N. 292 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 gennaio 1997
N. 292 Ordinanza emessa il 16 gennaio 1997 dalla Corte d'appello di Reggio Calabria nel procedimento civile vertente tra I.A.C.P. della provincia di Reggio Calabria e Papalia Michelangelo ed altro Espropriazione per pubblica utilita' - Criterio per la determinazione delle indennita' espropriative per la realizzazione di opere da parte o per conto dello Stato o di altri enti pubblici (media tra il valore dei terreni ed il reddito dominicale rivalutato, con la riduzione dell'importo cosi' determinato del quaranta per cento) - Estensione di detto criterio di valutazione anche alla misura dei risarcimenti' dovuti per illegittime occupazioni acquisitive, con l'aumento dell'importo stesso dei 10 per cento in considerazione della incostituzionalita' del precedente criterio dichiarata con sentenza n. 369/1996 - Ritenuta persistente inadeguatezza della nuova misura del risarcimento - Incidenza sul principio di uguaglianza e sul diritto di proprieta'. (Legge 8 agosto 1992, n. 359, art. 5-bis, comma 7-bis, aggiunto dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65). (Cost., artt. 42, comma 2, 3, comma 1, e 97, comma 1).(GU n.23 del 4-6-1997 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 94 dell'anno 1990 del ruolo generale degli affari contenziosi vertente tra Istituto autonomo per le case popolari della provincia di Reggio Calabria, in persona del presidente legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato presso il servizio legale dell'ente in Reggio Calabria, via Manfroce n. 17, rappresentato e difeso dall'avv. Eugenia Rita Minico' e dal dott. proc. Giuseppe De Leo, in virtu' di procura a margine dell'atto di appello, appellante, e Papalia Michelangelo, elettivamente domiciliato a Reggio Calabria, via Aschenez prol. n. 36, presso lo studio dell'avv. Margherita Lamonica, che lo rappresenta e difende per procura a margine della memoria di costituzione, appellato, nonche' comune di Scilla, in persona del legale rappresentante pro-tempore, appellato contumace. Rilevato in fatto Che, con atto notificato il 13 aprile 1990, nei confronti di Papalia Michelangelo e del comune di Scilla, l'Istituto autonomo per le case popolari della provincia di Reggio Calabria, in persona del legale rappresentante pro-tempore, ha proposto appello avverso la sentenza del tribunale di Reggio Calabria n. 636/1989 del 10 ottobre-19 dicembre 1989, con la quale lo stesso Istituto e' stato condannato al pagamento in favore del Papalia della somma di L. 176.236.800, oltre interessi di legge, a titolo di risarcimento danni per l'occupazione c.d. appropriativa di un immobile di proprieta' dello stesso convenuto, ritenuta sulla scorta dei seguenti presupposti fattuali: la fattispecie si riconnetteva ad una procedura di esproprio al cui espletamento l'Istituto era stato delegato dal comune di Scilla, ai sensi dell'art. 60 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, per la costruzione di 42 alloggi popolari; l'approvazione del relativo progetto aveva comportato la dichiarazione di pubblica utilita' dell'opera nonche' l'indifferibilita' ed urgenza dei relativi lavori; con decreto del presidente della g.r. della regione Calabria del 7 agosto 1976 era stata autorizzata l'occupazione d'urgenza dell'immobile di proprieta' Papalia, per la durata di anni cinque; i lavori erano stati ultimati in data 24 marzo 1981 e, dunque, in costanza di occupazione legittima; alla scadenza della stessa occupazione legittima non era intervenuto il decreto di espropriazione sicche', secondo la ben nota interpretazione giurisprudenziale di legittimita', era maturata l'occupazione appropriativa; Che, tra i motivi dedotti a sostegno del gravame, l'I.A.C.P (oggi A.T.E.R.P.) ha specificatamente censurato la quantificazione del danno effettuata dai primi giudici; Che, nelle more del giudizio, e' intervenuta la nuova disciplina di liquidazione del danno da occupazione illegittima, contenuta nel comma 7-bis dell'art. 5-bis del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333 (convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359), aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a norma del quale "in caso di occupazione illegittime di suoli per causa di pubblica utilita', intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennita' di cui al primo comma, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento e' altresi' aumentato del 10 per cento ..."; Che, per espressa previsione normativa, tale disposizione si applica anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato. O s s e r v a La norma in questione, significativamente inserita nella legge di accompagnamento alla finanziaria 1997, contenente "Misure di razionalizzazione della finanza pubblica", segue, dopo appena due mesi, la pronuncia della Corte costituzionale del 2 novembre 1996, n. 369, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del comma 6 del citato art. 5-bis, come sostituito dall'art. 1, comma 65, legge 28 dicembre 1995, n. 549, nella parte in cui applicava al "risarcimento del danno" i criteri di determinazione stabiliti per "il prezzo, l'entita' dell'indennizzo" cosi' indebitamente uniformando gli effetti patrimoniali di due fattispecie ontologicamente diverse: l'espropriazione in iure e l'occupazione c.d. appropriativa. A giudizio della Corte neppure tale normativa va ora esente da ragionevoli dubbi di illegittimita' costituzionale che reclamano un nuovo scrutinio di costituzionalita'. Positiva, invero, e' la pregiudiziale verifica degli imprescindibili presupposti che inducono al rilievo officioso della relativa questione. Indubbia e' la sua rilevanza, in quanto la norma deve trovare applicazione nel caso di specie, che concerne una tipica fattispecie di occupazione appropriativa, caratterizzata dai peculiari indici di identificazione: l'intervenuta dichiarazione di pubblica utilita', implicitamente correlata, per espresso dettato normativo, all'approvazione del progetto delle opere da eseguire; la mancata emanazione del provvedimento ablatorio nonostante la scadenza dell'occupazione legittima; l'avvenuta realizzazione dell'opera pubblica, con conseguente irreversibile trasformazione dell'immobile privato in essa definitivamente incorporato. Del pari indubbia, poi, e' la non manifesta infondatezza della stessa questione, per le molteplici ragioni che si va di seguito ad esporre, ciascuna delle quali e' da intendere prospettata in scala di logica subordinazione. 1) In primo luogo, la norma ripropone, surrettiziamente, lo stesso meccanismo di determinazione del risarcimento del danno, introdotto dalla precedente disciplina gia' dichiarata costituzionalmente illegittima e si espone, pertanto, alle stesse ragioni di perplessita' che ne avevano determinato la censura. Ed invero, rispetto all'iniziale parificazione del trattamento normativo degli esiti patrimoniali di due fattispecie incontrovertibilmente diverse (quella relativa all'espropriazione secundum ius e quella dell'occupazione appropriativa), la nuova disciplina introduce una differenziazione che, prima facie apprezzabile si rivela, ad un attento esame, affatto trascurabile e, in quanto tale, sostanzialmente elusiva dei principi dettati dalla citata pronuncia n. 369/1996. Basti, all'uopo, considerare che l'"abbuono" della falcidia del 40 per cento (prevista per l'indennizzo espropriativo nell'ipotesi di cessione volontaria dell'immobile espropriando) sarebbe stata gia' ineludibilmente operante in caso di fattispecie risarcitoria, in quanto la detta cessione e' istituto logicamente e concettualmente incompatibile con la fattispecie dell'occupazione acquisitiva. Questa, infatti, e' caratterizzata all'acquisto della proprieta' del bene illegittimamente occupato per effetto della realizzazione dell'opera pubblica, sicche' l'avvenuto perfezionamento del momento acquisitivo in capo all'ente occupante preclude qualsiasi negoziale trasferimento dello stesso bene (di fatto gia' acquisito alla mano pubblica), a parte l'ovvio rilievo che l'istituto in questione ha una sua logica ben definita ed assolve ad una precipua funzione solo nel contesto di una rituale procedura di esproprio nella quale venga ad inserirsi proprio al fine di anticiparne l'epilogo, sostituendosi al decreto espropriativo. La possibilita' di accettare l'offerta del valore mediato del suolo, riconosciuta di fatto dal giudice delle leggi nella citata pronuncia n. 369/1996 (cfr. par. 9.2.2. sub a) anche in caso di occupazione privativa, si riferisce, infatti, soltanto al "regime transitorio", afferente alle occupazioni illegittime anteriori all'entrata in vigore della legge n. 359/1992 e non gia' a quelle che si siano perfezionate in epoca successiva, e cio' in evidente parallelismo con gli effetti dell'intervento additivo operato con sentenza 10 giugno 1993, n. 283 in tema di indennita' di esproprio. Ed allora, considerato che il meccanismo della semisomma tra il valore venale ed il reddito dominicale rivalutato e' tale da dimezzare il primo addendo (stante la ben nota esiguita' del reddito dominicale) e che l'opzione del privato per la cessione volontaria del bene (peraltro pressantemente indotta con la comminatoria all'anzidetta falcidia) si configura - almeno in linea tendenziale ed ottativa, secondo gli auspici del legislatore - come ipotesi pressoche' fisiologica, la differenza rispetto alla misura "ordinaria" dell'indennizzo espropriativo si riduce all'irrisoria misura del 5 per cento. Infatti, l'aumento del 10 per cento deve essere calcolato sul risultato dell'anzidetta semisomma, e dunque sull'importo risarcitorio corrispondente approssimativamente al 50 per cento del valore venale. L'entita' del risultato cosi' ottenuto non puo' di certo rappresentare quella "ragionevole riduzione" della misura della riparazione dovuta dalla pubblica amministrazione al proprietario dell'immobile, che, incidenter tantum, la ripetuta pronuncia n. 369/1996 del giudice delle leggi auspicava in funzione di un equilibrato componimento degli interessi in gioco nella fattispecie in esame (da un lato, l'interesse dell'amministrazione di conservare l'opera di pubblica utilita' con contenimento dell'incremento della spesa correlativa; dall'altro, l'interesse del privato ad ottenere la riparazione per l'illecito subito). Donde, la "reviviscenza" dei vizi di incostituzionalita' (violazione del precetto di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, stante la radicale diversita' strutturale e funzionale delle ipotesi di risarcimento del danno e di indennizzo espropriativo; vulnus dell'art. 42, secondo comma, Cost.; e le ulteriori negative ricadute sul terreno presidiato da altri principi costituzionali, come quello "del buon andamento e della legalita' dell'attivita' amministrativa") gia' positivamente apprezzati dalla Corte costituzionale nella pronuncia piu' volte menzionata. Se e' vero, secondo l'insegnamento di quello stesso giudice (enunciato anche in precedenti occasioni: cfr., tra le altre, Corte costituzionali 6 maggio 1985, n. 132), che una limitazione ex lege della responsabilita' del danneggiante non e' di per se' costituzionalmente illegittima, e' pur vero che la stessa puo' diventarlo in tutti i casi - come quello in esame - in cui la soluzione normativa adottata non sia atta ad assicurare l'equilibrato componimento degli interessi in gioco e sia, pertanto, espressione di immanente irrazionalita', che trasforma la discrezionalita' legislativa in mero arbitrio. 2) Un altro vistoso profilo di irragionevolezza intrinseca della norma in questione, con i conseguenti riflessi sul piano della violazione dell'art. 3 Cost., e' rappresentato dalla singolare assunzione di un limite temporale, al 30 settembre 1996, all'operativita' della disciplina in parola - estesa per l'appunto alle sole occupazioni intervenute anteriormente alla data anzidetta - che aggiunge un ulteriore profilo di diversita' di trattamento "sul piano diacronico" a quello inerente alla ribadita applicabilita' della nuova disciplina ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato. Si tratta, infatti, di uno specifico profilo sostanziale che certamente non e' imputabile, come effetto ineludibile, alla mera successione delle leggi nel tempo e che appare, invece, apprezzabile in questa sede nella misura in cui prelude ad una clamorosa disparita' di trattamento rispetto alle occupazioni illegittime successive a quella data, che, in mancanca di una nuova disciplina, andrebbero soggette all'integrale ristoro. Il rilievo diventa ancor piu' significativo qualora la predeterminazione di un criterio temporale possa davvero ritenersi sintomatica dell'intendimento del legislatore di disciplinare in termini diversi gli effetti economici della fattispecie appropriativa a seconda delle disponibilita' di bilancio alla fine di ogni esercizio finanziario, come e' fatto palese, d'altronde, dalla rinnovata collocazione topografica della norma nel contesto della legge contenente "misure di razionalizzazione della finanza pubblica. Se cosi' e' - e non pare possa dubitarsene - si sarebbe in presenza dell'espressa consacrazione formale del principio della periodica fluttuazione congiunturale del valore economico della proprieta', che se puo' avere una sua logica anche costituzionale - specie nella proiezione prospettica di determinati periodi storici - in relazione all'indennita' di esproprio (la cui funzione sarebbe quella di esprimere "il massimo di contributo e di riparazione che nell'ambito degli scopi, di generale interesse, la pubblica amministrazione puo' garantire all'interesse privato" in una particolare situazione economico-finanziaria del paese), appare assolutamente irrazionale ed in deciso contrasto con la specifica valenza costituzionale del diritto di proprieta', nel contesto di una prospettiva meramente risarcitoria. Tanto piu' ove si consideri che l'indennita' espropriativa e' pur sempre la risultante di una sequela procedimentale assistita da specifiche garanzie per il privato, affatto inesistenti, invece, nella dinamica di acquisto alla quale fa riscontro la riparazione risarcitoria. 3) Altri profili di irragionevolezza, stavolta ab estrinseco, e cioe' nel rapporto comparativo della disposizione sospettata di illegittimita' costituzionale con altre normative, appaiono apprezzabili in funzione degli inevitabili riflessi negativi direttamente indotti dalla stessa norma sul piano del precetto costituzionale di eguaglianza. 3.1) In primo luogo, la disparita' di trattamento cui essa da' luogo rispetto alla disciplina delle occupazioni appropriative destinate al soddisfacimento di esigenze abitative, di cui all'art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458, ampliato nella sua sfera oggettiva dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale del 27 dicembre 1991, n. 486. Tale norma aveva, infatti, introdotto una parificazione tra le ipotesi di opere di edilizia residenziale pubblica, convenzionata o agevolata, e la fattispecie di occupazione appropriativa, recependone pienamente i principi informatori. Prova ne sia che il menzionato intervento del giudice delle leggi ne aveva esteso l'ambito di applicazione - in virtu' dell'eadem ratio della carenza di potere - anche al caso (parimenti peculiare del fenomeno appropriativo) dell'occupazione ab origine illegittima, per mancanza di provvedimento ablatorio, giustamente ritenuto equivalente all'ipotesi di annullamento del decreto espropriativo emesso. L'identita' sostanziale tra le due fattispecie ora in esame, sul piano della dinamica dell'acquisto, al punto tale da consacrarne la piena equivalenza legislativa e da giustificare l'intervento correttivo della Corte costituzionale (anche sul rilievo del carattere non derogatorio o eccezionale della norma e, dunque, della sua inidoneita' a fungere da tertium conparationis), rende privo di apprezzabile rilievo qualsivoglia riferimento discretivo che sottolinei la qualita' privata del soggetto espropriante ovvero la natura non pubblica dell'opera realizzata. Si tratta, infatti, di materia pur sempre permeata di pregnante interesse pubblico, ritenuto dalla stessa Corte costituzionale di tale rilevanza da giustificare l'assimilabilita' ad ipotesi normative di privazione del diritto alla retrocessione di beni espropriati; da giustificare la compatibilita' della disposizione esaminata con la disciplina dell'art. 42, commi secondo e terzo Costituzione, in quanto esplicazione concreta della funzione sociale della proprieta'; e da giustificare, infine, la valutazione legislativa degli interessi in gioco - in quel caso ritenuta congrua - in termini tali da far corrispondere all'impossibilita' della "retrocessione" del bene occupato l'integrale risarcimento del danno subito (ivi compreso quanto dovuto a titolo di' svalutazione monetaria e "le ulteriori somme di cui all'art. 1224, comma secondo c.c., a decorrere dal giorno dell'occupazione illegittima"; e dunque la tutela risarcitoria (art. 2043 c.c.), integralmente garantita. Non e' dato allora comprendere perche' mai il privato che subisca l'occupazione del proprio suolo in esecuzione di un programma residenziale edilizio (di precipua natura pubblica, tanto da beneficiare delle convenzioni o agevolazioni di legge) possa ambire all'integrale ristoro del danno patito, mentre il privato che subisce l'identica occupazione privativa, ma occasionata da altre ragioni di pubblico interesse, debba andare soggetto alla riduzione in parola (a parte, poi, i profili di disparita' - che non interessano in questa sede se non per le ulteriori discrasie prodotte nel generale tessuto normativo dalla norma sospettata di incostituzionalita' - nell'ambito dello stesso comparto residenziale pubblico, stante la macroscopica diversita' di disciplina tra l'ipotesi di edilizia sovvenzionata, pur essa soggetta al trattamento riduttivo in parola, e le ipotesi di edilizia convenzionata o agevolata, ammesse all'integrale ristoro). 3.2) Da ultimo, la disparita' di trattamento - pur essa diretta conseguenza della norma denunciata - rispetto all'attivita' di mero fatto della pubblica amministrazione, e cioe' a quella che si concretizza nell'occupazione ab origine illegittima, non assistita neppure dalla dichiarazione di pubblica utilita', o anche nell'occupazione inizialmente presidiata da dichiarazione di p.u. che sia poi venuta meno perche' illegittima. Ed invero, tale fattispecie, che, secondo l'interpretazione prevalente (recepita dallo stesso giudice delle leggi) sarebbe estranea all'occupazione appropriativa strictu sensu, ovvero, secondo altra interpretazione, sarebbe stata riconducibile alla generica ipotesi del "risarcimento del danno" contenuta nella norma di cui al sesto comma dell'art. 5-bis, poi dichiarato costituzionalmente illegittimo, e' ora invece incontrovertibilmente estranea alla detta fattispecie acquisitiva alla stregua della nuova previsione normativa, che si riferisce esplicitamente alle sole occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilita'. Orbene, nell'ipotesi di occupazione sine titulo, benche' caratterizzata dall'esecuzione di opera pubblica, il privato, ove non intenda avvalersi dei rimedi reipersecutori che in astratto potrebbero competergli, e' abilitato all'azione risarcitoria (con cio' volontariamente dismettendo, secondo una certa interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale, la proprieta' dell'immobile) e puo' dunque legittimamente aspirare all'integrale risarcimento del danno. Oltretutto, nel caso di specie, puo' anche contare sull'ulteriore, non trascurabile, beneficio di un maggior termine prescrizionale, in quanto la sua azione e' pacificamente sottratta alla prescrizione quinquennale, in ragione del carattere permanente del danno subito. A spiegare la diversita' di disciplina non sembra sufficiente il riferimento all'elemento discretivo - assunto come indice "qualificante" - della dichiarazione di p.u. che, pur in presenza di identiche condizioni oggettive (spossessamento illecito ed esecuzione di opera funzionalmente destinata al soddisfacimento di interessi pubblici), affiderebbe le ragioni di una siffatta diversita' ad un momento meramente formale, peraltro sovente inesistente a fronte della cospicua proliferazione delle ipotesi di dichiarazione implicita, relativamente alle quali le garanzie del privato sono in realta' decisamente rarefatte o, di fatto, anche inesistenti, stante la mancanza del subprocedimento regolato dagli art. 3 ss. legge 25 giugno 1865 n. 2359 e dagli artt. 10 e 11 legge 22 ottobre 1971, n. 865 (le cui formalita' garantistiche, secondo la giurisprudenza amministrativa, possono anche svolgersi in un momento successivo all'approvazione dell'opera pubblica). Incomprensibile, infine, sarebbe il diversificato trattamento potiore che andrebbe riservato (a quanto pare, secondo l'avviso dello stesso giudice delle leggi che, nella menzionata pronuncia n. 369/1996, ha ritenuto "non implausibile" la conforme interpretazione di un'autorita' remittente) all'ipotesi di occupazione appropriativa assistita da dichiarazione di p.u. poi dichiarata illegittima in sede amministrativa ovvero disapplicata in sede civile, siccome atto emesso in carenza di potere (si pensi al tipico caso di dichirazione di p.u. priva dell'indicazione dei termini di durata). Anche in tali ipotesi, infatti, al privato competerebbe pur sempre l'integrale ristoro del danno subito. Le considerazioni che precedono inducono il Collegio a ritenere che il rilievo di illegittimita' costituzionale della norma di che trattasi non possa considerarsi ictu oculi privo di fondatezza. Per l'effetto, la Corte solleva d'ufficio la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, della llegge 8 agosto 1992, n. 359, aggiunto dall'art. 3 sessantacinquesimo comma, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, con specifico riferimento agli artt. 42, secondo comma, 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, provvedendo come da dispositivo, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
P. Q.M Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il procedimento in corso; Ordina, altresi', che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri nonche' comunicata anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso nella camera di consiglio del 16 gennaio 1997. Il presidente: Adorno Il consigliere estensore: Bruno 97C0521