N. 828 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 aprile - 12 novembre 1997

                                N. 828
  Ordinanza  emessa  il  21  aprile   1997   (pervenuta   alla   Corte
 costituzionale  il  12  novembre  1997)  dal  Consiglio  di Stato sul
 ricorso proposto dal comune di Roma contro D'Amico Carlo
 Impiego   pubblico   -   Dipendente   condannato  in  sede  penale  -
    Possibilita'   di   destituzione   all'esito    di    procedimento
    disciplinare  -  Termine  perentorio  di  novanta  giorni  per  la
    conclusione di detto procedimento - Asserita impossibilita' per la
    pubblica  amministrazione  di  porre  in  essere  tutti  gli  atti
    endoprocedimentali  previsti  a  difesa  dell'incolpato  - Dedotta
    inadeguata valutazione dei fatti - Irragionevolezza - Lesione  del
    principio di buon andamento della pubblica amministrazione.
 (Legge 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.49 del 3-12-1997 )
                         IL CONSIGLIO DI STATO
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso in appello n.
 3334/1996  proposto  dal  comune  di  Roma,  rappresentato  e  difeso
 dall'avvocato Riccardo Marzolo ed elettivamente domiciliato presso lo
 studio  in  Roma,  via del Tempio di Giove n. 21, presso l'Avvocatura
 comunale; contro D'Amico Carlo, rappresentato e difeso  dall'avvocato
 Luigi  Medugno  ed  elettivamente  domiciliato  in  Roma,  via  Guido
 d'Arezzo  n.  18, presso lo stesso; per l'annullamento della sentenza
 del tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione II-bis,  n.
 467 dell'8 marzo 1996;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visto l'atto di costituzione in giudizio della parte appellata;
   Esaminante  le  memorie  prodotte  dalle  parti  a  sostegno  delle
 rispettive difese;
   Vista l'ordinanza della sezione quinta 10 gennaio 1997 n.  33,  con
 la  quale  l'affare  e'  stato  deferito  all'adunanza plenaria delle
 sezioni giurisdizionali;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Relatore, alla pubblica udienza del 21 aprile 1997, il  consigliere
 Filippo Patroni Griffi e uditi, per le parti, l'avv. Marzolo e l'avv.
 Medugno;
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   Il   signor   Carlo  D'Amico  ha  impugnato  innanzi  al  tribunale
 amministrativo regionale per il Lazio la destituzione disposta  dalla
 giunta  comunale  di Roma nei suoi confronti con provvedimento del 25
 luglio  1995,  a  seguito  di  condanna  penale   e   all'esito   del
 procedimento disciplinare iniziato in data 7 luglio 1994.
   Il  tribunale  amministrativo, con sentenza 8 marzo 1996 n. 467, ha
 annullato il provvedimento, sul rilievo, ritenuto assorbente di  ogni
 altra  dedotta  censura,  che  il  procedimento  disciplinare  si  e'
 concluso oltre il termine di novanta giorni dal suo inizio,  previsto
 dall'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19.
   Propone appello il comune di Roma.
   Resiste il signor D'Amico.
   Con  ordinanza 10 gennaio 1997 n. 33, la sezione quinta ha devoluto
 l'affare dell'adunanza  plenaria  delle  sezioni  giurisdizionali  di
 questo Consiglio di Stato.
   All'udienza  del  21  aprile  1997, la causa e' stata trattenuta in
 decisione.
                             D i r i t t o
   1. - Il tribunale  amministrativo  ha  annullato  il  provvedimento
 disciplinare  sul  rilievo  della  natura  perentoria  del termine di
 novanta giorni per  la  conclusione  del  procedimento  disciplinare,
 termine non rispettato nella specie.
   Tale   censura   e'   stata   ritenuta   assorbente  dal  tribunale
 amministrativo di ogni altro profilo  di  illegittimita'  dedotto  in
 primo  grado.  Ne  consegue  che,  in  sede  di gravame, il motivo di
 appello con il quale si contesta la statuizione  di  primo  grado  va
 necessariamente  esaminato  per  primo, potendo eventualmente trovare
 ingresso nel giudizio  le  altre  censure  contenute  nell'originario
 ricorso  solo a seguito dell'accoglimento di tale motivo di appello e
 di riforma in parte qua della sentanza impugnata.
   2. - La questione di diritto sulla quale l'affare e' stato devoluto
 a questa adunanza plenaria concerne dunque la  portata  del  medesimo
 art.  9,  comma  2,  della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del
 quale nei confronti  del  pubblico  dipendente,  condannato  in  sede
 penale,  "la  destituzione  puo' sempre essere inflitta all'esito del
 procedimento disciplinare, che  deve  essere  proseguito  o  promosso
 entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto
 notizia della sentenza irrevocabile e concluso nei successivi novanta
 giorni".
   3.  - Come e' stato posto in evidenza nell'ordinanza di rimessione,
 tale  norma  ha  dato  luogo  a  notevoli   difficolta'   di   ordine
 interpretativo.
   3.1. - In sede di prima applicazione, alcune sentenze dei tribunali
 amministrativi  regionali hanno ritenuto che e' senz'altro viziato da
 violazione di legge il provvedimento di destituzione adottato dopo la
 scadenza del termine di novanta giorni, previsto per  la  conclusione
 del procedimento.
   Tale  tesi  si  fonda  sul  testo  della  norma,  che  ha adoperato
 un'espressione ("deve  essere...  concluso")  da  cui  si  evince  la
 volonta'   del  legislatore  di  delimitare  l'esercizio  del  potere
 disciplinare, sotto il profilo temporale.
   Si  e'  pertanto  qualificato  come  "perentorio"  il  termine   di
 conclusione del procedimento disciplinare.
   Altre  sentenze dei tribunali amministrativi regionali hanno invece
 attribuito carattere "ordinatorio" al medesimo termine, rilevando che
 la  previgente  normativa  sul  procedimento   disciplinare   (e   in
 particolare  le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957)
 prevede varie fasi procedimentali, che mirano ad equilibrare i poteri
 dell'amministrazione con le esigenze della difesa del dipendente: non
 puo' ritenersi che il rispetto dei distinti termini previsti per tali
 fasi renda illegittimo il provvedimento  disciplinare,  pur  adottato
 dopo novanta giorni dalla contestazione degli addebiti.
   3.2.   -   Questo   consiglio,   sia   in   sede   consultiva   che
 giurisdizionale, ha costantemente ritenuto che non  sia  di  per  se'
 viziato  il  provvedimento disciplinare adottato dopo la scadenza del
 termine di novanta giorni.
   La  commissione  speciale  del  pubblico  impiego,  con  parere  11
 novembre 1991 n. 275, ha rilevato le manifeste incongruita' derivanti
 dalla  previsione  di  tale  termine,  poiche'  l'art.  9, comma 2, -
 introdotto per dare attuazione ai principi espressi  dalla  pronuncia
 della  Corte  costituzionale  14  ottobre 1988 n. 971, che dichiarava
 illegittima la destituzione automatica - non ha previsto alcuna norma
 di coordinamento con la legislazione precedente.
    La  commissione,  sul presupposto che in sede di esame dei quesiti
 proposti al Consiglio di Stato in sede consultiva non possono  essere
 sollevate   questioni   di   costituzionalita'   innanzi  alla  Corte
 costituzionale, ha rilevato che:
     l'amministrazione deve comunque rispettare il termine di  novanta
 giorni  concludendo  il procedimento, essendovi il pubblico interesse
 alla corretta e rapida definizione della situazione conseguente  alla
 condanna penale dell'impiegato;
     il  superamento  del termine non comporta sempre l'estinzione del
 procedimento disciplinare, poiche' si deve accertare se esso  risulti
 giustificato, nel singolo caso di specie, dal documentato svolgimento
 delle  fasi endoprocedimentali fissate dal testo unico n. 3 del 1957,
 purche' queste ultime siano state espletate nel rigoroso rispetto dei
 termini specificamente previsti dalla legge.
   3.3. - La successiva giurisprudenza di questo  Consiglio,  in  sede
 giurisdizionale,  ha  per  lo  piu'  condiviso  le conclusioni cui e'
 giunta la commissione speciale, verificando  di  volta  in  volta  se
 risultassero  sussistenti  "adeguate  ragioni  giustificatrici" della
 conclusione del procedimento disciplinare oltre il prescritto termine
 di novanta giorni.
   La  sentenza  impugnata  si  e'  adeguata  a  tale  giurisprudenza,
 rilevando  che, in concreto, nessuna particolare ragione giustificava
 l'adozione del provvedimento di destituzione dopo il superamento  del
 termine  di  novanta  giorni,  decorrente  dalla  comunicazione degli
 addebiti.
   Altre volte, questo consiglio ha qualificato come "ordinatorio"  il
 medesimo   termine,   ritenendo   di   per  se'  irrilevante  il  suo
 superamento.
   4. - Rileva l'adunanza plenaria che, a distanza di oltre sette anni
 dall'entrata in vigore della legge n. 19 del 1990, non si  e'  ancora
 formato  un  "diritto  vivente" sull'effettivo ambito di operativita'
 dell'art. 9, secondo comma.
   Cio' e' dovuto al fatto che il suo tenore  letterale,  malgrado  la
 sua  sintetica  linearita', non e' apparso coerente (alla commissione
 speciale  e  alle  singole  sezioni  di  questo  consiglio)  con   la
 precedente normativa sul procedimento disciplinare e, in particolare,
 con  le  disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957 e negli
 altri ordinamenti di settore.
   Tali  disposizioni,  che   sviluppano   i   principi   garantistici
 tradizionalmente  enunciati  in  materia  fin  dal  secolo scorso dal
 Consiglio di Stato, ha  previsto  alcune  "fasi  endoprocedimentali",
 delimitando  i  poteri  istruttori  e punitivi dell'amministrazione e
 contemperandoli con le esigenze di difesa dell'incolpato.
    L'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, nel  prevedere  che
 il  procedimento  disciplinare deve essere iniziato entro centottanta
 giorni dalla condanna e concluso nei successivi  novanta  giorni,  si
 puo' dunque prestare a una duplice interpretazione:
     a) o si ritiene che il legislatore abbia disposto l'indefettibile
 conclusione  del procedimento disciplinare entro il medesimo termine,
 potendo   l'amministrazione   comunque   adottare   l'atto   punitivo
 prescindendo  dalle regole procedimentali sancite in primis dal testo
 unico n.   3 del 1957: e  allora  si  devono  ritenere  abrogate  per
 incompatibilita' tutte le norme che hanno articolatamente previsto le
 varie  fasi  endoprocedimentali,  poste a difesa dell'incolpato e che
 non possono svolgersi durante i novanta giorni;
     b)  o  si  ritiene  che  il  legislatore,  come  ha  osservato la
 Commissione speciale nel richiamato parere, ha fissato un termine  la
 cui  violazione  non  comporta  di per se' l'illegittimita' dell'atto
 punitivo, potendo il giudice amministrativo di  volta  in  volta,  in
 presenza  di specifiche censure dell'interessato, valutare se siano o
 meno  sussistenti  "adeguate  ragioni  giustificatrici"  che  possono
 spiegare il superamento del termine.
    5.   -  L'Adunanza  plenaria  ritiene  che  questa  seconda  linea
 interpretativa debba essere esclusa, per le seguenti ragioni:
     a) il dato letterale dell'art. 9, secondo comma,  e'  chiaro  nel
 disporre  che la conclusione del procedimento disciplinare debba aver
 luogo senza deroghe entro il termine di novanta giorni dal suo inizio
 (in tal senso, v. anche il punto 3 della motivazione  della  sentenza
 della Corte costituzionale 6 novembre 1991, n. 415);
     b)  la  sua  ratio e' stata per il legislatore l'esigenza che sia
 prontamente definita  la  particolare  situazione  in  cui  versa  il
 pubblico    dipendente,    a    tutela   tanto   di   questi   quanto
 dell'amministrazione;
     c) non puo' ammettersi che, in una materia tanto delicata,  nella
 quale  sono  in  discussione  aspetti  delicatissimi  attinenti  alla
 personalita' del dipendente e alla prosecuzione della  sua  attivita'
 lavorativa (art. Corte costituzionale, sentenza n. 971 del 1988), non
 vi sia una regola certa, univoca, di facile applicazione sulla durata
 del procedimento disciplinare.
   Per   quanto  riguarda  quest'ultimo  aspetto,  ritiene  l'Adunanza
 plenaria che anche per l'illecito disciplinare  debba  applicarsi  il
 principio  di  chiarezza  o  di  determinatezza  della disciplina che
 consente la sua punizione.
   In base ad un principio generale, applicabile non solo nel  diritto
 penale,  ma  piu'  in  generale  nel  diritto punitivo, devono essere
 predeterminate  dall'ordinamento  le  possibili   conseguenze   della
 commissione di un illecito.
   Per  quanto  riguarda  l'illecito  disciplinare,  tale principio si
 applica  sul  piano  sostanziale   (potendo   la   legge   attribuire
 all'amministrazione   il  potere  disciplinare  in  presenza  di  una
 condanna penale o di altri preindividuati presupposti)  e  sul  piano
 procedimentale  (potendo  l'amministrazione  adottare l'atto punitivo
 entro  termini  stabiliti  e  mediante  gli  atti   individuati   dal
 legislatore).
   Il  secondo  comma  dell'art.  9  in  esame  non  ha esperessamente
 previsto che l'amministrazione possa concludere il procedimento oltre
 il termine di novanta giorni dal suo inizio "in presenza di  adeguate
 ragioni giustificatrici", ne' queste possono porre nel nulla la norma
 ed  essere  in concreto ravvisate dal giudice amministrativo, con una
 indagine ex post non basata su alcun obiettivo canone interpretativo:
 la legge non  ha  previsto  alcuna  eccezione  alla  regola  per  cui
 l'amministrazione  puo'  irrogare la sanzione disciplinare solo entro
 il termine  fissato,  ne'  ha  previsto  che  la  "scusabilita'"  del
 superamento   del   termine   possa   essere  ravvisata  dal  giudice
 amministrativo.
   6. - L'unica possibile interpretazione del secondo comma  dell'art.
 9 in esame risulta essere quella conforme al suo tenore letterale.
   Il legislatore ha delimitato una parentesi temporale entro la quale
 puo'  essere  esercitato  il  potere  disciplinare  a  seguito di una
 condanna penale, il cui termine iniziale  e'  quello  di  centottanta
 giorni  dalla  condanna  e il cui termine finale e' quello di novanta
 giorni, decorrente dall'inizio del procedimento: il  superamento  del
 medesimo termine comporta l'illegittimita' del provvedimento punitivo
 per violazione di legge.
   7. - Va a questo punto rilevato che l'art. 9, comma 2, per la parte
 in  cui  ha  disposto  che il potere punitivo possa essere esercitato
 indefettibilmente entro il termine di novanta giorni, potrebbe  porsi
 in  contrasto  con  vari principi costituzionali: l'Adunanza plenaria
 ritiene d'ufficio  che  risultino  non  manifestamente  infondate  le
 relative questioni.
   Necessariamente,  l'amministrazione  pubblica  puo' rispettare tale
 termine solo non applicando le norme garantistiche,  i  cui  principi
 essenziali sono stati enunciati nel testo unico n. 3 del 1957.
   La  riconosciuta natura "perentoria" del termine di novanta giorni,
 in altri termini, comporta che non possono che intendersi abrogate le
 precedenti  norme  garantistiche,   riguardanti   le   diverse   fari
 endoprocedimentali.
   Il  secondo comma dell'art. 9 (pur essendo interpretabile nel senso
 che  l'atto  punitivo  deve  essere  quanto  meno   preceduto   dalla
 fissazione  di  un termine per le controdeduzioni dell'incolpato) non
 consente alla pubblica amministrazione,  che  intenda  rispettare  il
 termine  di  novanta  giorni, di porre in essere tutti gli altri atti
 endoprocedimentali, previsti a  tutela  della  difesa  dell'incolpato
 gia' dal testo unico n. 3 del 1957.
   Pertanto,  il  secondo comma dell'art. 9 della legge n. 19 del 1990
 potrebbe porsi in contrasto con i seguenti  principi  costituzionali,
 in  quanto  non si sono tenute in adeguata considerazione le esigenze
 di difesa  dell'incolpato  e  gli  interessi  di  cui  e'  portatrice
 l'amministrazione.
   In  primo  luogo,  appare  manifestamente  illogica  -  e quindi in
 possibile contrasto con l'art. 3 della Costituzione - la  scelta  del
 legislatore  di fissare il contenuto termine di novanta giorni per la
 conclusione   del   procedimento    disciplinare,    abrogando    per
 incompatibilita'  la  precedente  normativa,  posta  a  difesa  della
 posizione dell'incolpato e mirante all'accertamento ed alla  adeguata
 valutazione  dei  fatti  sulla  base  di  un articolato procedimento,
 caratterizzato delle fasi endoprocedimentali di cui al testo unico n.
 3 del 1957.
   In secondo luogo, appare violato il principio del buon andamento di
 cui all'art. 97  della  Costituzione,  poiche'  la  ristrettezza  del
 termine  di novanta giorni puo' in concreto non consentire l'adeguata
 valutazione  dei  fatti,  in  una  materia  tanto  delicata,  in  cui
 l'ordinamento   mira   al   giusto   contemperamento  delle  esigenze
 dell'amministrazione  con  la  posizione   dell'incolpato,   la   cui
 prosecuzione  dell'attivita' lavorativa e' tutelata dall'art. 4 della
 Costituzione (Corte costituzionale, sent. n. 971 del 1988).
   In  definitiva,  rileva  l'adunanza  plenaria  che  a  un   sistema
 normativo  coerente e razionale, recante la disciplina procedimentale
 dell'irrogazione delle sanzioni disciplinari, si e'  sovrapposta  una
 normativa  che,  nella  sua  scheletricita', non puo' trovare pratica
 applicazione che confliggendo con principi di natura costituzionale.
   Deve  essere  pertanto  disposta  la  rimessione  di tali questioni
 all'esame della Corte costituzionale.
   La rilevanza delle questioni appare chiara da quanto considerato al
 punto 1 della motivazione della presente ordinanza.
                               P .Q. M.
   Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale  (adunanza  plenaria)
 sospende il giudizio e rimette alla Corte costituzionale la questione
 di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 9, comma 2, della legge 7
 febbraio  1990,  n.  19,  in  relazione  agli  artt.  3  e  97  della
 Costituzione;
   Manda alla segreteria per gli adempimenti di legge.
   Cosi' deciso in Roma, addi' 21 aprile 1997.
                       Il presidente: De Roberto
                                           L'estensore: Patroni Griffi
 97C1319