N. 440 SENTENZA 2 - 16 dicembre 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Sicurezza  pubblica  -  Autorizzazione  di polizia - Buona condotta -
 Prova  -  Onere  a  carico  dell'interessato  -  Irragionevolezza   -
 Imposizione  all'interessato  di  una  sorta  di probatio diabolica -
 Illegittimita' costituzionale.
 
 (R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 11, secondo comma, ultima parte)
 
 (Cost., 3, 24 e 97).
(GU n.52 del 22-12-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio
    BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, prof. Luigi MENGONI, prof.
    Enzo  CHELI,  dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.
    Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, avv. Massimo VARI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  secondo
 comma,  ultima parte, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo
 unico delle leggi di  pubblica  sicurezza),  promosso  con  ordinanza
 emessa il 19 giugno 1992 dal Tribunale Amministrativo Regionale della
 Calabria  sul ricorso proposto da Raffaele Luca contro il Prefetto di
 Catanzaro e, per esso, Ministero dell'Interno, iscritta al n. 26  del
 registro  ordinanze  1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 6 ottobre 1993 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Raffaele Luca adiva  il  Tribunale  Amministrativo  Regionale
 della  Calabria - Sede di Catanzaro per l'annullamento del decreto 12
 marzo 1991 con il quale  il  Prefetto  di  Catanzaro  aveva  respinto
 l'istanza per il rilascio di licenza di porto di pistola avanzata dal
 ricorrente.
    Con   ordinanza   del   19   giugno   1992,   il  detto  Tribunale
 Amministrativo Regionale ha sollevato, in riferimento agli  artt.  3,
 24  e  97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita'
 dell'art. 11, secondo comma,  ultima  parte,  del  regio  decreto  18
 giugno  1931,  n. 773, a norma del quale le autorizzazioni di polizia
 sono negate, fra l'altro, "a  chi  non  puo'  provare  la  sua  buona
 condotta".  Premesso  che  la  richiesta licenza non era stata, nella
 specie, concessa perche', in presenza  di  una  querela  per  lesioni
 personali  proposta  contro l'interessato, costui - nonostante avesse
 presentato il certificato di "buona condotta" del Sindaco del  Comune
 di  residenza  e  l'estratto  del  casellario giudiziario - non aveva
 potuto provare la sua buona condotta, il giudice a  quo  osserva,  in
 punto   di  rilevanza,  che,  "per  quanto  evidenziato  in  separata
 sentenza", l'implicito  riferimento  alla  norma  denunciata  "sembra
 essere  la sola ragione di legittimita' del provvedimento impugnato",
 cosi' da determinare la soccombenza del ricorrente.
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale rileva che il
 precetto di cui si contesta la legittimita',  con  l'esigere  da  chi
 richiede  un'autorizzazione  di  polizia "una generica prova di buona
 condotta", fa gravare sullo stesso richiedente  "una  presunzione  di
 cattiva  condotta", non prevista nell'ambito di analoghi procedimenti
 autorizzator/' e concessor/', nei quali la preventiva indicazione  di
 dati  ostativi  al  rilascio  di  provvedimenti domandati esclude che
 l'amministrato  possa  essere  gravato  dell'onere  di  provare   una
 qualita'   soggettiva   che,   invece,   "dovrebbe   essere  ritenuta
 sussistente  fino  a  prova  contraria":  e  cio'   con   conseguente
 compromissione  del  principio  di eguaglianza sotto il profilo della
 pari dignita' di tutti i cittadini.
    Questa difformita' dal precetto  dell'art.  3  della  Costituzione
 rileverebbe - secondo l'ordinanza del giudice a quo - anche se l'art.
 11,  secondo  comma,  ultima  parte,  del  testo unico delle leggi di
 pubblica sicurezza venisse interpretato nel senso che il detto  onere
 farebbe  carico  all'interessato solo in presenza di "indizi contrari
 riscontrati  dall'Amministrazione",  perche'   comunque   l'interesse
 pubblico  potrebbe  essere  garantito  col  conservare  all'autorita'
 decidente ampia potesta' deliberativa, "consentendo le  preventive  e
 necessarie indagini nei confronti dei richiedenti".
    Sarebbe,  inoltre,  vulnerato il diritto di difesa per l'eccessiva
 genericita' del precetto denunciato, tale da "vanificare  o  comunque
 rendere  ardua",  la  prova in giudizio della propria buona condotta.
 Piu' in  particolare,  di  fronte  ad  una  denuncia  o  querela,  si
 renderebbe  indispensabile  l'esercizio di potesta' investigative non
 pertinenti al tipo di contenzioso nella specie instaurato.
    Un epilogo ineluttabile anche ove volesse  porsi  a  carico  della
 amministrazione "la prova della buona condotta". Anzi, se si seguisse
 una  tale  linea  interpretativa risulterebbe violato pure l'art. 97,
 primo  comma,   della   Costituzione,   perche'   la   ricerca   "dei
 comportamenti   difformi   resterebbe   libera   di  addentrarsi  nel
 metagiuridico e di riflettere, in conseguenza, le opinioni  personali
 e l'esperienza sociale dei titolari della potestas decidendi".
    2.  -  L'ordinanza,  ritualmente notificata e comunicata, e' stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 5, prima serie speciale, del 3
 febbraio 1993.
    3. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    L'Avvocatura    fa,   in   particolare,   riferimento   a   quella
 giurisprudenza amministrativa che impone all'autorita'  decidente  di
 esporre le ragioni sulla base delle quali e' pervenuta ad un giudizio
 negativo, comunque sindacabili dal giudice quanto alla fondatezza dei
 suoi presupposti.
                        Considerato in diritto
    1.  - Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria - Sede
 di Catanzaro dubita, in riferimento agli  artt.  3,  24  e  97  della
 Costituzione,  della legittimita' dell'art. 11, secondo comma, ultima
 parte, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, a norma del quale le
 autorizzazioni di polizia possono  essere  negate  "a  chi  non  puo'
 provare   la   sua  buona  condotta".  Il  principio  di  eguaglianza
 risulterebbe  vulnerato   esigendosi   da   coloro   che   richiedono
 un'autorizzazione  di  polizia  una generica prova di buona condotta,
 cosi' gravandoli "di una presunzione di  cattiva  condotta"  che  non
 trova,  invece,  riscontro  in analoghi procedimenti autorizzator/' o
 concessor/'; e cio' pure ove si interpreti la  norma  denunciata  nel
 senso che il detto onere sussiste solo in presenza di indizi contrari
 riscontrati dall'amministrazione.
    Sarebbe  violato,  inoltre,  il  diritto di difesa per l'eccessiva
 genericita' del precetto censurato che  vanificherebbe  o  renderebbe
 estremamente  ardua  la prova della propria buona condotta, in quanto
 implicherebbe spesso la necessita' di indagini improprie rispetto  al
 contenzioso giurisdizionale amministrativo.
    Resterebbe,  infine,  compromesso  il principio di imparzialita' e
 buon andamento della pubblica amministrazione perche',  pure  ove  si
 volesse  porre  a carico dell'autorita' amministrativa la prova della
 buona condotta, l'assenza,  sul  punto,  di  indicazioni  legislative
 comporterebbe  l'affidamento  all'esperienza sociale ed alle opinioni
 personali dei titolari della  potestas  decidendi  la  determinazione
 dell'esistenza o no di tale requisito.
    2.   -  Per  una  migliore  puntualizzazione,  anche  quanto  alla
 rilevanza, della questione occorre premettere che - come risulta  dal
 provvedimento  introduttivo  del  giudizio incidentale - il giudice a
 quo, investito di un ricorso avverso un decreto  prefettizio  con  il
 quale  era  stato  negato  al ricorrente il rilascio della licenza di
 porto  di  pistola  perche'  "il  richiedente  risulta  essere  stato
 denunciato  per  lesioni personali volontarie e tenuto conto che gia'
 il padre e  il  fratello,  contitolari  della  stessa  azienda,  sono
 titolari  della licenza di porto di pistola, non si ritiene che abbia
 necessita'  di  andare  armato",  ha  pronunciato  nella  camera   di
 consiglio  del  19  ottobre  1992  due  distinti  provvedimenti.  Una
 "sentenza  interlocutoria"  con  la  quale,   dopo   aver   censurato
 l'illegittimita'  del  decreto prefettizio per la parte relativa alla
 titolarita' della licenza da parte dei  parenti  del  ricorrente,  ha
 sospeso  il  giudizio  e rinviato "gli atti alla Corte costituzionale
 come da separata ordinanza";  un'ordinanza,  appunto  l'ordinanza  di
 rimessione,  perche'  venisse decisa la questione di legittimita' ora
 sottoposta al vaglio della Corte,  cosi'  operando  -  con  modalita'
 alquanto  atipiche  -  una  netta  separazione  tra l'atto produttivo
 dell'effetto  sospensivo  (la  sentenza  interlocutoria)   e   l'atto
 produttivo  dell'effetto rimessivo (l'ordinanza con la quale e' stato
 instaurato l'attuale giudizio incidentale).
    Il  tutto  al  fine  evidente di delimitare l'ambito del devolutum
 alla sola parte del decreto reiettivo concernente la buona  condotta,
 anche  se,  per  la  verita',  nessun  effetto demolitorio - sia pure
 parziale - e' conseguito dalla sentenza contestualmente  pronunciata,
 recante  soltanto  nella  motivazione  la dichiarazione di fondatezza
 della censura riguardante  l'addotta  titolarita'  della  licenza  da
 parte del padre e del fratello.
    La  Corte  e',  quindi,  chiamata  a  decidere solo in merito alla
 legittimita' dell'art. 11, secondo comma,  ultima  parte,  del  testo
 unico delle leggi di pubblica sicurezza per la parte in cui statuisce
 che, "Le autorizzazioni di polizia possono essere negate .. a chi non
 puo' provare la sua buona condotta".
    3. - L'Avvocatura Generale dello Stato, nel suo atto di intervento
 per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha domandato il rigetto
 della  questione;  e  cio'  perche' nessuna violazione degli invocati
 parametri costituzionali sarebbe ipotizzabile in  quanto  l'autorita'
 amministrativa  decidente  e'  sempre tenuta ad esporre le specifiche
 ragioni sulla base delle quali e' pervenuta ad un giudizio negativo e
 che sono comunque sindacabili dal giudice amministrativo, verificando
 sia  la  fondatezza   dei   presupposti   sia   le   scelte   operate
 dall'autorita' decidente.
    Tali  rilievi,  pur  risultando  pertinenti,  alla  stregua  di un
 costante indirizzo giurisprudenziale,  si  incentrano,  peraltro,  su
 tipologie  di  provvedimenti autorizzator/' diversi da quello oggetto
 del giudizio a quo,  riguardante  non  una  qualsiasi  autorizzazione
 amministrativa   (di   polizia),   ma   uno  specifico  provvedimento
 permissivo quale e' la "licenza di portare le armi". Ed e'  piuttosto
 singolare che ne' il rimettente ne' l'Avvocatura Generale dello Stato
 abbiano  evocato  la  specifica disposizione riguardante tale tipo di
 autorizzazione, vale a dire l'art. 43 del testo unico delle leggi  di
 pubblica sicurezza del 1931 che, dopo aver richiamato la norma adesso
 impugnata  ("Oltre  a  quanto  e'  stabilito  dall'art.  11") ed aver
 individuato le  situazioni  comunque  preclusive  all'assenso  ad  un
 provvedimento  autorizzatorio  (primo  comma,  lettere  a,  b,  e c),
 stabilisce al suo ultimo comma: "La licenza puo' essere  ricusata  ai
 condannati per delitti diversi da quelli sopra menzionati e a chi non
 puo'  provare  la  sua  buona  condotta  o non da' affidamento di non
 abusare delle armi" (una situazione,  quest'ultima,  rilevante,  alla
 stregua  dell'art.  39  dello  stesso testo unico, anche in relazione
 alla mera detenzione di  armi  denunciate).  Un  ulteriore  specifico
 presupposto  per  la  concedibilita' della licenza e' stabilito, poi,
 dall'art.  42  del  testo  unico,  che  subordina  l'esercizio  della
 "facolta'  del  prefetto"  di adottare il provvedimento permissivo al
 "dimostrato  bisogno"  dell'interessato:  disposizione  che  pure  il
 giudice  a quo ha avuto occasione di prendere in esame all'atto della
 pronuncia  della  sentenza  interlocutoria  la  cui  motivazione   ha
 contestato, sul punto, le determinazioni prefettizie.
    Va  aggiunto,  ancora, sempre al fine di rimarcare la specificita'
 della materia in questione, che l'art. 8 della legge 18 aprile  1975,
 n.  110,  recante  norme  integrative della disciplina vigente per il
 controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi,  stabilisce,
 fra  l'altro,  che  il  "permesso  di  porto  d'armi"  e' subordinato
 all'ulteriore requisito "della capacita' tecnica del richiedente", da
 accertarsi attraverso apposito esame (quarto comma dello stesso  art.
 8).
    Di fronte al quadro normativo ora ricordato il semplice appello al
 disposto  dell'art.  11  del  testo  unico  delle  leggi  di pubblica
 sicurezza  non  si  rivela,  pero',  insufficiente  ai   fini   della
 valutazione  della questione proposta dal giudice a quo. Considerata,
 infatti, la testuale riproduzione del  requisito  della  prova  della
 buona  condotta  nell'art.  43,  la  questione incentrata sull'ultima
 parte dell'ultimo comma dell'art. 11, che e' disposizione dettata  in
 via   generale   per  tutte  le  autorizzazioni  di  polizia,  appare
 ammissibile. D'altro canto, il richiamo alla "separata sentenza", che
 aveva censurato il provvedimento  prefettizio  proprio  in  relazione
 alla  sussistenza  delle  condizioni richieste dall'art. 39 del testo
 unico,  sta  a  comprovare  come,  nonostante   l'esclusiva   formale
 impugnazione dell'art. 11, il giudice a quo abbia inteso riferirsi al
 detto articolo in quanto integrato dall'art. 43.
    4. - La questione e' fondata.
    Anche  a prescindere dal contesto storico in cui la buona condotta
 viene ad assumere specifiche  connotazioni  e  conseguenti  specifici
 significati  giuridici,  caratteristica  pressoche' immanente di tale
 requisito e' il suo valore sintomatico relativamente ad  un  modo  di
 essere  soggettivo, in funzione non di una statuizione avente il fine
 di reprimere comportamenti rilevanti per il passato ma  in  vista  di
 prevenire  il  futuro  presumibile  atteggiarsi della persona a cui i
 comportamenti  si  riferiscono.  Il  tutto  con   riguardo   sia   al
 conferimento  di  posizioni  altrimenti  oggetto  di  divieto  sia al
 riconoscimento  di  condizioni  di  legittimazione  per  l'accesso  a
 situazioni  giuridiche  variamente  previste  dalla  legge  ma sempre
 dirette  a  far   conseguire   all'interessato   un   ampliamento   -
 genericamente inteso - della sua sfera giuridica.
    Con  il  che  resta  previamente  delimitato il tema del decidere,
 occorrendo escludere ogni  affinita',  pure  sul  piano  dei  criteri
 interpretativi  da  utilizzare  allo  scopo di definire la nozione in
 esame, quelle previsioni in cui - nonostante l'identita' del  lessico
 talvolta  adottato  -  la  buona  condotta  assume  un diverso e meno
 generico valore designante. Per esemplificare, e' il caso,  in  primo
 luogo,  della  rilevanza della buona condotta - o di nozioni rispetto
 ad essa pressoche' equivalenti - quale presupposto per il venir  meno
 di   effetti  di  diritto  penale  sostanziale.  A  parte  situazioni
 direttamente  tipizzate   dal   legislatore   in   funzione   di   un
 atteggiamento  futuro,  ma valutabili anche in relazione ai trascorsi
 dell'interessato (si pensi alla prognosi di non  recidivita'  di  cui
 agli  artt.  164, primo comma, e 169, primo comma, del codice penale,
 ai  fini,  rispettivamente,  della  concessione   della   sospensione
 condizionale   della  pena  e  del  perdono  giudiziale,  norme  che,
 peraltro,  richiamando  entrambe  l'art.  133  dello  stesso  codice,
 assegnano  rilievo  non  secondario  anche  alle condizioni di cui al
 secondo comma di tale articolo), pare interessante ricordare come  la
 nozione   di   buona   condotta   rilevi  in  un  ambito  descrittivo
 sufficientemente precisato in  relazione  alle  cause  di  estinzione
 della  pena. Trascurando il comportamento tale da far ritenere sicuro
 il ravvedimento del condannato richiesto  dall'art.  176  del  codice
 penale  ai  fini  della  liberazione  condizionale  (prima  della sua
 sostituzione ad opera dell'art. 2 della legge 25  novembre  1962,  n.
 1634,  l'art.  176 richiedeva "prove costanti di buona condotta"), la
 nozione  in  esame  ricorre  espressamente  quale  presupposto  della
 riabilitazione,  concedibile  soltanto  al condannato che "abbia dato
 prove effettive e costanti di buona condotta" (art. 179, primo comma,
 del  codice  penale);  ma  le   esigenze   teleologiche   alla   base
 dell'istituto consentono univocamente di riferire al ravvedimento del
 riabilitando e, quindi, ad una condizione di sicura verifica, la for-
 mula  utilizzata.  Direttamente  collegato,  poi,  a  fatti-reato  e'
 l'istituto della cauzione di buona condotta  prevista  dall'art.  237
 del  codice penale, una espressione chiaramente tralaticia e comunque
 non connessa al conseguimento di condizioni di favore.
    In secondo luogo, solo apparenti  affinita'  con  quella  prevista
 dalla  norma  denunciata  hanno  quelle  situazioni,  ipotizzate  dal
 legislatore, ove la buona condotta acquista  una  designazione  ancor
 piu' specifica in quanto ragguagliata ad un microsistema nel quale il
 comportamento  -  genericamente  valutabile in rapporto all'accesso a
 determinati benefici - assume rilevanza significativa e connotati  di
 assoluta  tipicita'  proprio  in  rapporto  alla  posizione rivestita
 dall'interessato. Ci si riferisce,  piu'  in  particolare,  sia  alle
 "norme di condotta" dei detenuti e degli internati indicate sin dalla
 intitolazione  dell'art.  32 dell'Ordinamento penitenziario (legge 26
 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), sia agli artt.  30-
 ter,  commi 1 e 8, e 56 del suddetto Ordinamento penitenziario per la
 specifica menzione della "regolare condotta" ai fini dell'ottenimento
 di "permessi-premio" e "della remissione del debito per le  spese  di
 procedimento  e di mantenimento". Il fenomeno, infatti, si giustifica
 in forza di un particolare  status  che  impone,  in  relazione  alle
 esigenze  del  trattamento,  un tipo determinato di contegno che solo
 sulla  base  di  valutazioni  elastiche,  collegate   alle   esigenze
 teleologiche  proprie  di quell'ordinamento, e' in grado di assegnare
 un ruolo esponenziale ad un modo di essere  di  altrimenti  difficile
 definizione. Considerazioni non dissimili potrebbero essere fatte per
 quell'altro   microsistema  che  e'  rappresentato  dalle  misure  di
 prevenzione, dove "la condotta e il tenore di vita"  figurano  tra  i
 presupposti per l'adozione di dette misure (art. 1, n. 2, della legge
 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni).
    5.  - Il requisito della "buona condotta", evocato dalla decisione
 del giudice rimettente sotto il profilo attinente  alla  prova  della
 sua  esistenza  in capo all'interessato, rappresenta la base per vari
 giudizi di affidabilita'  devoluti  all'autorita'  amministrativa  e,
 come  tale,  non  puo'  essere giudicato in se' stesso lesivo di quei
 principi di ragionevolezza ai quali ogni  ordinamento  e'  tenuto  ad
 ispirarsi.  Tuttavia  la  latitudine  di  apprezzamento  che  a  tale
 requisito e' connessa esige, per  non  confliggere  con  inderogabili
 esigenze  di  determinatezza  e  perche'  sia  evitato il pericolo di
 sconfinare nell'arbitrio, una  specificazione  finalistica,  riferita
 cioe'  alle  particolari  esigenze che l'accertamento deve soddisfare
 per  le  finalita'  correlate  con  il  tipo  di  abilitazione  o  di
 autorizzazione  richiesta. Questo bisogno di evitare ogni genericita'
 ha portato l'ordinamento successivo alla Costituzione ora a forme  di
 obsolescenza  di  concetti  precedentemente ricorrenti nelle leggi ed
 ora, piu' radicalmente, alla eliminazione del requisito stesso  della
 "buona  condotta"  da  quei  settori  nei  quali  esso  si poneva con
 caratteri apparsi incompatibili con l'accesso  a  posizioni  che  per
 criteri  di eguaglianza e pari dignita' debbono poter essere ottenute
 sulla base di  condizioni  chiare  ed  oggettivamente  determinabili.
 L'esempio piu' tipico di questo secondo tipo di trasformazione appare
 rappresentato  dalla  legge 29 ottobre 1984, n. 732, che ha stabilito
 che "ai fini dell'accesso agli  impieghi  pubblici  non  puo'  essere
 richiesto o comunque accertato il possesso del requisito della "buona
 condotta"",  cosi'  esplicitamente  abrogando il n. 3 dell'art. 2 del
 testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
 civili dello Stato (d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3), che tale requisito
 aveva mutuato  dall'art.  3  del  r.d.  24  novembre  1908,  n.  756:
 "regolare  condotta"  da accertarsi dall'amministrazione "con tutti i
 mezzi di cui dispone" e in ogni caso  sorretta  dal  "certificato  di
 buona  condotta".  Si  tratto' indubbiamente di una innovazione molto
 importante,   sia   per   l'eliminazione   della   fonte    di    una
 discrezionalita'  ritenuta  troppo  ampia  in  quanto  legata  ad  un
 giudizio dai margini piuttosto  indeterminati,  sia  per  i  numerosi
 riverberi  sulla  vigenza  di precetti espressamente o implicitamente
 richiamanti la norma abrogata. Ed e' noto che a tale  innovazione  ha
 fatto  se'guito,  su un piano piu' generale, l'eliminazione, avvenuta
 con l'art. 64, lett. c), del nuovo Ordinamento delle autonomie locali
 (legge 8 giugno 1990, n. 142), dello stesso certificato  comunale  di
 buona condotta, gia' previsto dall'art. 7 del testo unico della legge
 comunale e provinciale del 1934 (r.d. 3 marzo 1934, n. 383).
    Quanto alla caducazione per desuetudine o per incompatibilita' con
 i  principi  costituzionali  (ritenuta nella pratica amministrativa e
 giudiziaria senza la formulazione di questioni di illegittimita')  di
 altri  riferimenti legislativi alla buona condotta contenuti in leggi
 anteriori alla Costituzione, basterebbe ricordare tutti  i  casi  nei
 quali si erano venuti aggiungendo al requisito stesso altri attributi
 specifici,   o   dati   di   qualificazione,  dal  dubbio  contenuto:
 segnatamente quelli della "buona condotta civile, morale e politica".
 Una legislazione caratterizzata da un alto numero di previsioni,  che
 ha  contribuito  ad aumentare, nonostante l'apparente specificazione,
 il relativismo proprio della nozione (specie per quanto attiene  alla
 buona  condotta  morale)  o  l'anticostituzionale discriminazione tra
 cittadini (per quanto attiene alla buona condotta politica).
    E tuttavia il requisito della buona condotta  e'  stato  richiesto
 ancora   in   disposizioni  contenute  in  leggi  recenti  o  persino
 recentissime,   come   quelle   relative   all'autorizzazione,   alla
 coltivazione,  produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (art.
 17, secondo comma, della legge 22 dicembre 1975, n.  685,  riprodotto
 nel  testo  unico  d.P.R.  9  ottobre 1990, n. 309) o quelle relative
 all'apertura di autoscuole  (art.  123,  quinto  comma,  del  decreto
 legislativo  30  aprile 1992, n. 285, con il quale e' stato approvato
 il "nuovo codice della strada"). Ne' possono ritenersi espunte  dalla
 legislazione   le   norme  che  esigono  la  buona  condotta  per  le
 autorizzazioni di polizia, tra le quali  rientra  quella  denunciata;
 che  anzi alcuni ritengono che tra gli argomenti adducibili in favore
 della loro vigenza  sia  da  annoverarsi  proprio  quello  ricavabile
 dall'avvenuta  eliminazione  del  requisito  della buona condotta per
 l'accesso ai pubblici impieghi.
    Non  pare  dubbio,  comunque,  che  la  permanenza  in   vita   di
 disposizioni  emanate  antecedentemente  all'entrata  in vigore della
 Costituzione che rispetto a pretese giuridiche dei privati richiedono
 il requisito della buona condotta,  se  e  comunque  qualificata,  e'
 legata   ad   una   interpretazione   del   requisito   in  questione
 particolarmente attenta ai valori costituzionali. E se, di norma, non
 si  sono  ancora  verificati immediati effetti caducator/', una delle
 ragioni e' da ravvisarsi nell'esistenza della tutela  giurisdizionale
 delle  pretese  stesse  nei confronti della pubblica amministrazione,
 tutela garantita  dall'art.  113  della  Costituzione,  al  quale  la
 giurisdizione  amministrativa  ha  fatto  ampio  ricorso  al  fine di
 realizzare in concreto il sindacato dell'azione amministrativa.
    6. - I sommari accenni che precedono, se comprovano come l'estrema
 varieta' dei criteri  in  grado  di  pervenire  ad  un'operazione  di
 riempimento  e  di conseguente tipizzazione del requisito della buona
 condotta talora implica l'insorgere di zone  di  assoluta  incertezza
 quanto   alla   verifica   dei   parametri   sui  quali  la  pubblica
 amministrazione deve attestarsi nel valutare la sussistenza del detto
 requisito,  divengono  peraltro  decisivi   quando   si   tratti   di
 riscontrare la conformita' alla Costituzione delle norme che, ai fini
 del  riconoscimento di pretese di soggetti astrattamente legittimati,
 non soltanto richiedono la buona condotta  ma  addossano  al  privato
 l'onere di provare l'esistenza di tale requisito.
    Diviene,   infatti,   intrinsecamente   irragionevole   addebitare
 all'interessato un onere che talora neppure l'amministrazione  e'  in
 grado  di adempiere proprio per la varieta' dei parametri di verifica
 dai quali puo'  scaturire  la  preclusione  alla  realizzabilita'  di
 posizioni soggettive di cui il privato e' titolare. Del resto, quanto
 irragionevole  ed  arbitraria  dovesse  ritenersi,  in  via generale,
 l'esistenza di un  simile  onere  probatorio,  risulta  essere  stato
 avvertito  dal  legislatore  allorche'  con  l'art.  10 della legge 4
 gennaio  1968,  n.  15,   contenente   norme   sulla   documentazione
 amministrativa  e  sulla legalizzazione e autenticazione delle firme,
 ha statuito che la buona condotta (al pari dell'assenza di precedenti
 penali e di carichi pendenti)  e'  accertata  d'ufficio,  presso  gli
 uffici pubblici competenti dalla amministrazione che deve emettere il
 provvedimento.  Un precetto - questo della legge n. 15 del 1968 - che
 ha introdotto nell'ordinamento un  criterio  ermeneutico  di  valenza
 decisiva  in  virtu' della portata generale delle sue previsioni, che
 sono ostative quanto all'operativita' di ogni onere di documentazione
 attinente al requisito in esame.  Tuttavia  non  sembra  che  la  vis
 abrogans  dell'art.  10 della legge n. 15 del 1968 abbia un'efficacia
 espansiva in grado di sovrapporsi di per se' sola  alla  disposizione
 oggi  denunciata  alla Corte, cosi' da aver determinato sin da allora
 la cessazione della sua vigenza, anche perche' il detto  art.  10  si
 riferisce  esclusivamente  all'onere  di  produrre  il certificato di
 buona condotta, non, quindi, al requisito da dimostrare.
    Del  resto,  la   giurisprudenza   amministrativa   in   tema   di
 autorizzazioni  di polizia, pur attenta a rimarcare in base a criteri
 di lodevole permissivita'  relativamente  all'onere  della  prova  il
 requisito  della  buona  condotta,  ha  continuato a riconoscere alla
 pubblica amministrazione un ampio potere valutativo  in  presenza  di
 dati  sfavorevoli  quanto  al  comportamento  dell'interessato; cosi'
 venendo a gravare  quest'ultimo  dell'onere  di  rimuovere  l'effetto
 preclusivo   conseguente   alla   verifica   compiuta  dall'autorita'
 amministrativa. E se e' vero che resterebbe preclusa la  possibilita'
 che il potere discrezionale dell'amministrazione trasmodi in arbitrio
 non soltanto esaminando la progressiva evoluzione giurisprudenziale e
 dottrinale  che  ha  svincolato  la  nozione  di buona condotta dalle
 incrostazioni     socio-politiche    caratterizzanti    il    sistema
 precostituzionale, tentando di storicizzarne  la  portata,  e'  anche
 vero   che   si   e'   trattato,   di   frequente,  di  un'operazione
 interpretativa priva di risultati favorevoli in  concreto,  rimanendo
 demandato  ai  soli  titolari  della potestas decidendi il compito di
 determinare  il  contenuto  dei  presupposti  e   imponendosi   cosi'
 all'interessato  una  prova  talora diabolica volta a contrastarne la
 forza cogente.
    D'altra parte, non  pare  decisiva  la  considerazione  (contenuta
 nelle deduzioni dell'Avvocatura Generale dello Stato) che comunque un
 provvedimento  amministrativo di diniego di autorizzazione resterebbe
 assoggettato al controllo giurisdizionale i cui contenuti sono  stati
 elaborati dalla giurisprudenza secondo precise regole ermeneutiche. E
 cio',  sia  perche'  l'immanenza  di  un  onere  probatorio  volto  a
 contestare una situazione non fondata su criteri prestabiliti rischia
 talora  di  impedire  al  privato  un   controllo   effettivo   sulla
 motivazione   sia   perche'   resisterebbe  comunque  l'irragionevole
 struttura di  un  sistema  in  cui,  pur  in  presenza  di  un  onere
 probatorio   in   taluni   casi  impossibile  da  adempiere,  l'unica
 potenzialita' per la realizzazione della sua pretesa rimarrebbe,  per
 l'interessato, l'accesso alla via giurisdizionale.
    La  presenza  di un indirizzo giurisprudenziale amministrativo nel
 senso  di   un   controllo   giurisdizionale   sulle   determinazioni
 dell'amministrazione  non  puo',  quindi,  esimere  da  una pronuncia
 d'illegittimita'. La fattispecie portata ora  all'esame  della  Corte
 sta univocamente a dimostrarlo con il richiamo da parte del giudice a
 quo  alla legittimita' del diniego ed all'esigenza che sia il privato
 a dover dimostrare la sua buona condotta.
    Non immuta,  infatti,  il  giudizio  negativo  sulla  legittimita'
 dell'art.  11,  secondo  comma,  ultima  parte, del testo unico delle
 leggi di pubblica sicurezza, la circostanza che, anche  alla  stregua
 del valore interpretativo da assegnarsi in questa materia all'art. 10
 della   legge   n.   15   del   1968,   l'onere   della  prova  gravi
 sull'interessato  soltanto  allorche'  sussista  un   dato   negativo
 accertato  dalla  pubblica  amministrazione,  perche'  pure  in  tale
 ipotesi, non essendo predeterminati ne'  i  canoni  cui  la  pubblica
 autorita'  deve  uniformarsi  ne'  gli  schemi  attraverso i quali il
 privato e' posto in condizione di  ribaltare  la  detta  valutazione,
 sussiste  sempre,  per  un  verso,  un'ampia  possibilita'  di  abuso
 dell'organo decidente, solo in parte ovviabile  attraverso  l'accesso
 alla  giurisdizione  e, per altro verso, la necessita' per il privato
 di addurre elementi dimostrativi in grado  di  superare  il  giudizio
 negativo formulato nei suoi confronti e di cui non sempre e' posto in
 condizione di disporre.
    Con  il  che risulta evidente che se pure la lettura dell'art. 11,
 secondo comma, ultima parte, del testo unico delle leggi di  pubblica
 sicurezza  deve  essere - come e' riscontrabile in una giurisprudenza
 amministrativa cosi' costante da  ritenere  vero  e  proprio  diritto
 vivente  -  l'onere probatorio e' posto a carico del privato soltanto
 in presenza di elementi accertati dall'amministrazione, l'adempimento
 di un tale onere puo' rivelarsi, e concretamente spesso si rivela, di
 difficile   realizzazione,   lasciando    conseguentemente    esposto
 l'interessato all'arbitrio della pubblica autorita', non potendo egli
 disporre di elementi da contrapporre alla valutazione negativa; donde
 la  persistenza,  ancora, di una situazione giuridica non in grado di
 potersi  concretizzare  o  destinata  ad  essere  posta   nel   nulla
 nonostante   la   presenza   e   la   persistenza   di  posizioni  di
 legittimazione.
    7. - I limiti segnati dal giudizio sulla rilevanza  -  il  venire,
 cioe',  qui  in  considerazione,  non  soltanto  un'autorizzazione di
 polizia,  ma  un  atto  permissivo  dotato   di   specifica   valenza
 teleologica  quale  e'  quello  concernente  l'uso  delle  armi - non
 rappresenta un dato ostativo alla individuazione di quegli aspetti di
 irrazionalita' che si sono ora denunciati. Occorre  infatti  rilevare
 che - come ha gia' avuto occasione di statuire questa Corte (sentenza
 n.  24  del  1981),  sia  pure  ai  soli fini dell'ammissibilita' del
 quesito referendario volto a conseguire l'abrogazione della norma che
 abilita al  porto  d'armi  -  la  "facolta'"  conferita  al  prefetto
 dall'art. 42, terzo comma (unico comma rimasto in vigore, dopo che il
 primo  ed  il  secondo  comma  sono  stati abrogati dall'art. 4, nono
 comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110), "di concedere, in caso di
 dimostrato  bisogno,  licenza  di  portare  rivoltelle   o   pistole"
 costituisce  "una  deroga al divieto sancito dall'art. 699 del codice
 penale e dall'art. 4, primo comma, della  legge  n.  110  del  1975".
 Tutto  cio',  del  resto,  in  una  linea  pressoche'  conforme  alla
 giurisprudenza del Consiglio di Stato, attenta a  rimarcare  come  il
 porto  d'armi  non  costituisce  un diritto assoluto, rappresentando,
 invece, eccezione al normale divieto di portare le armi  e  che  puo'
 divenire  operante  soltanto  nei  confronti di persone riguardo alle
 quali esista la perfetta e completa sicurezza  circa  il  "buon  uso"
 delle  armi  stesse;  in  modo  tale - cosi' e' testualmente detto in
 alcune decisioni -  da  scagionare  dubbi  o  perplessita'  sotto  il
 profilo  dell'ordine  pubblico  e  della  tranquilla convivenza della
 collettivita', dovendo  essere  garantita  anche  l'intera,  restante
 massa dei consociati sull'assenza di pregiudizi (di qualsiasi genere)
 per la loro incolumita'.
    Dalla  eccezionale  permissivita'  del  porto  d'armi e dai rigidi
 criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il  controllo
 dell'autorita' amministrativa deve essere piu' penetrante rispetto al
 controllo  che  la  stessa  autorita'  e'  tenuta  ad  effettuare con
 riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora  volti  a
 rimuovere  ostacoli  a  situazioni  giuridiche soggettive di cui sono
 titolari i richiedenti. Ed una univoca conferma pare scaturire  dalle
 progressive  restrizioni  che,  sul  piano  normativo, non solo hanno
 introdotto innovazioni di grande rigore nella  disciplina  del  porto
 illegale  di  armi  (legge  2  ottobre 1967, n. 895; legge 14 ottobre
 1974, n. 497; legge 18 aprile 1975, n. 110; legge 21  febbraio  1990,
 n.  86,  nonche' decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito dalla
 legge 7 agosto 1992, n. 356, con modificazioni), ma anche  quanto  ai
 requisiti  soggettivi  per  il rilascio di licenze in materia di armi
 (si vedano, ad esempio, gli artt. 8, 9 della gia' ricordata legge  n.
 110 del 1975).
    In tale ottica la formula adottata dalla norma denunciata e che e'
 peraltro  da accostare all'ulteriore potere negativo nei confronti di
 chi non dia affidamento nell'uso delle armi, viene  a  rivestire  una
 sua   precisa   collocazione   precettiva   cui   fa   da   riscontro
 l'assegnazione   all'autorita'   amministrativa   di    margini    di
 accertamento  e  di  verifica  particolarmente  ampi. Al contempo, la
 nozione di "buona condotta" assume una valenza piu' determinata anche
 se  non  proprio puntuale sul piano dei valori giuridici da tutelare.
 Il diretto collegamento al  pericolo  per  l'ordine  e  la  sicurezza
 pubblica  che l'uso delle armi di per se' comporta, infatti, non puo'
 inficiare la natura dell'interesse che e' alla  base  della  pretesa,
 con  la conseguenza che neppure qui si e' in condizione di precludere
 che  la  discrezionalita'  della  amministrazione  non  trasmodi   in
 arbitrio  per  l'assoluta  atipicita'  dei  criteri  che,  per quanto
 "storicizzati", sorreggono  la  nozione  di  buona  condotta  e  che,
 dunque, non escludono che il legislatore abbia creato una presunzione
 di  cattiva condotta, imponendo all'interessato una sorta di probatio
 diabolica rispetto ad un concetto che, operante  nel  meta-giuridico,
 finirebbe  per  attribuire  -  come assume il giudice a quo - ai soli
 titolari della potestas  decidendi  il  compito  di  determinarne  il
 contenuto.
    8.  - Ferma l'ampia discrezionalita' del prefetto nell'assentire o
 meno alla richiesta di porto d'armi, la verifica quanto al  legittimo
 esercizio   di  tale  potere,  per  quanto  sindacabile  dal  giudice
 amministrativo,  sia  in   relazione   ai   presupposti   alla   base
 dell'accertamento  sia  alle  modalita'  di  esso sia, infine, al suo
 contenuto, resta, dunque, ampiamente condizionata da quelle  zone  di
 indeterminatezza  -  talora  al  confine  con il merito - che si sono
 prima individuate.
    E se e' pur vero che il costante  indirizzo  interpretativo  della
 giurisprudenza  amministrativa  ha  individuato  precisi  canoni  cui
 riferire la legittimita' del diniego  (e  non  solo  qualora  vengano
 addebitati,  in  relazione  a  pregresse  condanne  non assolutamente
 preclusive, fatti penalmente rilevanti), tutto cio'  va  contemperato
 con    l'ulteriore    condizione,    che   puo'   divenire   ostativa
 all'autorizzazione al porto delle armi, relativa ai casi nei quali il
 diniego si fondi su concreti elementi che, pur non tradottisi in  una
 condanna o nell'inizio di un procedimento penale, siano rivelatori di
 una  condotta  per  di  piu' sintomatica di una possibilita' di abuso
 delle armi. Con il che appare rafforzata la censura di irrazionalita'
 di un regime della prova della  buona  condotta  che  contempli  come
 ulteriore   garanzia  per  l'interesse  specifico  in  questione  una
 valutazione che finisce per assegnare alla buona  condotta  un  ruolo
 marginale,  nonostante  la  complementarita' talora individuata dalla
 giurisprudenza nelle due espressioni: buona condotta e affidamento di
 non abusare dell'arma.
    D'altro canto, se  e'  pur  vero  che  e'  dal  diniego  che  deve
 scaturire  la  motivazione  del mancato assenso, con possibilita' per
 l'interessato di contestare in sede giurisdizionale il  provvedimento
 fondato  su  inesistenti  presupposti  di  fatto  ovvero  su  erronee
 valutazioni che comprovino l'esercizio di un potere discrezionale  in
 base a canoni manifestamente illogici o irrazionali, si e' gia' visto
 come  un tale presidio non appare esauriente rispetto a situazioni in
 cui al privato - proprio per la genericita'  e  la  variabilita'  dei
 contenuti  del  precetto  -  resta  inibita l'allegazione di un fatto
 dimostrativo capace di  neutralizzare  il  giudizio  formulato  dalla
 pubblica autorita'.
    Certo, dovra' considerarsi illegittimo quel provvedimento negativo
 che  ometta  di  indicare le circostanze di fatto ritenute preclusive
 ovvero si limiti ad indicare le  dette  circostanze  senza  procedere
 alle  dovute  valutazioni  o,  ancora,  non provveda a considerare il
 valore     significativo    di    fatti    sopravvenuti    favorevoli
 all'interessato, secondo un indirizzo che ha di recente  trovato  eco
 anche  nella  giurisprudenza  di  questa Corte, quando si e' ribadito
 (ordinanza  n.  272  del  1992,  avente  ad  oggetto  le   violazioni
 disciplinari  delle  guardie  particolari  giurate,  in  una  materia
 direttamente coinvolgente anche l'art.  138  del  testo  unico  delle
 leggi   di   pubblica   sicurezza)   il  dovere  di  motivazione  dei
 provvedimenti di revoca (e,  quindi,  di  ogni  provvedimento  avente
 effetti  sfavorevoli  per  l'interessato),  "necessaria"  ai  fini di
 "consentire al giudice amministrativo la verifica sulla  legittimita'
 del  provvedimento  stesso":  un principio, del resto, riaffermato in
 via generale dall'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
    Ma cio' che nella normativa in esame  e'  carente  e'  appunto  la
 sicura  percorribilita'  di  tale  controllo,  non  essendo  comunque
 consentito all'interessato contestare in via  giurisdizionale  ne'  i
 presupposti    ne'    le    valutazioni    compiute    dall'autorita'
 amministrativa. Con conseguente incidenza anche quanto  al  principio
 di  imparzialita'  perche' le verifiche compiute dall'amministrazione
 non sempre possono restare ancorate a precisi criteri  interpretativi
 e  quindi  con  il rischio che esse - come paventa il giudice a quo -
 rimangano  affidate  alle  opinioni  personali  dei  titolari   della
 potestas decidendi.
    L'art.  11,  secondo  comma,  del regio decreto 18 giugno 1931, n.
 773, nella parte in cui prescrive che le  autorizzazioni  di  polizia
 possono  essere  negate  a chi non puo' provare la sua buona condotta
 deve, dunque, essere dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  per
 contrasto  con  gli  artt.  3 e 97 della Costituzione, cosi' restando
 assorbita la questione riferita all'ulteriore parametro  evocato  dal
 giudice a quo.
    9.  -  In  applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.
 87,  va  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  43,
 secondo  comma, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, nella parte
 in cui, ripetendo la prescrizione contenuta nella  norma  denunciata,
 pone  a  carico  dell'interessato  l'onere  di  provare  la sua buona
 condotta.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  secondo
 comma,  ultima parte, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo
 unico delle leggi di pubblica sicurezza), nella parte in cui  pone  a
 carico dell'interessato l'onere di provare la sua buona condotta;
    Dichiara,  in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953,
 n. 87, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 43,  secondo  comma,
 del  regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di
 pubblica   sicurezza),   nella   parte   in   cui   pone   a   carico
 dell'interessato l'onere di provare la sua buona condotta.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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