N. 232 SENTENZA 10 novembre - 2 dicembre 2021

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Corruzione per un atto contrario ai doveri di  ufficio
  - Pene accessorie - Interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in
  caso di condanna ad una pena uguale  o  superiore  a  tre  anni  di
  reclusione - Denunciata violazione  dei  principi  di  personalita'
  della responsabilita' penale, di proporzionalita' della pena  e  di
  finalita' rieducativa - Inammissibilita' delle questioni. 
- Codice penale, art. 317-bis, nel  testo  anteriore  alle  modifiche
  recate dall'art. 1, comma 1, lettera  m),  della  legge  9  gennaio
  2019, n. 3. 
- Costituzione, artt. 3 e 27. 
(GU n.49 del 9-12-2021 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 317-bis del
codice penale, nella versione  precedente  alle  modifiche  apportate
dall'art. 1, comma 1, lettera m), della legge 9 gennaio  2019,  n.  3
(Misure   per   il   contrasto   dei   reati   contro   la   pubblica
amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del  reato  e  in
materia di trasparenza dei partiti e  movimenti  politici),  promosso
dalla Corte di cassazione, sezione  sesta  penale,  nel  procedimento
penale a carico di  A.  R.,  con  ordinanza  del  30  dicembre  2020,
iscritta al n. 22 del registro  ordinanze  2021  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  9,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2021. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  A.  R.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  9  novembre  2021  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi l'avvocato Jacopo Barzellotti per A. R. e l'avvocato  dello
Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 10 novembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 30 dicembre 2020 (r.o. n. 22 del 2021),  la
Corte di cassazione, sezione sesta penale,  solleva,  in  riferimento
agli artt. 3 e  27  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 317-bis del codice  penale,  nella  versione
precedente alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 1, lettera m),
della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto  dei  reati
contro  la  pubblica   amministrazione,   nonche'   in   materia   di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti  politici),  «nella  parte  in  cui  prevede   l'automatica
applicazione dell'interdizione in perpetuo  dai  pubblici  uffici  in
caso di condanna, per il reato di cui all'art. 319 cod. pen., ad  una
pena uguale o superiore a tre anni di reclusione». 
    1.1.- La Corte di cassazione premette di essere  stata  investita
di un ricorso proposto  da  A.  R.,  persona  nei  cui  confronti  il
Tribunale ordinario di Brescia ha applicato, a sua richiesta e con il
consenso del pubblico ministero, la  pena  di  anni  quattro  e  mesi
quattro di reclusione, in relazione al reato di cui all'art. 319 cod.
pen., per avere accettato, in qualita' di luogotenente della  Guardia
di finanza, somme  di  denaro  per  omettere  o  ritardare  controlli
fiscali, con condotte accertate il 29 novembre 2017 e il  13  gennaio
2018. Con la  medesima  sentenza  di  patteggiamento,  emessa  il  25
ottobre 2019, il giudice ha applicato nei confronti di A. R. le  pene
accessorie dell'interdizione in  perpetuo  dai  pubblici  uffici,  ai
sensi dell'art 317-bis cod. pen., e  dell'incapacita'  a  contrattare
con la pubblica amministrazione, quest'ultima inflitta per una durata
pari a quella della pena principale. 
    A. R. ha proposto ricorso per cassazione per violazione di  legge
in relazione alla  pena  accessoria  dell'interdizione  perpetua  dai
pubblici  uffici,  adducendo,  quale  unico   motivo   del   ricorso,
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 317-bis  cod.  pen.,  nella
versione vigente al momento dei fatti. 
    Secondo  quanto  riferito  nell'ordinanza   di   rimessione,   il
ricorrente si duole della circostanza che l'art. 317-bis cod. pen.  -
inserito nel codice penale dall'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n.
86 (Modifiche in tema di delitti dei  pubblici  ufficiali  contro  la
pubblica  amministrazione)  -  e  successivamente   modificato,   con
l'estensione della misura interdittiva anche al reato di cui all'art.
319 cod. pen., dall'art. 1, comma  75,  lettera  e),  della  legge  6
novembre  2012,  n.  190  (Disposizioni  per  la  prevenzione  e   la
repressione  della  corruzione  e  dell'illegalita'  nella   pubblica
amministrazione)  -  preveda  la  pena  accessoria  dell'interdizione
perpetua dai pubblici uffici «tutte le volte che la  pena  principale
comminata  non  sia  inferiore  a  tre  anni  di  reclusione».   Tale
disciplina sarebbe manifestamente irragionevole in quanto «impone  al
giudice l'applicazione di  una  sanzione  perpetua  che  puo'  essere
sproporzionata rispetto alla gravita' del fatto», in  violazione  dei
principi di proporzionalita' e della  necessaria  individualizzazione
del trattamento sanzionatorio, ricavabili dagli artt. 3 e 27 Cost. 
    2.- Soffermandosi innanzitutto sull'ammissibilita'  del  ricorso,
la Corte rimettente afferma che la parte puo'  ricorrere  avverso  la
sentenza di patteggiamento in relazione alle statuizioni  concernenti
le pene accessorie, non avendo queste  formato  oggetto  dell'accordo
(vengono richiamate le sentenze della Corte  di  cassazione,  sezione
sesta penale, 27-29 maggio 2020, n. 16508 e sezione quinta penale, 13
novembre-5 dicembre 2019, n.  49477).  Il  ricorso  sarebbe  altresi'
ammissibile sebbene articolato sull'unico  motivo  consistente  nella
proposizione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
quanto cio' comunque implica  una  censura  di  violazione  di  legge
(vengono richiamate le sentenze della Corte  di  cassazione,  sezione
prima penale, 16 giugno-10 luglio 2020,  n.  20702  e  sezione  sesta
penale, 31 marzo-29 luglio 2008, n. 31683). 
    Cio'  chiarito,   la   Corte   di   cassazione,   aderendo   alla
prospettazione del  ricorrente,  solleva  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 317-bis cod. pen., nella versione precedente
alle modifiche introdotte con la legge n. 3 del 2019, in  riferimento
agli artt. 3 e 27 Cost., nella  parte  in  cui  prevede  l'automatica
applicazione dell'interdizione in perpetuo  dai  pubblici  uffici  in
caso di condanna ad una  pena  uguale  o  superiore  a  tre  anni  di
reclusione per il reato di cui all'art. 319 cod. pen. 
    2.1.- In punto di rilevanza, il  rimettente  afferma  che  l'art.
317-bis cod. pen., nella  parte  in  cui  prevede  -  nella  versione
vigente al momento  della  commissione  dei  fatti  -  l'interdizione
perpetua dai pubblici uffici per le condanne a pena detentiva pari  o
superiore a tre anni inflitte  ai  sensi  dell'art.  319  cod.  pen.,
nonche'  l'interdizione  temporanea  per  le  sole  ipotesi  di  pena
principale di entita' inferiore a  tale  soglia,  e'  norma  che  «va
necessariamente  applicata».  Una  dichiarazione  di   illegittimita'
costituzionale della disposizione, pertanto, «renderebbe  attuale  la
doglianza prospettata, con un  effetto  corrispondente  all'interesse
del ricorrente che  eviterebbe  l'applicazione  perpetua  della  pena
accessoria». 
    2.2.-  In  ordine  alla  non  manifesta  infondatezza,   premessa
l'impercorribilita'   di   una   interpretazione   costituzionalmente
orientata, la Corte di cassazione prospetta la lesione  dei  principi
di personalita' della responsabilita' penale, di  individualizzazione
della pena e di finalizzazione della  stessa  alla  rieducazione.  Il
rimettente afferma che la censura «rileva in  una  duplice  direzione
ovvero quella dell'automatismo ed  indefettibilita'  di  applicazione
della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici
prevista dall'art. 317-bis cod. pen., e,  dunque,  riferibile  all'an
dell'applicazione al caso  concreto,  e  quella  della  "fissita'"  e
"perpetuita'" della sanzione, che si saldano tra loro dando luogo  ad
un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con  il
"volto costituzionale della sanzione penale"» (vengono richiamate  le
sentenze di questa Corte n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341  del
1994 e n. 50 del 1980). 
    In particolare, ricorda la Corte rimettente, con la  sentenza  n.
50 del 1980 si e'  affermato  come,  al  fine  di  dar  luogo  ad  un
«adeguamento individualizzato, "proporzionale", delle  pene  inflitte
con le sentenze di condanna», «sussiste di regola l'esigenza  di  una
articolazione legale del  sistema  sanzionatorio».  Diversamente,  in
presenza  di  sanzioni   rigide,   il   «dubbio   di   illegittimita'
costituzionale» risulta superabile «a condizione che, per  la  natura
dell'illecito sanzionato e per la  misura  della  sanzione  prevista,
questa  ultima  appaia   ragionevolmente   "proporzionata"   rispetto
all'intera gamma di comportamenti riconducili allo specifico tipo  di
reato». 
    Con precipuo  riferimento  alle  pene  accessorie,  la  Corte  di
cassazione muove dalla  constatazione  per  cui  l'applicazione  alle
stesse dei principi di  proporzionalita'  e  individualizzazione  del
trattamento sanzionatorio sarebbe il  frutto  di  una  giurisprudenza
costituzionale e di legittimita'  elaborata  «lungo  un  percorso  di
ermeneusi per nulla scontato e affatto  concluso».  Cio'  proprio  in
quanto si tratta di pene che, sul piano dogmatico,  sono  configurate
quali effetti che «conseguono di diritto» alla sentenza di  condanna.
Tuttavia, la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte e la successiva
sentenza  della  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  penali,   28
febbraio-3 luglio 2019, n. 28910, avrebbero consentito  di  delineare
nella materia delle pene interdittive «uno statuto che ne avvicina  i
principi regolatori fondanti a quello della  pena  principale».  Cio'
sebbene le pene  accessorie  siano  contrassegnate  da  una  funzione
«marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa». 
    Soffermandosi in particolare sulla citata  sentenza  n.  222  del
2018, il rimettente afferma come la stessa abbia non solo  dichiarato
costituzionalmente  illegittima  la  disciplina  relativa  alla  pena
accessoria fissa prevista dall'art.  216,  ultimo  comma,  del  regio
decreto 16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del
concordato  preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e   della
liquidazione coatta amministrativa), ma si sia spinta ad indicare che
la durata della pena accessoria stessa debba essere  determinata  dal
giudice non ai sensi dell'art. 37 cod. pen., bensi'  in  applicazione
degli artt. 133 e seguenti cod. pen. 
    Coerentemente, la successiva richiamata  sentenza  delle  Sezioni
unite, superando un precedente (Corte di  cassazione,  sezioni  unite
penali, sentenza 27 novembre 2014-12 febbraio 2015, n. 6240), avrebbe
affermato un «convinto principio di diritto nel  senso  che  le  pene
accessorie per le quali la legge indica  un  termine  di  durata  non
fisso, devono essere determinate in concreto dal giudice in  base  ai
criteri di cui all'art. 133 cod. pen.». 
    Cio' premesso, secondo  il  rimettente  a  costituire  motivo  di
illegittimita' costituzionale dell'art. 317-bis cod. pen. non sarebbe
la circostanza che la pena accessoria abbia una  durata  superiore  a
quella della pena principale o, comunque, che non sia correlata  alla
stessa. Rileverebbe  invece  il  superamento  del  limite  della  non
manifesta  sproporzione  per  eccesso  della  sanzione   interdittiva
rispetto al concreto disvalore del fatto di reato. 
    Il reato di corruzione di cui all'art. 319 cod. pen., punito  con
una pena principale modulata tra i sei e i dieci anni di  reclusione,
ricomprenderebbe  infatti  «condotte  che  possono   avere   gravita'
oggettivamente diversa per il differente grado di  lesione  del  bene
giuridico tutelato». A titolo esemplificativo, la Corte di cassazione
richiama, da una parte, l'ipotesi  in  cui  l'agente  abbia  ricevuto
effettivamente la somma per aver compiuto un atto contrario ai doveri
di ufficio, dall'altra quella  in  cui  l'agente  abbia  invece  solo
accettato una promessa di futura dazione impegnandosi a ritardare  un
atto dovuto,  comportamento  poi  non  realizzatosi  per  l'emersione
dell'accordo  illecito  oppure  a  motivo  di  una  resipiscenza  del
pubblico ufficiale stesso. 
    Inoltre,  il  giudice  a  quo  esclude  che  si  possa  applicare
l'interdizione  temporanea  per   effetto   del   riconoscimento   di
circostanze  attenuanti  generiche,  «non   essendo   matematicamente
possibile scendere, anche in tale evenienza, al di sotto dei tre anni
di reclusione». Ricorda che la giurisprudenza di legittimita' avrebbe
oltretutto letto in termini non tassativi l'elenco dei reati previsti
all'art.  317-bis  cod.  pen.,  facendo   discendere   l'interdizione
perpetua anche dalle condanne per fattispecie tentate di  peculato  e
concussione (viene citata Corte di cassazione, sezione sesta  penale,
sentenza 17 gennaio-9 marzo 2005, n. 9204). 
    Nel caso di specie, sottolinea il rimettente, non  hanno  trovato
applicazione le circostanze attenuanti previste all'art. 323-bis cod.
pen., suscettibili di incidere, in forza delle  modifiche  introdotte
dalla legge n. 3 del 2019, sulla durata  della  pena  accessoria.  La
condotta  dell'imputato,  infatti,  non  appare  compatibile  con  il
giudizio di particolare tenuita', ne' sono stati riscontrati elementi
quali una condotta collaborativa volta ad evitare ulteriori attivita'
criminose,  ad  assicurare  la  prova  di  altri   reati   o   altrui
responsabilita' e il sequestro delle somme conseguite.  Aggiunge  sul
punto la Corte di cassazione che, in ogni  caso,  se  la  circostanza
attenuante della tenuita' e' da considerarsi  di  «complessa  e  rara
applicazione giurisprudenziale», le  ulteriori  circostanze  previste
dall'art. 323-bis  cod.  pen.  sarebbero  comunque  «tutte  costruite
sull'attivita'  post  delictum  del  reo»,  rimanendo  «estranee   al
giudizio di gravita' del reato  sul  quale  e'  strutturata  la  pena
edittale». 
    Secondo il rimettente, l'intento di sanzionare in modo  severo  i
pubblici ufficiali, con un trattamento piu' rigido rispetto a  quello
previsto  in  via  generale  dall'art.  29  cod.  pen.  (che  prevede
l'interdizione  perpetua  per  le  condanne  all'ergastolo   o   alla
reclusione non inferiore a cinque anni e  l'interdizione  temporanea,
per la durata di cinque anni, in presenza di  condanne  a  reclusione
non inferiori a  tre  anni),  avrebbe  dovuto  in  ogni  caso  essere
perseguito  nel  rispetto  dei   principi   di   proporzionalita'   e
individualizzazione del trattamento sanzionatorio. 
    Nella prospettiva della Corte di cassazione, la  rigidita'  della
sanzione sarebbe poi «amplificata» dalla sua  natura  perpetua.  Vero
che si tratta di scelta del legislatore da valutarsi  in  riferimento
all'allarme generato  dai  reati  commessi  nell'ambito  delle  sfere
funzionali; tuttavia, la  valorizzazione  del  ruolo  delle  sanzioni
interdittive «non puo' essere concepita  in  rapporto  esclusivamente
all'autore ed alla sua pericolosita'». 
    Ancora, il rimettente  sottolinea  come  l'interdizione  perpetua
incida su  molteplici  diritti  fondamentali,  comportando  anche  la
perdita dell'elettorato attivo e passivo e riducendo drasticamente la
possibilita' di svolgere attivita' lavorative. 
    Ragionando per differenza rispetto  al  regime  previsto  per  le
sanzioni interdittive disciplinate dal decreto legislativo  8  giugno
2001, n. 231 (Disciplina della responsabilita'  amministrativa  delle
persone giuridiche, delle societa' e delle associazioni  anche  prive
di personalita' giuridica, a norma dell'articolo 11  della  legge  29
settembre 2000, n.  300),  la  Corte  di  cassazione  sottolinea,  in
conclusione, come il sistema  della  interdizione  perpetua  regolata
invece dall'art. 317-bis cod. pen. sia caratterizzato  dalla  «natura
automatica e fissa del meccanismo in  contrasto  con  i  principi  di
proporzionalita' e individualizzazione della pena». 
    2.3.- Argomentando in ordine ai possibili contenuti ed effetti di
una declaratoria di illegittimita' costituzionale della  disposizione
censurata,   la   Corte   di   cassazione   richiama   anzitutto   la
giurisprudenza costituzionale in forza della quale il sindacato sulle
sanzioni manifestamente sproporzionate rispetto alla  gravita'  delle
condotte sarebbe  ormai  condotto  «senza  che  sia  piu'  necessaria
l'evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da  parte  del
rimettente,  se  non  al  limitato  fine  di   assistere   la   Corte
nell'individuazione   del   trattamento   sanzionatorio   che   possa
sostituirsi,  in  attesa  di  un  sempre  possibile  intervento   del
legislatore,   a   quello   dichiarato   incostituzionale»   (vengono
richiamate, tra le altre, le sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018
e n. 236 del 2016). 
    Ricordando inoltre come in alcuni casi  la  Corte  costituzionale
abbia proceduto alla «ablazione radicale», in altri  alla  «ablazione
parziale»  della  norma  e  «sua  trasformazione»,  o   ancora   alla
individuazione di «qualsiasi altra  norma  vigente  nell'ordinamento»
che offrisse una soluzione capace di inserirsi nella  logica  seguita
gia'  dal  legislatore,  il  giudice  rimettente  prospetta,  per  la
soluzione dell'odierno giudizio di legittimita'  costituzionale,  una
«ablazione della norma dal sistema sanzionatorio». 
    Per effetto di  tale  pronuncia,  a  suo  dire,  la  funzione  di
prevenzione  speciale  tutelata  dall'art.  317-bis  cod.  pen.   non
rimarrebbe priva di tutela, trovando applicazione, per  il  reato  di
cui all'art. 319 cod. pen., «le disposizioni generali, in materia  di
pene accessorie, degli artt. 29 e 31 cod. pen.» (come confermerebbero
i principi affermati  nella  pronuncia  della  Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 24  ottobre  2013-14  marzo  2014,  n.
12228). 
    All'imputato del giudizio  principale  potrebbe  pertanto  essere
inflitta,  ai  sensi  dell'art.  29  cod.  pen.,  l'interdizione  dai
pubblici uffici per un periodo di cinque anni. «In  alternativa»,  in
presenza di condanna per  reato  commesso  con  abuso  dei  poteri  o
violazione dei doveri inerenti ad una pubblica  funzione  o  pubblico
servizio, potrebbe trovare applicazione, «a prescindere  dall'entita'
della condanna», l'interdizione «temporanea»  prevista  dall'art.  31
cod. pen., ovverosia, a dire della Corte di cassazione, per il  tempo
individuato dal giudice secondo i criteri di cui agli artt. 132,  133
e 133-bis cod. pen., entro i limiti indicati dall'art. 28 cod. pen. 
    3.- Si e' costituita  in  giudizio  A.  R.,  parte  del  giudizio
principale, chiedendo l'accoglimento delle questioni di  legittimita'
costituzionale sollevate. Il rigido meccanismo applicativo della pena
accessoria inflitta impedirebbe infatti al giudice «di  calibrare  la
durata della  sanzione  interdittiva  in  riferimento  alla  concreta
gravita' del fatto  sottoposto  alla  sua  cognizione».  Aggiunge  la
difesa  di  A.  R.  che  l'irragionevolezza   della   disciplina   si
rivelerebbe in particolar modo per il reato di corruzione, nel  quale
rientrano fatti dotati  di  disvalore  tra  loro  molto  diverso,  in
considerazione del differente grado di attentato o lesione  del  bene
giuridico presidiato dall'art. 319 cod. pen. 
    4.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevate siano dichiarate inammissibili, per due diversi  ordini  di
ragioni. 
    4.1- In primo luogo, la difesa erariale evidenzia «un profilo  di
possibile  inammissibilita'  e/o   irrilevanza»   dell'ordinanza   di
rimessione dovuto al difetto del rapporto di pregiudizialita' tra  le
questioni sollevate e il giudizio a quo. Pur essendo  acquisito  alla
giurisprudenza di legittimita' che il ricorso  per  cassazione  possa
avere ad oggetto la sola  eccezione  di  legittimita'  costituzionale
della disposizione applicata dal giudice di merito,  sarebbe  infatti
comunque  necessario  che  attraverso  l'eventuale  declaratoria   di
illegittimita' costituzionale si produca «un  effetto  corrispondente
all'interesse  del  ricorrente».  Tuttavia,   prosegue   l'Avvocatura
generale, erroneamente  il  ricorrente  nel  giudizio  principale  e,
sembrerebbe, lo stesso Collegio, avrebbero assunto che l'interdizione
perpetua  dai  pubblici  uffici  sia  stata  inflitta  quale  effetto
automatico della condanna ai sensi del censurato  art.  317-bis  cod.
pen. 
    Infatti, l'applicazione della pena accessoria  in  questione  «e'
(o, comunque, sarebbe dovuta essere) frutto  del  concreto  esercizio
della discrezionalita' giudiziaria». L'art.  445,  comma  1-ter,  del
codice di procedura penale, introdotto dalla legge  n.  3  del  2019,
prescrive che, con la sentenza di applicazione della  pena  ai  sensi
dell'art. 444, comma 2, cod. proc.  pen.  per  uno  dei  delitti  ivi
indicati (tra i quali il delitto di cui all'art. 319 cod.  pen.),  il
giudice  «puo'»  applicare  le  pene  accessorie  previste  dall'art.
317-bis cod. pen. Si tratterebbe, secondo l'Avvocatura  generale,  di
una deroga sia al comma 1-bis (recte: comma 1) del medesimo art.  445
cod.  proc.  pen.,  che  annovera  tra   i   benefici   del   ricorso
all'applicazione della pena su richiesta anche quello della esenzione
dalle pene accessorie, limitandolo pero' al solo caso in cui la  pena
detentiva irrogata non superi  i  due  anni  di  reclusione,  sia  al
meccanismo della  obbligatoria  applicazione  delle  pene  accessorie
prescritta dall'art. 317-bis cod. pen. in caso di condanna per  reati
contro la pubblica amministrazione. 
    Il menzionato art. 445, comma  1-ter,  cod.  proc.  pen.,  avendo
natura processuale ed essendo entrato in vigore il 31  gennaio  2019,
avrebbe  dovuto  considerarsi  applicabile  al  giudizio  di  merito,
definito con sentenza del 25 ottobre 2019. 
    Sottolinea l'Avvocatura  che,  cionondimeno,  il  ricorrente  non
avrebbe contestato l'apprezzamento compiuto  dal  giudice  di  merito
sulla scelta di irrogare la pena accessoria o l'omessa motivazione su
tale profilo, ne', ancor prima, si sarebbe egli stesso avvalso  della
facolta' prevista dall'art. 444, comma 3-bis, cod. proc. pen. (a  sua
volta  introdotta  dalla  legge  n.  3  del  2019)   di   subordinare
l'efficacia della richiesta  di  patteggiamento  all'esenzione  dalle
pene accessorie previste dall'art. 317-bis cod. pen. 
    Le  questioni  di  legittimita'  costituzionale   sollevate   con
riferimento all'art. 317-bis cod. pen. sarebbero  allora  «del  tutto
ininfluent[i] anche sul percorso argomentativo che  dovra'  sostenere
la decisione del processo principale». Detto in altri  termini,  esse
non  potrebbero  esplicare  un   qualunque   effetto   sul   giudizio
principale, «introdotto da un ricorso che non si confronta  in  alcun
modo con la motivazione articolata sul punto dalla sentenza  gravata,
neppure al fine di censurarne l'eventuale mancanza». 
    4.2.- Ribadita la «radicale assenza di rilevanza di  quest'ultimo
profilo sul procedimento  principale»,  l'Avvocatura  generale  dello
Stato, esaminate le sole doglianze  relative  al  carattere  fisso  e
perpetuo dell'interdizione dai pubblici uffici, prospetta un  secondo
motivo  di  inammissibilita'  delle  questioni  sollevate.   Afferma,
infatti, che la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte non  avrebbe
smentito i limiti che il sindacato di costituzionalita'  incontra  in
materia  di  determinazione  del  trattamento  sanzionatorio,  ambito
coperto dalla riserva di legge prevista all'art. 25,  secondo  comma,
Cost. 
    Un primo limite e' dato dalla discrezionalita'  del  legislatore,
superabile solo nell'ipotesi in  cui  quest'ultimo  abbia  introdotto
pene  manifestamente  sproporzionate  rispetto  alla  gravita'  della
condotta.  Un  secondo  limite  consiste  poi  nella  necessita'   di
individuare un'unica soluzione costituzionalmente vincolata in  grado
di sostituirsi alla previsione dichiarata illegittima. 
    La  pena  accessoria  prevista  dall'art.   317-bis   cod.   pen.
presenterebbe pero'  «connotati  strutturali  profondamente  diversi»
rispetto a quella dichiarata costituzionalmente  illegittima  con  la
sentenza n. 222 del 2018. Quest'ultima prevedeva una pena  accessoria
fissa per tutti i casi di bancarotta, nonostante alla  qualificazione
astratta del reato fosse collegata «un'assai  diversa  entita'  della
pena principale prevista». La  disposizione  censurata  nel  presente
giudizio, invece, si giustificherebbe per la  scelta  di  particolare
rigore,  compiuta  dal  legislatore,  nei  confronti  di  selezionati
delitti  commessi  dai  pubblici   ufficiali   contro   la   pubblica
amministrazione. Le fattispecie di reato  incluse  nell'art.  317-bis
cod.  pen.,  accomunate  dalla  capacita'  di  produrre  il  medesimo
disvalore   rispetto   al   bene,    di    rilievo    costituzionale,
dell'imparzialita' della pubblica amministrazione, sarebbero  infatti
contrassegnate da un «quadro sanzionatorio assai omogeneo  nella  sua
severita'».  Inoltre,  a  differenza   di   quanto   previsto   dalla
disposizione oggetto di scrutinio con la sentenza n.  222  del  2018,
l'art. 317-bis cod. pen. «calibra la durata della pena  accessoria  a
seconda  della  gravita'  del  fatto»,  prescrivendo   l'interdizione
perpetua solo per le condanne a pena detentiva non  inferiore  a  tre
anni. 
    L'irragionevolezza della disciplina sarebbe poi esclusa in quanto
la compressione che l'interdizione perpetua dai pubblici uffici opera
sulla capacita' giuridica del  condannato  risponde  all'esigenza  di
«allontanare  definitivamente  dalla   possibilita'   di   esercitare
funzioni lato sensu pubbliche soggetti  che  quelle  stesse  funzioni
hanno gia' esercitato in maniera indegna». In questa prospettiva,  la
difesa dello Stato sofferma l'attenzione sul rapporto  di  «omologia»
riscontrabile tra la pena accessoria in questione e la  condanna  per
specifici delitti contro la pubblica amministrazione,  mentre  l'art.
29, primo comma, cod. pen. sancisce la «generalizzata applicabilita'»
della medesima pena «a prescindere da qualunque rapporto con il fatto
criminale specifico». 
    Non potrebbe poi essere, in se' considerata, la perpetuita' della
pena accessoria a sostenere il dubbio di legittimita' costituzionale.
Non solo perche' tale perpetuita' e' comunque prevista dagli artt. 28
e 29 cod. pen., ma anche perche', una volta esclusa  l'illegittimita'
costituzionale  della  pena  principale  dell'ergastolo,  a   maggior
ragione  tale  conseguenza  dovrebbe  essere  esclusa  per  la   pena
accessoria perpetua. 
    I  motivi  di  contrasto   della   disciplina   con   il   "volto
costituzionale della pena" sarebbero ad ogni modo attenuati  rispetto
a  quelli  che  presenta  l'art.  29  cod.  pen.  e  sarebbero  stati
ulteriormente ridotti dalla recente introduzione dei gia'  richiamati
artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma  1-ter,  cod.  proc.  pen.,  che
possono dare luogo all'esclusione della sanzione accessoria. 
    Passando al vaglio delle prospettazioni del rimettente in  ordine
ai  possibili   esiti   di   una   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale, l'Avvocatura generale dello Stato li ritiene entrambi
impercorribili. L'applicazione dell'art. 29 cod.  pen.  implicherebbe
infatti la parificazione del condannato per il reato di cui  all'art.
319 cod. pen. al condannato per qualunque altro reato, con  l'effetto
di vanificare lo scopo perseguito  dal  legislatore,  che  ha  voluto
invece colpire in modo piu' severo gli autori  di  reati  che  ledono
l'imparzialita' della pubblica amministrazione. 
    Altrettanto problematica  sarebbe  la  prospettiva  di  applicare
l'art.  31  cod.  pen.  Tale  disposizione  avrebbe  infatti  valenza
sussidiaria rispetto alla previsione dell'interdizione temporanea dai
pubblici  uffici  prevista  dall'art.  29  cod.  pen.   Seguendo   la
prospettiva del rimettente, l'applicazione dell'art.  31  cod.  pen.,
invece, «finirebbe per introdurre  un  trattamento  sanzionatorio  di
favore per i condannati per uno dei delitti di cui  agli  artt.  314,
316, 319 e  319  ter  c.p.»,  consentendo  al  giudice  di  contenere
l'interdizione tra uno e cinque anni,  ai  sensi  dell'art.  28  cod.
pen., mentre in forza dell'art. 29 cod. pen., il  condannato  ad  una
pena pari o superiore ai tre anni si vede  applicata  la  pena  fissa
dell'interdizione per cinque anni. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione,  sezione  sesta  penale,  dubita,  in
riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della  legittimita'
costituzionale dell'art. 317-bis del codice penale, nel testo vigente
prima delle modifiche recate dall'art. 1, comma 1, lettera m),  della
legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati  contro
la pubblica amministrazione, nonche' in materia di  prescrizione  del
reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti  politici),
«nella   parte   in    cui    prevede    l'automatica    applicazione
dell'interdizione  in  perpetuo  dai  pubblici  uffici  in  caso   di
condanna, per il reato di cui all'art. 319 cod.  pen.,  ad  una  pena
uguale o superiore a tre anni di reclusione». 
    Il rimettente e'  chiamato  a  pronunciarsi  su  un  ricorso  per
violazione di legge proposto da persona nei  cui  confronti,  per  il
reato di  corruzione  per  un  atto  contrario  ai  doveri  d'ufficio
disciplinato dall'art. 319 cod. pen.,  era  stata  applicata,  a  sua
richiesta e con il consenso del pubblico ministero, la pena  di  anni
quattro  e  mesi  quattro  di  reclusione.  Riferisce  la  Corte   di
cassazione che, in  forza  dell'art.  317-bis  cod.  pen.  nel  testo
vigente all'epoca delle condotte (accertate il 29 novembre 2017 e  il
13 gennaio 2018), con  la  medesima  sentenza  di  patteggiamento  il
condannato era stato dichiarato interdetto in perpetuo  dai  pubblici
uffici. 
    Proprio in conseguenza di tale interdizione, il ricorrente  aveva
chiesto  di  sollevare  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 317-bis cod. pen., nel testo  applicato  ratione  temporis,
per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. 
    Il rimettente condivide i dubbi sulla legittimita' costituzionale
dell'art. 317-bis cod. pen., nella versione applicata in giudizio. 
    In  punto  di  rilevanza,  osserva  come   l'accoglimento   delle
questioni   sollevate   avrebbero    un    effetto    «corrispondente
all'interesse del ricorrente che eviterebbe  l'applicazione  perpetua
della pena accessoria». 
    In ordine  alla  non  manifesta  infondatezza,  premette  che  la
censura «rileva in una  duplice  direzione»:  da  una  parte,  quella
dell'automatismo  ed  indefettibilita'  di  applicazione  della  pena
accessoria della interdizione perpetua dai pubblici  uffici  prevista
dall'art. 317-bis cod. pen.;  dall'altra,  quella  della  fissita'  e
della perpetuita' della sanzione.  Tali  due  profili,  afferma,  «si
saldano tra loro dando luogo ad un  meccanismo  sanzionatorio  rigido
che  non  appare  compatibile  con  il  "volto  costituzionale  della
sanzione penale"» (vengono richiamate le sentenze di questa Corte  n.
236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n. 50 del  1980).  Il
rimettente  evoca,  in  particolare,  i  principi  costituzionali  di
personalita' della responsabilita' penale, di proporzionalita'  della
pena e di finalita' rieducativa della medesima, espressi dagli  artt.
3 e 27 Cost. 
    Ricorda il rimettente come la sentenza n. 50 del 1980  di  questa
Corte   abbia   affermato   la   necessita'   di    un    adeguamento
individualizzato  e  proporzionale  delle  pene,  che  a  sua   volta
richiede,  di  regola,  una   «articolazione   legale   del   sistema
sanzionatorio». Ne conseguirebbe che, in relazione  ad  una  sanzione
rigida, i dubbi di legittimita' costituzionale  risultano  superabili
solo «a condizione che per la natura dell'illecito sanzionato  e  per
la   misura   della   sanzione   prevista,   questa   ultima   appaia
ragionevolmente  "proporzionata"   rispetto   all'intera   gamma   di
comportamenti riconducili allo specifico tipo di reato». 
    Secondo la Corte di cassazione si tratta di principi che,  «lungo
un percorso di ermeneusi per nulla scontato e affatto concluso», sono
stati di recente ritenuti applicabili  anche  alle  pene  accessorie,
nonostante si  tratti  di  sanzioni  caratterizzate  da  una  marcata
funzione di prevenzione speciale negativa. La  sentenza  n.  222  del
2018 di questa  Corte,  e  la  successiva  sentenza  della  Corte  di
cassazione, sezioni unite  penali,  28  febbraio-3  luglio  2019,  n.
28910, avrebbero infatti delineato, in materia di pene  interdittive,
«uno statuto che ne avvicina i principi regolatori fondanti a  quello
della pena principale». 
    Le   pene   accessorie,   dunque,   non   potrebbero    risultare
manifestamente  sproporzionate  per  eccesso  rispetto  al   concreto
disvalore del fatto di reato, al punto  da  vanificare  la  finalita'
rieducativa del trattamento sanzionatorio. 
    Cosi' accadrebbe, invece, nel caso di  specie.  L'art.  319  cod.
pen. prevede, per il reato di corruzione per  un  atto  contrario  ai
doveri d'ufficio, la reclusione tra un minimo di sei e un massimo  di
dieci anni. Tale previsione ricomprenderebbe, a dire del  rimettente,
«condotte che possono avere gravita' oggettivamente  diversa  per  il
differente grado di lesione del bene giuridico tutelato». In tutti  i
casi di condanna a pena detentiva  pari  o  superiore  ai  tre  anni,
tuttavia, in forza  del  censurato  art.  317-bis  cod.  pen.,  viene
inflitta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.  Difficilmente,
poi, sarebbe possibile applicare  la  pena  accessoria  nella  misura
temporanea, pur prevista dalla medesima disposizione, perche',  anche
in caso di riconoscimento di circostanze  attenuanti  generiche,  non
sarebbe «matematicamente possibile» scendere al di sotto della soglia
dei tre anni di reclusione.  Infine,  l'attenuante  di  cui  all'art.
323-bis, primo comma, cod. pen. risulterebbe di «rara applicazione» e
quelle di cui all'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., relative ad
attivita'  post  delictum,  resterebbero  estranee  al  giudizio   di
gravita' del reato. 
    Secondo la Corte di cassazione,  la  rigidita'  della  disciplina
censurata sarebbe poi «amplificata» dalla natura perpetua della  pena
accessoria. 
    Infine,  nell'ordinanza  di  rimessione  si  sottolinea  come  la
sanzione interdittiva incida su molteplici diritti fondamentali. 
    In ordine ai possibili contenuti della richiesta declaratoria  di
illegittimita' costituzionale, e ai conseguenti effetti, il giudice a
quo premette che, secondo la recente  giurisprudenza  costituzionale,
non sarebbe piu' necessaria l'evocazione  di  uno  specifico  tertium
comparationis da parte del rimettente  (vengono  richiamate,  tra  le
altre, le sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del  2016
di questa Corte). Prospetta, percio', una «ablazione della norma  dal
sistema sanzionatorio», ma evidenzia che, per  effetto  di  una  tale
pronuncia, la funzione di  prevenzione  speciale  tutelata  dall'art.
317-bis cod. pen. non rimarrebbe priva  di  tutela,  potendo  trovare
applicazione, per il  reato  di  cui  all'art.  319  cod.  pen.,  «le
disposizioni generali, in materia di pene accessorie, degli artt.  29
e 31 cod. pen.». 
    All'imputato del giudizio  principale  potrebbe  pertanto  essere
inflitta,  ai  sensi  dell'art.  29  cod.  pen.,  l'interdizione  dai
pubblici uffici in misura pari a cinque anni.  «In  alternativa»,  in
presenza di reato commesso con abuso  dei  poteri  o  violazione  dei
doveri  inerenti  ad  una  pubblica  funzione  o  pubblico  servizio,
l'autorita'    giudiziaria    potrebbe    applicare    l'interdizione
«temporanea» prevista dall'art. 31 cod. pen., da definirsi secondo  i
criteri di cui agli artt. 132, 133 e 133-bis cod. pen.,  ed  entro  i
limiti indicati dall'art. 28 cod. pen. 
    2.- L'Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio in
rappresentanza del Presidente del Consiglio dei  ministri,  eccepisce
preliminarmente l'inammissibilita' delle questioni,  per  difetto  di
pregiudizialita' rispetto alla definizione del giudizio principale. 
    Osserva  l'interveniente   che   l'inflizione   dell'interdizione
perpetua dai pubblici uffici non costituirebbe affatto un  automatico
effetto, imposto dall'art. 317-bis cod. pen., dell'entita' della pena
detentiva applicata dalla sentenza di condanna, ma risulterebbe  -  o
dovrebbe risultare  -  frutto  dell'esercizio  di  una  discrezionale
scelta del giudice. 
    Infatti, argomenta l'Avvocatura, l'art.  445,  comma  1-ter,  del
codice di procedura penale, introdotto dalla legge n. 3 del 2019,  in
caso di sentenza di patteggiamento per  uno  dei  delitti  contro  la
pubblica amministrazione ivi indicati (tra i quali e'  ricompreso  il
reato di cui all'art. 319  cod.  pen.),  stabilisce  che  il  giudice
«puo'» (e quindi non gia' deve) applicare le pene accessorie previste
dall'art. 317-bis cod. pen. 
    Tale disposizione costituirebbe una deroga sia al  «comma  1-bis»
(recte: comma 1) del medesimo art. 445 cod. proc. pen. (che  annovera
tra i benefici del ricorso alla applicazione  di  pena  su  richiesta
anche quello della inapplicabilita' ex lege  delle  pene  accessorie,
limitandolo al solo caso in cui la pena detentiva irrogata non superi
i due anni di reclusione), sia  all'applicazione  obbligatoria  delle
pene accessorie prescritta dall'art. 317-bis cod. pen. 
    Aggiunge che il menzionato art.  445,  comma  1-ter,  cod.  proc.
pen., avendo natura processuale ed essendo entrato in  vigore  il  31
gennaio 2019, avrebbe dovuto considerarsi applicabile al giudizio  di
merito, definito con sentenza del 25 ottobre 2019. 
    Sottolinea  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri   che,
cionondimeno, il  ricorrente  nel  giudizio  principale  non  avrebbe
contestato l'apprezzamento  compiuto  dal  giudice  di  merito  sulla
scelta di irrogare la pena accessoria o l'omessa motivazione su  tale
profilo, ne', prima ancora, si  sarebbe  egli  stesso  avvalso  della
facolta' ora prevista, sempre per effetto della legge n. 3 del  2019,
dall'art.  444,  comma  3-bis,  cod.  proc.  pen.,  disposizione  che
consente  alla  parte  di  formulare  la   richiesta   subordinandone
l'efficacia all'esenzione dalle pene  accessorie  previste  dall'art.
317-bis cod. pen. 
    Poiche', dunque, «l'ordinamento non stabilisce affatto» che  alla
sentenza di  applicazione  della  pena  su  richiesta  «consegua  ope
iuris»,  per  effetto  dell'art.   317-bis   cod.   pen.,   la   pena
dell'interdizione   perpetua,   le    questioni    di    legittimita'
costituzionale sollevate con riferimento all'art. 317-bis  cod.  pen.
sarebbero «del tutto ininfluent[i] anche sul  percorso  argomentativo
che dovra' sostenere la decisione del processo principale». 
    Da   qui,   conclude   l'Avvocatura   generale    dello    Stato,
l'inammissibilita' per irrilevanza delle questioni sollevate. 
    3.-  Le  questioni  sono  inammissibili,  sia  pure  per  ragioni
parzialmente diverse da quelle argomentate  dall'Avvocatura  generale
dello Stato. 
    3.1.- La menzionata legge n. 3 del 2019, anche  se  nel  caso  di
specie non rilevano le modifiche da essa direttamente apportate  alla
disposizione censurata, ha introdotto ulteriori elementi  di  novita'
nel quadro normativo, incidendo anche sugli  artt.  444  e  445  cod.
proc. pen. 
    Per effetto dell'art. 1, comma 4,  lettera  d),  della  legge  in
questione, e' stato aggiunto al corpo dell'art. 444 cod.  proc.  pen.
il comma 3-bis, ai cui sensi, nei procedimenti per i delitti  di  cui
agli  artt.  314,  primo  comma,  317, 318, 319, 319-ter, 319-quater,
primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis cod. pen.,  «la  parte,
nel   formulare   la   richiesta,   puo'   subordinarne   l'efficacia
all'esenzione dalle pene accessorie  previste  dall'articolo  317-bis
del  codice  penale  ovvero  all'estensione   degli   effetti   della
sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi
il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene  che
l'estensione  della  sospensione  condizionale   non   possa   essere
concessa, rigetta la richiesta». 
    Con l'art. 1, comma 4, lettera e), numeri 1) e 2), della legge n.
3 del 2019, inoltre, il legislatore ha,  rispettivamente,  modificato
il comma 1 dell'art. 445 cod. proc. pen., e introdotto  nella  stessa
norma un nuovo comma 1-ter. 
    La prima modifica, incidente sulla disposizione  che  prevede  il
beneficio della esenzione dalle pene accessorie per i casi in cui  il
rito si  concluda  con  l'applicazione  di  una  pena  detentiva  non
superiore  ai  due  anni  (cosiddetto  "patteggiamento   ordinario"),
inserisce la specificazione in forza della quale «[n]ei casi previsti
dal presente comma e' fatta salva l'applicazione del comma 1-ter». 
    La seconda modifica aggiunge all'art.  445  cod.  proc.  pen.  il
comma  1-ter,  in  cui  si  stabilisce  che  «[c]on  la  sentenza  di
applicazione  della  pena  di  cui all'articolo  444,  comma  2,  del
presente codice per taluno dei delitti previsti  dagli articoli  314,
primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater,  primo  comma,  320,
321, 322, 322-bis e  346-bis  del  codice  penale,  il  giudice  puo'
applicare  le  pene  accessorie  previste dall'articolo  317-bis  del
codice penale». 
    3.2.- L'Avvocatura generale dello  Stato  trae  da  queste  nuove
previsioni   normative   la   conclusione   che,   nell'ambito    del
patteggiamento, la pena  accessoria  dell'interdizione  perpetua  dai
pubblici uffici per i reati contro la  pubblica  amministrazione  non
sarebbe piu' automatica conseguenza  del  ricorrere  dei  presupposti
stabiliti dall'art. 317-bis cod. pen., risultando bensi' ora  rimessa
alla scelta discrezionale del giudice. 
    Secondo questa lettura degli artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma
1-ter, cod. proc. pen., il potere valutativo  che  tali  disposizioni
consegnano  al  giudice  in  ordine   all'applicazione   delle   pene
accessorie previste dall'art. 317-bis cod.  pen.  non  riguarderebbe,
infatti,  solo  i  casi  di   "patteggiamento   ordinario",   ma   si
estenderebbe anche ai casi di "patteggiamento allargato", come quello
del giudizio principale, riguardante persona  nei  cui  confronti  e'
stata applicata una pena detentiva pari a quattro anni e quattro mesi
di reclusione. 
    Per vero, proprio su  questi  aspetti,  la  nuova  disciplina  e'
oggetto di controversie interpretative. 
    Senza dubbio  essa  incide  sul  "patteggiamento  ordinario".  In
questo senso depone il rinvio all'art. 445,  comma  1-ter,  contenuto
nella clausola aggiunta al comma  1,  norma  quest'ultima  che,  come
detto, si riferisce alle pene patteggiate di entita' non superiore ai
due anni di reclusione. Per effetto delle modifiche introdotte  dalla
legge n. 3 del 2019, gli imputati per  i  reati  contro  la  pubblica
amministrazione  non  si  giovano  piu'  ope  legis,   in   caso   di
"patteggiamento ordinario", del beneficio della esenzione dalle  pene
accessorie  previste  dall'art.  317-bis  cod.   pen.,   poiche'   la
valutazione sul punto e' ora rimessa al giudice. 
    Oggetto di divergenti interpretazioni e', invece, l'estensione di
tale  potere  discrezionale  del  giudice  anche  al   patteggiamento
cosiddetto "allargato", in cui l'accordo processuale si  riferisce  a
pene detentive di entita' superiore ai due anni. 
    Mentre i lavori preparatori della legge n. 3 del 2019  potrebbero
orientare verso la soluzione negativa - la relazione illustrativa  al
disegno di legge AC  n.  1189  afferma,  infatti,  che  si  intendeva
rimettere alla «valutazione discrezionale del giudice  l'applicazione
delle sanzioni accessorie, nel caso di irrogazione di  una  pena  che
non superi i due anni di reclusione» - la stessa conclusione  non  e'
autorizzata dal tenore letterale degli artt. 444, comma 3-bis, e 445,
comma 1-ter, cod. proc. pen. 
    Nessuna delle due disposizioni, infatti, fa esplicito riferimento
a specifiche soglie di pena detentiva concordata tra le parti:  tanto
che, in sede di parere sul citato disegno di legge  AC  n.  1189,  il
Consiglio superiore della magistratura segnalava come la formulazione
del proposto art. 444, comma 3-bis, cod. proc.  pen.,  «che  richiama
specificamente e senza limitazioni di pena [taluni] delitti contro la
p.a., rende possibile un'interpretazione che includa nel  suo  ambito
di operativita' non solo il caso del patteggiamento a pena  contenuta
nei due anni [...] ma anche  le  ipotesi  di  patteggiamento  a  pena
superiore a due anni di reclusione» (Parere del 19 dicembre 2018  sul
disegno di legge AC n. 1189 "Misure per il contrasto dei reati contro
la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici"). 
    Non risulta che la giurisprudenza  di  legittimita'  abbia  avuto
occasione di esprimere un indirizzo interpretativo ben definito (deve
essere tuttavia segnalata la  sentenza  della  Corte  di  cassazione,
sezione sesta penale, 12 novembre 2020-19 febbraio 2021, n. 6614, che
afferma la estensione al "patteggiamento allargato" del nuovo  potere
discrezionale  del  giudice  quanto   all'applicazione   delle   pene
accessorie  interdittive,  e  proprio   su   questa   base   respinge
un'eccezione di legittimita' costituzionale in tutto analoga a quella
ora in esame). 
    Spettava, in ogni caso, al giudice a quo operare una  consapevole
ed  esplicita  scelta  tra  le  differenti  soluzioni  interpretative
ricordate. 
    Non solo, tuttavia, l'ordinanza di  rimessione  omette  qualunque
riferimento ai problemi appena  illustrati,  ma  non  contiene  cenno
alcuno al disposto degli artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma  1-ter,
cod. proc. pen., come modificati dalla legge n. 3 del 2019. Non viene
affrontato, in particolare,  il  tema  della  riferibilita'  di  tali
ultime disposizioni anche al "patteggiamento  allargato"  e,  dunque,
allo  stesso  giudizio  all'origine  delle   odierne   questioni   di
legittimita' costituzionale. 
    Le questioni di legittimita' costituzionale  sollevate  sull'art.
317-bis cod. pen., in relazione all'asserita automatica  applicazione
della pena accessoria interdittiva a seguito di condanna per il reato
di cui all'art. 319 cod. pen., vanno dunque dichiarate inammissibili,
perche' il giudice a quo omette di  pronunciarsi  proprio  su  questi
decisivi aspetti, che condizionano  ogni  valutazione  sul  carattere
asseritamente indefettibile della applicazione di tale pena. 
    La   lacuna    in    parola,    in    definitiva,    «compromette
irrimediabilmente l'iter  logico  argomentativo  posto  a  fondamento
delle valutazioni del rimettente sia sulla rilevanza, sia  sulla  non
manifesta infondatezza» (sentenze n. 194 e  n.  61  del  2021;  nello
stesso senso, n. 264 del 2020, n. 150 del 2019; ordinanze n. 108  del
2020, n. 136 e n. 30 del 2018 e n. 88 del 2017). 
    3.3.- La riscontrata lacuna condiziona ineluttabilmente anche  la
valutazione sulla doglianza relativa al carattere  fisso  e  perpetuo
della  pena  interdittiva  prevista  dalla  disposizione   censurata,
determinando l'inammissibilita', per  le  stesse  ragioni,  anche  di
questo secondo profilo delle questioni di legittimita' costituzionale
sollevate. 
    Lo stesso rimettente afferma, infatti, che la proposta censura di
legittimita' costituzionale «rileva in una  duplice  direzione»,  sia
quella  dell'automatismo  e  dell'indefettibilita'  dell'applicazione
della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici  uffici
prevista dall'art. 317-bis cod. pen., sia  quella  della  fissita'  e
perpetuita' della sanzione: tali due profili  «si  saldano  tra  loro
dando luogo ad un meccanismo  sanzionatorio  rigido  che  non  appare
compatibile con il "volto costituzionale della sanzione penale"». 
    Nella prospettazione del  rimettente,  l'asserita  rigidita'  del
complessivo  trattamento  sanzionatorio  e'   dunque   il   risultato
dell'intreccio dei due profili, come conferma un ulteriore  passaggio
dell'ordinanza, in cui si considera la «natura automatica e fissa del
meccanismo  in  contrasto  con  i  principi  di  proporzionalita'   e
individualizzazione della pena». 
    Ne  deriva  che  il  rimettente  avrebbe  dovuto  considerare  il
possibile    venir    meno,    nell'ambito    del     patteggiamento,
dell'automatismo nella applicazione  della  pena  accessoria  di  cui
all'art. 317-bis cod. pen., perche'  condizionante  ogni  valutazione
sulla rigidita' complessiva del meccanismo  sanzionatorio  censurato:
l'ipotizzata   discrezionalita'    nell'applicazione    della    pena
accessoria, infatti,  potrebbe  comportare  una  diversa  valutazione
della disciplina, e dei  suoi  connessi  effetti  sul  terreno  della
proporzionalita',  incidendo  sullo  scrutinio   di   non   manifesta
infondatezza rimesso al giudice a quo  (secondo  lo  stesso  percorso
argomentativo seguito dalla  gia'  citata  sentenza  della  Corte  di
cassazione, sezione sesta penale, n. 6614 del 2021). 
    Pertanto, il non aver adeguatamente argomentato sul primo profilo
delle censure - ovvero sulla reale indefettibilita' dell'applicazione
della  sanzione  interdittiva  -  rende  inammissibile,  nei  termini
unitariamente prospettati, anche il secondo, riferito  a  fissita'  e
perpetuita' della sanzione stessa. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale  dell'art.  317-bis  del  codice  penale,  nel   testo
anteriore alle modifiche recate dall'art. 1,  comma  1,  lettera  m),
della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto  dei  reati
contro  la  pubblica   amministrazione,   nonche'   in   materia   di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti politici), sollevate, in riferimento  agli  artt.  3  e  27
della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione sesta  penale,
con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 novembre 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2021. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA