N. 136 ORDINANZA 8 marzo - 12 giugno 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Misure cautelari - Delitto di associazione di  tipo
  mafioso - Presunzione assoluta di adeguatezza della  sola  custodia
  in carcere. 
- Codice di procedura penale, art. 275, comma 3. 
-   
(GU n.24 del 14-6-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma
3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d'appello  di
Torino nel procedimento penale a carico di F. C., con  ordinanza  del
14 giugno 2016, iscritta al n. 181  del  registro  ordinanze  2016  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  39,  prima
serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio  dell'8  marzo  2017  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 14 giugno 2016 (r.o. n.  181  del
2016), la Corte d'appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo  comma,  della  Costituzione,
una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3,
del codice di procedura penale, «nella parte in cui nel prevedere che
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine  al  delitto
di cui all'art. 416-bis c.p.p. [recte: c.p.] e' applicata  la  misura
della custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che  siano  acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non
fa  salva,  altresi',  l'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; 
    che,  come   premette   la   Corte   rimettente,   il   difensore
dell'imputato, giudicato e condannato, con sentenza del  22  febbraio
2016, per il reato di cui  all'art.  416-bis  del  codice  penale,  e
sottoposto alla  misura  cautelare  della  custodia  in  carcere,  ha
chiesto la sostituzione di questa misura  con  quella  degli  arresti
domiciliari, «eventualmente assistita dal divieto di  comunicare  con
persone diverse dai familiari conviventi e con applicazione di  mezzi
elettronici di controllo cui l'istante ha prestato il consenso»; 
    che  l'art.  275,  comma  3,  cod.  proc.   pen.,   nella   nuova
formulazione introdotta dalla legge 16 aprile 2015, n. 47  (Modifiche
al  codice  di  procedura  penale  in  materia  di  misure  cautelari
personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
visita a persone affette da handicap in situazione di gravita'), pone
una presunzione assoluta  di  adeguatezza  della  sola  misura  della
custodia  cautelare  in  carcere  quando  esistono  gravi  indizi  di
colpevolezza relativi al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.  e
non  sono  stati  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che   non
sussistono esigenze cautelari; 
    che secondo il giudice a quo il novellato art. 275, comma 3, cod.
proc. pen., nel limitare la presunzione assoluta  ai  reati  previsti
dagli artt. 270, 270-bis e  416-bis  cod.  pen.,  aveva  adeguato  il
dettato normativo alle pronunce di questa Corte, trasformando per gli
altri reati precedentemente previsti  dalla  stessa  disposizione  la
presunzione di adeguatezza della custodia in carcere da  assoluta  in
relativa, superabile se  vengono  acquisiti  elementi  specifici  dai
quali risulta che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con misure diverse dalla custodia in carcere; 
    che  la  Corte  rimettente,  dopo  aver   brevemente   ripercorso
l'evoluzione legislativa dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. e le
pronunce di questa Corte relative ai diversi reati ivi  previsti,  si
e'  soffermata  sulla  decisione  concernente  i  delitti   aggravati
dall'uso del metodo mafioso o dalla finalita' di agevolazione mafiosa
(sentenza n. 57 del 2013) e su quella in materia di concorso  esterno
in associazione  mafiosa  (sentenza  n.  48  del  2015),  fattispecie
ritenute "contigue" a quella dell'art. 416-bis cod. pen.; 
    che questa Corte,  a  parere  del  giudice  rimettente,  con  una
valutazione comparativa contenuta  in  obiter  dicta,  avrebbe  fatto
salva la presunzione assoluta di adeguatezza della sola  custodia  in
carcere per il reato di associazione di tipo mafioso, considerando le
caratteristiche del reato associativo in questione, ritenute  di  per
se' sole sufficienti a giustificare tale presunzione; 
    che questa valutazione dovrebbe essere «rivisitata e  rimodulata»
alla stregua, sia delle innovazioni apportate dalla legge n.  47  del
2015 circa i criteri applicativi delle misure  cautelari,  sia  delle
pronunce di questa Corte intervenute sull'art.  275,  comma  3,  cod.
proc. pen., e in particolare di quelle da ultimo  citate,  accomunate
dal richiamo alla necessaria proporzionalita' delle misure, alla luce
del principio del minimo sacrificio necessario,  e  dal  rilievo  che
l'eterogeneita'    dei    casi    concreti    non    giustificherebbe
un'applicazione generalizzata della «presunzione assoluta del  regime
cautelare speciale» previsto dalla disposizione in questione; 
    che,  pur  considerando   la   peculiarita'   del   vincolo   che
caratterizza il reato di  associazione  di  tipo  mafioso  e  la  sua
gravita' indiscussa, sarebbe illogico non consentire  al  giudice  di
riconoscere una diversa graduazione di pericolosita' tra le  condotte
dei vari associati; 
    che  lo   stesso   legislatore   avrebbe   operato   «una   prima
differenziazione di posizioni», prevedendo pene edittali diverse  per
i meri partecipi,  da  un  lato,  e  per  le  persone  che  rivestono
posizioni   apicali,   dall'altro,   pur   applicandosi    a    tutti
indiscriminatamente, con una presunzione assoluta, la medesima misura
cautelare; 
    che   non   risponderebbe   ai   canoni   della   congruita'    e
dell'adeguatezza e non sarebbe rispettosa  del  principio  del  minor
sacrificio  possibile  nell'adozione  di  misure   limitative   della
liberta' personale l'equiparazione  di  posizioni  che  per  le  loro
caratteristiche potrebbero essere differenti, si' da escludere che il
giudice possa valutare in concreto  la  pericolosita'  delle  diverse
condotte e applicare per ciascuna di esse la  misura  piu'  idonea  a
soddisfare le specifiche esigenze preventive; 
    che non sarebbe fondata l'affermazione secondo cui  solamente  la
misura  carceraria  potrebbe  troncare  il  vincolo  associativo  che
caratterizza  il  reato  in  questione,  posto  che  misure   minori,
eventualmente cumulate  tra  loro,  secondo  le  ultime  disposizioni
normative,  o  corredate  da  particolari  prescrizioni,   potrebbero
recidere, sospendere o ridurre al minimo tale vincolo; 
    che  il  principio  costituzionale   della   minor   compressione
possibile dei diritti fondamentali, tra i  quali  va  considerato  in
primo luogo quello della liberta' individuale,  e  il  criterio  base
dell'ordinamento, secondo cui il carcere  deve  costituire  l'extrema
ratio, riaffermato dalla legge n. 47 del 2015, non potrebbero  subire
una compressione indiscriminata ed  assoluta,  neppure  a  fronte  di
fattispecie criminose richiedenti il massimo del rigore,  laddove  le
esigenze cautelari possano essere altrimenti salvaguardate; 
    che pertanto la norma censurata violerebbe l'art. 3  Cost.,  dato
l'irrazionale assoggettamento  a  un  medesimo  regime  cautelare  di
situazioni che possono presentarsi diverse sotto il profilo oggettivo
e soggettivo; 
    che tale norma inoltre violerebbe l'art. 13, primo comma,  Cost.,
per i principi ivi affermati in tema di liberta' personale, e  l'art.
27, secondo comma, Cost., in relazione alla funzione che deve  essere
attribuita alla custodia cautelare; 
    che in punto di rilevanza la  Corte  rimettente  ritiene  che  le
esigenze cautelari non siano venute meno,  tenuto  conto,  sia  della
perdurante operativita' dell'associazione, la quale non aveva cessato
di esistere nonostante gli arresti di numerosi sodali, sia dei legami
dell'imputato con le altre persone appartenenti all'associazione; 
    che tuttavia, considerati il lungo periodo di  carcerazione  gia'
subita (circa tre anni e otto mesi),  il  ruolo  non  apicale  svolto
dall'imputato,  l'assenza  di  responsabilita'  per  reati-fine,   la
precedente incensuratezza, e la disponibilita'  della  convivente  ad
accoglierlo in casa, a parere del  giudice  rimettente,  le  esigenze
cautelari potrebbero essere adeguatamente soddisfatte con  la  misura
meno gravosa degli arresti domiciliari, corredata  da  meccanismi  di
controllo  e  da  adeguate  prescrizioni  di  non  comunicazione  con
l'esterno; 
    che e' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
comunque infondata; 
    che l'Avvocatura generale ha  eccepito  l'inammissibilita',  data
l'assoluta carenza di descrizione della fattispecie concreta  oggetto
del giudizio a quo; 
    che il giudice rimettente avrebbe  richiamato  genericamente  nel
provvedimento la condanna per il delitto dell'art. 416-bis cod. pen.,
senza  indicare  la  condotta  contestata,   carenza   questa   assai
rilevante,  dato  che  il   dubbio   di   costituzionalita'   sarebbe
principalmente basato sulla  ritenuta  omologazione  sotto  l'aspetto
cautelare di condotte tra loro diverse e diversamente sanzionate; 
    che nel merito la questione non sarebbe fondata; 
    che  infatti  la  norma   censurata   trarrebbe   origine   dalle
particolari esigenze di prevenzione speciale  relative  all'attivita'
mafiosa; 
    che l'associazione  di  tipo  mafioso  costituisce  un  sodalizio
criminoso  fortemente  radicato  nel  territorio,  caratterizzato  da
inscindibili collegamenti  personali  e  dotato  di  peculiare  forza
intimidatrice, e che sul piano cautelare l'appartenenza ad esso  puo'
essere contrastata solo dalla custodia in carcere; 
    che altre misure cautelari non sarebbero in grado di garantire il
controllo sulla persona imputata di tale reato. 
    Considerato che, con ordinanza  del  14  giugno  2016,  la  Corte
d'appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli  artt.  3,  13,
primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione,  una  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, del codice  di
procedura penale, «nella  parte  in  cui  nel  prevedere  che  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 416-bis c.p.p. [recte: c.p.] e' applicata  la  misura  della
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari,  non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»; 
    che secondo il giudice rimettente la norma  censurata  violerebbe
l'art. 3 Cost., dato l'irrazionale  assoggettamento  ad  un  medesimo
regime cautelare di situazioni che possono presentarsi diverse  sotto
il profilo oggettivo e soggettivo; 
    che tale norma violerebbe anche l'art. 13,  primo  comma,  Cost.,
per i principi ivi affermati in  materia  di  liberta'  personale,  e
l'art. 27, secondo comma, Cost., in relazione alla funzione che  deve
essere attribuita alla custodia cautelare; 
    che   l'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita'  della  questione  per   l'assoluta   carenza   di
descrizione della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo,  e
nel merito ne ha sostenuto la non fondatezza; 
    che l'eccezione di inammissibilita' e' priva di fondamento; 
    che il collegio rimettente, pur avendo inizialmente richiamato in
modo generico solo l'art. 416-bis del codice penale,  nell'illustrare
poi le ragioni che dovrebbero sorreggere la questione di legittimita'
costituzionale, ha dato ulteriori informazioni sulle  caratteristiche
dell'associazione,  sulla  sua   attuale   operativita',   sui   suoi
collegamenti  con  la  «casa  madre»,   sulla   condotta   contestata
all'imputato   e   sui   suoi   legami   con   gli    altri    membri
dell'organizzazione criminosa, si' da delineare un quadro fattuale  e
processuale  idoneo  a  dimostrare  la  rilevanza   della   questione
sollevata; 
    che la questione, pur ammissibile, e' manifestamente infondata; 
    che l'art. 4, comma 1, della legge n. 47 del 2015, sostituendo il
secondo periodo del  comma  3  dell'art.  275  cod.  proc.  pen.,  ha
limitato la presunzione assoluta di adeguatezza della  sola  custodia
in carcere ai reati di cui agli artt. 270,  270-bis  e  416-bis  cod.
pen.,  mentre  per  gli  altri  reati  oggetto   della   disposizione
previgente ha  previsto  una  presunzione  relativa,  stabilendo  che
possono essere applicate anche  misure  cautelari  personali  diverse
dalla custodia in carcere, quando in concreto risultano sufficienti a
soddisfare le esigenze cautelari; 
    che in tal modo il legislatore ha recepito la  giurisprudenza  di
questa Corte, la quale, dapprima con la sentenza n. 265  del  2010  e
successivamente con varie altre, ha dichiarato,  rispetto  ad  alcuni
delitti, costituzionalmente illegittimo l'art.  275,  comma  3,  cod.
proc. pen., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza, e' applicata la custodia  cautelare  in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non faceva salva, altresi', l'ipotesi
in cui fossero stati acquisiti elementi specifici,  in  relazione  al
caso concreto, dai quali risultava che le esigenze cautelari potevano
essere soddisfatte con altre misure; 
    che questa Corte, in piu' occasioni e fin dalla pronuncia n.  265
del 2010, ha delineato la ratio giustificativa del particolare regime
stabilito per gli imputati del reato previsto dall'art. 416-bis  cod.
pen., rilevando che l'appartenenza a un'associazione di tipo  mafioso
implica,  nella  generalita'  dei  casi  e  secondo  una  regola   di
esperienza sufficientemente condivisa, un'esigenza cautelare che puo'
essere soddisfatta solo con la custodia in carcere,  non  essendo  le
misure «minori» sufficienti a troncare i rapporti tra  l'indiziato  e
l'ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne  la
pericolosita' (sentenza n. 265 del 2010); 
    che tale ratio e' stata ribadita anche nella sentenza relativa ai
delitti aggravati dall'uso del metodo mafioso o  dalla  finalita'  di
agevolazione mafiosa (sentenza n. 57 del 2013) e in  quella  relativa
al concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48
del 2015), che  hanno  riguardato  fattispecie  "contigue"  a  quella
dell'art. 416-bis cod.  pen.,  ma  non  caratterizzate  da  un'uguale
esigenza; 
    che questa Corte nelle pronunce concernenti  il  previgente  art.
275, comma 3, cod. proc. pen. ha sempre effettuato  una  comparazione
tra gli altri reati previsti da tale  disposizione  e  oggetto  delle
varie  questioni  di  legittimita'  costituzionale,  da  un  lato,  e
l'associazione di tipo mafioso, dall'altro, rimarcando  di  volta  in
volta la diversita' di quest'ultima; 
    che, in particolare, nel delineare la differenza tra  il  delitto
di associazione finalizzata al traffico di  sostanze  stupefacenti  e
quello di associazione di  tipo  mafioso,  questa  Corte,  dopo  aver
rilevato che il secondo delitto, pur essendo come il primo di  natura
associativa, e' «normativamente connotato - di riflesso  ad  un  dato
empirico-sociologico - come quello  in  cui  il  vincolo  associativo
esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento  e
di omerta', che da quella derivano, per conseguire  determinati  fini
illeciti», ha aggiunto che la  sua  «[c]aratteristica  essenziale  e'
proprio tale specificita'  del  vincolo,  che,  sul  piano  concreto,
implica ed e' suscettibile di produrre, da  un  lato,  una  solida  e
permanente adesione tra  gli  associati,  una  rigida  organizzazione
gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e,
dall'altro, una diffusivita' dei  risultati  illeciti,  a  sua  volta
produttiva di accrescimento della forza intimidatrice  del  sodalizio
criminoso»; 
    che inoltre «[s]ono tali peculiari  connotazioni  a  fornire  una
congrua "base  statistica"  alla  presunzione  considerata,  rendendo
ragionevole la  convinzione  che,  nella  generalita'  dei  casi,  le
esigenze cautelari derivanti dal delitto  in  questione  non  possano
venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in
quanto idonea - per valersi delle  parole  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo - "a tagliare i legami  esistenti  tra  le  persone
interessate e il loro ambito criminale di origine", minimizzando  "il
rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle
organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo  delitti"
(sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» (sentenza  n.  231
del 2011); 
    che, nell'effettuare la comparazione tra i  vari  reati  indicati
dall'art.  275,  comma  3,  cod.   proc.   pen.,   nella   previgente
formulazione, e quello dell'art. 416-bis cod. pen., questa  Corte  si
e'  generalmente  riferita  alla  fattispecie  della   partecipazione
all'associazione di tipo mafioso; 
    che l'elemento in  grado  di  legittimare  costituzionalmente  la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere e'
rappresentato infatti dallo stabile inserimento nell'associazione  di
tipo mafioso, il quale, per le caratteristiche del vincolo, capace di
permanere inalterato nonostante le vicende personali dell'associato e
di mantenerne viva la pericolosita', fa ritenere che questa  non  sia
adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari «minori»  (sentenza
n. 265 del 2010); 
    che la diversa graduazione di gravita' e di pericolosita' tra  le
condotte dei singoli appartenenti  all'associazione  rileva  ai  fini
della determinazione della pena  da  irrogare  in  concreto,  ma  non
incide  sulle  esigenze  cautelari,   perche'   anche   la   semplice
partecipazione e' idonea,  per  le  connotazioni  criminologiche  del
fenomeno mafioso, a giustificare la presunzione sulla quale  si  basa
la norma in questione; 
    che in questa prospettiva non ha rilievo la  distinzione  tra  la
posizione del partecipe e quella degli associati con  ruoli  apicali,
perche', quali che siano le specifiche condotte dei diversi associati
e i ruoli da loro ricoperti nell'organizzazione  criminale,  il  dato
che rileva,  e  che  sotto  l'aspetto  cautelare  li  riguarda  tutti
ugualmente, e' costituito  dal  tipo  di  vincolo  che  li  lega  nel
contesto associativo, vincolo che fa ritenere la custodia in  carcere
l'unica misura in grado di «troncare i  rapporti  tra  l'indiziato  e
l'ambito  delinquenziale   di   appartenenza,   neutralizzandone   la
pericolosita'» (sentenza 265 del 2010); 
    che deve pertanto escludersi  che  la  norma  censurata  comporti
ingiustificatamente,    in    violazione    dell'art.    3     Cost.,
l'assoggettamento di condotte diverse alla stessa regola cautelare; 
    che le ragioni giustificatrici di tale  regola  rendono  evidente
anche l'infondatezza delle censure svolte con riferimento agli  artt.
13 e 27 Cost. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara manifestamente infondata la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art.  275,  comma  3,  del  codice  di  procedura
penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13,  primo  comma,  e
27, secondo comma,  della  Costituzione,  dalla  Corte  d'appello  di
Torino, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                     Giorgio LATTANZI, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2017. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA