N. 292 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 gennaio 1997

                                N. 292
  Ordinanza emessa il 16 gennaio 1997 dalla Corte d'appello di  Reggio
 Calabria   nel   procedimento  civile  vertente  tra  I.A.C.P.  della
 provincia di Reggio Calabria e Papalia Michelangelo ed altro
 Espropriazione per pubblica utilita' - Criterio per la determinazione
    delle indennita' espropriative per la realizzazione  di  opere  da
    parte  o per conto dello Stato o di altri enti pubblici (media tra
    il valore dei terreni ed il reddito dominicale rivalutato, con  la
    riduzione dell'importo cosi' determinato del quaranta per cento) -
    Estensione  di detto criterio di valutazione anche alla misura dei
    risarcimenti' dovuti per illegittime occupazioni acquisitive,  con
    l'aumento  dell'importo  stesso dei 10 per cento in considerazione
    della incostituzionalita' del precedente criterio  dichiarata  con
    sentenza  n.  369/1996  - Ritenuta persistente inadeguatezza della
    nuova  misura  del  risarcimento  -  Incidenza  sul  principio  di
    uguaglianza e sul diritto di proprieta'.
 (Legge 8 agosto 1992, n. 359, art. 5-bis, comma 7-bis, aggiunto dalla
    legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65).
 (Cost., artt. 42, comma 2, 3, comma 1, e 97, comma 1).
(GU n.23 del 4-6-1997 )
                          LA CORTE DI APPELLO
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al
 n.  94  dell'anno  1990  del  ruolo generale degli affari contenziosi
 vertente tra Istituto autonomo per le case popolari  della  provincia
 di  Reggio  Calabria, in persona del presidente legale rappresentante
 pro-tempore, elettivamente  domiciliato  presso  il  servizio  legale
 dell'ente  in  Reggio  Calabria,  via Manfroce n. 17, rappresentato e
 difeso dall'avv. Eugenia Rita Minico' e dal dott. proc.  Giuseppe  De
 Leo, in virtu' di procura a margine dell'atto di appello, appellante,
 e  Papalia Michelangelo, elettivamente domiciliato a Reggio Calabria,
 via Aschenez prol. n.  36,  presso  lo  studio  dell'avv.  Margherita
 Lamonica,  che  lo  rappresenta e difende per procura a margine della
 memoria di costituzione, appellato,  nonche'  comune  di  Scilla,  in
 persona del legale rappresentante pro-tempore, appellato contumace.
                           Rilevato in fatto
     Che,  con  atto  notificato  il  13 aprile 1990, nei confronti di
 Papalia Michelangelo e del comune di Scilla, l'Istituto autonomo  per
 le  case  popolari della provincia di Reggio Calabria, in persona del
 legale rappresentante pro-tempore, ha  proposto  appello  avverso  la
 sentenza  del  tribunale  di  Reggio  Calabria  n.  636/1989  del  10
 ottobre-19 dicembre 1989, con la quale lo stesso  Istituto  e'  stato
 condannato  al  pagamento  in  favore  del  Papalia della somma di L.
 176.236.800, oltre interessi di legge, a titolo di risarcimento danni
 per l'occupazione c.d. appropriativa di  un  immobile  di  proprieta'
 dello   stesso   convenuto,   ritenuta   sulla  scorta  dei  seguenti
 presupposti fattuali:
      la fattispecie si riconnetteva ad una procedura di esproprio  al
 cui  espletamento l'Istituto era stato delegato dal comune di Scilla,
 ai sensi dell'art. 60 della legge 22 ottobre 1971,  n.  865,  per  la
 costruzione di 42 alloggi popolari;
      l'approvazione   del   relativo  progetto  aveva  comportato  la
 dichiarazione    di    pubblica    utilita'    dell'opera     nonche'
 l'indifferibilita' ed urgenza dei relativi lavori;
       con  decreto  del  presidente della g.r. della regione Calabria
 del 7 agosto  1976  era  stata  autorizzata  l'occupazione  d'urgenza
 dell'immobile di proprieta' Papalia, per la durata di anni cinque;
      i  lavori  erano stati ultimati in data 24 marzo 1981 e, dunque,
 in costanza di occupazione legittima;
      alla  scadenza  della  stessa  occupazione  legittima  non   era
 intervenuto il decreto di espropriazione sicche', secondo la ben nota
 interpretazione   giurisprudenziale  di  legittimita',  era  maturata
 l'occupazione appropriativa;
     Che, tra i motivi dedotti a sostegno del gravame, l'I.A.C.P (oggi
 A.T.E.R.P.) ha  specificatamente  censurato  la  quantificazione  del
 danno effettuata dai primi giudici;
     Che,  nelle more del giudizio, e' intervenuta la nuova disciplina
 di liquidazione del danno da occupazione illegittima,  contenuta  nel
 comma  7-bis  dell'art.  5-bis  del  d.-l.  11  luglio  1992,  n. 333
 (convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359),  aggiunto  dall'art.  3,
 comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a norma del quale "in
 caso  di  occupazione  illegittime  di  suoli  per  causa di pubblica
 utilita',  intervenute  anteriormente  al  30  settembre   1996,   si
 applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione
 dell'indennita' di cui al primo comma, con esclusione della riduzione
 del  40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento e' altresi'
 aumentato del 10 per cento ...";
     Che, per espressa  previsione  normativa,  tale  disposizione  si
 applica  anche  ai  procedimenti  in  corso non definiti con sentenza
 passata in giudicato.
                             O s s e r v a
   La norma in questione, significativamente inserita nella  legge  di
 accompagnamento   alla   finanziaria   1997,  contenente  "Misure  di
 razionalizzazione della finanza pubblica",  segue,  dopo  appena  due
 mesi, la pronuncia della Corte costituzionale del 2 novembre 1996, n.
 369,  che  ha  dichiarato l'illegittimita' costituzionale del comma 6
 del citato art. 5-bis, come sostituito dall'art. 1, comma  65,  legge
 28  dicembre  1995,  n.    549,  nella  parte  in  cui  applicava  al
 "risarcimento del danno" i criteri di  determinazione  stabiliti  per
 "il    prezzo,   l'entita'   dell'indennizzo"   cosi'   indebitamente
 uniformando   gli   effetti   patrimoniali   di    due    fattispecie
 ontologicamente  diverse:  l'espropriazione  in  iure e l'occupazione
 c.d. appropriativa.
   A giudizio della Corte neppure tale  normativa  va  ora  esente  da
 ragionevoli  dubbi  di illegittimita' costituzionale che reclamano un
 nuovo scrutinio di costituzionalita'.
   Positiva,   invero,   e'   la    pregiudiziale    verifica    degli
 imprescindibili  presupposti  che inducono al rilievo officioso della
 relativa questione.
   Indubbia e' la sua rilevanza,  in  quanto  la  norma  deve  trovare
 applicazione  nel caso di specie, che concerne una tipica fattispecie
 di occupazione appropriativa, caratterizzata dai peculiari indici  di
 identificazione:    l'intervenuta dichiarazione di pubblica utilita',
 implicitamente   correlata,   per   espresso    dettato    normativo,
 all'approvazione  del  progetto  delle  opere da eseguire; la mancata
 emanazione  del  provvedimento  ablatorio  nonostante   la   scadenza
 dell'occupazione   legittima;   l'avvenuta  realizzazione  dell'opera
 pubblica, con conseguente irreversibile trasformazione  dell'immobile
 privato in essa definitivamente incorporato.
   Del  pari  indubbia,  poi,  e'  la non manifesta infondatezza della
 stessa questione, per le molteplici ragioni che si va di  seguito  ad
 esporre, ciascuna delle quali e' da intendere prospettata in scala di
 logica subordinazione.
   1)  In primo luogo, la norma ripropone, surrettiziamente, lo stesso
 meccanismo di determinazione del risarcimento del  danno,  introdotto
 dalla   precedente   disciplina  gia'  dichiarata  costituzionalmente
 illegittima  e  si  espone,  pertanto,   alle   stesse   ragioni   di
 perplessita' che ne avevano determinato la censura.
   Ed  invero,  rispetto  all'iniziale  parificazione  del trattamento
 normativo   degli   esiti    patrimoniali    di    due    fattispecie
 incontrovertibilmente  diverse  (quella  relativa  all'espropriazione
 secundum ius  e  quella  dell'occupazione  appropriativa),  la  nuova
 disciplina   introduce   una   differenziazione   che,   prima  facie
 apprezzabile si rivela, ad un attento esame, affatto trascurabile  e,
 in  quanto  tale,  sostanzialmente elusiva dei principi dettati dalla
 citata pronuncia n. 369/1996.
   Basti, all'uopo, considerare che l'"abbuono" della falcidia del  40
 per  cento  (prevista  per l'indennizzo espropriativo nell'ipotesi di
 cessione volontaria dell'immobile espropriando)  sarebbe  stata  gia'
 ineludibilmente  operante  in  caso  di  fattispecie risarcitoria, in
 quanto la detta cessione e' istituto  logicamente  e  concettualmente
 incompatibile   con   la  fattispecie  dell'occupazione  acquisitiva.
 Questa, infatti, e' caratterizzata all'acquisto della proprieta'  del
 bene   illegittimamente  occupato  per  effetto  della  realizzazione
 dell'opera pubblica, sicche' l'avvenuto perfezionamento  del  momento
 acquisitivo  in  capo all'ente occupante preclude qualsiasi negoziale
 trasferimento dello stesso bene (di fatto gia'  acquisito  alla  mano
 pubblica), a parte l'ovvio rilievo che l'istituto in questione ha una
 sua  logica ben definita ed assolve ad una precipua funzione solo nel
 contesto di una rituale procedura di esproprio nella quale  venga  ad
 inserirsi  proprio al fine di anticiparne l'epilogo, sostituendosi al
 decreto espropriativo.
   La possibilita' di  accettare  l'offerta  del  valore  mediato  del
 suolo,  riconosciuta  di  fatto  dal giudice delle leggi nella citata
 pronuncia n. 369/1996 (cfr. par. 9.2.2.  sub  a)  anche  in  caso  di
 occupazione  privativa,  si  riferisce,  infatti, soltanto al "regime
 transitorio",  afferente  alle  occupazioni   illegittime   anteriori
 all'entrata in vigore della legge n. 359/1992 e non gia' a quelle che
 si  siano  perfezionate  in  epoca  successiva,  e  cio'  in evidente
 parallelismo con gli effetti  dell'intervento  additivo  operato  con
 sentenza 10 giugno 1993, n.  283 in tema di indennita' di esproprio.
   Ed  allora,  considerato  che  il meccanismo della semisomma tra il
 valore  venale  ed  il  reddito  dominicale  rivalutato  e'  tale  da
 dimezzare  il primo addendo (stante la ben nota esiguita' del reddito
 dominicale) e che l'opzione del privato per  la  cessione  volontaria
 del   bene  (peraltro  pressantemente  indotta  con  la  comminatoria
 all'anzidetta falcidia) si configura - almeno in linea tendenziale ed
 ottativa,  secondo  gli  auspici  del  legislatore  -  come   ipotesi
 pressoche'   fisiologica,   la   differenza   rispetto   alla  misura
 "ordinaria" dell'indennizzo  espropriativo  si  riduce  all'irrisoria
 misura  del  5  per  cento.  Infatti, l'aumento del 10 per cento deve
 essere calcolato sul risultato  dell'anzidetta  semisomma,  e  dunque
 sull'importo  risarcitorio  corrispondente  approssimativamente al 50
 per cento del valore venale. L'entita' del risultato  cosi'  ottenuto
 non  puo' di certo rappresentare quella "ragionevole riduzione" della
 misura della riparazione dovuta  dalla  pubblica  amministrazione  al
 proprietario  dell'immobile,  che,  incidenter  tantum,  la  ripetuta
 pronuncia n. 369/1996 del giudice delle leggi auspicava  in  funzione
 di  un  equilibrato  componimento  degli  interessi  in  gioco  nella
 fattispecie in esame (da un lato, l'interesse dell'amministrazione di
 conservare   l'opera   di   pubblica   utilita'   con    contenimento
 dell'incremento  della spesa correlativa; dall'altro, l'interesse del
 privato ad ottenere la riparazione per l'illecito subito). Donde,  la
 "reviviscenza"   dei  vizi  di  incostituzionalita'  (violazione  del
 precetto di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione,  stante
 la  radicale  diversita'  strutturale  e  funzionale delle ipotesi di
 risarcimento  del  danno  e  di  indennizzo   espropriativo;   vulnus
 dell'art.  42, secondo comma, Cost.; e le ulteriori negative ricadute
 sul terreno presidiato da altri principi costituzionali, come  quello
 "del buon andamento e della legalita' dell'attivita' amministrativa")
 gia'   positivamente  apprezzati  dalla  Corte  costituzionale  nella
 pronuncia piu' volte menzionata.
   Se  e'  vero,  secondo  l'insegnamento  di  quello  stesso  giudice
 (enunciato  anche  in precedenti occasioni: cfr., tra le altre, Corte
 costituzionali 6 maggio 1985, n. 132), che una  limitazione  ex  lege
 della   responsabilita'   del   danneggiante   non   e'  di  per  se'
 costituzionalmente illegittima,  e'  pur  vero  che  la  stessa  puo'
 diventarlo  in  tutti  i  casi  -  come  quello  in esame - in cui la
 soluzione normativa adottata non sia atta ad assicurare l'equilibrato
 componimento degli interessi in gioco e sia, pertanto, espressione di
 immanente   irrazionalita',   che   trasforma   la   discrezionalita'
 legislativa in mero arbitrio.
   2)  Un  altro  vistoso profilo di irragionevolezza intrinseca della
 norma in questione,  con  i  conseguenti  riflessi  sul  piano  della
 violazione  dell'art.  3  Cost.,  e'  rappresentato  dalla  singolare
 assunzione  di  un  limite   temporale,   al   30   settembre   1996,
 all'operativita'  della  disciplina  in parola - estesa per l'appunto
 alle sole occupazioni intervenute anteriormente alla data anzidetta -
 che aggiunge un ulteriore profilo di diversita' di  trattamento  "sul
 piano  diacronico"  a  quello  inerente  alla ribadita applicabilita'
 della nuova disciplina ai procedimenti  in  corso  non  definiti  con
 sentenza  passata  in giudicato. Si tratta, infatti, di uno specifico
 profilo sostanziale che certamente non e'  imputabile,  come  effetto
 ineludibile,  alla  mera  successione  delle  leggi  nel  tempo e che
 appare, invece, apprezzabile in  questa  sede  nella  misura  in  cui
 prelude  ad  una  clamorosa  disparita'  di trattamento rispetto alle
 occupazioni illegittime successive a quella data, che, in mancanca di
 una nuova disciplina, andrebbero soggette all'integrale  ristoro.  Il
 rilievo diventa ancor piu' significativo qualora la predeterminazione
 di   un   criterio  temporale  possa  davvero  ritenersi  sintomatica
 dell'intendimento del legislatore di disciplinare in termini  diversi
 gli effetti economici della fattispecie appropriativa a seconda delle
 disponibilita'  di  bilancio alla fine di ogni esercizio finanziario,
 come  e'  fatto  palese,  d'altronde,  dalla  rinnovata  collocazione
 topografica  della  norma nel contesto della legge contenente "misure
 di razionalizzazione della finanza pubblica. Se cosi' e' - e non pare
 possa  dubitarsene   -   si   sarebbe   in   presenza   dell'espressa
 consacrazione  formale  del  principio  della  periodica fluttuazione
 congiunturale del valore economico  della  proprieta',  che  se  puo'
 avere  una  sua logica anche costituzionale - specie nella proiezione
 prospettica  di  determinati   periodi   storici   -   in   relazione
 all'indennita'  di  esproprio  (la  cui  funzione  sarebbe  quella di
 esprimere "il massimo di contributo e di riparazione che  nell'ambito
 degli  scopi, di generale interesse, la pubblica amministrazione puo'
 garantire  all'interesse  privato"  in  una  particolare   situazione
 economico-finanziaria del paese), appare assolutamente irrazionale ed
 in  deciso  contrasto  con  la  specifica  valenza costituzionale del
 diritto di proprieta', nel  contesto  di  una  prospettiva  meramente
 risarcitoria.
   Tanto  piu'  ove si consideri che l'indennita' espropriativa e' pur
 sempre la risultante  di  una  sequela  procedimentale  assistita  da
 specifiche  garanzie  per  il  privato,  affatto inesistenti, invece,
 nella dinamica di acquisto alla quale  fa  riscontro  la  riparazione
 risarcitoria.
   3)  Altri  profili  di  irragionevolezza, stavolta ab estrinseco, e
 cioe' nel  rapporto  comparativo  della  disposizione  sospettata  di
 illegittimita'   costituzionale   con   altre   normative,   appaiono
 apprezzabili  in  funzione  degli   inevitabili   riflessi   negativi
 direttamente  indotti  dalla  stessa  norma  sul  piano  del precetto
 costituzionale di eguaglianza.
   3.1) In primo luogo, la disparita'  di  trattamento  cui  essa  da'
 luogo   rispetto  alla  disciplina  delle  occupazioni  appropriative
 destinate al soddisfacimento di esigenze abitative, di cui all'art. 3
 della legge 27  ottobre  1988,  n.  458,  ampliato  nella  sua  sfera
 oggettiva  dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale del 27
 dicembre 1991, n. 486.
   Tale norma aveva, infatti,  introdotto  una  parificazione  tra  le
 ipotesi  di  opere di edilizia residenziale pubblica, convenzionata o
 agevolata, e la fattispecie di occupazione appropriativa, recependone
 pienamente i principi informatori. Prova ne  sia  che  il  menzionato
 intervento  del  giudice  delle  leggi  ne  aveva  esteso l'ambito di
 applicazione - in virtu' dell'eadem ratio della carenza di  potere  -
 anche  al  caso  (parimenti  peculiare  del  fenomeno  appropriativo)
 dell'occupazione   ab   origine   illegittima,   per   mancanza    di
 provvedimento ablatorio, giustamente ritenuto equivalente all'ipotesi
 di annullamento del decreto espropriativo emesso.
   L'identita'  sostanziale  tra  le due fattispecie ora in esame, sul
 piano della dinamica dell'acquisto, al punto tale da  consacrarne  la
 piena   equivalenza   legislativa   e  da  giustificare  l'intervento
 correttivo  della  Corte  costituzionale  (anche  sul   rilievo   del
 carattere  non derogatorio o eccezionale della norma e, dunque, della
 sua inidoneita' a fungere da tertium conparationis), rende  privo  di
 apprezzabile   rilievo   qualsivoglia   riferimento   discretivo  che
 sottolinei la qualita' privata del soggetto  espropriante  ovvero  la
 natura non pubblica dell'opera realizzata.
   Si  tratta,  infatti,  di  materia pur sempre permeata di pregnante
 interesse pubblico, ritenuto dalla  stessa  Corte  costituzionale  di
 tale rilevanza da giustificare l'assimilabilita' ad ipotesi normative
 di  privazione del diritto alla retrocessione di beni espropriati; da
 giustificare la compatibilita' della disposizione  esaminata  con  la
 disciplina  dell'art.  42,  commi  secondo  e  terzo Costituzione, in
 quanto esplicazione concreta della funzione sociale della proprieta';
 e da giustificare, infine, la valutazione legislativa degli interessi
 in gioco - in quel caso ritenuta congrua - in  termini  tali  da  far
 corrispondere   all'impossibilita'  della  "retrocessione"  del  bene
 occupato l'integrale risarcimento  del  danno  subito  (ivi  compreso
 quanto  dovuto  a  titolo  di' svalutazione monetaria e "le ulteriori
 somme di cui all'art. 1224,  comma  secondo  c.c.,  a  decorrere  dal
 giorno dell'occupazione illegittima"; e dunque la tutela risarcitoria
 (art. 2043 c.c.), integralmente garantita.
   Non  e'  dato allora comprendere perche' mai il privato che subisca
 l'occupazione  del  proprio  suolo  in  esecuzione  di  un  programma
 residenziale   edilizio   (di  precipua  natura  pubblica,  tanto  da
 beneficiare delle convenzioni o agevolazioni di legge)  possa  ambire
 all'integrale ristoro del danno patito, mentre il privato che subisce
 l'identica  occupazione privativa, ma occasionata da altre ragioni di
 pubblico interesse, debba andare soggetto alla riduzione in parola (a
 parte, poi, i profili di disparita' - che non interessano  in  questa
 sede  se non per le ulteriori discrasie prodotte nel generale tessuto
 normativo dalla norma sospettata di incostituzionalita' - nell'ambito
 dello stesso comparto residenziale pubblico, stante  la  macroscopica
 diversita' di disciplina tra l'ipotesi di edilizia sovvenzionata, pur
 essa  soggetta  al  trattamento  riduttivo in parola, e le ipotesi di
 edilizia convenzionata o agevolata, ammesse all'integrale ristoro).
   3.2) Da ultimo, la disparita' di trattamento  -  pur  essa  diretta
 conseguenza  della  norma denunciata - rispetto all'attivita' di mero
 fatto della  pubblica  amministrazione,  e  cioe'  a  quella  che  si
 concretizza  nell'occupazione  ab  origine illegittima, non assistita
 neppure  dalla  dichiarazione   di   pubblica   utilita',   o   anche
 nell'occupazione inizialmente presidiata da dichiarazione di p.u. che
 sia poi venuta meno perche' illegittima. Ed invero, tale fattispecie,
 che,  secondo  l'interpretazione  prevalente  (recepita  dallo stesso
 giudice delle leggi) sarebbe estranea  all'occupazione  appropriativa
 strictu  sensu,  ovvero, secondo altra interpretazione, sarebbe stata
 riconducibile alla generica  ipotesi  del  "risarcimento  del  danno"
 contenuta  nella  norma  di  cui  al sesto comma dell'art. 5-bis, poi
 dichiarato   costituzionalmente   illegittimo,    e'    ora    invece
 incontrovertibilmente  estranea  alla  detta  fattispecie acquisitiva
 alla stregua della  nuova  previsione  normativa,  che  si  riferisce
 esplicitamente  alle  sole occupazioni illegittime di suoli per causa
 di pubblica utilita'.
   Orbene,  nell'ipotesi   di   occupazione   sine   titulo,   benche'
 caratterizzata dall'esecuzione di opera pubblica, il privato, ove non
 intenda   avvalersi   dei   rimedi  reipersecutori  che  in  astratto
 potrebbero competergli, e'  abilitato  all'azione  risarcitoria  (con
 cio'  volontariamente  dismettendo, secondo una certa interpretazione
 dottrinaria e giurisprudenziale, la proprieta' dell'immobile) e  puo'
 dunque  legittimamente aspirare all'integrale risarcimento del danno.
 Oltretutto, nel caso di specie, puo'  anche  contare  sull'ulteriore,
 non  trascurabile, beneficio di un maggior termine prescrizionale, in
 quanto  la  sua  azione  e' pacificamente sottratta alla prescrizione
 quinquennale, in ragione del carattere permanente del danno subito.
   A spiegare la diversita' di disciplina non  sembra  sufficiente  il
 riferimento   all'elemento   discretivo   -   assunto   come   indice
 "qualificante" - della dichiarazione di p.u. che, pur in presenza  di
 identiche condizioni oggettive (spossessamento illecito ed esecuzione
 di  opera  funzionalmente  destinata  al soddisfacimento di interessi
 pubblici), affiderebbe le ragioni di una siffatta  diversita'  ad  un
 momento  meramente  formale,  peraltro  sovente  inesistente a fronte
 della  cospicua  proliferazione  delle   ipotesi   di   dichiarazione
 implicita,  relativamente  alle quali le garanzie del privato sono in
 realta' decisamente rarefatte o, di fatto, anche inesistenti,  stante
 la  mancanza  del  subprocedimento regolato dagli art. 3 ss. legge 25
 giugno 1865 n. 2359 e dagli artt.  10 e 11 legge 22 ottobre 1971,  n.
 865  (le  cui  formalita'  garantistiche,  secondo  la giurisprudenza
 amministrativa, possono anche  svolgersi  in  un  momento  successivo
 all'approvazione dell'opera pubblica).
   Incomprensibile,   infine,  sarebbe  il  diversificato  trattamento
 potiore che andrebbe riservato (a quanto pare, secondo l'avviso dello
 stesso  giudice  delle  leggi  che,  nella  menzionata  pronuncia  n.
 369/1996,  ha ritenuto "non implausibile" la conforme interpretazione
 di un'autorita' remittente) all'ipotesi di occupazione  appropriativa
 assistita da dichiarazione di p.u. poi dichiarata illegittima in sede
 amministrativa  ovvero  disapplicata  in  sede  civile,  siccome atto
 emesso in carenza di potere (si pensi al tipico caso di  dichirazione
 di  p.u. priva dell'indicazione dei termini di durata). Anche in tali
 ipotesi, infatti, al  privato  competerebbe  pur  sempre  l'integrale
 ristoro del danno subito.
   Le considerazioni che precedono inducono il Collegio a ritenere che
 il  rilievo  di  illegittimita'  costituzionale  della  norma  di che
 trattasi non possa considerarsi ictu oculi privo di fondatezza.
   Per  l'effetto,  la  Corte  solleva  d'ufficio  la   questione   di
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  5-bis,  comma 7-bis, della
 llegge 8 agosto 1992, n. 359, aggiunto dall'art. 3 sessantacinquesimo
 comma,  della  legge  23  dicembre  1996,  n.  662,   con   specifico
 riferimento  agli  artt.    42,  secondo comma, 3, primo comma, e 97,
 primo comma, della Costituzione, provvedendo come da dispositivo,  ai
 sensi dell'art. 23 della  legge 11 marzo 1953, n. 87.
                                 P. Q.M
   Dispone    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale e sospende il procedimento in corso;
   Ordina,  altresi',  che  a  cura  della  cancelleria  la   presente
 ordinanza  sia  notificata  alle parti ed al Presidente del Consiglio
 dei Ministri nonche' comunicata anche ai Presidenti delle due  Camere
 del Parlamento.
     Cosi' deciso nella camera di consiglio del 16 gennaio 1997.
                         Il presidente: Adorno
                                       Il consigliere estensore: Bruno
 97C0521