare  che  il  contenuto  precettivo
dell'impugnato art. 1, coincide, per i  profili  qui  rilevanti,  con
l'art. 4, della legge della  Regione  autonoma  Valle  d'Aosta/Vallee
d'Aoste, 25 febbraio 2013, n. 5, recante  «Modificazioni  alla  legge
regionale 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per  l'esercizio
dell'attivita' commerciale)», dichiarato illegittimo da questa  Corte
con la sentenza n. 104 del 2014. 
    In questa pronuncia e' stato rimarcato che la  normativa  statale
volta all'eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di  apertura
al pubblico degli esercizi commerciali, oltre ad attuare un principio
di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti  alle  modalita'  di
esercizio delle attivita' economiche  a  beneficio  dei  consumatori,
favorisce «la creazione di un mercato piu'  dinamico  e  piu'  aperto
all'ingresso di nuovi operatori e amplia la  possibilita'  di  scelta
del  consumatore.  Si  tratta,  dunque,  di   misure   coerenti   con
l'obiettivo di promuovere la  concorrenza,  risultando  proporzionate
allo scopo di  garantire  l'assetto  concorrenziale  del  mercato  di
riferimento relativo alla distribuzione commerciale» (sentenza n. 104
del 2014, che riprende le sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012). 
    Queste considerazioni, che vanno qui ribadite, rendono palese  la
fondatezza delle censure aventi ad oggetto  l'impugnato  art.  1,  in
quanto interviene nella disciplina delle giornate di  apertura  degli
esercizi  commerciali,  ascrivibile  appunto   alla   «tutela   della
concorrenza», di competenza esclusiva dello Stato. 
    Deve, pertanto, essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 1, della legge regionale n. 4 del 2016, che modifica l'art.
29, della legge regionale n. 29 del 2005. 
    La dichiarazione di illegittimita' costituzionale va  estesa,  in
via conseguenziale, anche all'art.  29-bis,  della  richiamata  legge
regionale n. 29 del 2005,  stante  l'inscindibile  legame  funzionale
sussistente fra la disposizione impugnata e l'altra ora indicata.  La
disposizione de qua, infatti, estende  i  principi  richiamati  dalla
norma impugnata ad ogni singolo esercizio di vendita. 
    La  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale   colpisce,
inoltre, anche l'impugnato art. 3, che ha modificato l'art. 30  della
legge n. 29 del 2005, essendo divenuta priva di ragion  d'essere  una
tale disposizione, tesa ad individuare  i  comuni  classificati  come
localita' a prevalente economia turistica, dal momento che in questi,
al pari degli altri comuni, dovra' operare  la  liberalizzazione  del
commercio senza distinzioni. 
    6.- Con la seconda censura, il Governo  impugna  l'art.  9  della
legge  regionale  n.  4  del  2016,  che  introduce  i  c.d.  «centri
commerciali naturali» e la relativa disciplina,  nonche'  l'art.  15,
che prevede due  distinti  tipi  di  esercizi  commerciali  di  media
struttura  (distinguendoli  in  «media  struttura  minore»  e  «media
struttura maggiore»). 
    6.1.- Le disposizioni violerebbero  l'art.  117,  secondo  comma,
lettera e), Cost., nonche' gli artt. 4 e  6  dello  statuto  speciale
della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, esorbitando dai  limiti
della competenza regionale esclusiva in materia di commercio. 
    6.1.1.- Entrambe le  norme  impugnate  introdurrebbero,  infatti,
tipologie di esercizi commerciali non presenti a  livello  nazionale,
secondo quanto disposto dall'art. 4, lettere d), e), g), del  decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina  relativa
al settore del commercio, a norma dell'articolo  4,  comma  4,  della
legge 15 marzo 1997, n. 59). Si determinerebbe, cosi', una  discrasia
tra quanto disposto dalla legge regionale e  la  classificazione  dei
centri commerciali e degli esercizi di vendita al dettaglio  indicati
a livello nazionale. 
    6.2.- Sempre secondo il Governo, la disposizione che contempla  i
«centri commerciali naturali» comporterebbe un eccesso di regolazione
incidente sul libero dispiegarsi dell'iniziativa economica in  regime
di concorrenza, fissando i limiti spaziali, oggettivi  e  strutturali
alle attivita' commerciali «naturali», anziche' rimettere  al  libero
gioco concorrenziale il determinarsi dei luoghi, oggetti e  strutture
delle  attivita'  commerciali.  Altererebbe  inoltre  la  concorrenza
all'interno del territorio regionale, e anche al di  fuori  di  esso,
consentendo  che  alle  societa'   e   associazioni   con   finalita'
commerciali,  in  cui  i  centri  dovrebbero   costituirsi,   possano
partecipare  anche  soggetti  che  non  perseguano  direttamente   ed
esclusivamente finalita' commerciali, tra cui le Camere di  commercio
e il Comune competente per territorio. Consentendo, infine, anche  ai
«centri commerciali naturali» l'accesso  ai  finanziamenti  pubblici,
previsti dall'art. 100 della legge  regionale  n.  29  del  2005,  si
incentiverebbe,  con   conseguente   lesione   dei   principi   della
concorrenza, la costituzione  di  societa'  o  associazioni  non  per
ragioni derivanti da dinamiche di mercato, bensi' per la possibilita'
di accedere ai finanziamenti stessi. 
    6.3.- Preliminarmente, occorre precisare che, come dedotto  dalla
Regione, il citato art. 15  deve  ritenersi  censurato  limitatamente
alla  norma  recata  nel  comma  1,  lettera  c),  laddove  distingue
ulteriormente le medie strutture di vendita. 
    6.4.- La questione avente ad oggetto l'introduzione di  tipologie
di esercizi commerciali non  presenti  a  livello  nazionale  non  e'
fondata. 
    Premesso   che   e'   lo   stesso   ricorrente   ad   evidenziare
l'irrilevanza, a  fini  pratici,  della  suddistinzione  delle  medie
strutture di vendita - poiche', tra l'altro, il regime amministrativo
a cui esse sono sottoposte rimarrebbe immutato - e'  da  sottolineare
che in ordine al richiamato  parametro  interposto  questa  Corte  ha
evidenziato che, a seguito della modifica del Titolo  V  della  parte
seconda della Costituzione,  la  materia  «commercio»  rientra  nella
competenza residuale  delle  Regioni,  ai  sensi  del  quarto  comma,
dell'art.  117  Cost.  In  questo  contesto,   ha   sottolineato   la
cedevolezza del decreto legislativo n. 114 del 1998, che «si applica,
ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge 5  giugno  2003,  n.  131,
soltanto  alle  Regioni  che  non   abbiano   emanato   una   propria
legislazione nella suddetta materia» (sentenza n. 247 del  2010,  che
richiama l'ordinanza n. 199 del 2006). 
    Tale  conclusione  e'  riferibile  anche  alla  Regione  autonoma
Friuli-Venezia Giulia, in virtu' della «clausola di maggior  favore»,
di cui  all'art.  10,  della  legge  costituzionale  n.  3  del  2001
(Modifiche al titolo V, della parte seconda della  Costituzione).  La
Regione, infatti, ha gia' posto in essere una normativa in materia di
commercio, qual e' la  disposizione  censurata,  che,  in  base  alle
argomentazioni svolte, prevale sul disposto del  d.lgs.  n.  114  del
1998. 
    6.5.- E' del  pari  non  fondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale del citato art. 9, laddove stabilisce  che  i  «centri
commerciali naturali» possano  accedere  ai  finanziamenti  pubblici,
gia' previsti dall'art. 100 della legge regionale n. 29 del 2005. 
    Ai sensi dell'art. 9, comma 1, per centro commerciale naturale si
intende «un  insieme  di  attivita'  commerciali,  artigianali  e  di
servizi localizzato in una zona determinata del territorio  comunale»
e finalizzato alla valorizzazione delle attivita' economiche e  delle
produzioni locali. Al fine  di  sostenere  le  attivita'  richiamate,
l'art. 9, comma 4, prevede l'accesso ai contributi  di  cui  all'art.
100.  Tale  disposizione,  secondo  il  ricorrente,  si  porrebbe  in
contrasto  con  il  libero  dispiegarsi,  in   regime   di   mercato,
dell'iniziativa economica. 
    Va, tuttavia, in proposito evidenziato che  il  riferimento  alla
tutela  della  concorrenza  non  puo'  essere  cosi'   pervasivo   da
assorbire, aprioristicamente, le materie di competenza regionale. 
    Come questa Corte ha avuto modo di precisare con la sentenza n. 8
del 2013,  «i  principi  di  liberalizzazione  presuppongono  che  le
Regioni seguitino ad esercitare le proprie competenze in  materia  di
regolazione  delle  attivita'  economiche»,  sia  pure  «in  base  ai
principi indicati  dal  legislatore  statale».  Tale  orientamento  -
sottolinea la  medesima  decisione  -  non  esclude  ogni  intervento
legislativo regionale, purche' siano fatte salve «le regolamentazioni
giustificate da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e
compatibile con l'ordinamento  comunitario»  che  siano  «adeguate  e
proporzionate  alle  finalita'  pubbliche   perseguite»,   cosi'   da
«garantire che le dinamiche economiche non si svolgano  in  contrasto
con l'utilita' sociale e con gli altri principi costituzionali». 
    Secondo la giurisprudenza costituzionale non sussiste,  comunque,
una potesta' statale esclusiva in materia di incentivi e  aiuti  alle
imprese (sentenza n. 63 del 2008).  Infatti,  anche  la  legislazione
regionale, volta  a  prevedere  contributi  e  aiuti  puo'  ritenersi
conforme  al  riparto  costituzionale  delle  materie,  qualora   sia
coerente con la disciplina  del  diritto  dell'Unione  europea  sugli
aiuti di Stato (sentenza n.  217  del  2012).  Detti  incentivi  alle
imprese, peraltro, quando consentiti, «lo sono normalmente in  deroga
alla tutela della concorrenza» (cosi' la gia' citata sentenza  n.  63
del 2008). 
    Nella specie, i contributi richiamati dalla norma impugnata  sono
quelli previsti dal citato art. 100 della legge regionale n.  29  del
2005, che contempla una serie di incentivi per un'ampia categoria  di
beneficiari che vanno dalle «micro,  piccole  e  medie  imprese»,  ai
consorzi, sino ad arrivare, attraverso l'integrazione prevista  dalla
disposizione impugnata, ai «centri commerciali naturali». E' tuttavia
importante sottolineare che  lo  stesso  articolo,  al  comma  6,  si
richiama  esplicitamente  al   regolamento   della   Commissione   n.
1407/2013/UE     (Regolamento     della     Commissione,     relativo
all'applicazione  degli  articoli  107  e  108   del   Trattato   sul
Funzionamento dell'Unione europea agli aiuti «de minimis»), che fissa
una cifra assoluta al di sotto della quale l'aiuto  non  e'  soggetto
all'obbligo della comunicazione, cosi'  da  definire  la  soglia  dei
contributi erogabili  in  termini  tali  da  escludere  la  possibile
conflittualita' degli stessi con la normativa dell'Unione europea. Si
tratta, dunque, di incentivi che non alterano il mercato. Da  qui  la
non fondatezza della censura. 
    6.6.- E' invece fondata la questione  relativa  all'art.  9,  con
riferimento alla partecipazione  delle  Camere  di  commercio  e  dei
Comuni ai «centri commerciali naturali». 
    La resistente  evidenzia  che  i  «centri  commerciali  naturali»
rappresentano uno strumento «di  promozione  economico-sociale  delle
aree nelle  quali,  per  tradizione,  vocazione  o  potenzialita'  di
sviluppo, l'attivita' commerciale assume particolare  rilievo»;  cio'
troverebbe conferma nel fatto che la legge contempla la facolta'  dei
Comuni, delle associazioni di categoria e delle Camere  di  commercio
di aderire a detti enti. Tuttavia, e' proprio la commistione  che  si
puo' instaurare tra gli esercenti e le  pubbliche  amministrazioni  a
mostrare profili di illegittimita'. 
    A tal proposito,  va  precisato  che  la  disposizione  censurata
prevede,  al  comma  2,  che  i  «centri  commerciali  naturali  sono
costituiti in forma di societa' di capitali,  societa'  consortili  e
associazioni con finalita' commerciali», stabilendo, al comma 3,  che
ai centri commerciali  naturali  «possono  aderire,  in  qualita'  di
soggetti interessati, le associazioni  di  categoria,  la  Camera  di
commercio e il Comune  competenti  per  territorio  e  altri  enti  e
associazioni  che  si  prefiggano  lo   scopo   di   valorizzare   il
territorio». 
    Dal combinato disposto dei due commi in  oggetto,  si  evince  la
possibilita'  che  il  partenariato  pubblico-privato  potrebbe   non
limitarsi soltanto a promuovere  il  commercio  in  determinate  aree
attraverso l'ausilio - in misura proporzionata  e  ragionevole  -  di
strumenti, che pure sono ascrivibili alle competenze dei Comuni, come
la pianificazione urbanistica finalizzata a  valorizzare  le  diverse
parti del territorio (siano essi centri storici o zone a  particolare
vocazione produttiva). Il partenariato contemplato dalla legislazione
regionale censurata in parte qua, invece, si spinge oltre, ammettendo
anche la costituzione di societa' a capitale misto. 
    Il profilo che viene qui in considerazione non  attiene,  dunque,
alle  modalita'  organizzative  delle  societa'   partecipate.   Piu'
specificamente, infatti, cio' che viene in rilievo  e'  l'impatto  di
simile disciplina sulla «tutela della concorrenza». 
    Va in proposito evidenziato che il decreto legislativo 19  agosto
2016,  n.  175,  recante  «Testo  unico  in  materia  di  societa'  a
partecipazione pubblica», nello stabilire, all'art. 1, comma  2,  che
le disposizioni  in  esso  contenute  sono  finalizzate  a  garantire
l'efficiente gestione delle partecipazioni  pubbliche,  la  tutela  e
promozione della concorrenza  e  del  mercato,  la  razionalizzazione
della  spesa  pubblica,  dispone,  all'art.  4,  comma  1,   che   le
«amministrazioni pubbliche non possono direttamente o  indirettamente
costituire societa' aventi per oggetto  attivita'  di  produzione  di
beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle
proprie  finalita'   istituzionali,   ne'   acquisire   o   mantenere
partecipazioni, anche di minoranza, in tali societa'». 
    La disposizione del testo unico si pone in  continuita'  rispetto
alla normativa precedente,  rappresentata  dalla  legge  24  dicembre
2007, n. 244, recante «Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello  Stato»  (legge  finanziaria  2008)  che,
all'art. 3, comma 27, valorizza il medesimo  principio,  al  fine  di
ridurre il campo d'azione delle  societa'  pubbliche,  in  linea  con
quanto prefigurato anche dal successivo decreto-legge 31 maggio 2010,
n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e  di
competitivita' economica), convertito con modificazioni  dalla  legge
30 luglio 2010, n. 122. 
    Questa Corte ha ricondotto detta disciplina, che limita il raggio
d'azione delle societa' partecipate  da  parte  di  Regioni  ed  enti
locali, anche alla tutela della  concorrenza  (sentenza  n.  326  del
2008), affermando che l'obiettivo della stessa e' «quello di  evitare
che soggetti dotati di privilegi svolgano attivita' economica  al  di
fuori dei casi nei quali cio' e' imprescindibile per il perseguimento
delle proprie finalita' istituzionali» (sentenza n. 148 del 2009). 
    Nella specie, in considerazione della tipologia  delle  attivita'
svolte dai «centri commerciali  naturali»,  secondo  la  disposizione
impugnata, si tratta di soggetti che svolgono attivita'  di  servizi.
La disposizione censurata, pertanto, prevede la partecipazione  delle
Camere di commercio e  dei  Comuni  a  societa'  aventi  per  oggetto
attivita'  di  produzione  di  servizi  che  non  sono   strettamente
necessari «al perseguimento delle proprie  finalita'  istituzionali»;
per cio' solo,  essa  viola  la  normativa  statale  a  tutela  della
concorrenza, richiamata in precedenza. 
    6.7.- Ne consegue che  deve  essere  dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 3, limitatamente alla parte in  cui
prevede  che  partecipino  ai  «centri  commerciali  naturali»  anche
soggetti pubblici quali le Camere di commercio e il Comune competente
per territorio. 
    7.- Con la terza censura il Governo impugna l'articolo  19  della
legge regionale n. 4, del 2016,  che  dispone  il  possesso  di  dati
requisiti professionali  per  esercitare  attivita'  commerciali  che
prevedano la  somministrazione  di  alimenti  e  bevande,  anche  ove
l'attivita' commerciale sia svolta  «nei  confronti  di  una  cerchia
limitata di persone», in locali non aperti al pubblico. 
    7.1.- La disposizione violerebbe  l'art.  117,  primo  e  secondo
comma, lettera e), Cost., nonche' gli artt.  4  e  6,  dello  statuto
speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in materia  di
commercio. 
    Preliminarmente occorre precisare che  il  citato  art.  19  deve
ritenersi censurato limitatamente alla  norma  di  cui  al  comma  1,
lettera a). 
    7.2.- La violazione dell'art. 117, primo  comma,  Cost.,  sarebbe
palese in riferimento all'art. 41, commi 1, lettera  f),  e  2  della
legge 7  luglio  2009,  n.  88  (Disposizioni  per  l'adempimento  di
obblighi  derivanti  dall'appartenenza  dell'Italia  alle   Comunita'
europee - Legge comunitaria 2008), che impone anche  alle  Regioni  a
statuto speciale di adeguare la propria legislazione a quella statale
di attuazione  della  direttiva  12  dicembre  2006,  n.  2006/123/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi
nel mercato  interno),  nonche'  in  riferimento  all'art.  15  della
direttiva  medesima,  che  impone  di  verificare  la  necessita'   e
proporzionalita' dei requisiti soggettivi di accesso  alle  attivita'
di prestazione dei servizi. 
    7.3.- Il vulnus all'art. 117, comma secondo,  lettera  e),  Cost.
sarebbe ravvisabile in riferimento all'art. 8, comma 1,  lettera  e),
del  decreto  legislativo  6  agosto  2012,  n.   147   (Disposizioni
integrative e correttive del decreto legislativo 26  marzo  2010,  n.
59, recante  attuazione  della  direttiva  2006/123/CE,  relativa  ai
servizi  nel  mercato  interno).  Detta  disposizione,  infatti,   ha
modificato l'art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010,
n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE,  relativa  ai  servizi
nel mercato interno), abolendo i  requisiti  richiamati  in  caso  di
somministrazione di alimenti e bevande «nei confronti di una  cerchia
limitata di persone». 
    La legislazione regionale, che continua a prevedere  il  possesso
di almeno uno dei  requisiti  in  questione,  contrasterebbe  con  la
«misura liberalizzatrice» statale. 
    7.4.- La questione non e' fondata. 
    Va,  innanzitutto,  osservato   che   il   contenuto   precettivo
dell'impugnato art. 19  coincide,  nei  profili  qui  rilevanti,  con
quello di una norma regionale  (art.  3  della  legge  della  Regione
autonoma Val d'Aosta/Vallee d'Aoste, n. 5 del  2013),  scrutinata  da
questa Corte con la richiamata sentenza n. 104 del 2014. 
    Tale pronuncia ha evidenziato che, sebbene la  normativa  statale
stabilisca che le attivita' commerciali possono essere  svolte  senza
limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali
soggettivi, tuttavia, poi, fa espressamente salvi quelli  riguardanti
il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle
bevande.  In  particolare,  e'  stato  sottolineato  dalla   medesima
pronuncia che  tali  considerazioni  «portano  ad  escludere  che  la
normativa in questione  attenga  alla  materia  della  «tutela  della
concorrenza», ponendo limiti o barriere all'accesso  al  mercato  con
effetti  restrittivi  della  concorrenza  stessa.  Essa,   piuttosto,
concerne la materia della «tutela della salute», attribuita dall'art.
117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa concorrente delle
Regioni, ponendosi quale misura volta a salvaguardare «la salute  dei
consumatori» (sentenza n. 104 del 2014). 
    7.4.1.- Inquadrata in questi termini, sia rispetto  alla  materia
della «tutela della concorrenza», sia  riguardo  al  vincolo  europeo
richiamato dall'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  la  questione  deve
ritenersi non fondata. 
    8.- Con la quarta censura, infine, il Governo impugna  l'articolo
72, comma 1, della legge regionale n. 4 del  2016,  che  prevede,  al
fine di valorizzare la pesca sportiva, la possibilita' di autorizzare
l'immissione nei corpi idrici naturali e artificiali di esemplari  di
specie ittiche autoctone e alloctone. 
    Per il ricorrente  la  previsione  impugnata  andrebbe  a  minare
l'equilibrio   naturale   delle   specie    autoctone,    consentendo
l'immissione  di  ulteriori  esemplari,  creando   un   pericolo   di
sovrappopolamento, senza una previa verifica che si tratti di  specie
a rischio di estinzione. Inoltre, l'obbiettivo volto  ad  evitare  la
commistione delle specie  alloctone  con  quelle  autoctone  verrebbe
garantito in modo meramente apparente ricorrendo ad una normativa  di
carattere generico. 
    8.1.-  La  norma  regionale  violerebbe  i  limiti   posti   alla
competenza regionale in  materia  di  pesca,  incidendo  direttamente
sulla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di  cui  all'art.  117,
secondo comma, lettera s), Cost., che vincola  anche  le  Regioni  ad
autonomia speciale, esulando la materia dalla competenza  legislativa
della Regione secondo lo statuto di  autonomia.  La  norma  impugnata
lederebbe altresi' i vincoli europei richiamati dall'art. 117,  primo
comma, Cost. 
    8.1.1.- Secondo il Governo ricorrente,  la  lamentata  violazione
dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.,  si  coglierebbe  in
riferimento all'art. 12, commi 2 e 3, del d.P.R. 8 settembre 1997, n.
357  (Regolamento  recante  attuazione  della   direttiva   92/43/CEE
relativa alla conservazione degli habitat  naturali  e  seminaturali,
nonche' della flora e della fauna selvatiche),  come  modificato  dal
d.P.R. 12 marzo  2003,  n.  120  (Regolamento  recante  modifiche  ed
integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica  8  settembre
1997,  n.  357,  concernente  attuazione  della  direttiva  92/43/CEE
relativa alla conservazione degli habitat  naturali  e  seminaturali,
nonche' della flora e della fauna selvatiche). Detta normativa  viene
richiamata laddove  vieta  esplicitamente  l'introduzione  di  specie
alloctone  e  subordina  l'introduzione  di   specie   autoctone   al
superamento di una serie di verifiche e controlli. 
    8.1.2.- La lesione dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.  sarebbe
evidente,  inoltre,  in  riferimento  al  principio  di   precauzione
contenuto nell'art. 22, della direttiva 21 maggio 1992, n.  92/43/CEE
(Direttiva del Consiglio relativa alla  conservazione  degli  habitat
naturali e seminaturali e della  flora  e  della  fauna  selvatiche),
(c.d. direttiva Habitat), nonche' negli artt. 4  e  6,  par.  1,  del
Regolamento  CE,  11  giugno  2007,  n.  708/2007  (Regolamento   del
Consiglio relativo all'impiego in acquacoltura di specie  esotiche  e
di specie localmente assenti). 
    8.2.- In riferimento alla censura di cui all'art. 72, comma 1, la
resistente ritiene che la censura sia costruita in termini  meramente
ipotetici. L'eccezione va respinta,  potendosi  obiettare  che  cosi'
deve necessariamente essere,  facendo  riferimento  al  principio  di
precauzione. 
    8.3.- Nel merito la questione e' fondata. 
    L'introduzione, la reintroduzione e il ripascimento delle  specie
ittiche sono regolate dal gia' citato art. 12 del d.P.R. n.  357  del
1997, come modificato dal d.P.R. n. 120 del 2003, in attuazione della
c.d. direttiva Habitat che richiede agli  Stati  membri  di  valutare
l'opportunita'  di  reintrodurre  specie  autoctone,  qualora  questa
misura  possa   contribuire   alla   loro   conservazione,   sia   di
regolamentare, ed eventualmente vietare, le  introduzioni  di  specie
alloctone che possano arrecare pregiudizio alla  conservazione  degli
habitat o delle specie autoctone (art. 22, lettere a e b). 
    Lo  Stato  italiano  ha  esercitato  la  sua  competenza  con  il
richiamato  d.P.R.  n.  357  del  1997,  come  modificato  nel  2003,
consentendo la reintroduzione delle specie autoctone, sulla  base  di
linee  guida  del  Ministero  dell'ambiente,  secondo  le   procedure
stabilite dall'art. 12, comma 2. Ha altresi' vietato espressamente (e
in via generale) la reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento
in natura di specie non autoctone (art. 12, comma 3). 
    Riguardo al riparto delle attribuzioni tra lo Stato e le  Regioni
e le Province autonome, in materia ambientale e di  protezione  della
fauna, la giurisprudenza costituzionale e' costante nel ritenere  che
ove la materia  «tutela  dell'ambiente»  non  sia  contemplata  negli
statuti di autonomia, cio' determina che  quanto  non  rientri  nelle
specifiche  competenze  delle  Province  autonome  rifluisca   «nella
competenza generale dello Stato  nella  suddetta  materia,  la  quale
implica  in  primo  luogo  la  conservazione  uniforme  dell'ambiente
naturale,  mediante  precise   disposizioni   di   salvaguardia   non
derogabili in alcuna parte del territorio nazionale» (sentenze n. 387
del 2008 e n. 288 del 2012 nonche', analogamente, sentenza n. 151 del
2011). 
    Relativamente all'immissione di specie ittiche nei  corpi  idrici
regionali, inoltre, questa  Corte  ha  affermato  che  la  disciplina
«dell'introduzione,  della  reintroduzione  e  del  ripopolamento  di
specie animali rientra nella  esclusiva  competenza  statale  di  cui
all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  s),   della   Costituzione,
trattandosi di regole di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema e non
solo  di  discipline  d'uso  della  risorsa   ambientale-faunistica».
Nell'esercizio di tale sua competenza esclusiva, finalizzata  ad  una
«tutela piena ed adeguata» dell'ambiente, lo Stato «puo' porre limiti
invalicabili di tutela» (sentenza n. 30 del 2009; nello stesso senso,
sentenza n. 288 del 2012). 
    A  tali  limiti  le  Regioni  devono  adeguarsi  nel  dettare  le
normative d'uso dei beni ambientali,  o  comunque  nell'esercizio  di
altre  proprie  competenze,  rimanendo  libere,  ove   lo   ritengano
opportuno,  di   definire,   nell'esercizio   della   loro   potesta'
legislativa, «limiti di tutela dell'ambiente anche  piu'  elevati  di
quelli statali» (sentenza n. 30 del 2009; in senso conforme  sentenza
n. 151 del 2011). 
    Con riferimento alle specie alloctone, con la sentenza n. 30  del
2009 questa Corte ha precisato che l'art. 12,  comma  3,  del  citato
d.P.R.  n.  357,  vieta  espressamente   e   in   via   generale   la
reintroduzione,  l'introduzione  e  il  ripopolamento  in  natura  di
«specie e popolazioni non autoctone». 
    Riguardo invece all'immissione delle specie autoctone, l'art. 12,
comma 2, del d.P.R. n. 357, come sostituito dal  d.P.R.  n.  120  del
2003, richiede alle Regioni e  alle  Province  autonome  di  attivare
un'attivita' istruttoria che coinvolga gli enti interessati, al  fine
di prevedere la introduzione e la reintroduzione di  esemplari  delle
stesse,  «dandone  comunicazione  al   Ministero   dell'ambiente»   e
presentando allo stesso uno studio per evidenziare che l'introduzione
di  dette  specie  contribuisca  a  ristabilirle  «in  uno  stato  di
conservazione soddisfacente». 
    La Regione non ha tenuto conto delle procedure previste  per  dar
vita all'immissione stessa,  secondo  quanto  indicato  all'art.  12,
comma 2. Queste indicazioni, infatti, non  emergono  dalla  normativa
impugnata la cui ratio, oltretutto, rivolta alla valorizzazione della
pesca  sportiva,  si  discosta  dagli  obiettivi   perseguiti   dalla
legislazione  statale,  tesi,  piuttosto,  alla  conservazione  delle
specie a rischio. 
    In base alle  considerazioni  svolte,  la  questione  e'  fondata
rispetto  all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  s),  Cost.  Resta
assorbita l'ulteriore censura relativa  all'art.  117,  primo  comma,
Cost. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art.  29,  della
legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 5  dicembre  2005,
n. 29 (Normativa organica in materia di attivita'  commerciali  e  di
somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale
16 gennaio 2002,  n.  2  «Disciplina  organica  del  turismo»),  come
modificata  dall'art.  1,  della   legge   della   Regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia 8  aprile  2016,  n.  4  (Disposizioni  per  il
riordino e la semplificazione della normativa  afferente  il  settore
terziario, per  l'incentivazione  dello  stesso  e  per  lo  sviluppo
economico); 
    2) dichiara, in via conseguenziale, ai sensi dell'art. 27,  della
legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla  costituzione  e   sul
funzionamento   della   Corte    costituzionale),    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 29-bis della legge regionale n. 29 del 2005; 
    3) dichiara l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  30  della
legge regionale n. 29 del 2005, come  modificato  dall'art.  3  della
legge regionale n. 4 del 2016 e successivamente  dall'art.  14  della
legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9  dicembre  2016,
n. 19 (Disposizioni per l'adeguamento e  la  razionalizzazione  della
normativa regionale in materia di commercio); 
    4) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 3,
della legge regionale n. 4 del 2016, limitatamente alla parte in  cui
prevede che ai «centri commerciali naturali»  possano  aderire  anche
«la Camera di commercio e il Comune competente per territorio»; 
    5) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art.  72,  comma
1, della legge regionale n. 4 del 2016; 
    6)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  15,  comma  1,  lettera  c),  della  legge
regionale n. 4  del  2016,  promossa  in  riferimento  all'art.  117,
secondo comma, lettera e), Cost., e agli artt.  4  e  6  della  legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della  Regione
Friuli-Venezia Giulia), con il ricorso indicato in epigrafe; 
    7)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  19,  comma  1,  lettera  a),  della  legge
regionale n. 4 del 2016, promossa in riferimento all'art. 117,  primo
e secondo comma, lettera e), Cost., e agli artt. 4 e  6  della  legge
costituzionale n. 1 del 1963, con il ricorso indicato in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 aprile 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                 Augusto Antonio BARBERA, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2017. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA