N. 364 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 gennaio 1994

                                N. 364
 Ordinanza  emessa  il  24  gennaio  1994  dal  pretore  di  Aosta nel
 procedimento penale a carico di Pareglio Eraldo ed altro
 Mafia - Misure antimafia - Opere commissionate dalla p.a. -
    Subappalto senza la prescritta autorizzazione - Sanzioni penali  -
    Previsione  nei  riguardi dell'appaltatore di un'ammenda stabilita
    nella misura di  un  terzo  del  valore  complessivo  delle  opere
    appaltate  e,  nei riguardi del subappaltatore, nella misura di un
    terzo del valore delle opere ricevute in  subappalto  -  Eccessiva
    severita'   della   sanzione   nei  confronti  dell'appaltatore  -
    Ingiustificata  disparita'  di  trattamento  data  la   (ritenuta)
    omogeneita'  delle  condotte,  con  incidenza  sul principio della
    legalita' della pena e della funzione rieducativa della stessa.
 (Legge 13 settembre 1982, n. 646, art. 21 modificato dalla legge 12
    ottobre 1982, n. 726 e dalla legge 19 marzo 1990, n. 55, art. 8).
 (Cost., artt. 3, 25 e 27).
(GU n.26 del 22-6-1994 )
                              IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza, dandone lettura nel pubblico
 dibattimento, nel processo iscritto al n. 151/93  r.g.  e  n.  291/92
 n.r.  contro Pareglio Eraldo, nato ad Acqui Terme il 3 agosto 1927, e
 Cuneaz Napoleone, nato ad Aosta il 23 giugno 1940, entrambi  imputati
 del  reato  p.e.p.  dall'art.  21,  legge  13  settembre 1982, n. 646
 perche', Pareglio in qualita'  di  presidente  legale  rappresentante
 della  Edilpro  S.c.a.r.l.  con  sede in Tortona, esercente attivita'
 edile; Cuneaz in qualita' di socio  accomandatario  di  Monte  Bianco
 Spurghi  S.a.s.  con  sede  in Gressan (Aosta), fraz. Rema, esercente
 attivita' di autotrasporti  e  pulizie  industriali;  rispettivamente
 subappaltavano  e  ricevevano  in  subappalto  o  a cottimo, anche di
 fatto, in tutto o in  parte,  senza  l'autorizzazione  dell'autorita'
 competente  le opere in costruzione, nel cantiere di Gignod, relative
 ad una variante nella  realizzazione  di  un  tratto  della  s.s.  27
 Aosta-Gran   San   Bernardo,   oggetto   di   affidamento   da  parte
 dell'A.N.A.S., ente committente, mediante licitazione privata; ed  in
 particolare,   rispettivamente   subappaltavano   e   ricevevano   in
 subappalto  o  a  cottimo  lavori  di movimentazione-terra, asporto e
 deposito per l'importo di L. 65.000.000.  Fatto  commesso  in  Gignod
 (Aosta), nell'agosto 1991.
                               F A T T O
    Il  17 marzo 1988, l'impresa Edilpro S.c.a.r.l. (all'epoca Edilvie
 S.p.a.), con sede in Tortona, stipulo' con l'A.N.A.S. un contratto di
 appalto avente ad oggetto "lavori di costruzione della variante  alla
 strada  statale n. 27 del Gran San Bernardo, nel comune di Gignod tra
 i km 6 + 175 e 7 + 783".
    L'importo dei lavori venne stabilito  in  L.  17.809.542.400,  con
 divieto  espresso  di  subappalto,  fatta  salva  la possibilita' per
 l'aggiudicatario di ricorrere liberamente a forniture di materiali  e
 di manufatti ed impianti idrici, sanitari e simili.
    Il  6 febbraio 1992, nel corso di un controllo disposto in seguito
 alla denuncia di un dipendente, l'ispettorato del lavoro di Aosta (v.
 esame teste Ponticiello) rilevo', sulla base di numerose fatture, che
 l'impresa Monte Bianco Spurghi di Cuneaz Napoleone  aveva  effettuato
 dei  lavori  presso  il  cantiere della societa' Edilpro sul raccordo
 autostradale del Gran San Bernardo.
    In particolare, risultava che erano  stati  eseguiti  trasporti  e
 movimenti di terra per un importo complessivo di L. 65.000.000.
    L'affidamento  di  tali  opere non emergeva da alcun atto formale,
 ne' risultava rilasciata alla Edilpro alcuna autorizzazione da  parte
 dell'ente  appaltante,  cosi'  come  previsto dal contratto e imposto
 dalla legge.
    Da qui, la  citazione  a  giudizio  del  Pareglio  e  del  Cuneaz,
 imputati,  rispettivamente  come  subappaltante  e subappaltatore, ai
 sensi dell'art. 21, legge 13 settembre 1982, n. 646.
    Nel corso del processo, si e', poi, accertato che, effettivamente,
 per un periodo di circa quattro mesi tra l'agosto e il  novembre  del
 1991  la  Monte  Bianco  Spurghi  aveva svolto attivita' di trasporto
 materiali e movimento terra all'interno  del  cantiere  aperto  dalla
 Edilpro  per  l'esecuzione  dell'opera appaltata dall'A.N.A.S. Questi
 lavori, finalizzati alla costruzione  di  un  muro  di  contenimento,
 vennero  eseguiti  da  alcuni  dipendenti  della Monte Bianco Spurghi
 sotto la direzione  del  Cuneaz,  il  quale  ha  ammesso  di  essersi
 quotidianamente recato in loco per seguirne l'andamento.
    Pacifico  e',  infine,  che l'esecuzione di queste prestazioni non
 era stata autorizzata.
    Chiusa l'istruttoria  dibattimentale,  il  p.m.  ha  sollevato  la
 questione  di legittimita' costituzionale della norma incriminatrice,
 con riferimento alla posizione del Pareglio, perche' in contrasto con
 l'art.  3  della  Costituzione,  sottolineando   l'irrazionalita'   e
 l'irragionevolezza  del criterio previsto per la commisurazione della
 pena pecuniaria da infliggere all'appaltatore in caso di condanna.
                             D I R I T T O
    La questione di costituzionalita'  dell'art.  21  della  legge  13
 settembre  1982, n. 646, e' rilevante e non manifestamente infondata,
 nella parte in cui la stessa  norma  prevede  che  venga  punito  con
 l'ammenda  pari a un terzo del valore dell'opera ricevuta in appalto,
 chiunque,  avendo  in   appalto   opere   riguardanti   la   pubblica
 amministrazione, concede anche di fatto in subappalto o a cottimo, in
 tutto   o   in   parte,   le  opere  stesse,  senza  l'autorizzazione
 dell'autorita' competente, per contrasto con gli  artt.  25,  secondo
 comma, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
    Quanto  alla  rilevanza  ai fini della decisione, si evidenzia che
 gli elementi acquisiti nel corso  del  processo  portano  a  ritenere
 provata  la responsabilita' penale di entrambi gli imputati in ordine
 al reato loro ascritto e, conseguentemente, impongono  l'applicazione
 della    pena   pecunaria   nelle   misure   previste   dalla   norma
 incriminatrice.
    Quanto alla fondatezza, il pretore non  ignora  che  gia'  in  due
 occasioni  la  stessa norma e' stata sottoposta al vaglio della Corte
 costituzionale e che, in entrambi  i  casi,  la  questione  e'  stata
 dichiarata  infondata (sentenze nn. 281 del 23 luglio 1987 e 1023 del
 9 novembre 1988).
    Cio'  nondimeno,  ritiene  di  doverla  riproporre,  sia   perche'
 appaiono sussistere alcuni profili di legittimita' sui quali la Corte
 non  e'  stata  chiamata  a  pronunciarsi, sia perche' da allora sono
 significativamente mutati il  dato  normativo  e  -  seppure  in  via
 interpretativa - il quadro costituzionale di riferimento.
    Per  quanto  attiene  alla  prima  delle  due  decisioni,  si deve
 sottolineare che in tale occasione la  Corte  era  stata  chiamata  a
 valutare  il  contrasto  tra  il  testo originario dell'art. 21 della
 legge n. 646/1982 e il principio costituzionale di eguaglianza, nella
 parte in cui la norma incriminatrice assoggettava  a  indentica  pena
 pecunaria, commisurata al valore dell'opera commissionata dalla p.a.,
 sia l'appaltatore che il subappaltatore.
    In  particolare,  i  remittenti  (pret.  Foggia,  27 marzo 1984 in
 Gazzetta Ufficiale n. 335  del  5  dicembre  1984,  pret.  Maglie  23
 gennaio  1986  in  Gazzetta Ufficiale n. 37 del 30 luglio 1986, pret.
 Male' 16 aprile 1986 in Gazzetta Ufficiale n. 52 del 5 novembre 1986,
 pret. Cles 24 ottobre 1986 in Gazzetta Ufficiale n. 12 del  12  marzo
 1987)  avevano  ritenuto  di  dubbia  legittimita'  costituzionale il
 trattamento  sanzionatorio  previsto   per   quest'ultimo   soggetto,
 prospettando,  quindi, una questione diversa da quella che si intende
 sollevare in questa  sede  e,  comunque,  superata  dalla  evoluzione
 legislativa.  La norma e' stata, infatti, novellata dall'art. 8 della
 legge 19 marzo 1990, n. 55, che ha inciso proprio  sull'equiparazione
 sanzionatoria censurata all'epoca dai giudici di merito, prevedendo a
 carico del subappaltatore una pena pecuniaria proporzionale al valore
 delle opere subappaltate.
    Per  quanto  riguarda, poi, la seconda pronuncia, con questa venne
 dichiarata infondata la questione di legittimita' della norma de qua,
 sollevata (pret. Poggibonsi, 9 dicembre 1987 in Gazzetta Ufficiale n.
 11 del 16 marzo 1988) con riferimento all'art. 27, terzo comma, della
 Costituzione.
    In quel frangente, prima  ancora  di  confutare  il  merito  delle
 considerazioni   svolte   dal   pretore,  il  quale  aveva  lamentato
 l'illegittimita' dell'art. 21 della legge n. 646/1982 nella parte  in
 cui  non  consentiva  la  concessione  della sospensione condizionale
 della  pena  dei  casi  di  maggiore  gravita',  la  Corte  nego'  la
 riconducibilita'  della  questione al principio costituzionale che si
 assumeva violato. In linea con il proprio  orientamento  consolidato,
 ribadi',   infatti,   che   il  principio  di  finalismo  rieducativo
 riguardava l'esecuzione della pena e non, come nel caso  prospettato,
 la sua applicazione da parte del giudice del dibattimento.
    Il  superamento di questa posizione interpretativa, cristallizzato
 nella  nota  sentenza  n.  313/1990,  lascia  quindi  spazio  per  la
 riproposizione  della  questione  di  legittimita'  per contrasto con
 l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, seppure  con  motivazioni
 diverse   da  quelle  prospettate  in  quella  sede  dal  pretore  di
 Poggibonsi.
    1. - Cio' premesso, ritiene questo pretore  che  l'art.  21  della
 legge  n. 646/1982 contrasti con il principio di legalita' delle pene
 di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in
 cui  prevede  a   carico   dell'appaltatore   una   pena   pecuniaria
 proporzionale   non   ragguagliata   alla   gravita'  della  condotta
 incriminata.
    Sotto questo profilo, si deve, in primo luogo, osservare che, come
 fatto palese dal  tenore  letterale  della  norma,  il  comportamento
 dell'appaltatore  considerato  penalmente  rilevante  consiste  nella
 concessione in subappalto di opere affidate da un ente pubblico senza
 aver  ottenuto   preventivamente   il   rilascio   della   prescritta
 autorizzazione.
    In  tale  condotta, viene, infatti, individuato il pericolo che le
 risorse collettive, destinate alla realizzazione di opere  pubbliche,
 vadano ad arricchire la criminalita' organizzata per mezzo di imprese
 subappaltatrici non sottoposte ai controlli previsti dalla legge.
    Se  cio'  e'  vero,  e  non  sembra dubitabile, deve ritenersi che
 l'appaltatore commetta un fatto piu'  o  meno  grave  a  seconda  del
 maggiore    o    minore    valore   delle   opere   subappaltate   e,
 conseguentemente,  della  maggiore  o  minore  quantita'  di   denaro
 pubblico  che  viene  trasferito  senza  garanzia  di  controllo  sul
 destinatario.
    Una volta  accertata  la  sussistenza  del  reato,  la  norma  non
 consente,   pero',   l'applicazione   di   una   sanzione  pecuniaria
 proporzionata alla gravita' della condotta.
    Infatti, per un verso, il giudice si trova nell'impossibilita'  di
 graduare la sanzione secondo i consueti canoni discrezionali, essendo
 questa  determinata  mediante  un  criterio  proporzionale; per altro
 verso, la quantificazione della pena e' ancorata a un dato (il valore
 dell'opera   appaltata)   completamente   estraneo   alla    condotta
 incriminata  e, pertanto, assolutamente inutilizzabile come parametro
 oggettivo per la determinazione della sua gravita'.
    Piu'  volte,  in  passato,  si  e'  dubitato  della   legittimita'
 costituzionale  delle  pene  pecuniarie  proporzionali,  legittimita'
 costantemente affermata dalla Corte che ha rigettato le questioni  di
 volta in volta sollevate.
    In  questa  sede,  appare, pertinente un richiamo al fondamento di
 quelle decisioni.
    Cosi',  nella  sentenza  12   marzo   1962,   n.   15   (questione
 d'incostituzionalita'   dell'art.   14,   primo  comma,  del  decreto
 legislativo 5 agosto 1947, nella parte in cui commina l'ammenda  pari
 al  quintuplo  del valore degli animali uccisi o feriti, calcolati in
 base al prezzo della selvaggina viva e comunque non inferiore a  lire
 diecimila,   in   relazione   all'art.   25,   secondo  comma,  della
 Costituzione), si afferma che  "non  deve  ritenersi  illegittima  la
 norma  denunziata  che  prevede  una  pena  pecuniaria commisurata al
 valore  del  bene  che  e'  oggetto  della  tutela  penale  e  quindi
 all'ammontare del danno arrecato".
    Nella  decisione dell'8 luglio 1971, n. 167 (Gazzetta Ufficiale 14
 luglio 1971, n. 167, questione di costituzionalita' dell'art. 1 della
 legge 3 gennaio 1951, n. 27, il quale commina una pena  proporzionale
 alla  quantita'  di  tabacco  oggetto  del contrabbando senza fissare
 alcun limite massimo e dell'art. 27  del  c.p.  nella  parte  in  cui
 stabilisce  che  le  pene  pecuniarie  proporzionali non hanno limite
 massimo, per contrasto con l'art. 27 della Costituzione) si ribadisce
 che "questa Corte ha riconosciuto che la pena pecuniaria  commisurata
 al  valore  del  bene oggetto della tutela penale vuole rapportare la
 sanzione alla gravita' del reato". Piu' recentemente, la Corte si  e'
 piu'  pronunciata  sulla  pretesa  illegittimita' dell'art. 13, primo
 comma, della  legge  2  luglio  1957,  n.  474,  norma  che  sanzione
 l'esercente  di  un  deposito  di oli minerali non denunciati, con la
 multa dal doppio al decuplo dell'imposta relativa ai prodotti trovati
 nel deposito stesso, concludendo sempre per la manifesta infondatezza
 della questione. In particolare, con riferimento al  caso  in  esame,
 appaiono  significative  le affermazioni contenute nella ordinanza n.
 200 del 27 aprile 1993 (Gazzetta Ufficiale n. 19 del 5 maggio  1993),
 in  cui  si  legge: "per quanto concerne il parametro della legalita'
 della  pena,  detto  principio  risulta  rispettato   attraverso   la
 predeterminazione normativa del rapporto tra entita' della violazione
 (e quindi del danno arrecato) e pena pecuniaria".
    In altre parole, la previsione di pene pecuniari proporzionali non
 contrasta  con il dettato costituzionale solo se venga assicurata una
 stretta  correlazione  tra  gravita'  della  condotta,   quantificata
 attraverso un parametro oggettivo (es. entita' del tributo evaso), ed
 entita' della pena, determinata attraverso un coefficiente aritmetico
 moltiplicatore o divisore del danno accertato.
    Diversamente, se il primo dato di riferimento viene individuato al
 di fuori della condotta o dell'oggetto, il criterio proporzionale non
 garantisce  l'aderenza  della  pena al fatto e rende ingiustificata e
 irrazionale   l'esclusione   dell'intervento   del   giudice    nella
 quantificazione della sanzione.
    Una  significativa  riprova  di  cio'  si  ottiene,  ad avviso del
 pretore, analizzando il regime sanzionatorio di cui all'art. 21 della
 legge n. 646/1982.
    A seguito della novella del 1990, nessun  dubbio  puo'  sussistere
 sulla  legittimita' costituzionale della pena pecuniaria prevista per
 il subappaltatore, pena commisurata ad un terzo del valore dell'opera
 ricevuta in subappalto: dal momento  che,  per  questo  soggetto,  il
 reato  e'  piu'  o  meno  grave  a  seconda  del  valore  dei  lavori
 illegittimamente   ricevuti   in   subappalto,   l'applicazione   del
 coefficiente  di un terzo consente sempre di proporzionare la pena al
 fatto e di sanzionare, cosi', diversamente,  condotte  di  differente
 gravita'  (chi riceve in subappalto lavori per L. 60.000.000 paghera'
 un'ammenda di  L.  20.000.000,  chi  ne  riceve  per  L.  90.000.000,
 paghera' L. 30.000.000, e cosi' via).
    Non  altrettanto si puo' dire con riguardo all'appaltatore, per il
 quale la pena pecuniaria non muta in  corrispondenza  della  gravita'
 della  condotta,  ma  in  relazione  al  valore  dell'opera  ricevuta
 legittimamente in appalto.
    Nel caso di specie, come detto in narrativa, si e'  accertato  che
 l'imputato   Pareglio   ha   ricevuto   in   appalto  lavori  per  L.
 17.809.542.400 e ne  ha  subappaltato  senza  autorizzazione  per  L.
 65.000.000.  L'applicazione  della  norma incriminatrice, a fronte di
 questa  condotta,  comporterebbe  la  sua condanna al pagamento di L.
 5.936.514.135 di ammenda. Se, per ipotesi, lo stesso imputato  avesse
 subappaltato  l'intera  opera  commissionata  dall'A.N.A.S.,  per  il
 valore sopra indicato di oltre diciassette miliardi di lire, la  pena
 dell'ammenda irrogabile sarebbe stata esattamente la stessa.
    In  definitiva,  ad  avviso  di questo giudice, risulta violato il
 principio di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione,  per
 essere  sanzionato  il  fatto  con  pena pecuniaria proporzionale non
 ragguagliata al concreto disvalore della condotta posta in essere dal
 soggetto.
    2. - Ne' si puo' trascurare l'evidente disparita'  di  trattamento
 riconducibile  all'applicazione  del  criterio  sopra  indicato,  con
 conseguente  violazione  dell'art.  3  della  Carta   costituzionale,
 assoggettandosi a indentica pena condotte di diversa gravita'.
    Per  quanto  riguarda questo aspetto, si deve sottolineare che, in
 considerazione del rilevante valore economico degli appalti di  opere
 pubbliche,  l'afflittivita' della sanzione e' prevalentemente rimessa
 proprio alla pena pecuniaria, che nella maggioranza dei  casi,  anche
 applicando le possibili attenuanti e diminuenti (artt. 62- bis e 133-
 bis  del c.p.), preclude la concessione dei benefici di legge, pur se
 congiunta a pena detentiva contenuta nel minimo dei minimi. Di  cio',
 e' sembrato consapevole lo stesso legislatore che, nel momento in cui
 si  e'  deciso  a  intervenire  per  rendere piu' mite il trattamento
 sanzionatorio previsto  per  il  subappaltatore,  ha  inciso  proprio
 sull'entita'  della  pena  pecuniaria,  lasciando  immutata  la  pena
 detentiva. L'ingiustificata equiparazione  ai  fini  sanzionatori  di
 condotte  di  diversa  gravita',  appare  quindi  in contrasto con il
 principio di eguaglianza, anche se e' comunque rimessa al giudice  la
 possibilita' di graduare diversamente la pena detentiva.
    In  ogni  caso, appare irragionevole e irrazionale la sproporzione
 tra la  sanzione  pecuniaria  prevista  per  l'appaltatore  e  quella
 irrogabile  al  subappaltatore.  Se,  infatti,  di fronte a posizioni
 differenti,   spetta   alla    discrezionalita'    del    legislatore
 l'individuazione     del    diverso    regime    applicabile,    tale
 discrezionalita'  deve  essere  esercitata  secondo  un  criterio  di
 ragionevolezza, che appare violato dalla norma in esame.
    Come  gia' detto, questa porterebbe a condannare uno degli odierni
 imputati alla pena di L. 5.936.514.135 e l'altro, il  subappaltatore,
 cioe'  il  soggetto  che  in altra occasione (Corte costituzionale n.
 281/1987) venne ritenuto il soggetto piu' pericoloso,  il  principale
 destinatario  della  normativa  antimafia,  a  sole  L. 22.000.000 di
 ammenda.
    3. - Infine, la questione di legittimita' va sollevata  anche  per
 contrasto  dell'art.  21 della legge n. 646/1982 con il principio del
 finalismo rieducativo della pena ex  artt.  27,  terzo  comma,  della
 Costituzione,   come  interpretato  dalla  Corte  nella  sentenza  n.
 313/1990, e 132, 133 del c.p., costituzionalizzati come  da  sentenza
 n. 50/1980.
    Ritiene,  infatti,  il  pretore  che  la norma, non consentendo un
 intervento  del  giudice  nella  commisurazione  della  pena  e   non
 prevedendo  un meccanismo che permetta di adattare automaticamente la
 sanzione prevista per l'appaltatore al fatto, comporti l'applicazione
 di pene pecuniarie sproporzionate rispetto all'offesa e, quindi  "non
 calibrate alle necessita' rieducative del soggetto".
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 21  della  legge  13  settembre
 1982,  n.  646, come modificato dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726 e
 dalla legge 19 marzo 1990, n. 55, art. 8, nella parte in cui  punisce
 chiunque   avendo   in   appalto   opere   riguardanti   la  pubblica
 amministrazione, concede anche di fatto in subappalto o a cottimo, in
 tutto o in parte, le opere stesse, con l'ammenda pari a un terzo  del
 valore  complessivo dell'opera ricevuta in appalto, per contrasto con
 gli  artt.  3,  25,  secondo  comma,  e  27,   terzo   comma,   della
 Costituzione;
    Sospende  il  presente  giudizio  e  manda alla cancelleria per la
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, la notifica  della
 presente ordinanza, letta in pubblico dibattimento, al Presidente del
 Consiglio  dei  Ministri  e la comunicazione al Presidente del Senato
 della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati.
      Aosta, addi' 24 gennaio 1994
                          Il pretore: CLIVIO

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