N. 109 SENTENZA 5 aprile - 11 maggio 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Delitto  di   omesso   versamento   di   ritenute   previdenziali   e
  assistenziali  sulle  retribuzioni  dei  lavoratori  dipendenti   -
  Depenalizzazione in caso di importo omesso non  superiore  ad  euro
  10.000 per annualita' -  Applicazione  retroattiva  della  sanzione
  amministrativa pecuniaria. 
- Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in  materia
  di depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2, della  legge
  28 aprile 2014, n. 67), artt. 8, commi 1 e 3, e 9. 
-   
(GU n.20 del 17-5-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
  MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria
  de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 8,  commi
1  e  3,  e  9  del  decreto  legislativo  15  gennaio  2016,  n.   8
(Disposizioni in materia di depenalizzazione, a  norma  dell'articolo
2, comma 2,  della  legge  28  aprile  2014,  n.  67),  promosso  dal
Tribunale ordinario di Varese, con ordinanza  del  9  febbraio  2016,
iscritta al n. 90 del registro  ordinanze  2016  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  19,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  5  aprile  2017  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il  Tribunale  ordinario  di  Varese,  con  ordinanza  del  9
febbraio 2016 (r.o. n. 90 del 2016),  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della  Costituzione,  questioni
di legittimita' costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3,  e  9  del
decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di
depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2,  della  legge  28
aprile 2014, n. 67). 
    2.-  Il  rimettente  riferisce  che,  nel   procedimento   penale
sottoposto alla sua cognizione, E.F. risulta imputata per  «il  reato
di cui agli articoli 81 cpv. c. p. e 2 comma 1 bis» del decreto-legge
12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale  e
sanitaria e per il contenimento della  spesa  pubblica,  disposizioni
per vari settori della pubblica amministrazione e proroga  di  taluni
termini), convertito con modificazioni dall'art. 1,  comma  1,  della
legge 11 novembre 1983,  n.  638,  poiche',  in  qualita'  di  legale
rappresentante della "F.E. Pizzeria La  Svolta"  di  Somma  Lombardo,
«con piu' azioni esecutive di un medesimo  disegno  criminoso  ed  in
tempi diversi,  ometteva  di  effettuare  nei  termini  di  legge  il
versamento della somma complessiva di € 177,00  relativa  al  periodo
compreso tra il mese di agosto 2008 e  febbraio  2009,  trattenuta  a
titolo di ritenute previdenziali ed assistenziali sulla  retribuzione
dei dipendenti dell'azienda». 
    Riferisce altresi' che il delitto contestato all'imputata,  nelle
sole ipotesi in cui l'importo omesso non sia superiore ad euro 10.000
per  ogni  annualita',  e'  stato  oggetto  di   depenalizzazione   e
contestuale  trasformazione  in  illecito  amministrativo,  ai  sensi
dell'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (entrato in vigore  in
data 6 febbraio 2016). Le  relative  condotte  sono  ora  punite  con
l'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da un  minimo
di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000. 
    Il giudice a quo evidenzia che l'art. 8 del d.lgs. n. 8 del  2016
prevede l'applicabilita' delle sanzioni  amministrative  «anche  alle
violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore  del
decreto stesso, sempre che  il  procedimento  penale  non  sia  stato
definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili» (comma  1)
e che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata in vigore  del
presente   decreto   non   puo'   essere   applicata   una   sanzione
amministrativa pecuniaria per un importo superiore al  massimo  della
pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio
di ragguaglio di cui all'art.  135  del  codice  penale»  (comma  3).
Ricorda, altresi', che l'art. 9 del d.lgs. n. 8 del  2016  impone  al
giudice penale, nei casi di cui al precedente art.  8,  comma  1,  la
trasmissione  (entro  novanta  giorni  dall'entrata  in  vigore   del
decreto),  all'autorita'  amministrativa  competente  all'irrogazione
della sanzione amministrativa, degli atti  relativi  ai  procedimenti
penali riguardanti  reati  trasformati  in  illeciti  amministrativi,
salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o  estinto
per altra causa. 
    Tanto premesso, solleva questioni di legittimita' costituzionale:
dell'art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella  parte  in  cui
prevede l'applicazione della sanzione  amministrativa  pecuniaria  di
cui all'art. 3, comma 6, del medesimo d.lgs. n. 8 del 2016, ai  fatti
di cui all'art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del  1983,  anche  se
commessi prima dell'entrata in vigore del decreto che ne ha  disposto
la trasformazione in illeciti amministrativi; dell'art. 8,  comma  3,
del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede che, per i fatti
commessi prima dell'entrata in vigore di tale  decreto,  la  sanzione
amministrativa pecuniaria applicabile non possa essere  superiore  al
massimo della pena originariamente inflitta per il reato; dell'art. 9
del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui impone al giudice penale
la trasmissione all'autorita' amministrativa, competente ad applicare
la  sanzione  amministrativa  pecuniaria,  degli  atti  relativi   ai
procedimenti  penali  riguardanti  reati  trasformati   in   illeciti
amministrativi, salvo che  il  reato,  alla  medesima  data,  risulti
prescritto o estinto per altra causa. 
    Tutte le questioni sono sollevate per contrasto con i principi di
legalita' e irretroattivita' della pena, di cui all'art. 25,  secondo
comma, Cost., con il principio di colpevolezza, di  cui  all'art.  27
Cost., e con il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 Cost. 
    2.1.- In punto di non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
ricorda che l'art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463  del  1983,  prima
dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016,  sanzionava  con  la
pena della reclusione sino a tre anni e  della  multa  sino  ad  euro
1.032,91 il datore di lavoro che  ometteva  di  versare  le  ritenute
previdenziali  ed  assistenziali  operate  sulle   retribuzioni   dei
lavoratori dipendenti. 
    Con il citato art. 3, comma 6, del  d.lgs.  n.  8  del  2016,  il
legislatore ha introdotto una soglia di punibilita' per il delitto in
questione, che  costituisce  tuttora  reato  solo  laddove  l'importo
omesso - per singole annualita' - risulti superiore  ad  euro  10.000
(nel qual caso e' ancora prevista la pena della reclusione fino a tre
anni e della multa sino ad euro 1.032), mentre e'  stato  trasformato
in illecito amministrativo nelle ipotesi in cui l'importo omesso  non
superi il limite-soglia indicato,  prevedendosi  l'irrogazione  della
sanzione amministrativa pecuniaria da euro  10.000  ad  euro  50.000,
anche per le condotte tenute anteriormente alla depenalizzazione. 
    Cio' posto, il  rimettente  sottolinea,  come  premessa  del  suo
ragionamento, che il principio di irretroattivita'  di  cui  all'art.
25, secondo comma, Cost. trova  applicazione  esclusivamente  per  le
norme penali e le pene da queste contemplate, per  le  quali  risulta
dunque  inderogabile,   mentre   per   le   sanzioni   amministrative
l'operativita' del principio e' assicurata dall'art. 1 della legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema  penale),  che  puo'  ben
essere  derogato  da  una  legge  ordinaria  posteriore  che  preveda
espressamente   l'applicazione   retroattiva    di    una    sanzione
amministrativa. 
    Ricorda, tuttavia, che, secondo  la  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti  dell'uomo  (d'ora  in  avanti:  Corte  EDU),  le
nozioni di «sanzione  penale»  e  di  «sanzione  amministrativa»  non
possono essere desunte, semplicemente, dal nomen iuris utilizzato dal
legislatore, ne' dall'autorita' chiamata ad applicarla, ma devono, al
contrario, essere ricavate in concreto, tenuto conto delle  finalita'
e  della  portata  del  precetto  sanzionatorio  di  volta  in  volta
contemplato. 
    Il giudice a quo evidenzia che, secondo la  giurisprudenza  della
Corte EDU -  di  cui  vengono  diffusamente  richiamate  le  pronunce
concernenti la legittimita' «del sistema sanzionatorio  italiano  del
cosiddetto "doppio binario"», in relazione agli  illeciti  fiscali  e
tributari (e', in particolare, ampiamente illustrata la sentenza  del
4 marzo 2014 nella causa Grande Stevens  e  altri  contro  Italia)  -
l'individuazione di una sanzione come «amministrativa» o «penale» non
puo' dipendere unicamente dalla qualificazione ad essa attribuita dal
legislatore ne' dalla  natura  dell'organo  chiamato  ad  applicarla,
dovendosi, al contrario,  avere  riguardo  ad  una  serie  di  indici
presuntivi, in presenza dei quali la sanzione -  pur  se  formalmente
qualificata come «amministrativa» - assume, a tutti gli  effetti,  la
natura, lo scopo e le funzioni di una vera e propria pena:  tra  tali
indici,  il  rimettente  ricorda  la  «rilevante   severita'»   della
sanzione, «l'importo elevato  in  concreto  inflitto  e  in  astratto
comminabile», la presenza di  sanzioni  accessorie  collegate,  e  le
ripercussioni complessive sugli interessi del condannato. In presenza
di tali indici, le sanzioni  amministrative,  proprio  per  l'elevata
afflittivita' nei confronti del condannato, rivestirebbero uno  scopo
chiaramente  repressivo  e  preventivo,  che  si  affianca  a  quello
riparatorio dei pregiudizi  di  natura  finanziaria  cagionati  dalla
condotta, potendosi considerare,  cosi',  sostanzialmente  di  natura
penale. 
    Secondo il giudice a quo, analoghe  argomentazioni  sosterrebbero
la qualificazione in termini di pena  della  sanzione  amministrativa
attualmente prevista per le  violazioni  di  cui  all'art.  2,  comma
1-bis, del d.l. n. 463 del  1983,  laddove  l'omesso  versamento  non
superi il limite-soglia di euro 10.000. 
    A  tal  proposito,  evidenzia  il  rimettente  come  la  sanzione
introdotta per le violazioni «sotto-soglia» contempli il pagamento di
una somma ricompresa tra euro 10.000 ed euro 50.000,  con  un  minimo
edittale, dunque, superiore al massimo della pena pecuniaria prevista
per le violazioni superiori alla soglia  di  punibilita'  costituenti
ancora reato (pari alla multa fino ad euro 1.032). Anche in tal caso,
ricorrerebbero i medesimi indici che la Corte EDU  ha  elaborato  per
attribuire alle  sanzioni  «nominalmente»  amministrative  la  natura
sostanziale di sanzioni penali. 
    In particolare, il giudice a quo  rileva  che  «il  complesso  di
norme di cui agli artt. 3 co. 6, 8 co. 1 e 3 e 9» del d.lgs. n. 8 del
2016, nel  prevedere  l'applicazione  della  sanzione  amministrativa
anzidetta  e  la  trasmissione  degli  atti   del   processo   penale
all'autorita' amministrativa competente, non detta alcun criterio per
ancorare la quantificazione della  sanzione  da  applicare  al  danno
effettivo cagionato agli enti di previdenza e di assistenza,  sicche'
«la determinazione del quantum di sanzione  concretamente  irrogabile
sara' operata dall'Ente applicatore», in parte in relazione al  danno
effettivo,  in  parte  in  relazione  alla  gravita'  della  condotta
(omissiva), e dunque secondo criteri valutativi tipici  del  giudizio
penale.  Nel  caso  in  esame,  a  fronte  di  un  omesso  versamento
estremamente  contenuto  (pari   a   euro   177)   dovrebbe   trovare
applicazione, a giudizio del rimettente, la  sanzione  amministrativa
minima (pari ad euro 10.000), evidenziandosi, in tal modo,  a  fronte
di   un   danno   «oggettivamente   irrisorio»   cagionato   all'ente
previdenziale, la funzione esclusivamente repressiva della  sanzione,
come tale idonea a rivelare la natura, le conseguenze e le  finalita'
di una vera e propria pena. 
    Tutto cio' premesso, il giudice a  quo  ritiene  che,  anche  con
riferimento all'anzidetta sanzione, a suo giudizio  solo  formalmente
amministrativa, ma di fatto penale, debbano  trovare  applicazione  i
principi di legalita' e di irretroattivita' delle sanzioni penali (in
senso sostanziale) costituzionalmente  sanciti  dall'art.  25  Cost.:
un'applicazione della sanzione amministrativa in esame anche ai fatti
di  omesso  versamento   (sotto-soglia)   posti   in   essere   prima
dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016 (ossia  prima  del  6
febbraio 2016), avrebbe la conseguenza  -  nella  prospettazione  del
rimettente «assolutamente abnorme e contraria  ai  principi  fondanti
del nostro ordinamento giuridico» - di esporre «il condannato in  via
amministrativa   (ex   imputato)»    a    conseguenze    estremamente
pregiudizievoli per i propri interessi economici (tenuto conto  degli
importi elevati della sanzione  amministrativa,  in  particolare  per
quanto riguarda il minimo edittale), senza che questi abbia avuto  la
possibilita'  di  conoscere  tali  conseguenze  prima  della  propria
omissione. In  tal  modo,  sarebbe  frustrata  la  tutela  apprestata
dall'art. 25, secondo comma, Cost., che garantisce  ad  ogni  persona
«la prerogativa (finanche il diritto) di  sapere  in  anticipo  quali
comportamenti costituiscono un fatto penalmente  rilevante,  a  quale
comportamento  fa  seguito  l'applicazione  di  una  pena  (in  senso
sostanziale), nonche' quale tipo di pena - ed in che misura -  potra'
essere inflitta». Tutela che impedisce, altresi',  che  un  individuo
«sia punito (personalmente o a livello patrimoniale)» per fatti  che,
al momento della commissione, non  erano  contemplati  come  reato  o
erano puniti  con  pene  che,  per  tipologia  e  misura,  non  erano
espressamente stabilite. 
    A tal proposito, il giudice rimettente evidenzia che, nel caso di
specie, il datore di lavoro che abbia omesso di versare  le  ritenute
previdenziali ed  assistenziali  prima  dell'entrata  in  vigore  del
d.lgs.  n.  8  del  2016  e  per  importi  complessivi   estremamente
contenuti,   «non   puo'   che   essersi   prospettato    conseguenze
sanzionatorie (ancorche' a  livello  penale)  comunque  limitatamente
afflittive», anche in considerazione  dei  numerosi  istituti  penali
sostanziali che, in sede di cognizione o di  esecuzione,  consentono,
comunque, di evitare - in concreto -  l'esecuzione  di  una  pena  o,
comunque, di mitigarne le conseguenze (vengono citati,  a  titolo  di
esempio, i benefici della sospensione condizionale della pena,  della
conversione  della  pena  detentiva   in   pena   pecuniaria,   della
possibilita' di assoluzione per particolare  tenuita'  del  fatto  ex
art. 131-bis cod. pen., della possibilita' di chiedere la sospensione
del procedimento con messa alla prova). 
    Secondo   il   giudice    a    quo,    ulteriore    profilo    di
incostituzionalita' risiederebbe nella  portata  solo  apparentemente
favorevole del criterio previsto dall'art. 8, comma 3, del d.lgs.  n.
8 del 2016, volto a limitare la  portata  afflittiva  della  sanzione
amministrativa nella parte in  cui  esclude  che  essa  possa  essere
irrogata in misura superiore al massimo della  pena  «originariamente
inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui
all'articolo  135  del  codice  penale».  Infatti,  la  norma   nulla
disporrebbe per le ipotesi in cui - come appunto nel caso di specie -
il processo penale non sia stato ancora definito con sentenza (o  con
decreto penale) e, dunque, non sia stata ancora inflitta alcuna  pena
per il reato. In tali casi, l'art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016  impone
al giudice di pronunciare sentenza inappellabile perche' il fatto non
e' previsto dalla legge come reato  e  di  disporre  la  trasmissione
degli atti all'autorita' amministrativa competente. Quest'ultima, non
avendo alcuna pena originariamente inflitta cui fare  riferimento  (e
da convertire ex art. 135  cod.  pen.),  dovrebbe  necessariamente  -
sebbene lo  stesso  giudice  a  quo  riconosca  che,  sul  punto,  la
disposizione sia «ambigua ed estremamente fumosa»  -  determinare  la
sanzione  amministrativa  da  applicare  all'interno  della   forbice
edittale fissata dall'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016,  che
oscilla da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro  50.000,  a
meno di ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi  non  gia'
alla  pena  «inflitta»  dal  giudice  in  concreto  (con  sentenza  o
decreto), bensi' a quella «prevista», «contemplata» o «comminata»  in
astratto dalla norma penale incriminatrice  originaria.  Tale  ultima
interpretazione  viene  tuttavia  scartata  dal  giudice  rimettente,
poiche'   foriera   «di   un   ulteriore    profilo    di    assoluta
irragionevolezza, illogicita' e contraddittorieta'»: il massimo della
pena originariamente prevista in astratto per il  reato  prima  della
depenalizzazione, ragguagliata ai sensi dell'art. 135  cod.  pen.,  e
con l'aggiunta della multa pari ad euro 1.032,  potrebbe  raggiungere
l'importo di euro 274.782, addirittura  superiore  al  massimo  della
sanzione amministrativa applicabile in base alla  nuova  formulazione
della norma (pari ad euro 50.000). Cio' determinerebbe una violazione
del principio di eguaglianza, di cui all'art. 3 Cost., per disparita'
di  trattamento  fra  i  soggetti  -   tutti   imputati   per   fatti
«sotto-soglia» commessi prima dell'entrata in vigore del decreto - la
cui posizione sia gia' stata definita con una sentenza o  un  decreto
di condanna (non ancora divenuta irrevocabile) ed i soggetti  la  cui
posizione, al contrario, sia ancora pendente al momento  dell'entrata
in vigore, del decreto: nella prospettazione del rimettente, infatti,
per i primi, la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile dovra'
essere commisurata alla  pena  originariamente  inflitta,  secondo  i
criteri di ragguaglio di cui all'art. 135 cod. pen.; per  i  secondi,
invece, la sanzione «(nel  silenzio  della  legge)»  non  potra'  che
essere determinata nei termini della cornice edittale di cui all'art.
3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (ossia  da  un  minimo  di  euro
10.000 ad un massimo  di  euro  50.000),  risultando,  in  tal  modo,
decisamente piu'  afflittiva  e  pregiudizievole  per  gli  interessi
(economici) del condannato. 
    Ulteriore profilo di illegittimita'  costituzionale,  ancora  una
volta per violazione del principio di eguaglianza di cui  all'art.  3
Cost., e' ravvisato dal giudice a quo nel fatto che - a differenza di
quanto previsto per le pene - la  disposizione  di  cui  all'art.  3,
comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel contemplare il  minimo  ed  il
massimo edittale della sanzione amministrativa, «non introduce  alcun
istituto alternativo alla sua  applicazione»,  che  tenga  conto,  ad
esempio, della particolare tenuita' degli importi  omessi  ovvero  di
condotte   riparatorie   successivamente   tenute   dal    reo.    Si
determinerebbe cosi' un differente trattamento  per  colui  che,  pur
avendo omesso di versare le ritenute previdenziali prima dell'entrata
in vigore del decreto,  abbia  gia'  ottenuto  la  pronuncia  di  una
sentenza definitoria del giudizio  -  eventualmente  beneficiando  di
istituti alternativi alla pena che possono,  di  fatto,  azzerare  le
conseguenze  pregiudizievoli  della  condotta  (quali,  ad   esempio,
l'assoluzione per particolare tenuita' del  fatto  o  la  sospensione
condizionale della pena) - rispetto ai soggetti,  la  cui  posizione,
per questioni di mera tempistica processuale, non sia stata  definita
prima dell'entrata in vigore del  decreto  e  che  non  hanno  alcuna
possibilita'   di   sottrarsi   all'applicazione    della    sanzione
amministrativa. 
    2.2.- Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate, il giudice
a quo, alla luce dei fatti come contestati nel capo  di  imputazione,
sostiene che «[l]e norme di cui al  recente  d.lgs.  n.°  8/2016  (in
particolare, l'art. 8, commi 1 e 3 e l'art. 9 di  cui  si  chiede  la
declaratoria    d'incostituzionalita')    trovano     necessariamente
applicazione anche al fatto concreto, non essendo  stati  pronunciati
sentenza o  decreto  divenuti  irrevocabili,  ne'  essendo  il  reato
contestato all'imputata estinto per prescrizione o per altre  cause»,
sicche'  il  rimettente,  proprio  sulla  base   delle   disposizioni
anzidette, non potrebbe «che essere tenuto  alla  trasmissione  degli
atti  all'autorita'  amministrativa  competente,  affinche'  provveda
all'applicazione della sanzione amministrativa accessoria». 
    Aggiunge, poi, che, atteso l'importo  esiguo  non  versato  e  la
condizione di incensurata riconoscibile  all'imputata,  quest'ultima,
in   caso   di   eventuale   condanna   in   sede   penale,   avrebbe
«ragionevolmente» potuto beneficiare di istituti volti ad  evitare  -
in  concreto  -  l'esecuzione  della  pena  (in  particolare,   della
sospensione condizionale) o, ancor prima, addirittura essere assolta,
all'esito del giudizio di merito, in applicazione della causa di  non
punibilita' della particolare tenuita' del fatto, ai sensi  dell'art.
131-bis  cod.  pen.,  istituti  -  entrambi  -  non  contemplati  con
riferimento alla sanzione amministrativa pecuniaria. 
    L'applicazione retroattiva di una sanzione pecuniaria di  importo
estremamente  elevato  sarebbe,  nel  caso  di  specie,   del   tutto
sproporzionata, sia rispetto al versamento omesso (pari ad euro 177),
sia rispetto al danno concretamente subito dall'ente previdenziale, e
non consentirebbe all'imputata di comprendere  l'effettivo  disvalore
della  propria  condotta,  dal  momento  che  la  stessa  avrebbe  la
percezione di essere punita con una «"multa" (come si e' soliti dire,
nel linguaggio  comune)  assolutamente  abnorme»,  la  cui  possibile
applicazione non poteva esserle nota al momento della commissione del
fatto (a cavallo degli  anni  2008  e  2009)  e  la  cui  irrogazione
«sarebbe sentita come un vero e proprio sopruso da parte dello Stato,
volta semplicemente a "fare cassa"» e non gia' alla realizzazione  di
un'effettiva finalita' rieducativa, con una palese violazione (anche)
del  principio  di   colpevolezza,   di   cui   all'art.   27   Cost.
L'applicazione di una sanzione pecuniaria (formalmente amministrativa
ma, di fatto,  sostanzialmente  penale)  particolarmente  incisiva  e
pregiudizievole per gli  interessi  economici  del  condannato,  come
quella contemplata dall'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, se
operata retroattivamente e, dunque,  senza  che  la  sanzione  stessa
fosse conosciuta dal  reo  al  momento  della  sua  azione,  verrebbe
percepita come un abuso ed un'ingiustizia da parte dello Stato.  Come
tale, osterebbe - ed,  anzi,  addirittura  si  contrapporrebbe  -  al
principio per cui la pena (intesa in senso sostanziale) deve  tendere
alla rieducazione del condannato,  e  non  consentirebbe  al  reo  di
comprendere il disvalore della propria condotta. 
    3.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, sostenendo  l'infondatezza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale. 
    Secondo la difesa statale, non potrebbe esservi dubbio sul  fatto
che la sanzione astrattamente stabilita per le ipotesi sottostanti la
soglia  dei  10.000  euro  sia  meno  grave,  non  solo  formalmente,
considerata  la  natura  amministrativa   dell'illecito,   ma   anche
sostanzialmente,  trattandosi  di  sanzione  pecuniaria.  In  secondo
luogo, l'Avvocatura generale dello Stato rileva che  il  legislatore,
procedendo    alla    depenalizzazione,    si    sarebbe     adeguato
all'orientamento della Corte costituzionale (sono citate le  sentenze
n. 196 del 2010 e n. 104 del 2014),  secondo  il  quale,  nell'ambito
della   depenalizzazione   di   reati    "degradati"    a    illeciti
amministrativi, si da' luogo ad una vicenda di successione di  leggi,
nella quale deve trovare attuazione il principio di retroattivita' in
mitius, appunto pienamente realizzato  dall'applicazione  retroattiva
delle piu' favorevoli sanzioni amministrative,  in  luogo  di  quelle
originariamente penali. 
    Le  disposizioni   censurate,   ad   avviso   dell'interveniente,
sarebbero  del  tutto   conformi   ai   principi   di   legalita'   e
irretroattivita', nonche' di uguaglianza, anche perche' la previsione
di limiti alla  sanzione  amministrativa,  strettamente  ancorati  ai
massimi edittali fissati per la pena originariamente prevista per  il
reato, consentirebbe di escludere  la  violazione  del  principio  di
colpevolezza, data la piena conoscibilita' da parte dell'interessato,
sin dalla commissione del fatto, della  fattispecie  anche  sotto  il
profilo sanzionatorio, risultando cosi'  rispettata  la  liberta'  di
autodeterminazione individuale. 
    Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, peraltro, non  sarebbe
sufficientemente motivata la questione sollevata  in  relazione  alla
prospettata impossibilita' per l'imputato, una volta  intervenuta  la
depenalizzazione, di accedere ai benefici che consentono  di  evitare
l'esecuzione della pena (quali la sospensione condizionale e  la  non
punibilita'   per   particolare   tenuita'   del    fatto):    rileva
l'interveniente, infatti, che il giudice  si  sarebbe  riferito  alla
«ragionevole  possibilita'»  per  l'interessato  di  beneficiare  dei
suddetti istituti, senza  che  siano  stati  forniti,  tuttavia,  gli
elementi  necessari  a  descrivere  la  fattispecie  concreta,   onde
valutare la rilevanza della questione nel giudizio  principale.  Piu'
precisamente, il giudice  avrebbe  omesso  di  specificare  se  nella
fattispecie  sottoposta  al  suo  vaglio  sussistano  i   presupposti
richiesti  dall'ordinamento   per   l'applicazione   degli   istituti
«ragionevolmente»  adottabili,  cosi'  compromettendo   il   doveroso
preliminare controllo sulla rilevanza della questione  che  la  Corte
costituzionale e' chiamata ad effettuare. 
    Inoltre,  mentre  il  principio  d'irretroattivita'  della  legge
penale e' espressamente tutelato dall'art. 25 Cost.,  quale  presidio
di garanzia contro l'arbitrio del legislatore  e  della  liberta'  di
autodeterminazione, il principio di  retroattivita'  in  mitius,  non
presentando alcun collegamento con detta liberta', dato che la  norma
piu'  favorevole  sopravviene  alla  commissione  del  fatto,   trova
fondamento nel principio di uguaglianza. Il collegamento con l'art. 3
Cost. giustificherebbe la minor forza del principio di retroattivita'
della norma piu' favorevole, il quale,  a  differenza  di  quello  di
irretroattivita' della  legge  penale,  e'  suscettibile  di  deroghe
«legittime sul piano costituzionale ove sorrette  da  giustificazioni
oggettivamente ragionevoli» (viene citata  la  sentenza  n.  394  del
2006). Nel caso in esame, la finalita' perseguita dalla  riforma,  di
deflazionare il sistema penale mediante  la  depenalizzazione  di  un
cospicuo numero di reati in  vista  della  maggior  efficienza  della
giurisdizione e nell'interesse dell'intera collettivita', in  ragione
di pregnanti esigenze  economiche  e  sociali,  giustificherebbe,  ad
avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, il  diverso  trattamento
tra chi e' oggi punito in via amministrativa e chi, per  il  medesimo
fatto, e' stato condannato in sede penale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio penale avente ad oggetto il  delitto
di omesso versamento delle  ritenute  previdenziali  e  assistenziali
previsto dall'art. 2, comma 1-bis,  del  decreto-legge  12  settembre
1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e  sanitaria  e
per il contenimento  della  spesa  pubblica,  disposizioni  per  vari
settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni  termini),
convertito con modificazioni dall'art. 1, comma  1,  della  legge  11
novembre 1983, n. 638, il Tribunale ordinario di Varese  solleva,  in
riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 8, commi 1 e  3,
e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n.  8  (Disposizioni  in
materia di depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2,  della
legge 28 aprile 2014, n. 67). 
    2.- Oggetto delle questioni sono alcune disposizioni  del  d.lgs.
n. 8 del 2016, che, in attuazione della delega contenuta nella  legge
28 aprile 2014,  n.  67  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di  pene
detentive non carcerarie e  di  riforma  del  sistema  sanzionatorio.
Disposizioni in materia di sospensione  del  procedimento  con  messa
alla prova e nei  confronti  degli  irreperibili),  ha  provveduto  a
sostituire  con  sanzioni  amministrative   pecuniarie   e   sanzioni
amministrative accessorie le pene previste per una  serie  di  reati.
Sulla  base,  tra  l'altro,  di  un  criterio   di   depenalizzazione
"nominativa",  riferito  a  specifiche   fattispecie   delittuose   e
contravvenzionali, sia contenute  nel  codice  penale  che  in  leggi
speciali, l'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, stabilisce  la
trasformazione in  illecito  amministrativo  del  delitto  di  omesso
versamento delle ritenute previdenziali e  assistenziali,  laddove  -
come accade nel giudizio a quo - l'importo omesso non  sia  superiore
ad euro 10.000 per ogni annualita'. La condotta depenalizzata e'  ora
punita con l'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da
un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000. 
    Il giudice a quo non censura, peraltro,  la  disposizione  appena
ricordata, ma sospetta  di  illegittimita'  costituzionale  le  norme
(art. 8, commi 1 e 3,  del  d.lgs.  n.  8  del  2016)  che  prevedono
l'applicabilita' delle sanzioni amministrative anche alle  violazioni
commesse anteriormente alla data di entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo di depenalizzazione, per un importo che non  puo'  essere
superiore al massimo  della  pena  originariamente  inflitta  per  il
reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di  cui  all'art.  135
del codice penale. 
    Rileva,  inoltre,  l'illegittimita'  costituzionale  della  norma
(contenuta  nell'art.  9  del  d.lgs.  n.  8  del  2016)  che  impone
all'autorita'   giudiziaria   l'obbligo,   entro    novanta    giorni
dall'entrata  in  vigore  del  decreto  legislativo,  di  trasmettere
all'autorita' amministrativa competente  gli  atti  dei  procedimenti
penali trasformati in illeciti amministrativi,  salvo  che  il  reato
risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data. 
    Nel sollevare tali questioni di legittimita'  costituzionale,  il
giudice a quo  aderisce  esplicitamente  alla  tesi  secondo  cui  il
principio di irretroattivita' di  cui  all'art.  25,  secondo  comma,
Cost. trova applicazione esclusivamente per le norme penali e le pene
da  queste   contemplate;   ed   afferma   che,   per   le   sanzioni
amministrative, la stessa regola  puo'  invece  essere  derogata,  in
quanto prevista da una legge  ordinaria  (l'art.  1  della  legge  24
novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»). 
    Richiamando diffusamente la giurisprudenza  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo (d'ora in avanti:  Corte  EDU),  il  rimettente
sostiene,  tuttavia,  che  le  nozioni  di  «sanzione  penale»  e  di
«sanzione    amministrativa»    non    possono    essere     desunte,
«semplicemente», dal  nomen  iuris  utilizzato  dal  legislatore,  ma
devono essere ricavate - in concreto - tenuto conto delle finalita' e
della  portata  del  precetto  sanzionatorio  di   volta   in   volta
contemplato, alla luce di quegli indici  (cosiddetti  criteri  Engel)
che  la  Corte  EDU  ha  elaborato  in  relazione  all'art.  7  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848  (d'ora  in  avanti:
CEDU). 
    Proprio applicando i suddetti criteri  alla  sanzione  introdotta
dall'art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del  2016,  il  giudice  a  quo
giunge  alla  conclusione  che  essa   sarebbe   «solo   formalmente»
amministrativa, in quanto,  per  la  sua  elevata  afflittivita'  nei
confronti  del  condannato,  perseguirebbe  uno   scopo   chiaramente
repressivo  e  preventivo,  piuttosto   che   soltanto   riparatorio,
dovendosi considerare, cosi', sostanzialmente di natura penale. 
    Da cio' deriverebbe la necessaria applicazione  dei  principi  di
legalita'  e  di  irretroattivita'  delle  sanzioni  penali,  sanciti
dall'art. 25 Cost., con i quali contrasterebbe  la  retroattivita'  -
prevista dalle disposizioni censurate - della sanzione introdotta dal
d.lgs. n. 8 del 2016. 
    Secondo  il  giudice  a  quo,  inoltre,  il  criterio  limitativo
previsto dall'art. 8,  comma  3,  del  d.lgs.  n.  8  del  2016  (che
impedisce di applicare, ai fatti commessi prima della data di entrata
in  vigore  della  depenalizzazione,  una   sanzione   amministrativa
pecuniaria di importo superiore al massimo della pena originariamente
inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui
all'art. 135 cod. pen.) non potrebbe riferirsi alle ipotesi in cui  -
come appunto nel caso di specie - il processo penale  non  sia  stato
ancora definito con sentenza (o con decreto penale)  e,  dunque,  non
sia stata ancora inflitta  alcuna  pena  suscettibile  di  ragguaglio
pecuniario:  cio'  provocherebbe  una  disparita'   di   trattamento,
contrastante con l'art. 3 Cost., fra i soggetti la cui posizione  sia
gia' stata definita con una sentenza o un decreto  di  condanna  (non
ancora divenuti irrevocabili) ed i  soggetti  la  cui  posizione,  al
contrario, sia ancora pendente al momento dell'entrata in vigore  del
decreto. 
    Nel  raffronto  tra  queste  due  categorie  di  soggetti,  tutti
imputati per fatti "sotto-soglia", il rimettente ravvisa un ulteriore
profilo  di  illegittimita'  costituzionale,  ancora  una  volta  per
violazione del principio di eguaglianza.  Infatti,  a  differenza  di
quanto previsto per le pene, l'art. 3, comma 6, del d.lgs. n.  8  del
2016, nel contemplare il minimo ed il massimo edittale della sanzione
amministrativa, «non introduce alcun istituto  alternativo  alla  sua
applicazione»,  che  tenga  conto,  ad  esempio,  della   particolare
tenuita'  degli  importi  omessi  ovvero  di   condotte   riparatorie
successivamente tenute dal reo. 
    Infine, l'applicazione retroattiva di una sanzione pecuniaria  di
importo estremamente elevato sarebbe, nel caso di specie,  del  tutto
sproporzionata, sia rispetto al versamento omesso (pari ad euro 177),
sia rispetto al danno concretamente subito  dall'ente  previdenziale,
risultandone frustrata la funzione rieducativa  della  pena,  di  cui
all'art. 27 Cost.: infatti, l'applicazione di una sanzione pecuniaria
particolarmente  incisiva  e  pregiudizievole   per   gli   interessi
economici del condannato, come quella contemplata dall'art. 3,  comma
6, del d.lgs. n. 8 del 2016 - se operata retroattivamente e,  dunque,
senza che la sanzione stessa fosse  conosciuta  dal  reo  al  momento
della sua azione - verrebbe percepita come un abuso  da  parte  dello
Stato, in violazione del principio per  cui  la  sanzione  afflittiva
deve tendere alla rieducazione del condannato. 
    3.- Tutte  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  cosi'
sollevate sono inammissibili. 
    3.1.- Tale e', innanzitutto, la questione  posta  in  riferimento
all'asserita violazione, da parte degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del
d.lgs. n. 8 del  2016,  del  principio  di  irretroattivita'  di  cui
all'art. 25, secondo comma, Cost. 
    Le  norme   sospettate   d'illegittimita'   costituzionale   sono
applicabili nel giudizio principale, in quanto l'obbligo  -  gravante
sul  giudice  a  quo  -  di  disporre  la  trasmissione  degli   atti
all'autorita' amministrativa competente,  previsto  dall'art.  9  del
citato decreto legislativo (e, in  particolare,  dai  commi  1  e  3,
rilevanti nel  caso  di  specie),  rinviene  la  sua  giustificazione
proprio nella retroattivita' delle sanzioni amministrative  prevista,
in generale, dall'art. 8. 
    Il giudice rimettente muove esplicitamente dalla tesi per cui  il
principio costituzionale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.  si
applica  «esclusivamente  alle  norme  penali  ed   alle   pene   ivi
contemplate», mentre, per le sanzioni amministrative, il principio di
irretroattivita' «trova fondamento in una  legge  ordinaria  e,  come
tale, ben puo' essere derogato da una legge ordinaria posteriore  che
preveda - espressamente - l'applicazione retroattiva di una  sanzione
amministrativa». 
    Senonche',   invocando   i   «piu'   recenti    innesti»    della
giurisprudenza europea, sostiene il giudice a quo che i  concetti  di
sanzione  penale  e  di  sanzione   amministrativa   non   potrebbero
desumersi,   «semplicemente,   dal   nomen   iuris   utilizzato   dal
legislatore, ne'  dall'autorita'  chiamata  ad  applicarla»,  ma,  al
contrario, dovrebbero «essere ricavati - in concreto -  tenuto  conto
delle finalita' e della portata del precetto sanzionatorio  di  volta
in volta contemplato». E, in tal senso, opera ampi  riferimenti  alla
giurisprudenza della Corte EDU ed ai criteri Engel (identificati  dal
rimettente nella rilevante  severita'  della  sanzione,  nell'elevato
importo di questa  inflitto  in  concreto  e  comunque  astrattamente
comminabile, nelle  complessive  ripercussioni  sugli  interessi  del
condannato, nella finalita'  sicuramente  repressiva),  applicando  i
quali la sanzione "formalmente" amministrativa di  cui  e'  questione
nel giudizio  a  quo  rivelerebbe  la  sua  natura  "sostanzialmente"
penale, richiedendo l'applicazione del  principio  costituzionale  di
irretroattivita' di  cui  all'art.  25,  secondo  comma,  Cost.,  con
conseguente   illegittimita'   costituzionale   delle    disposizioni
censurate. 
    A prescindere da qualsiasi considerazione  relativa  al  criterio
casistico cui sarebbe in tal modo consegnata l'identificazione  della
natura penale della sanzione  (che  potrebbe  porsi  in  problematico
rapporto con l'esigenza garantistica tutelata dalla riserva di  legge
di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.), conta, in questa sede, che
lo scopo perseguito dal  giudice  rimettente  finisca  per  risultare
contraddittorio rispetto alle premesse che egli stesso pone, e che  i
passaggi motivazionali dell'ordinanza di  rimessione  si  allontanino
alquanto dalle indicazioni ricavabili dalla  costante  giurisprudenza
di questa Corte, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007. 
    Nell'attivita' interpretativa che gli spetta ai  sensi  dell'art.
101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di  evitare
violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni,
sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte  EDU,  specie
quando  il  caso  sia  riconducibile  a  precedenti  di  quest'ultima
(sentenze n. 68 del  2017,  n.  276  e  n.  36  del  2016).  In  tale
attivita',  egli  incontra,  tuttavia,  il  limite  costituito  dalla
presenza di una legislazione  interna  di  contenuto  contrario  alla
CEDU: in un caso del genere - verificata  l'impraticabilita'  di  una
interpretazione in senso convenzionalmente conforme,  e  non  potendo
disapplicare la  norma  interna,  ne'  farne  applicazione,  avendola
ritenuta  in  contrasto  con  la  Convenzione  e,  pertanto,  con  la
Costituzione, alla luce  di  quanto  disposto  dall'art.  117,  primo
comma,   Cost.   -   deve   sollevare   questione   di   legittimita'
costituzionale della norma interna, per violazione di tale  parametro
costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del  2015,  n.  264  del
2012, n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009). 
    Nel caso in esame, il giudice a  quo,  invece,  prende  atto,  in
primo luogo, del tenore testuale di una legge  nazionale  alla  quale
egli  stesso  riconosce  esplicitamente  di  non  poter  riferire  il
principio costituzionale di  irretroattivita'  di  cui  all'art.  25,
secondo  comma,   Cost.   Al   tempo   stesso,   ritiene   che   tale
inapplicabilita' non discenda che dalla formale  "autoqualificazione"
legislativa (la legge definisce amministrativa la sanzione), la quale
risulterebbe smentita alla luce dei  criteri  Engel  elaborati  dalla
Corte di Strasburgo, che di quella sanzione metterebbero  in  luce  i
caratteri sostanzialmente penali. 
    Il  rimettente,  dunque,  utilizza  i  criteri  Engel,  sia   per
sottolineare la "vera" natura  della  sanzione,  sia  per  dimostrare
l'illegittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 25, secondo
comma,  Cost.,  della  disposizione   che   sancisce   l'applicazione
retroattiva della sanzione stessa. 
    L'elaborazione dei criteri in parola, come noto, e' servita  alla
Corte EDU per evitare la cosiddetta "truffa delle  etichette",  cioe'
per scongiurare che i  processi  di  decriminalizzazione  avviati  da
alcuni Stati aderenti avessero l'effetto di sottrarre  gli  illeciti,
cosi' depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dalla CEDU.
In tal senso - e a  questi  specifici  fini:  applicare  le  garanzie
convenzionali - la Corte di Strasburgo ha potuto di  volta  in  volta
ritenere non  decisiva  la  qualificazione  in  termini  di  sanzione
amministrativa  attribuita  dai  legislatori  interni  a  determinate
disposizioni. 
    Di  significato  del   tutto   diverso   risulta   il   passaggio
argomentativo  dell'ordinanza  di  rimessione.  Il  giudice  a   quo,
infatti, svilisce l'"autoqualificazione legislativa"  della  sanzione
come puramente nominale e, cosi' facendo, trascura  un  preciso  dato
testuale, parte di una complessiva e discrezionale scelta legislativa
di   depenalizzazione.   In   questa   prospettiva,    utilizza    la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo  per  ricondurre  nuovamente
l'illecito amministrativo nel campo  "sostanzialmente  penale",  allo
scopo di ottenere  l'applicazione,  ad  esso,  dei  presidii  che  la
Costituzione italiana assicura alle  sanzioni  (formalmente)  penali:
l'art. 25, secondo comma, Cost. (nel suo complessivo significato)  ed
anche l'art. 27 Cost. (la  cui  pertinenza  esclusiva  alle  sanzioni
propriamente  penali   e',   peraltro,   affermata   dalla   costante
giurisprudenza di questa Corte: sentenze n. 281 del 2013 e n. 487 del
1989; ordinanze n. 125 del 2008, n. 434 del 2007, n. 319 del 2002, n.
33 del 2001 e n. 159 del 1994). 
    Il rimettente, in altre parole, non ricorre ai criteri Engel  per
estendere    alla    sanzione    formalmente    amministrativa    (ma
"sostanzialmente penale"  per  la  CEDU,  nell'interpretazione  della
Corte  di  Strasburgo)  le  sole  garanzie  convenzionali  -  ed   in
particolare  quelle  enucleate  dall'art.  7  della  CEDU  -  in  via
interpretativa (se cio' gli  fosse  consentito  dalla  lettera  della
legge),   ovvero   sollevando   una   questione    di    legittimita'
costituzionale della disposizione di legge per  violazione  dell'art.
117, primo comma, Cost. 
    Neppure  sostiene  con  franchezza,  alla  luce   del   carattere
punitivo-afflittivo che  accomuna  le  pene  in  senso  stretto  alle
sanzioni amministrative - carattere pur  riconosciuto,  talvolta,  da
questa Corte (sentenze n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196  del
2010) - che l'art. 25, secondo comma,  Cost.,  in  virtu'  della  sua
ampia formulazione («Nessuno puo'  essere  punito  [...]»),  dovrebbe
applicarsi non solo alle prime, ma anche alle seconde,  fungendo,  in
tal  caso,  i  criteri  Engel  da  mero  supporto  argomentativo  per
integrare il significato del  parametro  costituzionale  interno,  in
vista dell'allargamento della sua sfera  di  operativita':  giacche',
come si e' visto,  egli  muove  dalla  contraria  premessa  che  alle
sanzioni amministrative  l'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  non  si
applichi. 
    Segue invece un terzo percorso, intrinsecamente  contraddittorio,
in quanto risultante dalla commistione  tra  premesse  peculiari  del
primo itinerario interpretativo e conclusioni attese  solo  all'esito
del secondo: la riqualificazione sostanziale  dell'illecito  viene  a
sortire l'effetto - di valenza para-legislativa -  di  ri-trasformare
in penale una sanzione espressamente qualificata come  amministrativa
dal legislatore nazionale, consentendo  l'invocazione  dei  parametri
costituzionali interni, dallo stesso rimettente  riferiti  alla  sola
pena in senso stretto. 
    In tal modo, il giudice a  quo  intende  ottenere  l'allargamento
dell'area di cio' che e' penalmente rilevante: ma nella  sentenza  n.
49 del 2015 questa Corte ha gia' escluso la correttezza  dell'assunto
secondo cui l'illecito amministrativo, che il  legislatore  distingue
con ampia discrezionalita' dal reato (sentenze n. 43 del  2017  e  n.
193 del 2016), appena sia  tale  da  corrispondere,  in  forza  della
giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo,  ai  criteri  Engel  di
qualificazione  della  "pena",  subirebbe  l'attrazione  del  diritto
penale  dello  Stato  aderente,  con  conseguente  saldatura  tra  il
concetto di sanzione penale a livello nazionale e  quello  a  livello
europeo. 
    In definitiva, il giudice a quo  utilizza  i  criteri  Engel  per
perseguire  -  nella  prospettiva  che  egli  stesso   privilegia   -
l'obiettivo dell'applicazione delle tutele  predisposte  dal  diritto
nazionale  per  i  soli  precetti  e  per  le   sole   sanzioni   che
l'ordinamento  interno  considera,   secondo   i   propri   principi,
espressione della potesta' punitiva penale dello Stato  (sentenza  n.
43 del 2017). Ma tale scopo e' del tutto diverso  da  quello  che  il
ricorso ai criteri Engel  lascerebbe  attendere,  cioe'  l'estensione
alla sanzione amministrativa delle sole garanzie convenzionali,  come
elaborate dalla Corte di Strasburgo per la matiere penale. 
    Questa contraddittorieta' tra  premesse  ed  esito  del  percorso
motivazionale seguito determina l'inammissibilita' della questione. 
    3.2.- Inammissibili sono, altresi', le  questioni  sollevate  con
riferimento  all'art.  3  Cost.,  articolate  sotto  due   differenti
profili. 
    In primo luogo, secondo il rimettente, la  "clausola  limitativa"
di cui all'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8  del  2016  non  potrebbe
operare nel caso - ricorrente nella  specie  -  in  cui  il  processo
penale non sia stato ancora definito  con  sentenza  (o  con  decreto
penale) e, dunque, non sia stata ancora  "inflitta"  alcuna  pena  da
convertire ai sensi  dell'art.  135  cod.  pen.,  dovendosi,  dunque,
necessariamente  irrogare  la  sanzione  amministrativa  scegliendone
l'importo  tra  la  misura  minima   e   quella   massima,   entrambe
particolarmente severe, introdotte dal nuovo art.  3,  comma  6,  del
d.lgs. n. 8 del 2016. Posta tale premessa, il giudice a quo  sostiene
la violazione del principio di  eguaglianza,  per  la  disparita'  di
trattamento fra i soggetti - tutti imputati per fatti  «sotto-soglia»
commessi prima dell'entrata in vigore del decreto - la cui  posizione
sia gia' stata definita con una sentenza o  un  decreto  di  condanna
(non  ancora  irrevocabili)  ed  i  soggetti  la  cui  posizione,  al
contrario, sia ancora sub iudice al momento  dell'entrata  in  vigore
del decreto. 
    In secondo luogo, una violazione del principio di eguaglianza  e'
anche ravvisata dal rimettente nel fatto che - a differenza di quanto
previsto per le pene - la disposizione di cui all'art.  3,  comma  6,
del d.lgs. n. 8 del 2016, nel contemplare il  minimo  ed  il  massimo
edittale della sanzione amministrativa, «non introduce alcun istituto
alternativo alla sua applicazione»,  che  tenga  conto,  ad  esempio,
della particolare tenuita' degli importi omessi  ovvero  di  condotte
riparatorie successivamente tenute dal reo, cosi' determinandosi, per
mere questioni di tempistica processuale, un  differente  trattamento
di situazioni identiche. 
    Si tratta, come e' evidente, di censure costruite - per  entrambi
i profili sopra illustrati - direttamente sulla misura della sanzione
amministrativa di nuova introduzione, nonche' sulla  sua  esecuzione,
prospettata come ineluttabile. 
    Tuttavia, della disposizione a tal fine rilevante,  ossia  l'art.
3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il giudice a quo non deve  fare
applicazione, tanto che essa non e' stata neppure oggetto di apposita
censura. 
    Infatti, ai sensi dell'art. 9 del d. lgs.  n.  8  del  2016,  gli
obblighi  imposti  al  giudice  penale  innanzi  al  quale  pende  un
procedimento avente ad oggetto un reato  depenalizzato  si  arrestano
alla trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa  competente
per l'irrogazione della sanzione amministrativa sostitutiva di quella
penale. L'applicazione dell'art. 3, comma  6  (introduttivo  di  tale
nuova  sanzione),  esula  pertanto  dalla  sfera  di  cognizione  del
suddetto giudice, per essere attratta  in  quella  -  solo  eventuale
(conseguente cioe' all'impugnazione del provvedimento  amministrativo
emesso secondo la tempistica  scandita  dall'art.  9,  comma  4,  del
medesimo d.lgs. n. 8 del 2016)  -  del  giudice  dell'opposizione  al
provvedimento  sanzionatorio.  Sara'  quest'ultimo  a  verificare  il
corretto   esercizio   della   potesta'   sanzionatoria   da    parte
dell'autorita' amministrativa competente, alla quale soltanto  spetta
fare applicazione della norma che prevede l'illecito e stabilisce  la
sanzione (per un caso analogo, ordinanza n. 423 del 2001). 
    Ne consegue l'inammissibilita' delle  questioni  per  difetto  di
rilevanza (ex plurimis, sentenza n. 31 del 2017; ordinanze n. 47  del
2016 e n. 128 del 2015). 
    3.3.- Per identica ragione deve essere dichiarata  inammissibile,
infine, la questione sollevata in riferimento all'art. 27 Cost. 
    Il  rimettente  ritiene  che  l'applicazione  di   una   sanzione
pecuniaria  particolarmente  incisiva  e  pregiudizievole   per   gli
interessi economici del condannato, come quella contemplata dall'art.
3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, se operata retroattivamente  e,
dunque, senza che la sanzione stessa  fosse  conosciuta  dal  reo  al
momento della sua azione, verrebbe percepita come un abuso  da  parte
dello  Stato,  in  violazione  del  principio  per  cui  la  sanzione
afflittiva deve tendere alla rieducazione del condannato. 
    Anche in tal caso, la questione di legittimita' costituzionale si
appunta sulla misura della sanzione, dettata dall'art.  3,  comma  6,
del d.lgs. n. 8 del 2016, disposizione che, tuttavia,  non  e'  stata
oggetto di censura e che, del resto, il giudice a quo non e' chiamato
ad applicare, per i motivi in precedenza illustrati. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale  degli  artt.  8,  commi  1  e  3,  e  9  del  decreto
legislativo 15  gennaio  2016,  n.  8  (Disposizioni  in  materia  di
depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2,  della  legge  28
aprile 2014, n. 67), sollevate, in  riferimento  agli  artt.  3,  25,
secondo comma, e 27 della Costituzione, dal  Tribunale  ordinario  di
Varese, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2017. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA